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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività
Mind Sciences, Philosophy, Psychotherapy and Creativeness 

  Numero 4, anno II, giugno 2005 
FALLIMENTI DEL TRATTAMENTO PSICOANALITICO CON PAZIENTI A RISCHIO  di SUICIDio.

 

di Glen O. Gabbard

Glen O. Gabbard attualmente è Professore di Psichiatria al "Baylor College of Medicine", Università presso la quale occupa anche una Cattedra di Psicoanalisi. E'  analista didatta e supervisore presso lo "Houston-Galveston Psychoanalytic Institute.  In qualità di "Joint Editor-in-Chief" dirige la prestigiosa rivista "International Journal of Psychoanalysis", oltre ad essere "Associate Editor" di numerose altre riviste.

 

Il presente articolo è stato scritto da Glen O. Gabbard  in occasione del Congresso dell'I.P.A. a Toronto (luglio 2003). Si ringrazia, oltre che l'autore, anche l'International Psychoanalytical Association e Mrs. Rosyn Tuta ('Publications Assistant' dell'I.P.A.) per aver concesso di pubblicare su "Frenis Zero" questo importante contributo.La traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.

ABSTRACT.

L'autore descrive una frontiera particolarmente pericolosa nel panorama psicoanalitico ossia il trattamento di pazienti con pregressi tentativi di suicidio con gravi disturbi di personalità. Utilizzando un esempio clinico di grossolane violazioni del setting da parte di un analista, egli descrive specifiche trappole del controtransfert che portano a gestire male le manifestazioni di disperazione suicidaria da parte dei pazienti. Queste includono la disidentificazione con l'aggressore, l'incapacità di mentalizzazione, il collassamento dello spazio dell'attività analitica, reazioni alla perdita nella vita privata dell'analista, onnipotenza, invidia del paziente, e resa masochistica. L'autore sottolinea le singole vulnerabilità che accompagnano il trattamento analitico di tali pazienti.

 

Quando il Comitato Programmatico dell'I.P.A. mi concesse l'onore di essere scelto come "North American Keynote Speaker for the Congress", dedicai del tempo a studiare il significato del tema 'Lavorare alle Frontiere'. La parola 'frontiere' suggerisce visioni di pericolo, di stato selvatico, e di regioni non civilizzate in cui i vincoli della società non si applicano. Una sola autorevole definizione era particolarmente appropriata: 'La parte di un paese tenuta a formare il confine oppure il limite estremo delle regioni abitate o in cui vive una popolazione stanziale'.  Una seconda definizione era persino più audace: 'Una barriera contro attacchi'. Una sola delle questioni  posta agli psicoanalisti in questo Congresso consiste nell'identificare le regioni più infime dell'agire psicoanalitico, in cui noi siamo vulnerabili rispetto agli attacchi, preda dello stato selvatico, e messi in pericolo dai rischi connessi al nostro lavoro.  Così come ho considerato le frontiere pericolose della psicoanalisi, le ho associate ai 'deragliamenti' psicoanalitici che ho osservato quando pazienti con rischio suicidario sono stati gravemente mal gestiti da ben intenzionati psicoanalisti.

 La mia carriera è stata unica per qualche aspetto a causa del mio  interesse di lunga data per due regioni distinte della cosiddetta 'prospettiva in ampliamento'  su questa frontiera talora pericolosa. Per molti anni ho seguito una gran quantità di casi di pazienti con pregressi tentativi di suicidio resistenti al trattamento con patologie dalle caratteristiche gravi i quali erano stati inviati alla Menninger Clinic come ultima spiaggia. Ho anche dedicato molto della mia vita professionale all'attività di consultazione, di valutazione, o di trattamento nei confronti di terapeuti e analisti (all'ultimo calcolo oltre 150) che avevano commesso serie violazioni di 'setting' coi loro pazienti. 

Ho notato con crescente interesse quanto spesso le più grossolane violazioni del setting siano inflitte ad alcuni dei più disturbati pazienti suicidari. Mentre è facile per noi tutti diffamare analisti che hanno perso la loro strada nella notte buia dell'anima che accompagna il trattamento di pazienti gravemente a rischio suicidario con disturbi di personalità, suggerisco di astenerci da un indiscriminato disprezzo verso questi colleghi ed anzi cerchiamo di imparare qualcosa da loro. In queste situazioni di estrema 'frontiera', spesso scopriamo l'umanità essenziale dell'analista, spogliato all'osso come Re Lear che urla di disperazione. Questi colleghi che hanno volato troppo vicino al sole nella loro cieca onnipotenza e ne sono usciti bruciati e discreditati sono di gran lunga più simili che diversi da noi.

I pazienti a rischio suicidario, per  loro autentica natura, colpiscono per  una speciale vulnerabilità che è un rischio professionale degli analisti. La maggioranza di noi preferisce pensare al lavoro analitico come qualcosa di altro rispetto ad una faccenda di vita o di morte. Noi immaginiamo il nostro paziente ideale come una persona intelligente, riflessiva, attraente (qualcosa di simile a noi), tormentato da conflitti intrapsichici, ma fortemente motivato a comprendere. Tale paziente grandemente desiderato dedica la sua vita e i suoi desideri a realizzare  dei cambiamenti tali che la sua vita possa essere vissuta in modo più pieno. Al contrario, il paziente a rischio suicidario ha deciso che la vita ha poco da offrire, e l'analisi è una proposta dubbia. Quale 'insight' potrebbe trasformare la vita in un viaggio che vale la pena di fare? Questi pazienti accelerano il polso dell'analista respingendo a priori la nozione che l''insight' analitico abbia la  potenzialità di rendere la vita degna di essere vissuta. Mentre spesso parliamo di tale 'prospettiva in ampliamento' dei pazienti come se si trovassero sulla 'frontiera', la mia esperienza come supervisore di candidati e come consulente di colleghi mi suggerisce che tali pazienti sono sempre più frequenti e si sono spostati dalla frontiera nel cuore della civiltà psicoanalitica.

In questo contesto condividerò  una storia piena di ammonimenti del dottor N., un analista quarantenne che mi consultò molti anni fa nel periodo immediatamente successivo ad una terribile violazione del 'setting'. Il dottor N. mi diede il permesso di pubblicare i dettagli di questo caso in modo che altri potessero imparare da esso.

LA STORIA DEL DOTTOR N.

Jenny era una donna di 35 anni profondamente angosciata che venne a consultare il dottor N.. La sua prima reazione quando la vide nella sala d'aspetto fu che lei era la più bella donna che egli avesse mai visto. Quando lei iniziò a raccontargli la storia della sua tragica vita, il dottor N. ne fu commosso. Ad un certo punto, nel mezzo del suo racconto, Jenny disse al dottor N. che era attratta da lui e chiese se potessero interrompere l'incontro in modo da potersi dare un appuntamento. Il dottor N. chiarì che era impossibile darsi un appuntamento dato che  la loro relazione professionale era già cominciata, e che far tornare indietro le lancette dell'orologio non era un'opzione possibile. Contrariata, ma imperterrita, Jenny continuò a dire al dottor N. in che modo sua madre l'avesse torturata chiudendola in uno stanzino quando era bambina. Descrisse anche i dettagli di una relazione sessuale incestuosa con suo padre dall'età di 5 fino ai 12 anni. Questi racconti terribili, ma anche dolorosamente toccanti commossero il dottor N. intensamente. Nonostante le avversità della sua vita da piccola, era una donna intelligente che era stata ammessa agli studi medici solo per abbandonarli e divenire una modella.

Quando il trattamento progredì, il transfert sessualizzato di Jenny nei confronti del dottor N.  sembrò  scomparire. Divenne angosciata dopo alcune sedute, e svenne in cinque o sei occasioni in sala d'aspetto. Il dottor N. era confuso. Ella sembrava depressa e descriveva un desiderio di morire che durava per tutta la sua vita. Inoltre spesso manifestava segni di dissociazione. In maniera ricorrente dava voce a fantasie di suicidio dopo una separazione da qualcuno che le era stato vicino. Aveva una risoluta convinzione di essere cattiva e sporca e di essere fuori da ogni possibilità di redenzione. Nondimeno, disse al dottor N. che si sentiva calma quando era con lui e che aveva avuto dei sogni rasserenanti in cui lui era coinvolto. Passò molte sedute in silenzio, durante le quali avrebbe voluto dire al dottor N. che egli aveva bisogno di indovinare cosa lei stesse pensando. 

Jenny arrivò nello studio del dottor N. in un particolare momento della  vita di quest'ultimo. Egli aveva terminato la propria analisi personale un anno prima che lei iniziasse il trattamento con lui. Egli aveva subito anche una serie di perdite più recenti nei mesi che precedettero l'arrivo di Jenny. La sua sorella più piccola era morta di cancro, uno dei suoi amici più intimi era stato ucciso in un incidente stradale, e la sua fidanzata aveva rotto con lui e se ne era andata dalla sua casa due mesi prima dell'inizio del trattamento. Il dottor N. era assillato e mi disse che, col senno di poi, probabilmente non avrebbe dovuto cercare di trattare una paziente come Jenny in quel particolare momento della propria vita. Egli chiarì che mentre non era innamorato di lei, spesso si sentiva come un suo fratello maggiore protettivo verso di lei e profondamente impegnato a salvarla da se stessa. Egli sentì di aver fatto progressi quando lei gli disse che lui l'aveva aiutata a smetterla di vivere per gli altri.

Le cose volsero al peggio. Dopo circa tre anni di trattamento, Jenny cominciò a stare zitta in seduta. Alla fine disse al dottor N. che lei stava per terminare il trattamento e per andarsene via. Con una buona dose di persuasività da parte del dottor N., Jenny rivelò di aver lasciato il lavoro e di aver venduto i suoi beni. Con un'ulteriore indagine, alla fine confessò di essersi procurata una pistola. Il dottor N. cadde in preda alla disperazione. Cominciò ad allungare la durata delle sedute da un'ora a due e la vide alla fine della giornata in modo che le loro sedute continuassero a sera. Quando egli la incontrò per delle sedute di durata doppia, le fece pagare il prezzo di una seduta normale.

Il dottor N. divenne sempre più preoccupato del fatto che la distruttività della paziente fosse tale che non poteva più esser gestita a livello ambulatoriale. Aveva provato ad assumere diversi antidepressivi senza alcun miglioramento clinico. Egli le consigliò di ricoverarsi per potersi salvare dal suicidio. La paziente rifiutò l'ospedalizzazione e rifiutò di vedere un consulente. Nondimeno, il dottor N. cercò una consultazione per se stesso da un analista anziano molto rispettato nella città. Dopo aver ascoltato la storia, il supervisore del dottor N. ammise che l'ospedalizzazione probabilmente non sarebbe stata d'aiuto poichè la disperazione suicidaria della paziente non era basata su una depressione in fase acuta che sarebbe migliorata come risultato di un trattamento ospedaliero. In più, lei era abbastanza tranquilla da parlare fuori da ogni tipo di condizionamento involontario. Avrebbe potuto apparire più sana di quanto lo fosse se le fosse chiesto di convincere un giudice a lasciarla andare. Il supervisore incoraggiò il dottor N. a continuare a lavorare in maniera analitica sul suo sottostante desiderio di morire.

La paziente continuò ad insistere che non soffriva di alcuna depressione clinica. Piuttosto, cercò di far capire al dottor N. che lei era una persona terribile. Venendo da recenti perdite nella sua vita privata, il dottor N. divenne sempre più frenetico. Egli notò una 'disperata passività' ed un sentimento per cui il proprio pensare era confuso. Ad un certo punto egli disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa per evitare che lei si uccidesse. Jenny rispose che l'unica cosa che l'avrebbe aiutata era il permetterle di passare una notte con lui a casa dell'analista. Lei spiegò che aveva incubi intrattabili con contenuti di abuso fisico e sessuale e che desiderava avere la prima notte di buon sonno della sua vita. Il dottor N. si rifiutò e spiegò che dormire con un paziente non è etico. In risposta a questa spiegazione diretta, Jenny lo guardò in modo freddo e chiese, "Cosa è più importante? La mia vita o le vostre stupide regole etiche?". Il dottor N. fu preso alla sprovvista, e dopo diverse settimane nel cercare di aver ragione con Jenny, alla fine cedette alla sua richiesta di passare una sola notte con lui. Egli razionalizzò che tale misura radicale poteva essere l'unico mezzo per tenerla in vita. Egli notò anche che da una prospettiva personale non avrebbe potuto semplicemente tollerare un'altra perdita per morte.

La notte della trasgressione dei limiti professionali, egli aveva stabilito delle regole fondamentali per cui dovevano dormire in letti separati e non ci sarebbero stati contatti sessuali. La paziente acconsentì, ma quando arrivò l'occasione, lei entrò nel letto dell'analista e chiese in maniera toccante che il dottor N potesse tenerla lì. Una cosa ne provocò un'altra, ed essi finirono per avere rapporti sessuali. Nelle parole del dottor N., 'Lei mi sedusse mentre io protestavo che avremmo dovuto non abbassare i pigiama'. Egli sapeva bene che la propria carriera poteva essere rovinata, ma mantenne la fantasia che egli poteva così salvare la vita della paziente.

La mattina seguente Jenny informò il dottor N. che lei sapeva che lui alla fine avrebbe dormito con lei. Lei confidava nel fatto che gli uomini la trovassero irresistibile. Egli le disse che ciò che avevano fatto era stato sbagliato e che non si potevano più incontrare in futuro. Lei lo implorò di uscire con lei , ma lui le disse che ciò era impossibile.

Il dottor N. mi consultò diverse settimane dopo l'incidente, e mi disse che era tormentato dal fatto che Jenny gli avesse detto che la cosa importante per lei era che egli potesse amarla nonostante ciò che egli conosceva. Ma lui si sentiva torturato ed iniziò a rendersi conto che in Jenny c'era una vena maligna, sadica che egli aveva trascurato. Mi disse di aver notato  il suo sadismo quando lei descrisse il modo in cui aveva scaricato altri uomini che si erano perdutamente innamorati di lei. Comunque, egli riflettette sul fatto che aveva avuto come uno scotoma circa l'aggressione della paziente nei suoi confronti. Egli descrisse enormi sentimenti di colpa dato che stava cominciando a riconoscere che aveva messo in atto la fantasia transferale della paziente andando a letto con lei e perciò ripetendo il trauma dell'incesto da parte di suo padre. Il dottor N. mi disse che il momento in cui egli divenne consapevole che qualcosa di aggressivo stava per essere rimesso in atto fu quello in cui essi stavano per fare l'amore. Egli chiese a lei quale mezzo contraccettivo usasse. Egli sapeva che lei era andata a letto con tre differenti uomini e presumeva che prendesse contraccettivi orali. Jenny disse al dottor N. che non poteva avere bambini, ed insistette perché egli eiaculasse dentro di lei. Il dottor N. ebbe una forte sensazione che lei fosse disonesta poiché non c'era alcun modo per cui lei potesse sapere di essere incapace di avere bambini. Egli improvvisamente si rese conto che lei stesse cercando di farlo crollare. Egli si tirò indietro e sentì un'ondata di nausea venire verso se stesso. Ebbe la sensazione di aver commesso  un grave  errore di giudizio. Nel mezzo della sua angoscia, comunque, fece un commento rivelatorio: "Almeno l'ho salvata dal suicidio".

DISCUSSIONE

 

Questo caso che comporta un tragico fallimento del trattamento psicoanalitico sarà utile come pietra di paragone per discutere una varietà di trattamenti gravemente mal condotti per i quali sono stato chiamato come consulente. Attingerò anche ad osservazioni che ho fatto lavorando come analista o terapeuta di colleghi che avevano commesso delle grossolane violazioni di 'setting' con pazienti suicidari. Qualche punto sarà pertinente direttamente al caso del dottor N. mentre altri punti si riferiranno ad altri casi che non posso discutere in dettaglio per questione di rispetto della 'privacy'. Mentre l'esempio di Jenny e del dottor N. coinvolge le violazioni in senso sessuale, ho visto molti altri casi che si erano interrotti prima di avere contatti sessuali ma che nondimeno erano risultati altamente distruttivi per il paziente. In alcuni casi degli analisti preoccupati hanno preso a casa loro pazienti a rischio di suicidio e li hanno trattati come membri della propria famiglia, li hanno invitati a passare le vacanze con le loro famiglie, sono andati a fare spese con loro, ed hanno condiviso con loro i pasti al ristorante. In altri casi gli analisti hanno trattato il paziente gratuitamente, impegnati in ampie confessioni dei propri problemi personali, ed avevano avuto numerosi contatti extra-analitici col paziente in luoghi pubblici ed a casa del paziente.

Tre chiarimenti ci sono da fare nell'ordine prima della successiva discussione. Primo, i lettori non dovrebbero congedare il caso del dottor N. come un'aberrazione bizzarra di rara frequenza. Lo scenario che ho descritto è in maniera sconcertante comune tra i casi di violazioni di 'setting'  che ho visto. Secondo, le violazioni di tipo sessuale accadono per svariate ragioni, e la cattiva gestione del rischio suicidario è solo uno dei molti scenari (Gabbard and Lester 1995; Gabbard and Peltz 2001; Celenza e Gabbard in press). Infine, il suicidio può essere mal gestito in modalità che non comportano  violazioni del 'setting' naturalmente, e non voglio dire di trascurare l'importanza di quei casi enfatizzando lo scenario in questa particolare comunicazione. 

 

'DISIDENTIFICAZIONE' CON L'AGGRESSORE.

Le vicissitudini della rabbia, dell'odio, della vendicatività, e delle fantasie omicide sono state ben esaminate nella letteratura sul suicidio (Asch, 1980; Chavrol and Sztulman, 1997; Hendin, 1991; Kernberg, 1975; Maltsberger and Buie, 1974, 1980; Menninger, 1933). Ci sono pochi dubbi che l'atto suicidario è enormemente distruttivo per coloro che sono rimasti in vita nelle immediatezze dell'evento. I familiari e gli amici sono spesso arrabbiati per ciò che è stato fatto loro. Le minacce di suicidio nel contesto del trattamento analitico possono essere vissute come un attacco diretto alla competenza ed alla persona dell'analista. In realtà, il suicidio è l'estrema ferita narcisistica per un analista. Il paziente sta, in effetti, insultando l'analista. Analisti e terapeuti sono spesso devastati subito dopo il suicidio di un paziente. Quando i colleghi si sono consultati con me dopo che uno dei loro pazienti aveva commesso un suicidio, qualcuno mi ha detto che stava seriamente pensando di lasciare la professione. Altri hanno rivelato di non aver pensato ad altro per settimane dopo che avevano cercato nei loro ricordi dei segnali del paziente che essi potrebbero aver trascurato i quali avrebbero potuto in extremis evitare che il suicidio si verificasse.

Le trasgressioni dei limiti del 'setting' che accadono con pazienti a rischio suicidario spesso sono direttamente correlate alla cattiva gestione dell'aggressività e dell'odio.Questa affermazione resta vera in misura ancora maggiore quando il paziente a rischio di suicidio è stato vittima di un trauma infantile, come nel caso di Jenny. Pazienti come Jenny, che sono stati coinvolti in rapporti sessuali incestuosi col padre, rinchiusi in uno stanzino dalla madre, o sottoposti ad una moltitudine di altre variazioni di 'uccisione dell'anima' (Shengold, 1979), internalizzano delle intrusioni di abuso che li perseguitano per tutta la vita. Il dottor N. rispose a questa storia ed alla presentazione clinica nel modo che molti di noi fanno. Era deciso a dimostrare che egli era del tutto diverso dai genitori abusanti facendo di tutto per salvare la paziente dal suicidio. Questa posizione dalla parte dell'analista, che ho altrove denominato 'disidentificazione coll'aggressore' (Gabbard, 1997), è un tentativo disperato di sconfessare qualsiasi collegamento con una rappresentazione internalizzata di un oggetto cattivo che tormenta il paziente. L'analista può essere insidiosamente invaso dall'oggetto abusante ed inconsciamente identificarsi con esso a causa di pressioni più o meno sottili da parte del paziente. Molti pazienti che sono stati vittima di gravi abusi infantili o di trascuratezza arrivano in analisi con l'aspettativa di meritare di essere risarciti del loro passato tragico grazie ad un trattamento straordinariamente speciale da parte dell'analista (Davies e Frawley, 1992). Il 'frame' analitico consueto, entro cui creiamo uno spazio analitico per il paziente, può essere vissuto come deprivante e persino sadico da parte di tali pazienti. Essi possono insistere sul fatto che maggiori dimostrazioni di affetto e di interessamento sono necessarie per dimostrare loro che l'analista non è così mostruoso come il genitore. 

Il dottor N., come la maggioranza di noi, era preparato ad evitare di essere trasformato nell'oggetto cattivo che risiede nel mondo interno del paziente. Come sottolineò Money-Kyrle (1956) anni fa, molti di noi entrano in questo campo in maniera inconscia tentando di riparare i propri oggetti interni danneggiati dall'infanzia. Quando siamo intenti alla riparazione, ed invece siamo allora accusati di essere distruttivi, la nostra formazione reattiva professionale viene sfidata in un modo che può generare un'angoscia straordinaria. Karl Menninger (1957) una volta notò che le professioni dedicate all'aiuto degli altri forniscono un'opportunità ideale di nascondere il sadismo. In qualche modo siamo sempre rassicuranti verso noi stessi che le nostre motivazioni personali sono fuori questione poiché abbiamo scelto di dedicare i nostri giorni al lavoro di comprensione degli altri e di aiuto nel migliorare le loro vite. Un' agenda inconscia di ripulire la diade di aggressività ed odio può far sì che l'analista scotomizzi il sadismo nel transfert. Retrospettivamente, il dottor N. era consapevole che era capace di vedere solo gli aspetti maligni di Jenny diretti agli altri uomini ma non verso se stesso.

A causa di questo scotoma, il sadismo della paziente è stato capace di 'volare sopra il radar' del dottor N. ed invaderlo. L'oggetto abusante allora risiede dentro l'analista ed opera al di fuori della sua consapevolezza, perseguitandolo dall'interno. Nello sforzo del dottor N. di salvare la paziente dal suicidio, l'oggetto abusante ha preso possesso di lui ed ha architettato una ri-traumatizzazione di Jenny. Ad oggi, la cattiveria trasmessa da Jenny e dal suo mondo degli oggetti interni continua a tormentare il dottor N., che si preoccupa ogni giorno che la propria carriera potrebbe essere rovinata qualora Jenny decidesse di  denunciarlo.  In questo modo, Jenny ha introdotto se stessa nell'analista ed attualizzato una fantasia che loro due non sarebbero stati separati. Perciò lei diventa indimenticabile. Lei risiede in lui come una sorta di corpo estraneo e lo sporca con la cattiveria che lei sente averla pervasa sin dalla sua infanzia. Ora il dottor N. si sente, in modo analogo, 'sporco' e danneggiato.

Quindi un altro modo per capire cosa si sia trasmesso tra Jenny ed il dottor N. va al di là della sua proiezione di un oggetto abusante dentro l'analista. Lei può essere considerata come colei che ha proiettato una rappresentazione di sé di bambina sporca e danneggiata dentro il dottor N.. In questo scenario di relazioni oggettuali, lei si identifica coll'oggetto interno abusante e distrugge il dottor N. allo stesso modo in cui lei è stata distrutta dai suoi genitori. I genitori che hanno abusato dei loro bambini possono segretamente provare invidia nei confronti della loro innocenza (Grotstein, 1992) e cercare di distruggerla attraverso l'incesto. In modo analogo, la paziente, che inconsciamente si identificava col genitore abusante, può desiderare di distruggere ciò che viene percepito come la purezza incontaminata dell'analista, incoraggiando la violazione dei limiti del 'setting'. Imputare alla paziente tali motivazioni inconsce, naturalmente, non solleva l'analista dalla responsabilità di agire eticamente indipendentemente dai desideri portati nei confronti del trattamento da parte del paziente.

Le angosce inconsce dell'analista sono spesso al centro delle 'impasses' che si verificano  con pazienti a rischio suicidario.  Queste angosce possono essere correlate ad un acuto senso della propria vulnerabilità di fronte all'intensa distruttività del paziente. Molti analisti sentono che la loro reputazione sarà rovinata se il paziente si suiciderà. Altri possono avere delle angosce primordiali legate all'abbandono. Rosenfeld (1987) ha notato che nelle situazioni di 'impasse', gli analisti possono fare i conti con le loro angosce colludendo con un aspetto della personalità del paziente, scindendo dall'altra parte e compartimentalizzando tutte le altre dimensioni del paziente. In questo modo, le reazioni psicotiche di transfert-controtransfert possono irrigidirsi e l'analista può diventare paralizzato. La sola via d'uscita può sembrare esser quella di una serie terribilmente malgestita di 'enactment'* non ortodossi. 

La controparte dell'odio transferale è, naturalmente, l'odio controtransferale. Uno dei peggiori scenari che derivano dalla cattiva gestione della aggressività da parte dell'analista consiste nel fatto che l'odio controtransferale verso il paziente non viene percepito. Questo disconoscimento può condurre ad 'enactments' che sono disastrosi (Maltsberger & Buie, 1974). Gli analisti possono inconsciamente comunicare ai loro pazienti che essi non desiderano incontrarli più oppure possono dimenticare gli appuntamenti. Una analista addirittura partì in vacanza per una settimana senza informare il suo  paziente della sua futura assenza fino al giorno prima della sua partenza. Così, diversi suicidi possono essere scatenati addirittura  quando i pazienti percepiscono i loro analisti come rifiutanti nei loro confronti (Hendin, 1991). Federn (1929) una volta con una smorfia di disgusto osservò che "solo colui che si desidera morto da qualcun altro si uccide" (citato in Asch, 1980, p.56). E che quel 'qualcun altro'  può essere l'analista.

Parte della rabbia dell'analista e della sua disperazione può essere in diretta risposta al fallimento del paziente di migliorare, quindi frustrando gli sforzi onnipotenti dell'analista per guarirlo. Celenza (1991) descrisse un terapeuta che non poteva tollerare i sentimenti controtransferali negativi quando il trattamento si trovava in una 'impasse' ed analogamente poteva non sopportare il transfert negativo del paziente. Il terapeuta si imbarcò in una relazione sessuale col paziente come tentativo inconscio di 'bypassare' tutti i sentimenti negativi nel paziente ed in se stesso, sperando di favorire invece un transfert idealizzante. Searles (1979) ha anche notato che il coinvolgimento sessuale coi pazienti può derivare dallo sforzo terapeutico dell'analista. In risposta alla frustrazione della mancanza di miglioramento del paziente l'analista può soccombere davanti all'illusione che un coito magicamente curativo trasformerà il paziente. Il dottor N., per esempio, restò aggrappato alla convinzione magica che la sua sottomissione ai rapporti sessuali con Jenny avrebbe salvato la vita della paziente.

INCAPACITA' DI MENTALIZZAZIONE E COLLASSAMENTO DELLO SPAZIO ANALITICO

 

Nel tipo di collusione messo in atto** dal dottor N. e da Jenny, lo spazio dell'azione analitica collassa. Jenny non vede il dottor N. 'come se' fosse suo padre. Egli diviene la dimensione del controtransfert e semplicemente realizza il ruolo del padre. In questo scenario, l'oggetto del dottor N. (Jenny) è concretamente identificato come una parte proiettata del soggetto (l'analista). L'analista quindi si relaziona alla paziente come se la paziente fosse parte del sé (Gabbard e Lester, 1995). La differenza tra il simbolo e l'oggetto viene perduta, ed entrambi i membri della diade soccombono ad una forma di simbolismo concreto in cui c'è un'equivalenza diretta tra il simbolo e ciò che è simbolizzato (Segal, 1957).

In tali situazioni di 'impasse', c'è una 'folie à deux', una psicosi condivisa nel transfert e nel controtransfert. La psicosi è circoscritta alla diade e comporta uno specifico, ma limitato, venir meno dell'esame di realtà che non è generalizzato ad altre situazioni. Infatti, il dottor N. era in grado di portare avanti in maniera competente i trattamenti con altri pazienti mentre stava annaspando nel trattamento di Jenny. Questa 'folie à deux' riflette un attacco al pensiero dell'analista direttamente correlato coi desideri distruttivi della paziente. Come nota Rosenfeld (1987) nella sua discussione sulle 'impasses', "gli analisti tendono a volte a venire coinvolti in un certo modo di pensare che in realtà implica un non pensare" (p.43).

Nella percezione da parte del dottor N. di Jenny come una parte di sé, egli stava anche dimostrando una mancanza di mentalizzazione che è comune nelle 'impasses' con pazienti a rischio di suicidio. Egli non era più in contatto col fatto che la visione di Jenny del suicidio e la sua tendenza al suicidio erano completamente differenti dalla propria. Il dottor N. era angosciato dallo stato a rischio di suicidio della paziente, lo vedeva come una crisi, e fece tutto quello che poteva per parlare a lei di ciò. Jenny, nel frattempo, pensava al suicidio come ad una sorta di salvezza. Era una via di uscita dalla disperazione inesprimibile. Lei finì per svilupparla sin da bambina come l'unica via per trascendere i sentimenti intrappolati in una relazione incestuosa. Quindi c'era un aspetto adattativo nel suo pensare al suicidio che in realtà aveva preservato un senso di padronanza e di coerenza e le aveva fornito la forza di continuare a vivere.

Nella novella di Walker Percy, premiata nel 1961, "The Moviegoer", Kate, una donna cronicamente con tendenze suicidarie, offre una lezione al protagonista Binx Bolling:

Tutti loro pensano che sto per suicidarmi. Che stupidaggine. La verità naturalmente è l'esatto opposto: il suicidio è l'unica cosa che mi tiene viva. Ogni qual volta qualcos'altro fallisce, tutto ciò che devo fare è considerare il suicidio ed in due secondi sono allegra come una imbecille. Ma se non potessi ammazzare me stessa - ah, allora, lo vorrei fare. Posso farlo senza Nembutal o storie delittuose ma non senza il suicidio.

La tendenza al suicidio e l'atto del suicidio non sono la stessa cosa. Compito dell'analista è aiutare il paziente a distinguere tra azioni impulsive e fantasia (Gabbard e Wilkinson, 1994; Lewin e Schulz, 1992). Molti pazienti con gravi disturbi di personalità e  traumi estesi durante l'infanzia hanno veramente una tendenza suicidaria,  ed il rischio di suicidio deve essere accuratamente valutato. Non sto minimizzando la potenziale distruttività di tali pazienti. L'analista non può in nessun caso essere disinvolto riguardo alle minacce di suicidio. Quello che io sto suggerendo è che l'ansietà eccessiva riguardo al rischio può interferire con la capacità dell'analista di pensare in maniera chiara sulle funzioni e sui significati della tendenza suicidaria del paziente. Il fallimento della capacità di mentalizzazione da parte del dottor N. portò ad una direzione autodistruttiva basata su una erronea interpretazione dell'intenzione suicidaria di Jenny. Il dottor N. fu incapace di aiutare la paziente nella costruzione di una dimensione simbolica in cui la fantasia e l'azione fossero distinte. E' degno di nota a questo riguardo che ad un contatto di 'follow-up' sette anni dopo l'episodio del rapporto sessuale, il dottor N. apprese che Jenny si era ancora trattenuta dal tentare il suicidio. 

ONNIPOTENZA E PERDITA

In un'era in cui consideriamo la psicologia dell'analista almeno tanto importante quanto quella del paziente, dobbiamo tener conto dello stato mentale del dottor N. al tempo della violazione del 'setting'. Nell'anno precedente, aveva terminato la sua analisi personale, aveva perso la sorella per un cancro, perso il suo miglior amico in un incidente stradale, ed era stato piantato in asso dalla sua fidanzata. Il suo dolore era recente, e la prospettiva di un'altra perdita, quella della sua paziente, era qualcosa di  sufficiente a sopraffarlo. Il dottor N. stava lottando contro una  inesperienza o una vulnerabilità che lo rese particolarmente suscettibile ad assumersi la piena responsabilità per la sua paziente. Può darsi che non avrebbe potuto evitare la perdita delle persone care nella sua vita privata, ma ora aveva l'opportunità di ottenere una riparazione dei suoi fallimenti immaginari con loro salvando la sua paziente. In risposta alle sue angosce depressive, si scatenarono delle difese maniacali ed egli divenne determinato a salvare la paziente. A quel tempo l'onnipotenza in questo atteggiamento sfuggì alla sua consapevolezza, ma   divenne sempre  più conscio man mano che rifletteva retrospettivamente su ciò che gli era accaduto. Il dottor N. mi scrisse diversi anni dopo avermi consultato: "Persisto nella tendenza a credere che l'amore può curare,  che io posso correggere i danni psicologici mediante la forza di volontà ed il carisma personale, ma mi vengono alla mente ripetutamente gli inevitabili errori/limitazioni di tale punto di vista ed il bisogno di giocare con questa nozione di onnipotente disponibilità ad aiutare e ciò che essa significa a proposito del mio bisogno di aiutare e del bisogno da parte del paziente di un altro onnipotente."  Il suo fallimento nell'insistere circa il ricovero in ospedale quando egli era convinto che lei fosse prossima ad ammazzarsi è un esempio della sua convinzione che solo lui potesse salvare la paziente. Almeno i colleghi dell'equipe ospedaliera avrebbero potuto aiutarlo a pensare ricorrendo a strategie alternative nonché a mantenere una distanza sufficiente rispetto al caso clinico al fine di riflettere in maniera più piena sulla sua collusione controtransferale. 

Così come in molti altri casi di gravi violazioni del 'setting', qui sembra esserci stata una 'corrispondenza' unica tra il dottor N. e Jenny. Egli aveva un bisogno largamente inconscio di guarire attraverso l'amore e quindi mette in atto (**) una forma specifica di legame con l'oggetto - cioé, un guaritore onnipotente ed una paziente piena di gratitudine (Gabbard, 2000a). I genitori del dottor N. avevano divorziato quando lui era ancora piccolo, ed egli passò molta della sua giovinezza a salvare sua madre dalla depressione e dall'infelicità. Egli avvertiva continuamente che sua madre non prendeva appuntamenti con uomini che erano abbastanza buoni per lei. Il dottor N. notò che Jenny somigliava molto a sua madre e, retrospettivamente, egli poteva vedere come stesse ri-attualizzando (***) i propri tentativi infantili di salvare (la madre)(****) con Jenny. Possiamo fare delle speculazioni sul fatto che la sua somiglianza con la madre avesse potuto renderla più proibita e persino più seducente. La paziente, dall'altra parte, aveva un intenso bisogno di ostacolare questo 'enactment' e distruggere il suo zelo terapeutico così come la sua reputazione professionale. Più lei frustrava i suoi sforzi volti a farla guarire, più lui aumentava i suoi tentativi eroici di cambiare la sua paziente. La unicità di una tale 'corrispondenza'  si rifletteva nel fatto che il dottor N. non si era mai trovato prima coinvolto in qualsiasi altra forma di grave violazione del 'setting' nella sua carriera. Dopo l'incidente con Jenny, egli decise di riprendere l'analisi personale. Egli non incorse in successive violazioni  di 'setting' dopo il trattamento di Jenny.

Gli analisti che entrano in questo tipo di folie à deux con pazienti a rischio suicidario spesso dimenticano cosa sia l'analisi. Essi diventano convinti che la loro conoscenza analitica ed il loro 'training' siano inutili; è la loro persona che salverà il paziente. Questo paradigma di salvezza può assumere la forma di un modello difettuale, in cui l'analista si forma la convinzione che un qualche tipo di azione consistente nel fornire (qualcosa al paziente)(****) rimedierà a ciò che è mancato durante l'infanzia (del paziente)(****) (Gabbard & Lester, 1995). Nel caso del dottor N., la nozione di riempire un deficit si era concretizzata nell'atto di introdurre il suo pene nella vagina della paziente. Questa regressione dalla fantasia alla concreta, fisica introduzione (del pene) (****) è emblematica di come gli analisti in tali situazioni possano entrare in uno stato psicotico della mente. Tale primitivo stato alterato (della mente)(****) può condurre loro a prendere in modo del tutto letterale le fantasie ed i desideri dei loro pazienti. 

La sessualizzazione in tali situazioni può riflettere una difesa frenetica contro il sentirsi psichicamente non vitali (*****). Sentimenti di non esistenza sono ben descritti nella letteratura sull'incesto (Bigras & Biggs, 1990; Gabbard, 1992).  Il senso di sè delle vittime di incesto è severamente danneggiato nel corso del loro sviluppo, e ne possono derivare profondi sentimenti di essere come psichicamente morti (*****). Gli analisti possono sperimentare corrispondenti sentimenti, particolarmente quando il paziente si disimpegna (dal percorso terapeutico) (****) e diventa completamente assorbito dal compito di progettare il suicidio (Gabbard, 1992). La sessualizzazione può offrire la speranza di portare vita ed eccitamento al paziente, ed anche all'analista - un futile sforzo di rivitalizzare un trattamento che è addormentato (Coen, 1992; Gabbard, 1996).

La sessualizzazione può, comunque, comportare per il paziente una capitolazione autodistruttiva. Il dottor N. era pienamente consapevole che si stava sacrificando per salvare la paziente. Altri analisti si  arrenderanno masochisticamente ad un paziente con tendenze suicidarie come un modo per dimostrare il grado del loro prendersi cura di loro (Gabbard & Lester, 1995). Certi nostri colleghi divengono ben noti per trattare pazienti "impossibili" che nessun altro analista prenderà in cura. Sebbene molti di questi colleghi sono analisti dotati, un sottogruppo di essi sembrano stare attraversando le loro vite professionali ricreando una situazione che spesso riflette interazioni problematiche coi propri genitori. Essi possono  tentare di provare il proprio essere degni di genitori rifiutanti e distanti emotivamente oppure di riattualizzare separazioni precoci. Sottomettendosi al paziente, essi possono approdare ad una segreta grandiosità, persino ad un'identificazione con Cristo, in cui essi si vedono come sofferenti per i peccati degli altri (impegnati)(****) nel servizio di trasformare gli altri. Questo atteggiamento masochistico può riflettere un terrore di ripetere la perdita di un oggetto precoce nella loro vita. La loro determinazione a rischiare la propria carriera può essere considerata come il minore dei mali se lo si confronta con un'ulteriore perdita. In tempi in cui le perdite personali sono state da poco subite, gli analisti possono essere particolarmente soggetti a salvare il paziente a qualsiasi costo piuttosto di dover fronteggiare un'altra variazione di perdita dell'oggetto che li sta già terrorizzando.

Il dottor N, ad esempio, era ben disposto a  violare il proprio codice etico. Egli estendeva le ore di terapia, non si faceva pagare per il tempo in cui lavorava in più, e gratificava il desiderio della paziente di dormire con lui in uno sforzo eroico di dimostrare che egli si prendeva abbastanza cura di lei da cercare di salvarle la vita. Era pienamente consapevole che il risultato avrebbe potuto essere la perdita della sua professione. Quello che era un chiaro ricreare un incesto per un osservatore esterno fu costruito dall'analista come un nobile sacrificio.

Ho sempre pensato che c'è una speciale ironia nel modo in cui le violazioni del 'setting' vengono razionalizzate con pazienti suicidari gravemente disturbati. La spiegazione logica  per gli interventi non analitici che conducono giù lungo il pendio scivoloso delle trasgressioni dei limiti del 'setting' è che solo le fughe radicali dalla cornice analitica possono raggiungere il paziente. L'ironia consiste nel fatto che questi pazienti traumatizzati e gravemente disturbati sono esattamente quelli che richiedono una "definizione dei confini"(******) nel trattamento che dia contenimento ma che sia anche  chiara per evitare la 'ri-traumatizzazione' (*******) e la mancanza di confini delle situazioni (sperimentate) nella loro infanzia.

Non sto naturalmente cercando di argomentare a favore della rigidità nell'approccio a pazienti disturbati con trauma precoce infantile. Mi sono richiamato costantemente ad un atteggiamento di flessibilità nel trattare tali pazienti (Gabbard, 1997; Gabbard & Lester, 1995; Gabbard & Wilkinson, 1994). Un ambiente che fornisca un 'holding' empatico e positivo è essenziale. Ciò che sto sottolineando è che nel nome della flessibilità, si razionalizzano egregie trasgressioni del 'setting' senza riguardo per il fatto che esse semplicemente attualizzano (enact) traumi infantili invece di dar loro contenimento e comprensione attraverso il processo analitico.

 

CONCLUSIONI

 

Cosa possiamo imparare da questi tragici fallimenti del trattamento psicoanalitico? Dobbiamo cominciare col chiarire che non possiamo mai biasimare il paziente a causa delle trasgressioni dell'analista. Il paziente non ha alcun codice professionale di condotta ed ha il diritto di mettere alla prova i limiti del 'setting' analitico. Come Betty Joseph (2001) una volta notava, "Il paziente ha ogni diritto di cercare di sedurre l'analista. L'analista non ha alcun diritto di permettere a se stesso di essere sedotto". Nondimeno, la minaccia di suicidio si insinua nella psiche dell'analista in un modo che è unico nella nostra esperienza. Essa ci porta direttamente faccia a faccia con i limiti di ciò che possiamo fare come analisti. Una  ovvia lezione che possiamo trarre da questi casi è che l'analisi non può essere il trattamento appropriato per certi pazienti distruttivi, e che altre misure devono essere prese in considerazione. Un'altra frontiera della psicoanalisi è il suo confine con la psichiatria. Quando necessario, dobbiamo avvalerci della consulenza dei colleghi che sono esperti di psicofarmacologia, di ECT, e di trattamento psichiatrico ospedaliero. Noi tutti traiamo beneficio da un confine più permeabile tra psichiatria e psicoanalisi in questi casi. A volte possiamo sovrastimare il potere del trattamento analitico.

In altre situazioni, pensiamo troppo poco all'analisi. Gli analisti possono essere troppo pronti ad abbandonare il potere di contenimento e di comprensione e si lanciano a capofitto in azioni incaute. Il dottor N. ricordò che aveva cessato di interpretare sistematicamente l'ostilità transferale di Jenny. Imbarazzato notò che la maggior parte del suo lavoro interpretativo era diretto alle sue relazioni con altri uomini. Quando lei divenne 'annoiata' del trattamento durante il secondo anno, egli le chiese della sua rabbia verso di lui, ma Jenny negò qualsiasi ostilità. Nelle settimane finali del trattamento, le disse che si sentiva torturato. Lei fu superficialmente dolce nella risposta, dicendogli che non voleva causargli danni o preoccupazioni. Jenny disse al dottor N. che egli dovrebbe essere orgoglioso di tenerla in vita per tutto il tempo in cui lui lo aveva fatto, e che non era colpa sua se lei era stata rovinata così presto nella vita. Egli riconobbe retrospettivamente che questo era un 'artificio manipolatorio'.

Un'altra lezione da imparare dall'esame accurato di questi casi consiste nel fatto che noi analisti abbiamo a che fare moltissimo con l'ambivalenza riguardo alla pratica della psicoanalisi. Il nostro amore per l'analisi è costantemente minacciato dal nostro odio inconscio per essa (Steiner, 2000). Sopportiamo una tensione nel nostro lavoro che ha un prezzo. Chiediamo a noi stessi un'auto-disciplina che poche altre professioni possono eguagliare. Il ruolo analitico a volte è sperimentato come una giacca stretta da cui desideriamo fuggire. Il dottor N. non è solo nella sua segreta fantasia che l'amore potrebbe essere più efficace del trattamento. In molti casi l'odio è anche alimentato da profondi risentimenti verso un analista del 'training' oppure un istituzione (Gabbard & Lester, 1995).

Questo odio inconscio del ruolo analitico  e del lavoro analitico è spesso collegato, in parte, ad invidia verso il paziente. La asimmetria del 'setting' analitico è tale che la devozione nei confronti dei bisogni del paziente e dei suoi interessi è una necessità etica. é certamente un lusso avere la piena attenzione di un altro essere umano quattro o cinque volte alla settimana per un'ora ogni volta. Noi analisti a volte desideriamo una simile attenzione. Ferenczi, ad esempio, notava che egli stava cercando di dare al paziente ciò che egli stesso non aveva ricevuto dalla propria madre (Dupont, 1988). La situazione analitica, comunque, crea un peggioramento di questo problema esasperando la ferita dell'analista.  In altre parole, mentre Ferenczi continuava a dare ai suoi pazienti, egli poteva solo sentire la propria deprivazione in maniera più acuta. Egli alla fine tentò esperimenti di mutua analisi per cercare di fare in modo che il paziente incontrasse i propri bisogni. A suo dire, egli abbandonò l'esperimento quando riconobbe che i problemi divennero troppi. 

Nondimeno, nei miei anni di consulenze per casi di violazioni del 'setting', sono stato colpito da quanto spesso l'analisi mutua di Ferenczi sia invocata come una razionalizzazione per salire sul divano insieme al paziente ed esprimere i problemi personali dell'analista. La gestione dell'odio nella diade sembra anche entrare in questa varietà di 'enactment'. Friedman (1995) ha messo in evidenza che la relazione tra la mutua analisi e l'odio persecutorio può essere dedotta dagli scritti di Ferenczi. Ferenczi riconobbe che le sue maniere forzatamente educate frustravano gli sforzi della paziente  di liberarsi dall'odio persecutorio. Quindi iniziò la mutua analisi poichè essa gli permetteva di dichiarare il suo odio per la paziente e di essere perdonato per esso. Ferenczi sentiva che l'analista avesse bisogno di accettare le proiezioni dell'odio della paziente ed allora confessò ciò a lei. Sfortunatamente, egli anche considerava l'odio come essenzialmente non reale e potenzialmente gestibile dall'amore onnipotente dell'analista. Come nota Friedman (1995), comunque "La pretesa che qualche forma di amore possa essere un'adeguata e/o curativa risposta alle sofferenze del paziente porta solo ad incrementare la richiesta da parte del paziente di  pressioni talmente insopportabili sull'analista da creare delle incredibili tensioni" (pag. 973).

Un'altra lezione che scaturisce da Ferenczi e dal caso del dottor N., così come da altri trattamenti condotti male , consiste nel fatto che molti pazienti a rischio suicidario stanno cercando un "oggetto abbastanza cattivo" (Gabbard, 2000a; Rosen, 1993). Questi pazienti disperatamente hanno bisogno che l'analista contenga l'oggetto introiettato abusante che attacca loro da dentro e li fa soffrire. Gli analisti che non permetteranno di essere trasformati in oggetti cattivi invitano solo il paziente ad incrementare gli sforzi per raggiungere l'odio e l'aggressione all'interno della diade (Fonagy, 1998; Gabbard, 2001). E' obbligatorio per l'analista resistere al richiamo magnetico della dis-identificazione con l'aggressore. Dobbiamo essere capaci di riconoscere che aspetti del paziente sono capaci di farci infuriare, annoiare, sono distruttivi, o abusanti, e dobbiamo essere capaci di riconoscere le nostre reazioni. Fa parte del ruolo dell'analista quello di dover essere odiato e di dover capire quell'odio, non di denegare proiettivamente stati emotivi spiacevoli e vederli in figure genitoriali (o altre) esterne alla stanza di consultazione.

Il caso del dottor N. illustra anche il fatto che la supervisione, anche se utile, non è una panacea. Possiamo scegliere un analista che ci dirà quello che noi desideriamo sentirci dire.  Possiamo corrompere il processo nascondendo certi aspetti del trattamento. Possiamo ignorare il consiglio del supervisore. Possiamo segretamente credere che nessuna persona estranea alla diade quasi incestuosa dell'analista e dell'analizzando possa in qualche modo comprendere i caratteri speciali e unici di un particolare paziente a rischio suicidario (Gabbard, 2000b). La supervisione può essere di straordinario valore in tali casi, ma solo se l'analista seleziona un supervisore che sia capace di vedere la situazione da una nuova prospettiva e a cui sia consentito di condividere tale prospettiva con lui.

C'è una  linea sottile tra i desideri altruistici di aiutare i nostri pazienti e gli sforzi onnipotenti di guarirli. Dobbiamo evitare la convinzione quasi delirante che solo noi siamo capaci di aiutare un paziente e che è solo la nostra unica personalità, piuttosto che la nostra perizia e la nostra tecnica, che è utile. Dobbiamo persino accettare che, nei nostri limiti di analisti, perderemo qualche paziente. Questo riconoscimento ci può aiutare ad evitare scenari di resa masochistica in cui ci sacrifichiamo in un cieco e grandioso sforzo di salvare un'altra persona.

Molti di noi trascurano la precauzione a favore di se stessi nel proprio training di analisti. Quando i bagnini o gli istruttori della sicurezza in acqua vengono formati, la prima cosa che devono imparare è che devono essere in condizioni di sicurezza loro stessi prima di (cercare di) salvare la vittima che sta annegando. Se questo non è stato tenuto in conto, possono annegare due persone anziché una sola. Possiamo trarre beneficio da una tale filosofia nel modo in cui formiamo i nostri analisti. Dobbiamo prenderci cura delle nostre vite personali ed essere sicuri che i nostri bisogni vengano soddisfatti prima di cercare di soccorrere gli altri. Un ovvio messaggio che deriva dallo studio di questi casi è che i pazienti con tendenze suicidarie possono trascinarci con loro nonostante i nostri più eroici sforzi. E' nostro dovere assicurarci che facciamo tutto il possibile per tenere la testa al di sopra dell'acqua.

 

Note del traduttore:

(*)Il termine enactment è stato molto probabilmente introdotto da Jacobs nel 1986 (Jacobs T. [1986], "On countertransference enactments". J. Am. Psychoanal. Assoc. 34: 289-308). Il termine di solito è riferito a comportamenti che rendono visibile ciò che non aveva trovato altra strada per esprimersi. Attraverso l'enactment il paziente può rappresentare qualcosa della sua realtà psichica che non è rappresentabile in altro modo. Il processo è inconscio e spesso non verbale; ciò che il paziente non riesce a comunicare diversamente, o ciò che l'analista non riesce a cogliere di quanto il paziente esprime, può manifestarsi nel comportamento dell'analista in seduta o fuori della seduta, ma sempre nel contesto transferale. L'attualizzazione operata dal paziente avviene sotto l'effetto di una spinta interna e mira a esercitare una pressione sull'analista per ottenere delle risposte. L'enactment avviene quando un tentativo di attualizzare una fantasia transferale elicita una reazione controtransferale. L'enactment è una comunicazione, di solito non verbale, così sottilmente presentata e così consonante con l'analista, da portarlo inavvertitamente a una risposta che è sentita dal paziente come un'attualizzazione della sua percezione transferale o come un'attualizzazione delle sue fantasie.

(**) Qui l'autore usa il termine 'enacted', che fa riferimento ad 'enactement' (si veda nota precedente).

(***) L'autore usa il termine 're-enacting'.

(****) Aggiunta del traduttore tra parentesi.

(*****) Gabbard usa il termine 'deadness'.

(******) Gabbard usa il termine di "Boundedness".

(*******) "Retraumatization" nell'originale.

   

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