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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

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Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 13, anno VII, gennaio 2010

"Malessere delle Culture"

 

   

EDITORIALE

 

  di Giuseppe Leo

 

   

 

 

 

 

   
 

Il campo del disagio delle civiltà ci porta ad interrogarci su un’area del funzionamento psichico che si trova al confine non semplicemente tra interno ed esterno, bensì tra soggettività e realtà sociale. Una tale area può essere indagata, naturalmente, assumendo, secondo una tradizione psicoanalitica più tradizionale, come punto di vertice quello più vicino all’intrapsichico, e quindi in questo senso un tale approccio è più vicino alle condizioni culturali che condizionano lo sviluppo della soggettività; oppure, si può trattare di un approccio che ha come vertice osservativo uno più spostato verso l’altro estremo, quello culturale, approccio questo storicamente sviluppatosi negli anni ’30 e ’40 con la tradizione della cosiddetta psicoanalisi culturalistica (Horney, Fromm, Kardiner, Erikson, ecc.). Infine, una terza possibilità, che è quella che coi testi degli autori di questo numero della rivista Frenis Zero ci piace indagare, è piuttosto un’area intermedia tra queste due, non certo equidistante tra i due poli della soggettività e della civiltà per una opzione assunta a priori, ma per una scelta euristica che ha prodotto una serie di interessanti concetti psicoanalitici, come ad es., quello di   trans-soggettività (Amati Sas),  di garante metapsichico e metasociale (Kaës), ecc.. Il primo approccio che, storicamente risale a Freud, parte dalla centralità della simbolizzazione e della sublimazione come modalità del funzionamento psichico individuale da cui deriverebbero le manifestazioni culturali: <<(…) Freud si convinse che tutta la cultura è costruita sulla sublimazione, la gratificazione camuffata di impulsi infantili sessuali e aggressivi>>  (Mitchell A. S. & Black M. J., 1996, pag.219). Sebbene le varie versioni “revisionistiche” della Psicologia dell’Io o di Loewald abbiano messo in discussione o, meglio, abbiano riformulato questo concetto freudiano in modi differenti, resta tuttavia preminente il ruolo della simbolizzazione e della sublimazione all’interno di una concezione della psiche umana in cui viene salvaguardato <<l’accento posto da Freud sulla sessualità e sull’aggressività>> (Mitchell A. S. & Black M.J., 1996, pag. 221) infantile come primus movens dei processi di simbolizzazione e di sublimazione alla base della cultura. Per Loewald, in particolare, <<la cultura è la rappresentazione, ma non è soltanto un suo equivalente camuffato>> (ibidem, pag. 221), bensì <<è la rappresentazione e la conciliazione dell’esperienza infantile a un livello di organizzazione nuovo, allargato e più ricco>>(ibidem, pag. 221), per cui <<il simbolo non è la versione camuffata di qualcosa che esiste già; il simbolo crea un’esperienza nuova>>(ibidem, pag. 220). Nella tradizione della psicologia dell’Io Hartmann <<accoglie con segno positivo i nessi tra cultura e natura e considera la relazione dell’individuo con il proprio contesto culturale come regolata essenzialmente da meccanismi adattativi>> (Albarella C. & Pirillo N., 2006, pag. 292) per cui è <<possibile vedere la cultura come il prodotto delle motivazioni autonome dell’Io alla padronanza, all’espressione funzionale e così via>>(Mitchell & Black, 1996, pag. 220).

Il secondo approccio si è storicamente sviluppato a partire dal culturalismo, ossia da autori come la Horney e Fromm che hanno radicalmente contestato dalle fondamenta l’assunto freudiano secondo cui le manifestazioni culturali costituiscono delle rappresentazioni ‘camuffate’ di conflitti pulsionali intrapsichici risalenti all’infanzia, ribadendo l’irriducibilità della cultura al mondo biologico, ma  arricchendo il dibattito degli apporti, a seconda degli autori, di svariate scienze sociali, come l’antropologia (Kardiner), lo strutturalismo (Lacan), la psicologia sociale (Erikson). In particolare, la posizione di Erikson, come enunciata in “Identity: Youth and Crisis”(1968), appare quanto di più illustrativo nello specificare il punto di vista dell’autore, secondo cui è la cultura e la storia a plasmare la mente del bambino e a far sì che delle potenzialità mentali eminentemente biologiche possano accedere a delle caratteristiche che le rendono umane: <<Invece di sottolineare ciò che le pressioni dell’organizzazione sociale possono negare al bambino, noi desideriamo chiarire ciò che l’ordine sociale può anzitutto garantire al neonato fin dalla nascita e come, nel venire incontro in determinati modi ai suoi bisogni, lo introduce in una determinata cultura. Invece di accettare “dati” pulsionali quali la triade edipica come uno schema imprescindibile per comprendere le condotte irrazionali, indaghiamo sul modo in cui le forze sociali contribuiscono a determinare la struttura della famiglia>>. Prima di analizzare nel dettaglio gli autori e i loro contributi che ci sembrano essere accomunati dal collocarsi in un’area intermedia di indagine psicoanalitica tra il soggetto e la cultura o le culture di appartenenza, ci piace sottolineare come  nella storia della psicoanalisi le differenti concezioni del trauma si siano prestate, nel corso delle loro vicissitudini teoriche, abbastanza bene ad illustrare questi differenti vertici osservativi  al confine tra soggetto e cultura. Ad esempio, riguardo al primo approccio, più tradizionale, Freud con la sua Introduzione al libro “Psicoanalisi delle nevrosi di guerra”(1919) inaugura un percorso interpretativo riguardante i traumi collettivi, ed in particolare quelli legati alle guerre. Quando fu scritta questa Introduzione rischiava di mettere a repentaglio l’edificio metapsicologico fino ad allora costruito (come formulato nell’”Introduzione alla psicoanalisi” del 1915-1917), dato che Freud riconosceva che non era possibile ricondurre l’eziologia delle nevrosi di guerra <<ad un conflitto tra l’Io e le pulsioni sessuali che l’Io ripudia>>(ibidem, pag. 72). Freud prefigura una soluzione del problema delle nevrosi di guerra all’interno di future <<ricerche sui rapporti che indubbiamente esistono fra spavento, angoscia e libido narcisistica>>(pag. 74 dell’”Introduzione al libro ‘Psicoanalisi delle nevrosi di guerra’), ricerche che dovranno attendere la nuova riformulazione delle pulsioni, contenuta in “Al di là del principio di piacere”(1920), per essere sviluppate. <<Se le nevrosi traumatiche e le nevrosi di guerra parlano a voce altissima dell’influsso del pericolo mortale, mentre non parlano affatto o parlano in modo abbastanza chiaro degli effetti prodotti dalla “frustrazione dell’amore”>>, Freud ha già in mente, mentre scrive queste righe, il ruolo delle pulsioni distruttive come chiave della soluzione del problema.

Negli anni ’60 e ’70 si sono verificati degli interessanti ampliamenti della riflessione psicoanalitica nei confronti della violenza di Stato, da un lato, e dall’altro della trasmissione transgenerazionale di traumi collettivi. La violenza di Stato ha toccato  una serie di comunità psicoanalitiche, più direttamente esposte a regimi dittatoriali e autoritari, portando a drammatici sviluppi che hanno coinvolto le biografie dei singoli analisti (esilio, status di rifugiato politico, ecc.) e di intere comunità (diaspora). L’esempio argentino e cileno è particolarmente rilevante se pensiamo a ciò che a partire da quegli anni hanno scritto nei loro contributi analisti di origine argentina come Janine Puget o Silvia Amati Sas. In questi due autori il rapporto tra  “cultura” e  soggetto viene indagato sotto la lente di un approccio “trans-soggettivo”. Come scrive Silvia Amati Sas nel suo testo, che abbiamo il piacere di pubblicare in questo numero di Frenis Zero, intitolato “L’ambiguità come difesa in condizioni di trauma estremo”, <<la trans-soggettività può essere compresa come la condivisione di contesti istituzionali comuni (Legge, Stato, ecc.) o di regole culturali (ad esempio, la proibizione dell’incesto), che offrono regole di convivenza e certezze basilari. A livello affettivo, possiamo mettere in relazione la trans-soggettività con sentimenti e illusioni condivisi di fede (sicurezza) o di catastrofe (perdita della fede) provocate dal perdurare o dallo scomparire di contesti reali o di riferimenti simbolici significativi>>(Amati Sas., 2010). La trans-soggettività è uno dei tre “spazi della soggettività” (qui l’autrice fa riferimento alla Puget e a Berenstein): l’intra-soggettività (la relazione tra l’io e gli oggetti interni), l’inter-soggettività (i legami tra il soggetto e l’”altro” o gli altri della realtà esterna), la trans-soggettività (i legami tra il soggetto e il contesto sociale condiviso). I traumi sociali vanno a ledere in primis questo livello trans-soggettivo. Si pensi alle pratiche di tortura cui sono sottoposti certi cittadini in certi Stati: per lo psicoanalista che si trova a trattare soggetti traumatizzati da pratiche di tortura è necessario modificare certe consuete premesse (teoriche o tecniche), partendo dall’assunto che <<la tortura è uno strumento organizzato da poteri socio-politici, il cui scopo principale è quello di provocare paura catastrofica e conseguenze traumatiche ad un insieme di persone o a un’intera popolazione>>(Amati Sas, 2010). E così prosegue l’autrice:<<Il rischio che dobbiamo evitare è di descrivere la tortura con concetti apparentemente ovvii (come, ad esempio, quello di sado-masochismo) senza collocarla in un contesto istituzionale di obbedienza agli ordini e di permesso a compiere azioni crudeli concesso dalle organizzazioni di potere ai propri agenti>>(Amati Sas, 2010). Da queste premesse la Amati Sas parte per delineare il ruolo che l’”ambiguità difensiva” ha non solo nelle vittime della tortura, ma anche nel più ampio contesto dei cittadini non coinvolti direttamente da essa, sospinti e incoraggiati dal regime a ricoprire un ruolo di implicito consenso conformistico.

Partendo da un’identica prospettiva trans-soggettiva (richiamandosi esplicitamente alla Amati Sas e a Bleger), Anna Sabatini Scalmati nel suo articolo “Terrorismo come patologia psico-sociale” ci consegna un lavoro densissimo di approfondimenti teorici (si veda il paragrafo dedicato a “Il trans-soggettivo: uno scenario interpretativo”), di riflessioni personali (distillate da una casistica clinica personale) su un ambito apparentemente “s-confinato” che l’autrice, in modo ammirevole, riesce a ricondurre a dei confini ben delineati e rigorosi. <<La centralità della conflittualità emotiva del pensiero kleiniano; la teorizzazione di Bleger (…); le testimonianze, le elaborazioni cliniche dei sopravvissuti ai campi di sterminio e a lunghe reclusioni; le riflessioni teorico-cliniche degli analisti del latino America e quelle successive all’11 settembre; gli studi sul trauma catastrofico, la fondamentale riflessione di Franco Fornari sul tema della guerra e la mia esperienza clinica, mi sollecitano a rivolgere l’attenzione ai nodi di odio e di vendetta (…) che, acutizzati dal crollo delle Torri Gemelle, legano e contrappongono l’Occidente al mondo islamico>>(Sabatini Scalmati, 2010). L’humus che prepara il terrorismo viene colto nell’ambiguità socio-politica (compresenza di democrazia e apartheid, di orrore e spettacolo di un’apparente normalità sociale), nelle ambiguità delle memorie collettive, sempre più nazionalistiche e meno condivisibili, e nella genesi di “gruppi sigillo” che, come gruppi simbiotici (Bleger), sono cementati da <<una dura disperazione, una nube depressiva che traccia panorami di apocalittico nichilismo (…)>>(ibidem). In tale gruppo, che è <<primitivo, omofilo, misogino, chiuso all’interno di un orizzonte schizo-paranoide>>(ibidem), <<la capacità di pensare, possibile freno all’azione, viene sostituita da un abbraccio con un dio che fa propri i torti subiti dai suoi fedeli e promette giustizia>>(ibidem).

Anche altri regimi dittatoriali hanno condizionato la riflessione psicoanalitica nel secolo passato: si pensi a quelli comunisti di “oltre cortina” che proprio venti anni fa si sono irreversibilmente dissolti. In questo numero di Frenis Zero dedicato al “Malessere delle culture” abbiamo pubblicato due contributi riguardanti la riflessione psicoanalitica su questa area al confine tra soggetto e istituzioni totalitarie di tipo comunista: l’articolo di Michael Šebek “Porte che cerchiamo di aprire. Totalitarismo e psicoanalisi” e quello di Gerhard Schneider “L’oggetto perduto – l’oggetto recuperato”. Mentre quest’ultimo prende spunto dal film “Good-bye Lenin” di Wolfgang Becker per parlare di ciò che può significare, da un punto di vista psicoanalitico, la caduta di un confine politico (il Muro di Berlino), vorrei soffermarmi sull’articolo dello psicoanalista ceco in quanto, a mio avviso, risulta paradigmatico di questo modo di riflettere psicoanaliticamente su quest’area intermedia “trans-soggettiva” che l’autore connota come <<un contributo ad una psicologia sociale psicoanalitica>>(Šebek, 2010). Le “porte”, a cui fa riferimento il titolo dell’articolo, sono sia quelle chiuse, appartenenti a quel <<mondo esterno (…) diviso in senso verticale dalla Cortina di Ferro>>(ibidem) per cui <<la parte totalitaria del mondo era divisa in senso orizzontale in un piano “alto” ufficiale e formale ed in un piano “sotterraneo” non ufficiale, informale che conteneva la maggior parte della vita reale e privata della gente>>, sia le porte chiuse degli studi professionali degli psicoanalisti, costretti ad esercitare clandestinamente, ma anche quelle dei singoli individui alle prese, nella loro psiche, con degli “oggetti totalitari”, ostacolanti o comunque condizionanti il processo di libere associazioni. L’autore pone una serie di questioni su come si potessero integrare i livelli, già menzionati, intra-, inter- e trans-soggettivo in quel preciso contesto storico-politico (la Cecoslovacchia comunista). Gli oggetti totalitari erano solo esterni (livello trans-soggettivo) o avevano anche la loro esistenza interna (livello intra-soggettivo)? Il paziente si sentiva abbastanza sicuro col suo analista (livello inter-soggettivo), il quale era inevitabilmente una parte della realtà esterna per lui (livello trans-soggettivo)? Quanto dovevano il paziente e l’analista negare la realtà totalitaria (livello trans-soggettivo comune ai due) per poter lavorare insieme all’interno del processo psicoanalitico così complesso (livello inter-soggettivo)? L’autore ceco, partendo da queste domande, arriva a porre questioni che si pongono su un livello ancor più teorico, arrivando a interrogarsi sul ruolo che nella psicoanalisi contemporanea abbia la realtà esterna. <<(…) l’importanza della realtà esterna>> scrive <<non dice un granché del concetto della realtà esterna. Facilmente diveniamo confusi se gli aspetti epistemologici sono definiti in modo impreciso. (…) se crediamo che la psicoanalisi possa soddisfare i criteri della scienza odierna, in modo più o meno tacito implichiamo il fatto che stiamo usando la situazione clinica come la realtà esterna, come l’oggetto delle nostre osservazioni; ed inferiamo le nostre ipotesi teoriche da queste osservazioni, e modifichiamo le nostre teorie in relazione ai nostri cambiamenti nell’interpretazione dei dati osservativi>>(Šebek, 2010). Per Šebek i concetti psicoanalitici della realtà esterna sono limitati agli oggetti primari (secondo la tradizionale importanza accordata dalla psicoanalisi alle relazioni precoci nella formazione della personalità), ma a suo parere bisognerebbe introdurre come rilevanti altri oggetti e altri spazi. <<Concetti quali “un mondo diviso”, “confini”, “porte”, “guardiani”, “superficiale-sotterraneo”, e naturalmente la possibilità o l’impossibilità di movimento tra vari spazi, possono essere interessanti per il pensiero psicoanalitico e ci possono essere anche d’aiuto nel vedere meglio ciò che accade nel processo psicoanalitico>>(Šebek, 2010).

Lo psicoanalista ceco introduce, ad esempio, il concetto di “oggetto totalitario” il quale <<può costituire l’oggetto primario qualora esso sia rappresentato da un genitore, ma può avere anche la qualità dell’oggetto secondario. Esso può essere il potere statale, che penetra i legami familiari ed anche quelli personali, e distrugge la capacità di pensare, di sviluppare e di esprimere le emozioni>>(Šebek, 2010). Una situazione totalitaria è caratterizzata da un piccolo spazio esterno e da uno interno in cui la porta reale o immaginaria è chiusa. I guardiani messi al confine di queste porte <<sono in una posizione tale da essere un’autorità formale che mantiene e rappresenta regole e leggi impersonali. Se un individuo non si adatta a queste regole o leggi, può essere arrestato o punito. In questo modo si può sviluppare una situazione totalitaria>>(Šebek, 2010). E ancora:<<Il concetto di oggetto totalitario può essere usato per descrivere il potere che blocca il pensiero e il dialogo, che offre solo soluzioni pre-formate e comandi, e che non permette alcun sostanziale sviluppo, impiegando l’ideologia, di qualsiasi tipo, per la razionalizzazione di azioni sadiche utilizzate per opprimere coloro che sembrano essere differenti>>(Šebek, 2010). L’”oggetto totalitario” è un oggetto esterno che, però, vuole anche controllare lo spazio interno delle persone: ciò avviene tramite la sua interiorizzazione, allo stesso modo degli altri oggetti che vivono nello spazio esterno ed accessibile. Altri oggetti familiari, che sono stati interiorizzati come oggetti secondari, terziari, ecc., svolgono un’importantissima funzione di sopravvivenza in una società totalitaria nel ridurre il divario tra oggetti interni ed esterni (qui l’autore riprende un concetto di Money-Kyrle, 1947), divario che, però, è d’altronde necessario per proteggere i confini del sé. <<I divari quindi sembrano avere una qualità dinamica>> afferma Šebek <<inconsciamente monitoriamo e regoliamo questi divari nella nostra vita quotidiana>>(Šebek, 2010). Oltre che nelle relazioni sociali, anche nella relazione psicoanalitica un grande divario tra oggetti interni ed esterni (o con gli oggetti degli altri), inclusi gli oggetti culturali, crea una tensione e può portare ad una soluzione totalitaria. <<Anche le relazioni psicoanalitiche tra paziente  e terapeuta sono caratterizzate dalla convergenza o anche dalla divergenza di relazioni oggettuali, cosa che va oltre il transfert ed il controtransfert nonché la resistenza normalmente intesi>>(Šebek, 2010).

In questa area intermedia di riflessione psicoanalitica tra soggettività e cultura, in un ambito disciplinare ugualmente correlato con la violenza collettiva, si colloca anche il contributo di Yolanda Gampel che abbiamo il piacere di accogliere in questo numero monografico di Frenis Zero. L’analista israeliana nel suo testo “Esplorazioni psicoanalitiche sulla crisi medio-orientale”, che è una rielaborazione della conferenza che l’autrice presentò a Pisa nel giugno 2008, illustra un progetto di lavoro in comune (chiamato “imut” che in ebraico significa “confronto”) che, durante l’Intifada del 1989, cominciò a coinvolgere professionisti della salute mentale israeliani e palestinesi. Esso ebbe tre fasi che risentirono inevitabilmente delle vicissitudini del conflitto israelo-palestinese.<<Implicito in questi sforzi dei palestinesi e degli israeliani che lavoravano insieme per dare alla luce qualcosa di nuovo>> afferma la Gampel <<era il senso della trasgressione o della violazione di ideali trasmessi dagli antenati. Stavamo tradendo il “padre”>>(Gampel, 2010). Ed in relazione alla violenza collettiva ed al terrorismo scrive che <<quando prevale la distruzione violenta, la psiche non può trasformare i residui radioattivi ereditati, o quelli originatisi dagli eventi in corso>>(Gampel, 2010). Per la psicoanalisi, che fa riferimento in modo così rilevante al mondo interno, è difficile <<funzionare in un contesto di violenza e di guerra. In queste situazioni è molto importante mantenere il contatto con la dura realtà e mantenere anche la capacità di continuare a pensare>>(Gampel, 2010). In qualsiasi guerra, qualsiasi nemico cerca in tutti i modi di terrorizzare e di confondere, rendendo difficile la possibilità di pensare. Come risposta, l’individuo deve mantenere la propria capacità di essere consapevole della realtà, anziché ignorarla o fuggire da essa. E’ a questo livello che la psicoanalisi può dare il proprio contributo.

Ad un livello più teorico rispetto al rapporto tra culture, o meglio multiculturalità, e violenza collettiva si colloca il saggio di Françoise Sironi “Per una psicologia geopolitica clinica”, che appare come il testo fondativo di una nuova disciplina al confine tra psicopatologia e contesti socio-politici. La psicologa clinica francese, fondatrice del Centro "Primo Levi" per le vittime di tortura, ma anche fondatrice in Russia di un centro per il trattamento dei disturbi psichiatrici degli ex-soldati reduci dall'Afganistan, ed ex- direttrice del Centro "Georges Devereux", parte da alcune questioni fondamentali: come distinguere l’influenza del fattore storico e politico nella psicopatologia individuale e collettiva? Come si lavora, durante una psicoterapia sulla parte collettiva della storia individuale, presente in ciascuno di noi? Il saggio della Sironi è fondativo anche perché definisce, in modo molto preciso, i concetti basilari di “violenza collettiva”, di “violenza di Stato”, di “geopolitica”, e naturalmente di “psicologia geopolitica clinica”. Su un piano meno teorico e più terapeutico, l’autrice francese passa a trattare il tema di come integrare le tracce della storia collettiva nella storia individuale, e quindi a classificare le differenti forme di psicopatologie specifiche indotte dalla violenza collettiva. Coniugando la psicopatologia con un’ottica proiettata al trattamento, la Sironi distingue la psicopatologia delle violenze collettive in tre categorie eziologiche: 1) <<Le psicopatologie che sono una manifestazione della effrazione psichica o della effrazione del sistema culturale protettivo. I traumi e la depressione illustrano questa categoria. 2) Le psicopatologie che sono o che conseguono ad un adattamento psichico alla violenza collettiva, alla criminalità politica o a una patologia sociale. Le paranoie come risposta individuale alla teoria del sospetto generalizzato, illustrano questa categoria. 3) Le psicopatologie che sono o che conseguono ad una resistenza psichica alla violenza collettiva, alla criminalità politica o a una patologia sociale. Sono principalmente le depressioni che illustrano questa categoria eziologia>>(Sironi, 2010). In modo coerente con quanto afferma nel suo articolo l’Amati Sas riguardo al lavoro sulle vittime di tortura, la Sironi afferma che <<è necessario dare spazio all’analisi di queste violenze politiche, e soprattutto non interpretare il discorso o il racconto politico dei pazienti/clienti come se fosse una difesa contro l’emergenza di un materiale clinico più intimo>>(Sironi, 2010). E riguardo al lavoro terapeutico così scrive: <<Durante la psicoterapia si passa ciclicamente dalla dimensione collettiva alla dimensione singolare del sintomo. In questo modo si lavora sul punto di articolazione tra storia collettiva e storia individuale.  Quando i nostri pazienti hanno subito un processo di disumanizzazione, dovuta alla tortura fisica o psichica, è necessario chiudere l'apertura traumatica, l'effrazione psichica, per ri-umanizzare il paziente. Dopo, si lavora col paziente sulla intenzionalità del torturatore, in modo da liberare questo paziente dall' influenza ancora presente e interiorizzata del torturatore. La mobilizzazione di una rabbia feconda contro i persecutori si verifica dopo aver fatto, nella seduta e col paziente, il "processo" al torturatore. Questo modo di fare tecnico è necessario soprattutto quando i pazienti vengono da Paesi dove esiste l'impunità per i criminali politici>>(Sironi, 2010).

 La vergogna, nei contesti di violenza collettiva, nei regimi dittatoriali che adoperano la tortura (ne parla nel suo contributo Silvia Amati Sas) è stata certamente al centro dell’attenzione degli psicoanalisti. Cosimo Trono, nei suoi “Frammenti di ontologia psicanalitica. L’Inferno di Dante, la Vergogna di Ingmar Bergman, M’Palermu di Emma Dante” ne analizza gli aspetti più intimamente legati ai contesti della cultura, ed in particolare delle culture cui appartengono le tre opere d’arte a cui fa riferimento il titolo. La vergogna, emozione sociale, anzi “emozione del limite” sociale (come la definisce Kaufmann, 2007), <<legata più della colpa all’essere visti, allo sguardo dell’altro, fa sentire il Sé come ob-sceno, “fuori dalla scena”, e quindi bisognoso di sottrarsi alla scena sociale (…)>>(Leo, 2010). Lo psicoanalista francese mette in evidenza tre assi di lavoro: 1) la vergogna reale, <<nel caso di avvenimenti esterni al soggetto, che riducono e a volte cancellano la dignità umana delle vittime>>; 2) la vergogna immaginaria, sintomatica; 3) la vergogna simbolica, infine, <<quella che prende il linguaggio (…) come supporto di una elaborazione psichica soggettiva, atta a dominare le passioni nel loro estremismo mortale e mortificante.>>(Trono, 2010). Quest’ultima, per l’autore, è la sola ad avere un effetto civilizzatore, <<cioè metaforico e strutturante dell’identità personale>>(Trono, 2010).

Su un versante che coniuga teoria psicoanalitica dei gruppi e riflessione sul disagio delle civiltà si colloca l’articolo di René Kaës “Il disagio del mondo moderno”. Il pensiero dello psicoanalista francese è molto ben noto in Italia per dissuadermi dal cimentarmi qui con una sua sintesi. Si tratta di un’ampia panoramica sugli sviluppi più recenti della sua riflessione personale, che si snoda attraverso una serie di paragrafi dai temi cruciali: la crisi dei garanti metapsichici, il fallimento dei garanti metasociali, il ruolo dei garanti metapsichici nella strutturazione dello psichismo, la clinica delle situazioni estreme.

Infine, per parlare del “malessere delle culture” ci è sembrato appropriato parlare anche del contributo che Claude Lévi-Strauss, recentemente scomparso, ha dato al campo dell’antropologia. <<Claude Lévi-Strauss, la rivoluzione dello sguardo>> è il contributo di Philip S. Golub, docente in relazioni internazionali all’Università Parigi 8.

Nel 2008 la Rivista Italiana di Gruppoanalisi ha dedicato un numero monografico alla “Multiculturalità”: ne diamo una recensione in questo numero di Frenis Zero.

La parola “confine” è stata ripetuta non poche volte in questo editoriale e nei testi di questo numero dedicato al “Malessere delle culture”. E al libro “La psicoanalisi e i suoi confini”(Astrolabio, Roma, 2009) Ambra Cusin, nella sua recensione in inglese, dedica questo ricordo della propria analisi personale di gruppo al tema dei “confini” e dei “guardiani” posti a controllarli: <<Nel vecchio studio di Resnik a Venezia in Rio Terrà ai Saloni c’era un quadro dove un soldato faceva la guardia all’entrata di un castello: molte le fantasie del gruppo su questo “confine” tra mondo esterno e mondo interno che ci accoglieva ad ogni seduta>>.

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 

 

 BIBLIOGRAFIA

 

1)     Mitchell S. A. & Black M. J., “L’esperienza della psicoanalisi”, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

2)     Albarella C. & Pirillo N., voce “Cultura” di “Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze”, a cura di Barale F., Bertani M., Gallese V., Mistura S., Zamperini A., Einaudi, Torino, 2006.

3)     Erikson E., “Identity: Youth and Crisis” (1968), ed. Ital. “Gioventù e crisi di identità”, Armando, Roma, 1992.

4)     Amati Sas S., “L’ambiguità come difesa in condizioni di trauma estremo”, in Frenis Zero, n. 13, anno VII, gennaio 2010. In corso di pubblicazione in AA.VV., “Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria”, Edizioni Frenis Zero, 2010.

5)     Sebek M., “Porte che cerchiamo di aprire. Totalitarismo e psicoanalisi”, in Frenis Zero, n. 13, anno VII, gennaio 2010.

6)     Money-Kyrle, R. (1947). „Social conflict and the challenge to psychology“. In (ed. D. Meltzer with E. O´Shaughnessy) „The Collected Papers of Roger Money-Kyrle“, Strathtay, Perthshire: Clunie Press, 1978.

7)     Gampel Y., „Esplorazioni psicoanalitiche sulla crisi medio-orientale“, in Frenis Zero, n. 13, anno VII, gennaio 2010. In corso di pubblicazione in AA.VV.,„Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria“, Edizioni Frenis Zero, 2010.

8)     Kaufman G., „Vergogna: l’emozione del limite“, in AA.VV., „La vergogna“, numero speciale de la Rivista del Centro Italiano di Psicologia Analitica, Vivarium, Milano, 2007.

9)     Leo G., „La honte et l’age dangereux“, in corso di pubblicazione presso Editions Penta, Parigi, 2010.

10)Sironi F., „Per una psicologia geopolitica clinica“, in Frenis Zero, n. 13, anno VII, gennaio 2010.

11) Sabatini Scalmati A., "Terrorismo come patologia psico-sociale", in Frenis Zero, n. 13, anno VII, gennaio 2010.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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