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FRENIS  zero 

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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L'indigestione dell'animo.

 

 di Marco Francesconi

 

Marco Francesconi è Psichiatra, Psicoterapeuta, Docente di Psicologia Dinamica al Corso di Laurea in Psicologia  all'Università di Pavia.

Tra le sue numerose pubblicazioni ha curato recentemente il libro "L'interpretazione della colpa La colpa dell'interpretazione" (Bruno Mondadori, 2005), di cui in questo stesso numero di "Frenis Zero" riportiamo l'introduzione ( clicca qui ) per gentile concessione dell'autore e della casa editrice.

 

 

                             

Gli specchi dovrebbero riflettere un momentino, prima di riflettere le immagini. (Cocteau)

(Cocteau)

 

 

“Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio. Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo. In fondo la vita è in se stessa una grande insonnia e c'è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo. Sarei felice se potessi dormire. E' un'opinione di ora, perché non dormo. La notte è un peso immenso dietro al soffocamento della coperta muta di ciò che sogno. Ho un'indigestione nell'animo.” (F. Pessoa, Il libro dell'inquietudine, pag. 61)

 

“Si soleva un tempo dire che uno aveva avuto gli incubi perché aveva fatto una indigestione e che per questo si svegliava in preda al panico. La mia versione dei fatti è viceversa la seguente: tale paziente che dorme è in preda al panico: poiché non è capace di avere un incubo non può né svegliarsi né addormentarsi; da quel momento egli comincia a soffrire di una indigestione mentale” (W. R. Bion, Apprendere dall'esperienza, pag.31)

 

Premessa

 

 

      Queste note rappresentano l’elaborazione del contenuto di lezioni di Psicopatologia, da me proposte annualmente, dal 1995 al 2001, agli allievi della Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell'Università di Pavia.

Viene sviluppato un discorso sulla contrapposizione fra conoscibilità e inconoscibilità sia nella relazione fra sé e l'altro che in quella fra cosciente e non-cosciente nel singolo individuo. Ne derivano tre aree tematiche che affrontavano il problema della psicosi - o della parte psicotica della mente - secondo vertici diversi, per epoca e per impostazione. Tale struttura si è andata poi elaborando, ma è stata sostanzialmente mantenuta anche nella attuale formulazione. Tengo a sottolineare il carattere discorsivo del materiale, che non intende affatto costituirsi come trattazione sistematica e pertanto esclude qualunque pretesa di occultare le evidenti lacune in molti settori del vastissimo tema. Ma, per questo, non mancano i testi… Se quanto segue invoglia ad una loro lettura, avrà raggiunto il suo principale scopo.

 

La prima area vorrebbe dunque costituirsi come sottolineatura delle “fondamenta” dell'argomento, intese non come definizione univoca del terreno d'origine - dice Civita (1993) che la Psichiatria è una delle scienze senza fondamenti, per questo ognuno deve compiere un atto di fondazione - bensì come attenzione alla complessità del pensiero precontemporaneo.

Spero in questo di riuscire a trasmettere la convinzione di una continuità nella storia del pensiero che ritengo essenziale strumento nell'esercizio della curiosità intellettuale, nello stabilire connessioni di significato in cui il pensare si risolve e nel contrastare quella perniciosa tendenza a trasformare la definizione ricoeuriana di Maestri del sospetto, applicata a Nietzsche, Marx e Freud,  nella più estesa formula “sospetto dei maestri”.

Sarà quindi un invito alla lettura principalmente di Jaspers (1959) e di Binswanger (1955) a rappresentare un esempio di approccio metodologico caratterizzato dall'uso degli “elementi del passato”, non per occludere la comprensione del presente, come ci avverte Bion, né per sbarazzarcene frettolosamente come di un abito logoro, ma per riconoscere come almeno una parte delle scoperte e delle invenzioni del “nuovo” abbia alla base competenze e opinioni già comparse in momenti precedenti, che sembrano quindi essere state soggette allo stesso meccanismo da Freud riconosciuto come uno dei fondamentali processi psichici: “Il materiale presente come traccia mnestica è di tanto in tanto sottoposto ad una nuova sistemazione in accordo con gli avvenimenti recenti, così come si riscrive un lavoro” (Lettera a Fliess del 6/12/1896).

Ci ricorda infatti Petrella (1993, p.161) che Jaspers “sa penetrare con acutezza nella 'tensione dei contrasti nell'anima' e nella dialettica dei suoi movimenti” e che dalla sua penna “nascono pagine memorabili e a torto dimenticate dall'odierna psicopatologia”.

Ma nella ideologia che si esprime negli Autori della prima area, come vedremo, resta tuttavia “forte” la convinzione del primato della coscienza e della normalità: l'incomprensibilità è qualcosa che dipende dalle caratteristiche abnormi dell'altro, che, sebbene non più visto come necessariamente affetto da una degenerazione organica, resta sostanzialmente invaso da una “esogena” follia o comunque pervaso da una qualità divergente in modo incommensurabile da ciò che struttura la sanità dello psichismo (quello dell'osservatore, in particolare).

 

Nella seconda area cercherò di fare qualche cenno alla “soluzione” freudiana, che ammette la patologia nel confine del sé, risolvendola nella retrocessione cronologica[1]: patologico e normale tendono a confluire, se pensati nel bambino molto piccolo, cosicché potremmo vedere, con neologismi, nella patologia una “discronìa” del percorso di evoluzione dello psichico e nella cura la ricerca di una “eucronìa” che, attraverso la risistemazione evolutiva del significato degli eventi passati, consenta un comportamento più differenziato e consapevole.

Freud proclama più volte l'inadeguatezza dello strumento psicoanalitico per il trattamento delle psicosi, tuttavia si potrà vedere come alcuni casi di psicotici (ad es. Presidente Schreber; ma lo stesso potrebbe dirsi per i bambini, come il 'piccolo Hans') siano studiati indirettamente, mediati dal filtro di un testo (o di un genitore) e testimonino come, in realtà, Freud smentisca questa distanza fra psicoanalisi e psicosi in almeno altrettante occasioni. Inoltre, come da molti affermato, buona parte dei casi trattati da Freud difficilmente sarebbero oggi diagnosticati come semplici nevrotici.

 

Cercherò, infine di presentare una terza area - che trae origine da un lato dalla Scuola “inglese” di psicoanalisi delle relazioni oggettuali (kleiniana e bioniana) e dall'altro da pensatori argentini - alla cui base mi sembra possa essere vista un'idea di funzionamento normale dell'apparato psichico fondato sulla compresenza costante, in equilibrio dinamico, di contrapposizione e integrazione di attività psichiche che, solo con molta approssimazione, possiamo ricondurre a dicotomie quali sano/patologico, arcaico/evoluto, primario/secondario, nevrotico/psicotico.

In questo modello si preferisce pensare a organizzazioni delle risposte dell'apparato psichico dipendenti dall'interazione di leggi di funzionamento, o di linguaggi, di stati della mente a varia dimensionalità (Autistico-contigua; Bidimensionale/Tridimensionale), che possono comportare aspetti clinicamente patologici se ha luogo una prevalenza delle modalità meno evolute, ma che comunque coesistono e fondano l'attività psichica anche nella persona con funzionamento ben integrato.

L'auspicio, infine, è di evitare un eccesso d'astrazione - anche se credo di non esservi sempre riuscito - mantenendo la trattazione, anche se teorica, costantemente orientata al campo applicativo e finalizzata a stimolare un “modo di pensare” attraverso l'elaborazione di vari modelli d'interpretazione delle organizzazioni patologiche di funzionamento della mente. Ciò in linea con quanto scriveva Jaspers (1913) nella prefazione del suo Trattato : “Nella psicopatologia è dannoso credere di dover semplicemente apprendere la materia: non si deve imparare la psicopatologia, ma si deve imparare ad osservare psicopatologicamente, a porre dei problemi psicopatologicamente, ad analizzare e a riflettere psicopatologicamente”.

 

    Foto: Karl Jaspers

 

 

Parte I:  Note su Jaspers e la fenomenologia

 

                                                            Bello, quando sul mare si scontrano i venti

                                                            e la cupa vastità delle acque si turba,

                                                            guardare da terra il naufragio lontano:

                                                            non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina

                                                            ma la distanza da una simile sorte.       (Lucrezio)

 

 

Ho voluto iniziare la trattazione di questa parte con una citazione di Lucrezio che mi sembra possa caratterizzare l'elemento essenziale del tema - l'approccio jaspersiano e fenomenologico - ovvero la netta separazione fra l'osservatore, collocato in un luogo sicuro, e l'osservato, affetto da sventura e ininfluente sul primo: “naufragio lontano”.

In realtà ci accorgiamo subito che questa distinzione schematica non regge ad un approfondimento: l'osservatore si pone in relazione con l'evento e può provare certi stati d'animo (“bello guardare..”.) proprio perché non è totalmente svincolato dall'osservato. Appare probabile che lo spettatore debba affrontare il mare in altre occasioni e si rallegri di potersi differenziare dal navigante, dopo un processo di immedesimazione che gli consenta sia di spiegare causalmente che di comprendere empaticamente che cosa l'altro stia provando.

Gli elementi essenziali del discorso risultano quindi rappresentati da un lato dalla possibilità di includere nella propria coscienza un certo contenuto (vedere il naufragio) e dall'altro dalla possibilità di comprendere intellettualmente ed emotivamente la relazione fra sé e l'altro (il rapporto fra le situazioni).

Ma proprio su conoscere e connettere appare fondarsi la Psicopatologia per Jaspers, come l'Autore dice all'inizio del suo volume (1959): “(Lo psicopatologo) non ricerca né l'immedesimazione né l'osservazione di per sé... Egli vuole ciò che può essere espresso in concetti, che è comunicabile, ciò che può essere fissato in regole e in cui può riconoscersi un qualche rapporto”.

Qui Jaspers sta tentando di definire i propri criteri di studio e di trattazione e credo valga la pena di ascoltarlo più in dettaglio per la sua modernità: “Se qualcuno vuol provare che le proprie scoperte sono giuste e vuole porle al di sopra della fiumana delle trovate psicologiche che appaiono ogni giorno, egli dovrà, per quanto possibile, appoggiarsi contemporaneamente su considerazioni metodologiche (...) Per avanzare nella conoscenza dello psichico ci si aggrappa a fenomeni somatici di recente scoperta o si attende ogni salvezza da esperimenti nei quali venga in luce infine qualche cosa di quantitativo, qualche cosa di tangibile, una curva. Una cosa soltanto dimenticano questi critici: non si esercitano nell'analisi psicologica né fanno quel notevole lavoro intellettuale che è necessario, accanto all'arte dell'osservazione psicologica, per ottenere quei concetti, quei caratteri distintivi, sufficientemente chiari e comunicabili, che costituiscono la base di ogni ulteriore conoscenza”. (p.6)

Jaspers ci ricorda che una competenza filosofica non dà apparentemente materiale immediatamente utilizzabile, ma “questo studio ha in primo luogo valore negativo” di prevenzione dell'errore. Appare persino superfluo il paragone con la psicoanalisi bioniana in cui lo psicoanalista riprende la “capacità negativa” da Keats, cioè il “perseverare nell'incertezza senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni” per farla diventare uno dei pilastri metodologici della sua teorizzazione.

Ma non si tratta solo di rapporti fra concetti, come le affermazioni jaspersiane illustrano: “Ogni vita si svolge come determinazione reciproca di un mondo interiore e di un mondo esteriore. Un fenomeno originario della vita è vivere nel proprio mondo. Perciò l'esistere fisico non può essere indagato sufficientemente come il corpo anatomico nelle sue funzioni fisiologiche, ma innanzi tutto deve essere considerato come una vita insieme al suo mondo circostante sul quale essa si struttura e si realizza, adattandosi al mondo che percepisce e nel quale agisce” (p.13).

Anche Binswanger non manca di chiarezza a questo proposito: “Il fenomenologo non dice che nella percezione è contenuto un oggetto, bensì che io, nella percezione, sono diretto verso un oggetto, mi rapporto ad esso” (1955, p.20).

Seguendo la traccia filosofica di Brentano, l'Autore parla di intenzione percettiva (atto della coscienza che si dirige su qualcosa) e ne stabilisce non la possibilità, ma la necessità: “ogni soggetto si dirige su un oggetto”.

Quando Freud dice che è la pulsione ad avere, sì come meta la scarica, ma anche come obiettivo un oggetto, non fa altro (ma non è poco!) che sostituire alla coscienza/soggetto (in cui resta un rappresentante psichico della pulsione) un elemento motivazionale appartenente all'inconscio.

E' pertanto un grossolano fraintendimento considerare la teoria freudiana come un puro intergioco di forze intrapsichiche dimentiche della relazione con l'oggetto, anche nella sua corporeità, come ricorda S.Vegetti Finzi parlando del continuum in cui “si materializza lo psichico e si psicologizza il corpo” (1986).

La definizione data al sistema freudiano di modello idraulico mi sembra impropria, a meno che con essa non si intenda sottolinearne un particolare elemento: la tendenza cioè all'azzeramento del disturbo prodotto dagli stimoli esterni, nell'ipotesi che la quiete, come nei liquidi comunicanti, sia il miglior stato possibile. Penso che questa modellizzazione non sia del tutto corrispondente al pensiero freudiano, ma resta peraltro vero che il maggior accento posto sulla necessità, vitale allo psichico, di tentare di soddisfare la fame di stimoli, intrinseca al modello 'epistemofilico' kleiniano e postkleiniano, costituisca infatti una differenza fra l'epistemologia freudiana ed alcune successive. Non così, invece, il disinteresse per la relazione con l'oggetto, che Freud non ha mai avuto. Egli, infatti, usa il termine Trieb (in cui è presente il fine) e non Drang (pulsione priva di oggetto) come, ad esempio, fa Max Scheler, o come aveva fatto solo nel Progetto per una Psicologia Scientifica del 1895. Una differenza che può essere riassunta con le parole di Jaspers (p.128): “Drang trova l'oggetto, Trieb cerca l'oggetto, la Volontà stabilisce l'oggetto”.

Nell'approccio fenomenologico-comprensivo il valore dato alla coscienza appare prioritario ed essenziale (la scienza eidetica di Husserl). Lo afferma in modo inequivocabile Binswanger (ad es.nello scritto 'Sulla fenomenologia' del 1922) e, con maggiori contraddizioni, Jaspers (p.10): “L'anima si può chiamare coscienza, ma, altrettanto bene, sotto determinati punti di vista, essa è essenzialmente anche l'inconscio”; poche righe dopo dice tuttavia: “dove non c'è coscienza, non c'è neppure anima.(..) Una sottostruttura extracosciente concepita solo in teoria per scopi esplicativi” e ancora: “tutto ciò che non è dato realmente nella coscienza non è presente (...) dobbiamo interessarci solo a ciò che possiamo comprendere, distinguere e descrivere nella sua vera esistenza.” (p.59).

Un mito descrittivo che, se preso troppo alla lettera, può condurre a modalità di relazione distaccate e alienanti, ben illustrate dalla descrizione letteraria di Büchner sulla quale si sofferma Petrella in un suo lavoro dal titolo: Woyzeck, Odradek e lo psichiatra (1993, p.61).

Tornando a Jaspers, ritroviamo l' affermazione che “la vita psichica direttamente accessibile, realmente vissuta è come la schiuma che galleggia sulle profondità dell'­oceano. Queste profondità sono inaccessibili e possono essere indagate solo indirettamente, per vie traverse teoriche”. A mio avviso, tuttavia, questa metafora potrebbe adattarsi solo ad una concezione psicoanalitica della mente (la schiuma della superficie esiste solo in quanto poggiata sullo strato sottostante e il suo stato è anche espressione di ciò che avviene in profondità). La rappresentazione più corretta dal punto di vista fenomenologico apparirebbe bidimensionale, in una suddivisione zonale orizzontale (del tipo qui la terra, là il mare) con una separazione sufficiente a rendere inavvertibili le perturbazioni che gli aspetti più irrazionali potrebbero comportare.

Appare utile rilevare come nel passaggio cronologico e ideologico fra Jaspers e Binswanger accadano alcuni eventi concettuali non trascurabili che rendono più evidente quanto appena affermato. Il secondo (1955) critica infatti il primo proprio sul rapporto con il folle (“anche oggi in diversi ambienti la dottrina dell'Einfühlung trova largo credito (p.29)... Il concetto di nesso comprensibile è in Jaspers un astratto concetto metodologico accessorio ed estraneo alla psicologia (p.48)”. Binswanger afferma inoltre con rinnovato vigore la capacità della coscienza di giungere ad una conoscenza 'certa': “Il vantaggio della fenomenologia sta nel fatto di indurci con la massima energia alla semplice osservazione dei fenomeni, di insegnarci a ritenere valido soltanto ciò che vediamo realmente attraverso l'intuizione sensibile o la visione delle essenze e di evitare che, a quanto si vede, si sovrapponga una qualsiasi teoria, anche se perfettamente fondata (p.17)”. “Nel presentarsi diretto, nel rendersi noto dell'oggetto noi abbiamo una garanzia intuitiva dell'effettiva presenza dell'oggetto, della sua determinatezza e nessuna rappresentazione sarà in grado di sostituirla (p.21)”. Non solo Freud è lontano, ma lo stesso Jaspers, che in fondo non dimenticava Goethe (“dobbiamo cercare di renderci consapevoli di 'quella teoria che è già in ogni fatto', impariamo cioè a vedere i fatti reali e a sapere che i reperti non rappresentano in nessuna parte la realtà in sé, né sono mai tutta la realtà (p.19).”

Accanto al ritorno ad una coscienza esente da incertezze, Binswanger pone le premesse per un percorso successivo che, a mio avviso, conduce ad una spiegazione del fatto, apparentemente paradossale, che il modello fenomenologico è, o è stato, utilizzato come referente ideologico tanto dalla psichiatria manicomiale o biologizzante, quanto dalla corrente antipsichiatrica e antiistituzionale. Un eccesso di garantismo dell'Altro da sé (“una volta intesa l'alienazione come l'estremo tentativo di un uomo di diventare, nonostante tutto, se stesso, l'alienato non è più colui che vive fuori dal mondo, ma colui che nell'alienazione ha trovato l'unico modo per lui possibile di essere nel mondo” - U.Galimberti, in Binswanger 1955) può portare infatti tanto a concludere verso ipotesi pessimistiche e custodialistiche (osservazione, descrizione, diagnosi, ma non modificazione), quanto verso la trasformazione magica in normalità di ogni sofferenza psichica o la sua subordinazione causale ad esclusivi fattori socio-economici, vanificando qualunque intervento precedente l'instaurazione di una società 'totalmente giusta'.

Analogamente, il fatto che la fenomenologia rifiuti la deducibilità dei fenomeni da princìpi unitari (utilità, piacere), che hanno invece “in se stessi il proprio senso” (Gadamer,1994,p.6), ben si accorda con il riduzionismo biologico-farmacologico, che spesso tende ad usare questo ombrello epistemologico per giustificare il proprio soffermarsi solo sul 'fenomeno' biochimico in sé.

Alla fenomenologia vanno però ascritti anche molti meriti, soprattutto se si compie una corretta opera di collocazione storica delle idee, come mostrano, ad esempio, in modo molto istruttivo, i testi di Ellemberger (1970) e Vegetti Finzi (1986).

Uno di questi meriti è la funzione di 'dare un nome' ai contenuti patologici della psiche; come dice Benedetti (1991, p.29): “L'introduzione della dimensione fenomenologica nella psicopatologia ha il merito (a meno che essa venga fraintesa e scambiata con un'obiettività simile a quella delle scienze naturali) di favorire una comprensione del malato su un piano personale, attraverso la fenomenologia dell'incontro con il suo mondo, trasformando così la slegatezza, frammentarietà e contraddizione dell'esperienza interiore in un'immagine psichiatrica che non si limita a rifletterla, ma la organizza in una struttura”.

Inoltre, il concetto di atto intenzionale (cioè da vedersi inscindibilmente dalla funzione/scopo), che risulta ben raffigurato dalla citazione goethiana riportata da Jaspers: “La fonte non è nulla se non è pensata fluente”, è utile sia per evitare semplificazioni biologistiche o psicologistiche, sia per riflettere meglio sul concetto di responsabilità che si correla alla intenzionalità. Scrive Binswanger (1955, pag.91): “…perché in qualsiasi serio trattamento psicologico, a cominciare da quello della psicoanalisi, si presentano momenti in cui l'uomo deve decidere se vuole persistere nella sua opinione privata, nella sua “scena privata”, come diceva una malata, nella sua superbia, nel suo orgoglio, nella sua ostinazione, o se vuole invece risvegliarsi, con l'aiuto del medico, del mediatore cosciente tra il mondo privato e il mondo comune, tra l'illusione e la verità, dai suoi sogni e di partecipare alla vita della generalità, al koinòs kòsmos.” Credo che queste parole vadano tenute presenti perché ci ricordano la persistenza - a volte colpevolmente trascurata dalla psicoanalisi - di una quota di “libero arbitrio” del paziente che, lungi dal mettere in crisi il determinismo inconscio o dal richiedere l'introduzione di un Io libero da conflitti come vuole la Psicologia dell'Io, impone però di non sottovalutare il fatto che siano possibili opinioni e decisioni diversificate, anche negative, una volta che sia dato un certo livello di consapevolezza. Naturalmente la reazione terapeutica negativa è ben nota e considerata da Freud in poi, ma il rischio mi appare quello di intenderla inconsciamente sempre qualcosa di interpretabile e rimediabile, il che magari non guasta sul piano pragmatico in molti casi, ma mi sembra che possa essere un luogo di potenziale annidamento di quella onnipotenza terapeutica verso la quale si dirigevano gli strali - ad esempio - di Dario De Martis. Ma anche Binswanger scriveva nel 1935 (“Sulla Psicoterapia”, in 1955, pag. 149): Il rapporto tra medico e malato costituisce sempre un qualche cosa di propriamente nuovo nel piano della communio. (…) La dottrina psicoanalitica, prigioniera com'è del “meccanismo” e quindi della ripetizione (meccanica), è straordinariamente cieca di fronte alla categoria del “nuovo” e quindi dell'autenticamente creativo nella vita psichica. Senza dubbio non è sempre giusto imputare all'ammalato il fallimento della cura; noi medici dovremmo chiederci sempre se la colpa non sia talora nostra.” A onor del vero questo non ci consente di attribuire a Binswanger una particolare sensibilità controtransferale, se teniamo conto dell'esempio clinico che aveva descritto qualche pagina prima, parlando di una paziente isterica “che si trova all'inizio di una cura psicoanalitica [Sic!] avviata da me” e che soffriva di crisi di singhiozzo parossistico e di “perdita del senso del proprio corpo” durante le mestruazioni (pag. 141): “D'altra parte non potevo attardarmi ad approfondire la vita della malata e la storia delle sue sofferenze. Nonostante il monito di Freud, mi son così visto costretto ad un intervento attivo: un esempio questo di come le esigenze di una concreta situazione psicoterapeutica possano essere più forti dei dettami teoretici dei nostri maestri. In questi casi sono il sereno coraggio del medico e la sua fiducia nel successo ciò che conta e non la teoria. Ricordo che d'improvviso mi venne una “trovata” [Einfall] o, se si vuole, una ispirazione: mi avvicinai tranquillamente alla giovane sdraiata sul letto, le misi le dita della mano destra intorno al collo e premetti tanto forte sulla trachea da farle mancare il fiato e da indurla al tentativo di liberarsi, di modo che, quando allentai la presa, compì un forte atto di deglutizione. Il singhiozzo si interruppe di colpo e, dopo due o tre manovre analoghe, scomparve definitivamente. Questo è uno degli innumerevoli e svariatissimi esempi di come si possa svolgere in pratica la psicoterapia medica.”

Non dubitiamo che l'ultima frase sia profondamente vera, ma restiamo piuttosto scettici che questo esempio possa rientrare anche soltanto in quella filosofia della cura che Jaspers difendeva quando chiedeva allo psicopatologo (p.24) impassibilità e commozione che “procedono unite e non possono contrapporsi. Soltanto insieme, mediante un'azione reciproca, possono portare alla conoscenza”. Più utili appaiono queste considerazioni se ci inducono a porre l’accento su delicate questioni concernenti la responsabilità, la colpa, l’atto terapeutico, interpretativo in particolare (rimando a Francesconi, 2005).

Proseguendo con altri elementi suggeriti da Jaspers e che ritengo assai validi anche attualmente, ricorderei un'altra condizione indispensabile perché avvenga un corretto processo di conoscenza, cioè il riconoscimento del ruolo dei presupposti (favorenti) da un lato, e dei pregiudizi (falsanti) dall'altro. Infatti essi rappresentano quel 'qualcosa' che portiamo già in noi e che influisce sul nostro intendere. L'Autore ne studia diversi tipi; qui interessa solo sottolineare gli inviti a distinguere fra conoscere e valutare, la necessità di “immergersi obiettivamente nei fatti della vita psichica, senza prendere subito posizione”, che mi sembra sovrapponibile agli insegnamenti di W. Bion a difenderci da eccessi di memoria e desiderio nonché dalla agitata ricerca di fatti e ragioni, (espressione ripresa da Keats) anche se, ovviamente saranno molto diversi i metodi per avvicinarsi a questa meta.

Jaspers parla di “un intimo travaglio necessario a chi conosce” e afferma la necessità di un “palpitare all'unisono con le vicende altrui”; Bion descrive la situazione psicoanalitica come esistenza di “due persone piuttosto spaventate in una stanza” intente ad applicare “una scienza centrata sull'essere all'unisono”. Moltissimi analisti si interrogano sul controtransfert, ma già Jaspers diceva di chiedersi di fronte agli oggetti: “qual è lo stato d'animo con cui li colgo?”...

Il sapere, dunque, se inteso come funzione in evoluzione e non come corpo definito di conoscenze, si presenta come condizione insatura: Jaspers parla di corretto uso dei presupposti, Bion di corretto uso della funzione K (conoscenza), ma per entrambi, nonostante la profonde differenze, l'apprendere dall'esperienza non può escludere la faticosa apertura di uno spazio costantemente disponibile all'accoglimento e al cambiamento.

Se, invece, il sapere è utilizzato con onnipotenza, saturazione, affermazioni di tipo magico o intransigentemente ideologico, può diventare un momento occlusivo di ciò che è nuovo: il -K (meno K) di Bion o il pregiudizio di Jaspers.

In questo forse troppo ardito percorso di confronto fra soggetti così disomogenei quali Jaspers e Bion, non si vuole certo trascurare la profonda differenza costituita dal diverso significato  e dal diverso valore attribuito all'inconscio dai due Autori, tuttavia mi sembra che il discorso proposto possa costituire uno stimolo alla riflessione e all'approfondimento di modelli dei processi di conoscenza.

Per essere corretti sarebbe necessario esaminare l'esteso studio jaspersiano sulla coscienza, ma non è qui possibile farlo e si rimanda perciò al testo, specie per lo studio dei caratteri formali della coscienza, ancora oggi utile alla precisione terminologica allorché essa viene vista come suddivisa schematicamente in funzioni con specifiche peculiarità: attività (personalizzazione), distinzione sé/altro, unità dell'Io, identità dell'Io (nella successione cronologica). 

A scopo didattico, credo invece si possano riportare in veloce sintesi, le distinzioni “classiche” di Jaspers a proposito della comprensione e spiegazione:

 

Comprendere statico   (Fenomenologia):

 

Funzione corrispondente al cogliere i singoli frammenti della vita psichica, come fotogrammi isolati di una sequenza, il cui scopo principale è permettere l'­unificazione delle descrizioni e denominazioni.

 

Comprendere genetico (Verstehen):

 

Insieme dei sentimenti di evidenza nel cogliere la genesi di relazioni occasionali fra elementi psichici; ad esempio, posso cogliere un nesso comprensibile fra lutto e depressione, ma non posso stabilire una legge che lo renda ripetibile necessariamente nello stesso soggetto o in altri. Esiste un limite, sia normale che patologico, a questa comprensione; tipicamente, la schizofrenia è presentata come paradigma dell'incomprensibilità genetica.

Questa comprensione può avere prevalente espressione razionale oppure affettiva; in quest'ultimo caso corrisponde all'immedesimazione empatica o Einfühlung.

Jaspers,inoltre, critica la psicoanalisi freudiana perché la ritiene una forma del comprendere genetico che ha pretesa di illimitatezza, come se fosse di tipo causale.

 

Comprendere causale (Erklären):

 

Spiegazione della relazione causa - effetto con ripetibilità. Può dare luogo a teorie e leggi. Vale sia per il versante biologico che per quello psichico; è teoricamente illimitato.

 

Comprendere 'come se' (Als ob):

 

Con questo termine Jaspers si riferisce soprattutto alla psicoanalisi freudiana per indicare quel salto, da lui ritenuto inaccettabile, con cui si cerca di arrivare ad una comprensibilità di relazioni psichiche unendo 'cause' inconsce ad 'effetti' coscienti. Il modello che lo fonda sarebbe strutturato in analogia alla 'spiegazione' dei sintomi pseudoneurologici isterici (Charcot, Janet), compresi 'come se' derivassero dalle concezioni inconsapevoli dei pazienti nel campo dell'anatomia e fisiologia (una paralisi emilaterale, una anestesia non correlabile ai territori di innervazione,ecc.).

 

A conclusione di questa parte, vorrei fare brevemente cenno ad alcuni problemi teorico-clinici che possono sorgere con facilità e che corrispondono a mio avviso alla possibilità di ricostituzione di aree di incomprensione delle vere necessità del paziente in quel momento, sovrapponibili sia alla 'incomprensibilità' jaspersiana - anche se ovviamente inquadrabili diversamente in un 'nuovo contesto' - così come ai 'bastioni' (aree di non pensiero condivise collusivamente da terapeuta e paziente, secondo i Baranger -1990 ).

Mi riferisco al possibile atteggiamento caratterizzato dal 'proprio piacere fallico legato a fantasie di redenzione' di cui parla Cremerius (1991, p.28), in cui il terapeuta  'troppo buono' - può infatti incorrere, impedendo di fatto un'autonomia riparativa. All'opposto è possibile anche una cristallizzazione in una relazione sadomasochistica in cui il paziente accetta tutto, non 'malgrado il dispiacere, ma a causa di esso' come lo stesso Autore ci insegna: il paziente trova vantaggio nell'esternalizzare i conflitti che lo tormentano, ma inducendo il terapeuta a reiterare un comportamento di critica e condanna superegoica, che se, da un lato, allevia la conflittualità interna, non riesce a giungere ad una vera elaborazione.

Ma possiamo avere un'altra area di possibile rischio nell'estremizzazione di alcuni modelli della psicoanalisi recente, sui quali peraltro anche questo scritto poggia. Appare ad esempio di estrema utilità concettuale e terapeutica la diffusione del concetto di 'campo', dove l'attenzione è rivolta in particolare alla relazione terapeuta-paziente e alle microcomunicazioni che definiscono tempestivamente le condizioni di stato del campo interpersonale esistente. Ne è però condizione necessaria la permanenza della distinzione fra campo e oggetto da un lato e campo e soggetto dall'altro. L'avvicinamento ha invece luogo fra soggetto e oggetto,in una indecidibilità del centro assoluto, che diventa relativo al vertice di osservazione. Occorre precisare come si tratti di cosa ben diversa da una omogeneizzazione simmetrica, equipollente: nella coppia analitica ciò corrisponderebbe alla sostituibilità indifferente del ruolo di paziente e terapeuta, come in uno scambio materiale di posto.

La relatività dei vertici si limita a dirci che un sasso a mezz'aria ha tutto il diritto di pensare di esercitare un campo gravitazionale sulla Terra, non confondibile con quello di quest'ultima. Ovviamente sarebbe un sasso delirante se pensasse di far precipitare la Terra su di sé, ma questo solo se potesse godere di un terzo punto di osservazione: cioè fare l'esame di realtà, nel “mondo comune a tutti”, (Jaspers,1959, p.14) della cui esistenza non dobbiamo dimenticarci, anche se può essere vero solo per approssimazione.

Se facciamo coincidere il campo con l'oggetto di osservazione, rischiamo di reificarlo dotandolo di una pseudomaterialità che non possiede (come l'antico etere) e ci troviamo ad escludere gli eventi: come se per studiare la gravitazione indagassimo il vuoto che resta dopo aver eliminato tutte le masse. Fuor di metafora, ci interessiamo più del campo come oggetto di studio che del paziente che ne fa parte.

Se invece la coincidenza è fra campo e soggetto osservante, il rischio appare quello di occuparci solo dei nostri processi di pensiero, come luogo mentale in cui il paziente si anima, ma trascurando, ancora una volta, il paziente nella sua quota di irriducibilità alla nostra rappresentazione di lui.

Quello che una posizione sufficientemente relativistica ci insegna è proprio la necessità di o-scillazione fra i due poli, come nei modelli bipersonali: Baranger,1990; Nissim, Robutti, 1992; Ferro,1992; Modell,1992 e 1994; Turillazzi Manfredi,1994 e, aggiungerei con un pizzico di provocazione, le già citate jaspersiane impassibilità e commozione che “soltanto insieme, mediante un'azione reciproca, possono portare alla conoscenza”.

 

    Foto: Sigmund Freud

 

Parte II:  Freud e la Psicoanalisi

 

 

   “Nel contesto di un ragionamento di altro tipo, relativo all'origine delle psicosi e alla loro profilassi, sono giunto a una semplice formula, che si riferisce a quella che è probabilmente la differenza genetica più importante tra le nevrosi e le psicosi: la nevrosi sarebbe l'effetto di un conflitto tra l'Io e il suo Es, mentre la psicosi rappresenterebbe l'analogo esito di un perturbamento simile nei rapporti tra Io e mondo esterno”. (S. Freud, 'Nevrosi e psicosi',1923)

 

Freud, però, dice subito dopo che se qualcuno si mostrasse diffidente verso una soluzione così semplice dei problemi, non si potrebbe certo dargli torto; eppure questa distinzione non verrà modificata nel suo contenuto essenziale, anche se vi saranno precisazioni e approfondimenti, specialmente per definire meglio le distorsioni nel rapporto con la realtà presenti comunque nelle nevrosi e, corrispondentemente, la permanenza di aspetti non eccessivamente distaccati dalla realtà nella psicosi. (Cfr.1924, 1938)

Il presente saggio non pretende certo di costituire una trattazione sistematica della problematica delle psicosi a partire da un'ottica psicoanalitica, problematica che ha impegnato moltissimi studiosi e analisti e ha portato ad una vastissima bibliografia, diramata in vari percorsi.

Per quanto attiene agli obiettivi di questo lavoro, vorrei limitare il discorso alle peculiarità che il primo pensiero psicoanalitico ha apportato allo studio delle psicosi, nonostante la preoccupazione freudiana - non sempre sufficientemente ricordata - di non anteporre le nostre esigenze conoscitive all'interesse del malato, ne abbia apparentemente limitato le applicazioni: “Essendo il nostro intervento subordinato alle prospettive di successo terapeutico, ci è impossibile assumere in cura ammalati del genere e tanto meno sottoporli a un trattamento prolungato” (1910; 6/339). Freud era probabilmente preoccupato per le obiezioni che avrebbero potuto essere con-dotte al suo metodo terapeutico e ha sempre visto l'accidentato terreno delle psicosi come un luogo troppo ri-schioso in cui addentrarsi senza correre il rischio di fornire esca a critiche e contestazioni. Tuttavia non è possibile non vedere l'interesse dello studioso e del curioso per questo campo, a partire dal famoso studio sulle memorie del Presidente Schreber, che contiene numerosi abbozzi di intuizioni teoriche destinate ad essere sviluppate dallo stesso Freud o da suoi allievi.

Alla fine della sua vita, infatti, parlerà esplicitamente di 'scissione', ponendola addirittura forse alla base di tutta la psicopatologia (“Il punto di vista che postula in tutte le psicosi una scissione dell'Io non meriterebbe tanta attenzione se non si rivelasse pertinente anche per altri stati che assomigliano piuttosto alle nevrosi, e in definitiva per le nevrosi stesse” 1938;11/629), ma già nel 1910 sottolinea come Schreber...”non appare né confuso, né psichicamente inibito, né sensibilmente leso nella sua intelligenza...un osservatore che non conosca il suo stato complessivo scorgerà ben difficilmente qualcosa di anomalo”. Freud, dunque, individua qui un'area patologica che, seppure non espressa ancora in termini di scissione, viene descritta come tale: “Eppure il paziente è domi-nato da idee di origine morbosa che si sono unite a formare un sistema conchiuso, più o meno fisso e apparentemente inaccessibile a una correzione da parte di una concezione oggettiva e di una valutazione della situazione reale” (6/345).

Questa descrizione mi sembra importante soprattutto se confrontata con 'l'incomprensibilità' del mondo psicotico che Jaspers doveva ancora affermare (1913 ed.or.-1959) e soprattutto con l'idea di una trasformazione totale della personalità del delirante (La Wahnstimmung) che preclude qualunque affinità fra il patologico e il normale, contrassegnando il funzionamento psichico del folle come irrimediabilmente compromesso in tutti i suoi aspetti.

Non ho né l'intenzione, né la possibilità, di esaminare in dettaglio tutto lo studio freudiano su Schreber nei suoi rapporti fra omosessualità e paranoia: rimando al testo per gli approfondimenti. Ricorderei soltanto la frase di Freud : “ La paranoia scompone laddove l'isteria condensa” come elemento impor-tante a sostegno dell'intuizione freudiana dei meccanismi basali della psicosi. Questa scomposizione viene schematizzata nel pervertimento di uno dei componenti della frase “Io/ amo/ lui”:

A) Lei/ama/lui = delirio di gelosia;

B) Io/odio/lui = base della persecuzione, specialmente se completata dal capovolgimento Lui/ odia/me;

C) Io/amo/lei (compulsivo) = erotomania; oltre alla possibilità ulteriore di

D) Io/amo/nessuno (solo me stesso) = megalomania.

Possiamo concordare o no sulla schematicità di queste interpretazioni, ma resta fondamentale il senso di comprensione che ispirano nei confronti di ciò che altrimenti resta assurdo, inspiegabile, 'incomprensibile'.

La genialità freudiana, tuttavia, non si limita a questo ma si spinge a mettere in crisi il significato di caos patologico del delirio - considerato fino allora (ma non solo!) testimonianza della disgregazione mentale - per tentare di individuarne il significato intrinsecamente positivo, nonostante l'assetto deviante rispetto alla 'norma'. “Il paranoico ricostruisce il mondo, non più splendido in verità, ma almeno tale da poter di nuovo vivere in esso. Lo ricostruisce col lavoro del suo delirio. La formazione delirante che noi consideriamo il prodotto della malattia costituisce in verità il tentativo di guarigione, la ricostruzione”. (6/396)

Vorrei ora riportare alcuni passi dello scritto del 1924 (La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi) che mostrano con chiarezza il perfezionamento delle opinioni freudiane in proposito. Nella “situazione di partenza della nevrosi, l'Io, ponendosi al servizio della realtà, intraprende la rimozione di un moto pulsionale. Ma questa non è ancora la nevrosi,la quale consiste piuttosto nei processi che recano un risarcimento all'elemento colpito dell'Es,nei modi in cui il soggetto reagisce alla rimozione e infine nel fallimento di questa”.(10/39) “Non diciamo niente di nuovo se caratterizziamo la nevrosi come l'effetto di una rimozione mal riuscita”. “Ci si potrebbe aspettare che nella produzione della psicosi si verifichi qualche cosa di analogo al processo della nevrosi, natu-ralmente tra istanze differenti; ci si potrebbe cioè aspettare che anche nella psicosi si evidenzino due stadi,il primo dei quali svincoli l'Io (dalla realtà questa volta), mentre il secondo stadio, nel tentativo di risarcire l'Io del danno subíto, ristabilisca il rapporto con la realtà a spese dell'Es. Effettivamente qualcosa di simile può essere riscontrato nella psicosi (...) Anche il secondo stadio della psicosi vuole controbilanciare la perdita di realtà, ma ciò non avviene al prezzo di una limitazione dell'Es ... ma per un'altra via più indipendente, mediante cioè la creazione di una realtà nuova e diversa,che non presenti gli stessi impedimenti della realtà che è stata abbandonata”. “Nella nevrosi una parte della realtà viene evitata con la fuga, nella psicosi essa viene ricostruita ex-novo”.

Non è possibile qui soffermarsi sul problema posto dalle perversioni, strettamente correlate a questi meccanismi. Come dice De Martis esse si attuano “a costo di una divisione permanente e della negazione parziale della realtà... Nello stesso tempo viene evitata una più estesa negazione della realtà di stile psicotico” (1984,p.34).

Riportiamo invece la considerazione freudiana a proposito della normalità: “Chiamiamo normale o 'sano' un comportamento che unisca determinati tratti di entrambe le reazioni, che al pari della nevrosi non rinneghi la realtà, e che però poi, come la psicosi, cerchi di modificarla. Questo comportamento normale e adeguato porta naturalmente a un lavoro di manipolazione esterna sulla realtà e non si accontenta, come la psicosi, di modificazioni interne; non è più un comportamento autoplastico, ma alloplastico”(10/41).

La conclusione del lavoro tende ad esprimere in modo sempre meno netto la differenza nevrosi / psicosi, ma solo in apparenza - a mio avviso - in quanto compare una nuova formulazione in cui è abbozzata la distinzione fra diversi livelli di capacità simbolica del pensiero nevrotico e psicotico: “La nevrosi si accontenta di schivare una certa parte della realtà e di proteggersi dal pericolo di venire con essa in collisione. La netta distinzione fra nevrosi e psicosi si attenua tuttavia per il fatto che anche nella nevrosi non mancano i tentativi di sostituire la realtà indesiderata con una realtà più consona ai propri desideri. La possibilità di far questo è offerta dall'esistenza del mondo della fantasia ... da questo mondo la nevrosi trae il materiale per le sue neoformazioni di desiderio, trovandolo abitualmente sulla via della regressione verso un passato reale più ricco di soddisfazioni”(10/43). Anche nella psicosi il mondo della fantasia svolge un ruolo analogo, “tuttavia il nuovo fantastico mondo esterno della psicosi vuole prendere il posto della realtà esterna,mentre quello della nevrosi,al pari del giuoco infantile, si ap-poggia di buon grado a una parte della realtà ...  conferendo ad essa un significato particolare e un senso se-greto che, non sempre a proposito, chiamiamo simbolico.” (ib.). In quest'ultima frase mi sembra di vedere una 'perplessità' di Freud,che sicuramente in parte pensava anche alla dimensione somatoforme isterica, circa il valore simbolico del sintomo: esso deve necessariamente alludere in modo più o meno oscuro ad un si-gnificato, ma può ancora dirsi simbolo se è totalmente segreto?

Il problema dell'isteria meriterebbe una trattazione separata, per la sua complessità e per l'abbondanza degli studi ad essa dedicati, che qui non è possibile anche solo abbozzare. Segnaliamo solo, oltre agli scritti di De Martis (1984) e Petrella (1993), Kohon (1984) e Brenman (1985) per l'interessante disamina dell'attacco alla realtà e alla verità psichica operato dai pazienti isterici. Proporrei di sintetizzare, con tutti i limiti di una simile operazione, la modalità isterica di falsificazione della realtà (nel desiderio di risolvere il confronto con la disparità generazionale proposta dal superamento -cfr. (Francesconi, 1993- dell'Edipo) con il tentativo di unificare verso il 'basso' le differenze: tutti sono bambini, nulla è serio, adulto, ogni cosa è una recita, tutto è sessualizzato - tranne il sesso - (dominio dell'imitazione); la modalità perversa ne è il corrispondente opposto, verso l' “alto”: tutto è già adulto, nulla è infantile, le modalità o gli oggetti parziali e arcaici sono altamente evoluti, crescere è superfluo (dominio della omogeneizzazione confusiva, cfr. Chasseguet-Smirgel).

 

Nella psicosi, invece, il senso simbolico dell'atto mentale sembra da Freud escluso, non si tratta di intrattenere un legame metaforico (attribuzione di un senso trascendentale rispetto alla concretezza dell'oggetto) fra due metà spezzate di una moneta a scopo di futura riconoscibilità reciproca ma di allucinare una completezza inesistente: una moneta falsa al posto della vera. Sarà a partire da qui che, a mio avviso, si creerà lo spazio per quel filone teorico che si impernia sulla divisione pensabile/non pensabile oppure parte psicotica/parte non psicotica della personalità, come momento essenziale dello psichismo (cfr. Steiner,1991).  Forse il modello winnicottiano di un'area transizionale (non confusa ma condivisa fra il concreto e il simbolico) può essere visto come lo sbocco concettuale di questa incertezza freudiana e la base di una generalizzazione possibile alla profonda duplicità intrinseca ad ogni metafora. Come Modell giunge ad osservare,in 'The private Self', la metafora, nella sua doppiezza, analoga al principio di complementarità di Bohr in fisica, si fa 'unità base del funzionamento mentale', non tanto o non solo - ritengo - fra mente e cervello, con il rischio di un neoriduzionismo un po' schematico, quanto fra materialità dell'oggetto (la moneta,ad es.) e la trascendenza del senso -segreto ma non per tutti! - attribuito allo stesso oggetto (la riconoscibilità dei possessori) .

Si veda, a proposito della complessità dei rapporti fra mentale e corporeo, l'articolo di De Martis (1984) 'Aspetti psicodinamici della corporeità', che si conclude proprio sottolineando, in antitesi con una semplice visione del corporeo come versante biologico, la funzione essenziale che, specie nella psicosi, il 'mettersi in rapporto arcaicamente corporeo' può svolgere se la comunicazione verbale è fortemente coartata (p.12). Abitualmente, mi sembra, è proprio la scarsa trasparenza simbolica, almeno soggettiva, del corporeo a consentire allo psicotico di farne veicolo comunicativo. Freud ci insegna che spesso sono proprio i punti incerti, 'insaturi', a rivelarsi i più percorribili dai pazienti e i più fecondi per il terapeuta. Si veda ad esempio, sempre nel caso Schreber, come l'impreciso assuma un significato positivo e stimolante l'indagine: “Quale propriamente fosse il misfatto di Flechsig e quali ne fossero i motivi, ce lo espone il malato con quella caratteristica imprecisione e inafferrabilità nella quale - se è lecito giudicare la paranoia sul modello, a noi ben più noto, del sogno - è dato riconoscere il segno di un lavoro particolarmente intenso di formazione del delirio.”

Naturalmente ciò non esime Freud,nel riflettere sui problemi posti dalle memorie di Schreber, dal cercare di delineare un confine fra la paranoia, che ritiene poggiata sulla proiezione, e le forme più gravi (dementia praecox per Kraepelin o schizofrenia per Bleuler) che non si servono di un meccanismo di proiezione, bensì allucinatorio.

L'esito (della dementia praecox) è in genere più infausto che quello della paranoia; la vittoria non spetta come in quest'ultima alla ricostruzione, bensì alla rimozione. (...) La regressione...perviene fino all'abbandono completo dell'amore oggettuale e al ritorno all'autoerotismo infantile”.

Freud resterà sufficientemente convinto dell'inapplicabilità della psicoanalisi, almeno della sua psicoanalisi, alle psicosi gravi, ma sembra che il limite sia dettato più da questioni pragmatiche che teoriche. Si veda ad esempio quanto dice nel 1932: “Una determinata relazione di dipendenza, una certa componente pulsionale è troppo forte se paragonata alle forze contrarie che noi siamo in grado di mobilitare. E' il caso costante delle psicosi. Noi le comprendiamo al punto che sapremmo benissimo dove inserire le leve, ma queste non sarebbero ugualmente in grado di smuovere il peso.” (11/259) Tuttavia, nel 1937, a due anni dalla morte,sembra ben lontano dal mettere in pratica il pessimismo terapeutico fino ad allora proclamato: “Nel meccanismo di una formazione delirante noi mettiamo in rilievo di norma solo due elementi: da un lato il distacco dal mondo reale e i suoi motivi, dall'altro l'influsso dell'appagamento di desiderio sul contenuto del delirio. Ma il processo dinamico non potrebbe consistere piuttosto nel fatto che il distoglimento dalla realtà viene sfruttato dalla spinta ascensionale del rimosso che vuole imporre il proprio contenuto alla coscienza, mentre le resistenze evocate da tale processo e la tendenza all'ap-pagamento di desiderio potrebbero dividersi la responsabilità della deformazione e dello spostamento di ciò che ritorna alla memoria? (...) Ciò che caratterizza (questa concezione) è l'affermazione che la follia non ha soltanto un metodo, ma contiene altresì un brano di verità storica; e ci vien fatto di supporre che la maniera coatta con cui si crede ai deliri derivi la sua intensità proprio da questa fonte infantile. (...) Probabilmente non sarebbe inutile provare a studiare, in base alle ipotesi qui sviluppate, alcuni casi clinici di questo genere e impostare poi con-seguentemente il loro trattamento. Si rinuncerebbe al vano tentativo di persuadere il paziente che il suo delirio è assurdo e contraddice la realtà; anzi, nel riconoscimento del nucleo di verità del delirio stesso si troverebbe il punto d'incontro sul quale il lavoro terapeutico potrebbe svilupparsi. Questo lavoro consisterebbe nel liberare il brano di verità storica dalle sue deformazioni e dai suoi agganci con la realtà del presente e nel riportarlo al punto del passato cui propriamente appartiene.” (11/551)

Queste parole certamente inducono a porsi il problema del significato dell'espressione 'verità storica', tema che non voglio affrontare qui e che è stato oggetto di numerose considerazioni, specie in contrapposizione con la 'verità narrativa' (si veda ad esempio il volume di Spence). L'analisi di questi punti, per quanto assai importante, non deve far dimenticare che l'accento essenziale viene posto da Freud sulla 'legittimità' del paziente,all'interno del suo delirio, di asserire una certezza, che, se resta clinicamente delirante, mostra tuttavia un fondamento nel “nucleo di verità” comunque presente in ciò che viene sperimentato nel proprio stato psichico. Sarà dunque il terapeuta a doversi accostare a questo nucleo non per disputare sul suo contenuto in termini di vero/ falso, ma per gettare un ponte fra un autentico assetto terapeutico e il tentativo del paziente di dare informazioni (Vere) sullo stato (Falso, rispetto ad un esame di realtà) della sua mente.

Per Freud la discrepanza fra verità e falsità (che può essere interessante seguire nelle evoluzioni di Winnicott -vero sé/falso sé-; Money Kyrle -comprensione/fraintendimento-; Bion -verità/bugia-) si struttura inscindibilmente da una dimensione cronologica. I concetti di fissazione (arresto passivo in un punto arcaico) e regressione (percorso attivo a ritroso che si riconnette al punto di fissazione) della libido testimoniano l'importanza del fattore tempo nella valutazione freudiana della patologia. Quest'ultima viene risolta in un'insufficienza evolutiva settoriale della mente e nelle deformazioni conseguenti nella struttura complessiva: se è pertanto escluso un semplice isomorfismo fra infantile e patologico, resta comunque fondamentale il valore di evento o stato 'normale' pos-seduto da una situazione psichica in un certo momento della vita e la sua trasformazione in agente patogeno nel caso di una mancata evoluzione. Ho indicato questo modello come discronico, laddove l'atto terapeutico si confi-gura come eucronico attraverso una risistemazione a posteriori del senso, corrispondente 'bipersonale' del processo individuale indicato da Freud con il concetto di Nachträglichkeit. Si rimanda al volume di Modell (1994) per un approfondimento dello studio di tale dimensione cronologica, solo di recente entrata nella cultura psicoanalitica americana (scriveva Modell nel 1990: 'Il concetto di Nachträglichkeit è praticamente sconosciuto tra gli psicoanalisti americani') grazie all'azione catalitica degli studi sulla ricategorizzazione dei ricordi compiuti dall'immunologo/neurobiologo G. Edelman.

Personalmente, sono dell'opinione che esista una sorta di matrice motivazionale comune tra esigenza, intrapsichica o interpersonale, di concordanza fra esperienze mentali di 'verità' soggettiva e la continua risistemazione dei ricordi nel tempo, come ricerca della approssimazione più 'veritiera' possibile al complesso di emozioni e informazioni disponibili in un certo momento nel campo psichico.

Come illustra Mancia (1987), il 'Progetto per una Psicologia scientifica', che Freud scrisse nel 1895, può essere visto come un modello metaforico del funzionamento mentale piuttosto che un tentativo di radicare la psicoanalisi nascente nell'ambito di una neurologia 'scientifica' (ma la natura metaforica del Progetto non potrebbe darsi proprio nel fatto di non poter essere ascritto ad un'unica funzione?). In questo modello la struttura portante è pensata in analogia all'arco riflesso neuronale, dove però fra lo Stimolo (proveniente dal mondo reale) e la Risposta Motoria (agente sul mondo reale), si interpone il sistema Memoria/Inconscio, parzialmente sotto il controllo del Senso di Realtà. Freud ipotizza una spiegazione del sogno e dell'allucinare mediante un transito in senso retrogrado dello stimolo, una volta inibita la scarica attraverso la motricità. Ma se il modello freudiano fosse davvero rigorosamente omeostatico, che necessità vi sarebbe di attivare a ritroso parte dell'apparato psichico una volta data una situazione statica? Quello che nel modello freudiano resta indicato con il termine un po' riduttivo di 'necessità di scarica' potrebbe essere considerato il precursore di ciò che si definirebbe oggi, in accordo con il concetto di 'Correlazione' di Bion (vedi oltre) una profonda esigenza di comparazione fra l'assetto esperienziale della mente del soggetto e il dato di realtà che, se non disponibile o non accettato (sogno o funzionamento psi-cotico) viene sostituito da un prodotto autogenerato dalla mente in modo allucinatorio. Non sarebbe, quindi, importante tanto “ottenere” un oggetto, in un modo o nell'altro, o 'scaricare' tensione psichica, quanto poter disporre di un'esperienza mentale di Unisono (Bion, vedi oltre).Tale correlazione sembra essere un legame metaforico fra un'ipotesi di pensiero, da un lato, che può essere assimilata alla 'Preconcezione' bioniana, ma, forse, più in generale è qualcosa che ha a che fare con la situazione complessiva della mente in senso cognitivo e affettivo, e, dall'altro, un termine di confronto che non può essere mancante e corrisponde a quanto possiamo co-noscere della realtà, se è accessibile (per Bion, la 'Realizzazione') o alla consapevolezza dell'assenza di un elemento reale (la 'Realizzazione negativa'), o all'allucinazione (se non si dispone della realtà o la si rifiuta).

Resta comunque 'impensabile', al di là delle possibili ipotesi, escludere la profonda compenetrazione degli aspetti normali e meno normali (qualunque cosa con questo si intenda) nella mente di ognuno di noi, come Freud insegna: “Ogni persona normale è appunto solo mediamente normale, il suo Io si avvicina a quello dello psicotico per un tratto o per l'altro, in proporzione maggiore o minore, e la misura della lontananza da uno e della vicinanza all'altro degli estremi della serie sarà assunto provvisoriamente a criterio di ciò che abbiamo così approssimativamente definito 'alterazione dell'Io'.” (1937, 11/518).

Questo concetto rappresenterà il nucleo della successiva teorizzazione kleiniana e soprattutto bioniana della psicosi: restando assolutamente fedele al modello freudiano della restituzione/riparazione psicotica che torna al mondo esterno,dopo il disinvestimento dalla realtà, attraverso una sostituzione con una neoformazione, Bion aggiunge che gli oggetti che ricevono un eccesso di identificazioni proiettive contengono parti del Sé proiettate (oggetti bizzarri) e come tali vengono percepiti quando il soggetto tenta di ri-assumerli. E' nota, ma sempre molto esemplificativa, la descrizione bioniana della percezione di un giradischi che mi ascolta, se ho proiettato parte della mia funzione uditiva, che mi osserva, se la proiezione riguarda la vista, ecc.

Non disponendo di una fisiologica oscillazione fra proiezione e introiezione, tipica della parte non psicotica della mente, il soggetto, o meglio la sua parte psicotica, vive in una dimensione totalmente concreta e, mancando della funzione metaforica, non può neppure disporre di una riparazione simbolica dell'oggetto vissuto come danneggiato dalla propria aggressività. Anziché sperimentare tutto ciò come una dimensione fantastica, in cui siano possibili comunque anche delle riparazioni parziali, prevale il vissuto di un danneggiamento concreto e irreparabile e di una necessità assoluta di riprodurre in toto l'oggetto originario, cosa che non può attuarsi se non attraverso modalità onnipotenti e sostanzialmente deliranti. (Steiner-1991).

Voglio concludere osservando che utilizzare una distinzione pensabile/non pensabile, psicotico/non psicotico, non deve ricondurci all'interno di un dualismo rigido, che finirebbe per riprodurre un'area diversa e incomprensibile di jaspersiana memoria, questa volta nel singolo individuo, ma caratterizzata dalla stessa inquietante presenza di una natura pericolosamente 'folle' da contrastare con incapsulamenti difensivi . Tale fenomeno, a mio avviso, tende anche a potersi verificare nel caso si focalizzi eccessivamente l'attenzione sui nuclei mentali non elaborabili, trasmessi fra generazioni, come studiato da un filone di pensiero, in particolare francese, diffusosi in tempi recenti (Abraham e Torok, Kaës, Faimberg, Enriquez). Se da un lato tale visione appare estremamente feconda per la sua capacità di allargare l'orizzonte all'interazione di più epoche e più individui, spesso evidente nella clinica soprattutto dei casi gravi ('embricatura a telescopio delle generazioni', 'cripta', trasmissione per identificazione narcisistica, ecc.), vi è però il rischio di reintrodurre un'area di non-pensiero esogena e poco trattabile eludendo la quota parte del soggetto. Sembra quindi importante evitare il ritorno di un modello di terapia basato sulla escissione di un nucleo estraneo, imposto e ben circoscritto, sorta di cisti di tessuto arcaico, la cui eliminazione risolve completamente quella 'indigestione nell'animo' (Pessoa) che abbiamo posto a titolo del nostro lavoro.

Penso invece che, se, come afferma A. Ferro, nel campo psichico sono presenti zolle psicotiche, un buon atto terapeutico possa risiedere già nell'aratura... cioè una trasformazione conservativa, di stato e non di natura del terreno, che potrà farsi allora, potenzialmente, produttivo.

 

    Foto: W.R. Bion

 

Parte III: Bion e la scuola post-kleiniana.

 

In questa terza parte mi propongo di fornire due modelli riguardanti la mente, sia nei suoi livelli strutturali (differenziazione Sé/Non Sé, dimensionalità) che negli aspetti funzionali (pensare, comunicare).

Il primo modello sarà il più fedelmente possibile descritto in base al lavoro di Bion del 1961-62 dal titolo: 'Una teoria del pensare', incluso nel volume 'Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico' (1970b).Nel secondo vorrei invece prospettare alcuni tentativi di integrazione di acquisizioni o di ipotesi più recenti nel settore.

 

A) Una 'teoria del pensare'

Secondo Bion il pensare risulterebbe dall'esito favorevole di due processi psichici distinti: la formazione dei pensieri e l'evoluzione di un apparato utile alla loro elaborazione (Pensieri+Funzione pensiero).

Bion sottolinea come nel suo modello teorico il pensare sia un evento successivo alle 'richieste imposte dalla esistenza di pensieri' e come la patologia possa interessare sia l'evoluzione dei pensieri in quanto tali,sia l'apparato per pensare i pensieri, sia entrambi gli aspetti.

Lo schema genetico si articola per Bion come segue:

 

        -------->Realizzazione -->Nozione (Conception) -->

       |                                                                          \

Idea -                                                                           =>Concetto(Concept)

       |                                                                          /

        --------> Frustrazione  -->  Pensiero  (Thought) --> 

 

Idea: o meglio, preconcezione, termine che verrà usato in quanto più fedele all'originale inglese: corrisponde al concetto kantiano di pensiero vuoto; ha un significato di precursore da saturare, di predisposizione.

Nozione: o meglio, concezione, è il risultato dell'incontro di una preconcezione con un dato di realtà (realization). Le concezioni sono quindi obbligatoriamente connesse con una esperienza di soddisfacimento.

Pensiero: incontro di una preconcezione con una frustrazione. La preconcezione si confronta qui con l'assenza,ad esempio del seno per il neonato,che sperimenta il 'non seno' come qualcosa di interno. A questo stadio non siamo ancora di fronte al pensare, ma a quella che viene chiamata un 'realizzazione negativa', che corrisponde alla denominazione bioniana di non-cosa (diversa dalla assenza pensata, in quanto conserva la concretezza di una presenza, la 'presenza dell'assenza', il 'cattivo non-seno interno', l'oggetto 'malignamente vivo' (Grinberg), a seconda dei vari Autori, ma sempre con un carattere persecutorio e concreto). Solo se vi sono le condizioni per lo sviluppo di una sufficiente capacità di tollerare la frustrazione “il non-seno diventa pensiero: questo pensiero mette a sua volta in azione un processo  - la facoltà di pensare”. Si ricorda anche che con il termine concetto Bion intende uno stadio di maggiore generalizzazione  delle concezioni o dei pensieri, che possono così applicarsi non solo al caso particolare, ma ad una categoria ed essere contrassegnati da un nome.

Nel caso il soggetto non tolleri la frustrazione, per ragioni endogene e/o ambientali, risulta impossibile attuare una 'modificazione' della frustrazione (seguendo Meltzer, sarebbe preferibile usare il termine 'modulazione') e non resta che utilizzare un sistema di evacuazione della non-cosa, vissuta come un oggetto concreto di cui bisogna sbarazzarsi al più presto attraverso una espulsione 'fisica' dal sé. In questo modo “si arresta anche lo sviluppo dell'apparato per pensare i pensieri e, al suo posto, si accresce in modo eccessivo quello dell'apparato per l'identificazione proiettiva”. (I.P. = modalità non cosciente di comunicazione di contenuti psichici con intensa tonalità emotiva, che non avviene attraverso il linguaggio, ma solo mediante modalità paraverbali e forse altre, sconosciute, e che riesce a far provare all'altro l'emozione sperimentata e/o ad influire di conseguenza sull'altrui comportamento).

La prevalenza dell' I.P. confonde la distinzione tra sé e oggetti esterni fino ad arrivare alla mancata strutturazione della percezione stessa della duplicità (ambito fusionale).Come nell'esempio di Bion, anche il concetto di tempo può soggiacere ad un simile processo di reificazione/evacuazione ed è di frequente osservazione nella psicosi la peculiare dimensione atemporale dei vissuti, in una sorta di 'presente psicotico'.

Una condizione intermedia fra tolleranza della frustrazione e fuga dalla stessa mediante evacuazione dell'intero apparato per pensare i pensieri, può essere considerata,per Bion,quella che comporta lo sviluppo di onnipotenza, un prodotto mentale utilizzato come sostituzione delle esperienze intollerabili connesse alla realizzazione negativa (assenza). L'onnipotenza può esprimersi come onniscienza, che sostituisce la capacità di apprendere dall'esperienza attraverso il pensare: il risultato - dice Bion - sarà un difetto di attività psichica preposta alla discriminazione fra vero e falso. Questa funzione discriminante (che ovviamente non ha pretesa di assoluto e va situata nel pensiero filosofico di Bion, impregnato di riferimenti a Kant e a Platone) viene sostituita dalla produzione di “osservazioni dittatoriali” circa il giusto e lo sbagliato che non tengono conto della realtà e sono una emanazione della parte psicotica della personalità. Dice Bion che “esiste una potenziale conflittualità tra l'asserzione della verità e l'asserzione dell'imperativo morale. L'estremismo dell'uno ammala l'altra”, cioè quanto più questa forma di rigido giudizio moraleggiante e difensivo si impone, tanto più si riduce lo spazio per il riconoscimento di quella 'verità' che l'esame di realtà,pur con i suoi limiti,riesce a mostrarci.

Nel rapporto normale, in particolare quello madre-bambino, l'I.P. ha un suo ruolo, non patologico, bensì utile a permettere la comunicazione di stati emotivi che altrimenti non potrebbero essere condivisi:è alla base della Rêverie (funzione sognante, presente anche in veglia), mediante la quale una mente ricevente, in uno stato più 'adulto',può accettare un'emozione grezza, elaborarla, renderla più tollerabile e restituirla all'emittente detossicata dagli aspetti più angosciosi. La patologia si struttura a partire dall'insufficiente possibilità di attuazione della Rêverie, vede la prevalenza dell'I.P. sul pensare e sul comunicare e il rinforzo di una anormale fiducia nell'onnipotenza. Bion cita il caso di “quei pazienti con gravi difetti nell'evoluzione della facoltà del pensare che non possono trarre vantaggi dal mondo esterno e quindi neanche dall'analista” perché non riescono a comportarsi sulla base della comprensione. In loro è edificato un oggetto interno paragonato ad un seno strutturato come un'avida vagina che spoglia di ogni bontà quello che il soggetto prende o dona,lasciando solo oggetti psichici distrutti e impedendo in modo parassitario al soggetto di accedere alla capacità di comprendere.

Questo esempio risente della prima impostazione bioniana, Bion stesso ed altri, pur mantenendo la matrice kleiniana, aggiungeranno altre letture possibili.

Peraltro, già negli scritti della stessa Klein erano presenti elementi fertili in tal senso,come l'ipotesi di tentare di proteggere l'oggetto buono evitando di farlo albergare dentro un Sé sentito come troppo danneggiato e collocandolo in un depositario esterno che lo preservi. Citiamo questi concetti anche perché ci sembrano di fondamentale importanza per salvaguardare il valore potenzialmente relazionale di ogni atto psichico, anche se patologico, o, senza per questo sancirne la legittimazione, violento (cfr. Francesconi,1993).

La mancata evoluzione della comprensione comporta il venir meno dello sviluppo della funzione alfa. Bion intende con questo termine quella funzione mentale con la quale gli elementi sensoriali grezzi (beta) vengono convertiti in elementi alfa, materiale che può essere utilizzato dalla psiche per fabbricare i pensieri di sogno, considerati da Bion il primo gradino di una funzione pensante evolvente verso il complesso e il cosciente. La stessa differenziazione fra conscio e inconscio è permessa dalla funzione alfa e, se il bambino non dispone di una relazione con la madre basata su una I.P. normale,non struttura tale capacità. Tutte le impressioni sensoriali del neonato sono vissute dalla coscienza rudimentale come simil-coscienti perché manca l'inconscio. (E' evidente qui la profonda differenza rispetto ad un modello 'classico' che vede l'Io gemmare dall'inconscio preesistente). Solo se la madre svolge sufficientemente la funzione di Rêverie sopra descritta, consentendo, con il suo ripetersi, anche l'assimilazione di un sistema per modulare in proprio le emozioni o le percezioni,si avrà uno sviluppo normale. In caso contrario il neonato reintroietterà una sensazione spogliata del suo valore di significazione, sperimenterà paura immodificata o accresciuta, che, associata all'incapacità di denominazione (che abbiamo visto dipendere dalla capacità di concettualizzazione), comporta il terrore senza nome, e sospinge nelle direzioni patologiche illustrate in precedenza.

E' chiaro che Bion parla di una funzione denominativa in senso molto lato, prelinguistica, più simile ad una codificazione interna dai contorni necessariamente mal definibili. Il neonato è pensato come impegnato nel tentativo di utilizzare le facoltà della sua rudimentale coscienza sotto l'esigenza di trattare le esperienze psichiche mediante quella che appare la funzione peculiare della mente: la correlazione. Ma il tipo di relazione che legherà le esperienze mentali fra loro è condizionato dall'introiezione di un modello in cui è assente la funzione alfa, che accoglie e tratta gli stati mentali disturbanti o sconosciuti e orienta verso l'esperienza di 'verità' interna. Essa è sostituita da un 'oggetto respingente le I.P.'. Questo oggetto interno affronta ogni esperienza psichica con un alto grado di fraintendimento (cfr. Money Kyrle) e può essere la base di successive 'organizzazioni patologiche'[2] del funzionamento di aree più o meno estese della mente. Si sottolinea questa analogia:

 

                                funz.alfa

Impress.Sensoriali   ------------>                Comprensione

   (elementi beta)                    (elementi alfa-->sogno-->pensiero)

 

             (apparato per pensare i pensieri)

Pensieri  -------------------------------------------------->Esecuzione atto modificatorio

 

Bion schematizza il funzionamento  dell'apparato per pensare i pensieri nelle seguenti tappe:

 

1. ESPLICITAZIONE: in origine sistema per trattare i dati sensoriali in modo da essere disponibili per la coscienza. E' quello che abbiamo indicato come sistema di codificazione interna primitiva, che evolverà poi anche verso il linguaggio vero e proprio.

 

2. COMUNICAZIONE: è una necessità, basata in origine sulla I.P. realistica (normale), ha come obiettivo il trasmettere a qualcun altro (che può viverne l'arrivo con un sentimento persecutorio a sua volta necessitante di una specifica elaborazione) la propria esperienza mentale di correlazione , meglio definita dal concetto di:

 

   CONSENSO:

   - come esperienza intrasoggettiva: 

    

     a) Esperienza sensoriale correlata: quando due o più dati di conoscenza vengono ad armonizzare  (Verità cognitiva = unità dell'oggetto)

     b) Esperienza emotiva consensuale: quando due o più stati emozionali possono riconoscersi come rivolti ad un unico oggetto (verità emotiva = riconoscimento dell'ambivalenza)

 

   - a livello intersoggettivo (comunicazione vera e propria):

 

            la sensazione di verità che deriva da questa esperienze individuali porta a desiderare di darne espressione e di cercare condivisione (societarismo). In testi successivi Bion definirà Unisono tale esperienza consensuale, basata sul presupposto di aver riconosciuto e di mantenere la differenziazione Sé/Altro, a differenza della fusionalità che tende a negare tale distinzione.

 

Mi sembra che venga,con il legame correlativo,descritta la funzione più specifica della mente,alla quale preferisco riferirmi con il termine funzione metaforica della mente (Francesconi, 1993, 2002) in analogia con le definizioni di edipica, prima, e psicoanalitica, poi, date da Hautmann e Di Chiara alla funzione mentale.

Concordo dunque con quanto osserva R. Bodei nella sua introduzione a Blumemberg: “Le metafore sono paragonabili a forme di cicatrizzazione, sono il segno di una ferita, di una anomalia del pensiero concettuale,che viene avviata a guarigione,riconnessa al tessuto circostante”, ma solo se questa anomalia è intesa come l'inevitabile comparsa dell' assenza dell'oggetto concreto, pur in presenza di un legame  con l'oggetto stesso. E' infatti essenziale che la funzione metaforica non venga identificata con il puro simbolismo (si pensi all'uso di un simbolismo 'segreto' nella psicosi) ma con l'intergioco contemporaneo, anche se può essere alternante nei singoli istanti, di almeno due livelli di realtà sovrapposti: la moneta spezzata non cessa di essere una moneta, ma acquisisce una proprietà significativa, diversa da altre, come, ad esempio, il suo valore economico o il suo essere un pezzetto di metallo, in funzione della condivisibilità di questo 'significato' con almeno un altro individuo, che sia in grado di riconoscerlo.

Sembra possibile ipotizzare, come conclusione di questo settore, una analogia fra quanto precede e il succedersi di figure per l'appunto metaforiche nel pensiero bioniano:

 

Esplicitazione  / Conduttore del Gruppo di Lavoro:

in entrambi i casi l'obiettivo è rendere utilizzabile l'esperienza mentale della realtà,evitando il permanere in un'area di non pensabilità (anche se non totalmente priva di valore funzionale, come l'IP  e  l'Assunto di Base) e di incapacità trasformative linguistiche.

 

Consenso intrasoggettivo / Mistico:

predispone la possibilità di accogliere e difendere la verità, ma ancora con il carattere prevalente di esperienza interna

 

Consenso intersoggettivo / Artista:

passaggio alla 'comunicazione efficace della verità' basata sulla relazione interpersonale e sulla permanenza nel tempo anche transindividuale.

Utilizzando questi concetti può essere sintetizzato un modello interpretativo della parte psicotica della mente   (cit. da M. Francesconi, 1998):

 

“In un equilibrio dinamico che si attui nella tridimensionalità, le leggi essenziali che ne governano il funzionamento corrispondono a ciò che Bion studia (1965,1970) come funzioni di Trasforma­zione. La prima distinzione è fra le Trasformazioni intrinseche ad ogni atto conoscitivo e - all’estremo opposto - le Trasformazioni in allucinosi, tipiche del delirio, che ben dimostrano l'in­capacità, nel secondo caso, di attuare vere operazioni trasformative, in quanto le modalità di pen­siero del soggetto si esplicano su blocchi di significati fra loro conglutinati (Bleger) e quindi inu­tilizzabili secondo modalità consuete.

La trasformazione vera è in stretto rapporto con la funzione simbolica, come può avvenire nella rappresentazione pittorica di un paesaggio, dove alcuni elementi non solo possono, ma devono es­sere deformati, mentre altri restano in un rapporto di affinità. Dice Bion che un reale campo di papaveri si trasforma, nel dipinto, in una rappresentazione che può avere, per esempio, lo stesso colore, ma uno stagno circolare non potrebbe essere riprodotto sulla tela da una linea circolare: per essere verosimile dovrebbe essere una ellissi, oppure una strada dovrebbe mostrare una con­vergenza che non possiede realmente e così via. Anche la stessa psicoanalisi è vista come una suc­cessione di Trasformazioni di significati intercorrenti fra terapeuta e paziente nella relazione transferale-controtransferale, la cui elaborazione, come ci ricorda Petrella (1993) “si è trasformata gra­dualmente da strumento a scopo e terreno delle trasformazioni”.

Bion distingue, in analogia con la geometria, fra trasformazioni a moto rigido, dove le deforma­zioni subìte dalla configurazione sono alquanto contenute, trasformazioni proiettive, dove, in­vece, vi è un elevato grado di alterazione dell’originale, con forte impronta soggettiva, il che rende più difficile ad un altro soggetto risalire all’elemento iniziale ed, infine, trasformazioni in allucinosi, concetto meglio comprensibile paragonando gli ipotetici oggetti del pensiero al gioco del Lego, come fanno Meltzer e Ferro: se una certa struttura, ad esempio una casetta, costruita con le mattonelle di plastica, venisse smontata in quattro o cinque pezzi e con queste unità falsa­mente "elementari", anzichè con le singole mattonelle, si chiedesse ad un soggetto di fare un'altra costruzione, ne deriverebbe evidentemente un insieme ben poco modificabile oppure facilmente incongruo. Tale aspetto agglutinato delle relazioni di senso comporta inoltre l'assenza di consa­pe­volezza di altre possibilità tra­sformative, che non vengono neppure prese in considerazione esat­tamente come non penseremmo di spezzare singole mattonelle del Lego.

Posso illustrare questo discorso attraverso le espressioni di un identico vissuto iniziale: ad esem­pio, la comparsa nella mente del paziente di un quesito circa l’utilità e l’efficacia della cura anali­tica che sta effettuando.

1) Paziente A (normale/nevrotico): racconta in seduta la vicenda della sorella che si è sottoposta a visita ginecologica, ma non è soddisfatta del medico che forse «non le ha dato la cura giusta» e ri­tiene di necessitare di altri accertamenti diagnostici....

2) Paziente B (tratti di confine): parla di una madre oppressiva che la interpella continuamente con l’espressione «ma ne sei sicura?». Il racconto si ripete in vari contesti finché il terapeuta riesce a cogliere un altro livello di significazione: la madre oppressiva viene interpretata come raffigura­zione della stessa pressione che si esercita sulla paziente da parte del tormentoso quesito: «ma qui si-cura?»...

3) Paziente C (psicotico): sostiene di essere certo che la terapia sia dannosa così come le gocce di neurolettico prescritte dallo psichiatra erano avvelenate e bene ha fatto lui a gettarle via...

In A vediamo una trasformazione a moto rigido, dove le caratteristiche del quesito originario sono solo parzialmente modificate nel tempo e nello spazio, in B abbiamo una trasformazione proiettiva, più “cifrata”, ma ancora imperniata su un sistema comunicativo anche se più affine ai processi primari, in C, invece, la domanda viene risolta con la rottura della esplorazione rela­zionale finalizzata a cercare una risposta e sostituita da una certezza delirante che ha quasi com­pletamente perso il rapporto con un contenitore (trasformazione in allucinosi).

Nelle trasformazioni è necessario rendere assente temporaneamente la struttura iniziale, in vista di ricomporre i pezzi in un altro modo (pensiero), non vivendo ciò come distruzione irreparabile: una sorta di “trasloco” che presenta affinità con le ricategorizzazioni mnestiche delle quali parla Edel­man, dove è fondamentale l’esigenza, intrapsichica o interpersonale, di concordanza fra espe­rienze mentali di “verità” soggettiva e la continua risistemazione dei ricordi nel tempo, come ri­cerca della approssimazione più “veritiera” possibile al complesso di emozioni e informazioni di­sponibili in un certo momento nel campo psichico.”

 

La Trasformazione in allucinasi è quel tipo di cono­sce­nza, affine alla convinzione delirante, che si contraddi­stingue per un  senso di certezza e ovvietà assolutamente in­congruo rispetto alle abituali operazioni di pensiero e che, come dice Meltzer (in Studi di Metapsicologia Allargata), cara­tterizza quelle persone “con disposizi­one paranoide che tendono a combinare da un lato idee circa l'on­ni­scienza e dall'altro concetti di povertà di immaginazi­one”.

Le trasformazioni in allucinosi sono diverse dalle allucina­zi­oni perché implicano la percezione non tanto di oggetti che non esistono nella realtà, quanto piuttosto di relazioni in­esistenti. Esse derivano, secondo Bion, da processi in cui le esperienze emotive hanno cominciato ad essere trasformate in elementi alfa, ad essere sognate e pensate, ma poi il processo viene rovesciato ed i sogni e gli elementi alfa vengono cann­ibali­zzati tornando ad uno stato primitivo. La riassunzione percettiva avviene dunque non su elementi ato­mici ma mol­ec­olari; come nell’esempio, paragonati a pezzi del gioco del Lego prima assemblati poi scomposti con la permanenza però di raggruppamenti parzialmente riconosci­bili.

Accade allora che "quando gli elementi delle macerie vengono riutilizzati, essi siano percepiti come già in possesso dei brandelli di significato ad essi legati. Il paziente perciò non percepisce eventi e oggetti sui quali debba pensare per r­icavarne un significato, percepisce oggetti che contengono già significato. Per di più non si rende affatto conto di av­ere qualche difficoltà a pensarli perché percepisce le cose c­ome implicitamente provviste di significato".(Meltzer)

Si costituirebbero dunque gradazioni intermedie di metabo­lizz­azione degli elementi sensoriali ed emotivi grezzi: una o­tt­imale funzione alfa produrrebbe strutture pensabili (inti­er­ame­nte mentalizzate e dotate di una dimensione sp­a­zio-temp­or­ale), la sua completa distruzione provocherebbe la sostituzione della realtà con oggetti bizzarri ed invece un funzionamento parziale darebbe luogo a diversi microdifetti della pellicola di pensiero (secondo una denominazione di Hautmann), ciascuno frutto di un diverso dosaggio relativo delle componenti di verità e distorsione nella rappresenta­zione mentale. Il caso più probabile appare un certo margine di fluttuazione lungo questo continuum con possibilità quindi di esperienze mentali e di configurazioni patologiche dissimili in diversi momenti temporali anche nello stesso soggetto, oltre che ovviamente fra le diverse persone.

Quanto però l'uso di elementi mentali inadeguati sia insuf­ficiente a nutrire la mente e si rifletta quindi in forme imm­ature di comportamento, pensiamo possa essere indicato da un passo di Bion (1965), dove l'Autore analizza la r­ivalità sott­op­osta a trasformazione in allucinosi e defini­sce l'aspetto g­enerale del paziente come quello di "una persona ansiosa di dimostrare la propria indipendenza da tutto ciò che non sono le sue creazioni. Queste creazioni sono i risultati della sua supposta capacità di usare i suoi sensi come organi di evacuazione, che sono in grado di cir­condarlo con un un­iverso g­en­erato da lui stesso: la funzione dei sensi e della loro controparte mentale è quella di creare il mondo perfetto del p­azie­nte. La prova dell'imper­fezione è ipso facto la prova dell'intervento di forze ostili e invidiose. Grazie alla capacità del paziente di soddisfare tutti i suoi bisogni partendo dalle sue proprie creazioni, egli è del tutto indipendente da qualsiasi per­sona o cosa, eccetto che dai suoi prodotti, e pe­rciò al di là della rivalità, dell'invidia, dell'avidità, de­lla meschi­nità, dell'amore, dell'odio; ma la testimonianza dei suoi sen­si smentisce le sue predeterminazioni: egli non è soddi­sfatto".

 

 

 

 

B) Sulla differenziazione Sé / Non Sé e sull' agire nello stato autistico della mente.

                                    Che tenue condensamento, che condensata impalpabilità!  Io altro non sono che un rapporto tra le mie parti che si percepiscono mentre stanno in relazione l'una all'altra. Ma queste parti essendo a loro volta divisibili in altre relazioni (e così via) allora ogni sistema di rapporti, avendo coscienza di se stesso, sarebbe un nucleo pensante. Io penso me ,il mio sangue ,i miei nervi; ma ogni goccia del mio sangue penserebbe se stessa.  (U. Eco, L'isola del giorno prima)

 

Da alcuni anni si rileva una crescente tendenza a valorizzare la precocità dell'organizzazione di un Sé primitivo nel bambino, come dimostrato da numerosi studi (Trevarthen, Stern, per citare solo i più noti) che documentano le capacità di discriminazione degli stimoli percettivi nel neonato, nonché attitudini alla memorizzazione e alla correlazione transmodale delle percezioni. Ciò implica, già in queste fasi, una possibilità di distinzione Sé/Non Sé, tuttavia non è raro leggere in lavori, anche recenti, riferimenti scontati a stati indifferenziati, indistinti, non integrati, ecc., relativi ad età anche di 2 - 3 anni.

L'attualità di tale problematica appare evidente anche nelle scienze neurobiologiche, basti pensare ad Edelman (1991), che struttura un modello neurofisiologico della mente basato proprio sull'accoppiamento fra categorie di percetti esogeni (Non Sé) e attribuzioni endogene di valore (Sé). In questo modello, qui interessante proprio per la concordanza, possibile entro certi limiti, con alcune ipotesi bioniane descritte nel settore A), è però ancora presente la necessità di fondare il discorso su un riduzionismo semplificante il rapporto mente-corpo; Edelman infatti ipotizza circuiti neuronali e loci encefalici specifici per le due modalità di funzionamento anzidette, inoltre la presenza ontogeneticamente e filogeneticamente precedente del Sé rispetto al Non Sé appare inderogabile.

Cercherò di formulare qualche riflessione sui problemi della differenziazione del Sé e della correlazione agire - pensare, prendendo spunto da quella particolare condizione di funzionamento mentale visibile nella clinica sotto forma di organizzazione autistica.  Gli studi in questo campo sono innumerevoli e autorevoli: ricordiamo, senza poterle riassumere, le opere di Tustin, Alvarez, Corominas, Meltzer.

Di quest'ultimo citiamo il concetto di 'smontaggio' per indicare la peculiare modalità di sconnessione fra le esperienze sensoriali nel soggetto autistico. Un esempio utilizzato è quello del giocattolo composto da piccoli pezzi uniti da un filo interno e che può crollare scompostamente o riorganizzarsi rapidamente a seconda della tensione impressa al filo.  Ciò corrisponde alla problematica centrale dello stato autistico della mente: non è possibile operare, all'interno  della funzione pensiero,quella che Bion chiama la 'trasformazione' attraverso il normale 'mutamento catastrofico' preservando un fondamentale senso di identità fra la condizione precedente il mutamento e quella successiva. Questa possibilità non è automaticamente data, dipende dalla distinzione geografica dei confini del Sé, ma soprattutto presuppone un senso di continuità nel tempo (corrispondente alla 'classica' Identità dell'Io) di un 'qualcosa' che possa essere ancora riconosciuto come sé, nonostante il cambiamento di alcune caratteristiche. Deve cioé essere possibile tollerare l'evoluzione cronologica di varie immagini di Sé elaborando il lutto della configurazione precedente, che deve essere abbandonata per fare posto alla nuova, ma non aliena, rappresentazione.

Per Bion questa mobilità lungo tale continuum è possibile solo se nel soggetto si è strutturata la 'Fede in O',cioè la fiducia nel ritrovarsi dopo l'attimo di smarrimento del 'mutamento catastrofico'. Se questa difettualità della 'Fede in O' ci è sembrata (Francesconi, Scotto di Fasano,1991[3]) determinante in problematiche quali la tossicodipendenza o l'autodistruttività dell'anoressia e della sfida ordalica adolescenziale, in esse tuttavia appare strutturata una sufficiente coesione del Sé, anche se il rifiuto del mutamento catastrofico può spingere a formazioni difensive che agiscono ripetitivamente una morte reale,sfiorata o attuata, al posto di una dissoluzione psichica vissuta come definitiva e intollerabile.

Nell'autismo, invece, sembra ipotizzabile che venga davvero a mancare quella quantità minimale di legame fra le strutture elementari della mente, attuandosi una sorta di diffusione gassosa di molecole di mente nello spazio ambientale.

Ciascuna particella immaginaria andrebbe vista come un universo psichico puntiforme, a se stante, come gli 'oggetti bizzarri' di Bion nel campo della patologia e come mi è sembrato di ritrovare perfettamente descritto da Eco nel brano sopra riportato.

Un'idea complessiva del Sé non è quindi possibile in quanto ogni punto dello spazio psichico potrebbe rivendicare la qualità di 'centro' o di rudimentale organo di coscienza (Sé a nuclearità indifferente). Ciò che abitualmente consideriamo il nostro Sé risulterebbe quindi da un processo attivo di aggregazione degli elementi molecolari in una struttura macroscopica, che, in analogia con il modello fisico, vediamo come unitaria e definita per approssimazione anche se nella sua 'realtà atomica' possiede una base nucleare circondata da un alone di spazio potenzialmente infinito in cui è teoricamente possibile, anche se improbabile, ritrovare gli elettroni. Riprendendo in parte una distinzione fatta da Wisdom diversi anni fa e ripresa poi da Grinberg, fra Sé nucleare e Sé periferico, differenziamo un settore centrale del Sé, più stabile e ritenuto fondamentale per il senso di identità e un'area periferica, variabile, fluttuante, meno concreta, anche se può includere oggetti materiali vissuti 'transizionalmente' come Sé ( ad es.l'abito che indosso).

Generalmente la relazione mette in gioco le aree periferiche del Sé e dell'Oggetto (possiamo indicarla come trasformazione orbitale) mentre esperienze più radicali di riassestamento del nucleo (Trasformazioni nucleari) sono emotivamente molto impegnative e corrispondono, a nostro avviso, a quanto Bion intendeva con mutamento catastrofico. Esempi macroscopici possono essere l' insight in corso di trattamento analitico, i passaggi 'critici' di fasi della vita, i cambiamenti di status, i lutti, ecc.

Sottolineiamo però che la condizione puntiforme descritta per lo stato autistico della mente è ovviamente un modello limite; con tutta probabilità la compatibilità con la vita presuppone che almeno una parte della psiche abbia strutturato un certo livello di organizzazione, che mi sembra poter corrispondere alla posizione Autistico-Contigua descritta da Ogden. Essa appare proprio la coesistenza di aree a nuclearità indifferente con aree di aggregazione per contiguità bidimensionale, prima modalità di aggregazione di elementi dispersi.

Di questa concettualizzazione della superficie ma non della tridimensionalità può essere metafora il passaggio da uno stato 'gassoso' della mente ad uno 'liquido' (come vediamo anche nell'uso di termini quali la 'bolla' primitiva del Sé -Winnicott- oppure la 'pellicola di pensiero' -Hautmann).

Ma, forse, già Ariosto, descrivendo il senno di Orlando finito sulla Luna, aveva intuito la crucialità dell'equilibrio coesione/diffusione:

 

  Era come un liquor suttile e molle,

  atto a esalar, se non si tiene ben chiuso;

  e si vedea raccolto in varie ampolle,

  qual più,qual men capace,atte a quell'uso.

 

Il Sé appare abbozzato ma non integrato, privo di 'endoscheletro': necessita di applicarsi bidimensionalmente su altre superfici per esistere (Imitazione -Gaddini-, Falso Sé -Winnicott-,Identificazione adesiva -Bick e Meltzer-,Io pelle -Anzieu-, Scheletro fecale -Steiner).

Un' altra interessante descrizione di simili stati ci sembra rinvenibile nell'opera di Bleger, che dedica i suoi studi alla parte 'ambigua' e 'simbiotica' della personalità. In particolare il concetto di 'nucleo viscoso' (o 'gliscrocario', correggendo la traduzione impropria abitualmente riportata nei testi in italiano) ben rappresenta l'idea di una conglutinazione di frammenti Sé/Non Sé non integrati, ma diffusamente permeanti lo psichismo, fondamentale per comprendere la natura di molte organizzazioni patologiche sia individuali (cfr.lo studio sulla d­istribuzione 'piriforme' degli aspetti più o meno differenziati nell'isteria e nell'ipocondria) che transindividuali (distribuzioni di ruoli e funzioni psichiche all'interno di una famiglia o in altre gruppalità), senza consentire distinzioni manichee fra parti buone e cattive, proprie ed estranee, della nostra mente.

Se nel soggetto normale la mente evolve verso lo strutturarsi di una capacità di legame fra gli oggetti interni che man mano si costituiscono (il riferimento è qui agli studi di Mancia sulla 're-ligione' degli oggetti interni e a quelli di Meltzer e Harris-Williams sulla esperienza emozionale 'estetica'), nell'autismo l'incapacità di accesso alla tridimensionalità lascia la mente funzionalmente dispersa in modo puntiforme e quasi omogeneo nell'ambiente circostante con abbozzi instabili di nuclearità del Sé che fluttuano indifferentemente dentro e fuori la rappresentazione dei confini geografici dell'individuo: si pensi all'uso della mano dell'altro o a Timmy, descritto da Meltzer in 'Esplorazioni sull'autismo' che ora 'è' nella stanza, ora 'è' gli uccelli che volano all'esterno. Per tentare una riunificazione del Sé appare indispensabile attribuire una intensità predominante ad una singola sensazione, dolorosa (autolesività), ritmica (stereotipie) o altro (violenza), purché svolga una funzione di nucleo di cristallizzazione dei vissuti. Proprio come in tale processo fisico, può essere necessario partire da un elemento 'duro' (Tustin) più vicino alla corporeità e all'agire che al pensare: una sens-azione. Un esempio macroscopico può essere visto nel movimento turbinoso nell'ambiente, quasi per essere dappertutto in uno stesso istante, descritto da E. Rodrigué: “A volte girava letteralmente come una trottola, gridando. Sembrava circondato da nemici. Seguiva uno stato panico e Raul si lanciava con violenza attraverso la stanza in modo tale che si poteva quasi vedere il cerchio degli inseguitori chiudersi attorno a lui. Quando il panico era al culmine, egli dava un grido soffocato e cadeva sul pavimento”. E' una fuga da allucinazioni o un disperato tentativo di raccogliere, collassando, una minimale e dolorosa esperienza di un Sé disperso... fin sulla Luna?

Ricordiamo l'importanza dell'aspetto passivo del processo oscillatorio secondo il quale il soggetto si smonta (Meltzer) da una configurazione e si rimonta in un'altra. Mi sembra però che il termine smontaggio non esprima appieno, almeno in italiano, il senso di indipendenza da agenti esterni, che è invece fondamentale e forse più evidente in espressioni quali dispersione, sconnessione, che ho perciò preferito. Inoltre, nel modello che qui presento, questi fenomeni non interessano la mente come un tutto, ma singole unità parcellari che solo un apparato mentale adeguato può coordinare in un funzionamento sincronizzato che darà origine a quella fluttuazione fisiologica, non destruente, ma essenziale per il pensare: il PS <--> D di Bion (Schizoparanoide/Depressivo, ma nel senso di Disperso/Organizzato) che potremmo vedere, ancora una volta in immagini metaforiche, come oscillazione fra caos dionisiaco, bramoso di piaceri infantili, onnipotente, potenzialmente distruttivo,ma attratto dal nuovo e dal misterioso e saggezza apollinea, perfetta, preveggente, illuminante, ma dispotica e dotata di una fissità inquietante. 

Questo,però, non può avvenire che attraverso un percorso lungo e difficile e, frequentemente, aree della mente più o meno estese possono restare vincolate a dimensionalità antecedenti. Come in una mia paziente, che per anni ha rappresentato se stessa come 'turista' in sogni e metafore, mostrando un'immagine errante di sé, curiosa ma aderente in modo superficiale alle situazioni esterne, tendenzialmente non separata dal luogo di origine. Il passaggio ad un diverso assetto è stato contrassegnato dalla comparsa dell'autorappresentazione come 'sommozzatore', dove le più ovvie interpretazioni circa profondità e protezione risultavano non significative; è emersa invece la necessità di condensare nell'immagine l'estrema pressione di forze convergenti necessarie alla coesione del Sé e la possibilità di avere un giusto tempo negli spostamenti di livello per non correre il rischio di improvvise espansioni dispersive (“embolia gassosa al cervello”).

Certo la soluzione di Ariosto sarebbe stata più semplice del nostro abituale percorso terapeutico:

 

 Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso

 in che il senno di Orlando era rinchiuso;

 e quello in modo appropinquogli al naso,

 che nel tirar che fece il fiato in suso,

 tutto il votò: maraviglioso caso!

 che ritornò la mente al primier uso;

 e ne' suoi bei discorsi l'intelletto

 rivenne, più che mai lucido e netto.

 

Apprezziamo il felice esito di tale vicenda, ma non possiamo impedirci una domanda il cui genere è caro ad Hofstadter: con il corpo sulla Terra e il senno sulla Luna, saremmo oggi altrettanto certi di dove fosse il Sé di Orlando?

 

 

 

                                         

 

 

 

 


[1] Cfr. Freud, 1911, pag. 459

[2] Sulle organizzazioni patologiche come concetto chiave della scuola post-kleiniana per interpretare patologie autodistruttive, violente e/o tossicomaniche, si vedano Francesconi, 2004 e Francesconi, Zighetti, 2004.

[3] Le argomentazioni di tale saggio sono state poi rielaborate e ampliate in: M. Francesconi, (a cura di)L’appetito: un crimine?, FrancoAngeli, 2004 e M. Francesconi: Non più,non ancora. Una riflessione psicoanalitica sul perturbante del crescere in adolescenza. In Barone L. (a cura di) Emozioni e disagio in adolescenza. Unicopli, 2004.

 

 

   

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