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LA MOLTEPLICITA'
CONDIVISA: Dai neuroni specchio alle relazioni interpersonali.
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di
Vittorio Gallese
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Vittorio Gallese was born and educated in
Parma and took his M.D. at the University of Parma in 1985. In
1989 he took the Degree in Neurology at the University of Parma.From
1990 to 1991 he worked at the Institute of Human Physiology of the
University of Parma as researcher. He worked for two years as JSPS
Fellow at the Dept. of Physiology of Nihon University, Tokyo, Japan
with Hideo Sakata and Akira Murata. In 1994 he returned to Parma
where he was appointed as Assistant Professor in Human Physiology
and in 2000 he became Associate Professor of Human Physiology.
He's currently teaching cardiovascular
physiology to undergraduate students at the School of Medicine of
the University of Parma, and neurophysiology to undergraduate
students at the School of Psychology of the same University.He's
also teaching neuroscience to PhD students in Philosophy of Mind at
the University of Bologna. He's member of the European Brain and
Behaviour Society and of the Italian Society of Physiology. He's
a consultant of the McDonnell Project in Philosophy and the
Neurosciences. A synthetical list of publications is quoted below.
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Introduzione
In
questa relazione mi propongo di affrontare in modo
forzatamente molto conciso alcuni aspetti delle basi
neurofisiologiche dell’intersoggettività. Questo tema
sta riscuotendo sempre di più l’attenzione delle
neuroscienze cognitive. La possibilità di studiare le
dinamiche neuronali in specie animali sociali a noi
evolutivamente vicine, quali i primati non umani,
unitamente alla possibilità di affiancare a questa
ricerca lo studio dell’attivita cerebrale umana,
grazie alle metodiche di visualizzazione per immagini
dell’attività cerebrale come la Risonanza Magnetica
funzionale (fMRI), hanno dato grande slancio
all’impresa scientifica di comprendere le basi nervose
dell’intersoggettività. Tale ambizioso progetto offre
interessanti spunti di dialogo e collaborazione con
altre discipline quali la psicologia cognitiva, la
psicopatologia, la filosofia della mente, e più in
generale le scienze umane.
Una
comprensione puntuale dell’intersoggettività, cioè
di ciò che forse maggiormente definisce l’essenza di
noi esseri umani, non può prescindere da una chiara
distinzione dei livelli di descrizione. Quando parliamo
di intersoggettività infatti ci riferiamo ad una serie
di attitudini sociali, dotate di specifici contenuti
fenomenici, a loro volta sottesi dall’attività di
popolazioni di neuroni nel nostro cervello. La difficoltà
maggiore di un progetto di naturalizzazione della
cognizione sociale, ed in particolare
dell’intersoggettività, consiste nel fornire un
quadro integrato e coerente che abbracci tutti i
possibili livelli di descrizione, senza sacrificarne
alcuno a tentazioni eliminativiste.
La
scienza cognitiva classica ha concentrato i propri
sforzi soprattutto nel chiarire le regole formali che
strutturano una mente essenzialmente solipsistica.
Purtroppo si è molto meno indagato su ciò che innesca
il senso d’identità di cui comunemente facciamo
esperienza ogni volta che entriamo in contatto con i
nostri consimili. Credo valga la pena di chiedersi se
l’analisi solipsistica condotta dalla scienza
cognitiva classica, ispirata dalla Psicologia del Senso
Comune, costituisca l’unico approccio esplicativo
possibile. In particolare, dobbiamo chiederci se questo
approccio renda piena giustizia agli aspetti fenomenici
ed esperienziali delle nostre relazioni interpersonali.
La mia risposta ad entrambe le domande è negativa.
In
quanto esseri umani, oltre a percepire la natura esterna
ed oggettiva del comportamento altrui, ne esperiamo
direttamente in modo pre-verbale anche il carattere
intenzionale e teleologico, similmente a come esperiamo
noi stessi quali agenti consapevoli e volontari delle
nostre esperienze. Da una prospettiva in prima persona,
il nostro ambiente sociale appare popolato da altri
soggetti che similmente a noi intrattengono relazioni
intenzionali con il mondo. In altre parole, ci troviamo
naturalmente in una relazione di “consonanza
intenzionale” con le relazioni intenzionali altrui.
Questa
prospettiva si applica non solo al mondo delle azioni,
ma anche più in generale all’esperienza delle
emozioni e delle sensazioni vissute da altri.
Diversamente da Mr. Spock, il celebre eroe alieno della
saga Star Trek, il nostro campo mentale non si riduce e
non è limitato ad una mera prospettiva oggettificante
in terza persona. Non siamo alienati dal significato
delle azioni, emozioni o sensazioni esperite dagli
altri, proprio perché a differenza della mente aliena
di Spock, condividiamo con gli altri non solo le stesse
azioni, emozioni e sensazioni, ma anche i meccanismi
nervosi che le sottendono. Grazie alla consonanza
intenzionale, l’altro che ci sta di fronte è molto più
che un altro sistema rappresentazionale: l’altro è
un’altra persona come noi.
Nella
mia relazione dimostrerò come gli stessi circuiti
nervosi coinvolti nel controllo delle azioni e
nell’esperienza soggettiva di emozioni e sensazioni
siano attivi anche quando siamo testimoni delle azioni
altrui e delle emozioni e sensazioni da essi esperite.
Mostrerò come questi diversi aspetti
dell’intersoggettività condividano ––ad un
livello di base –– una cruciale caratteristica
comune: la loro dipendenza dalla costituzione di uno
spazio di senso interpersonale condiviso. Questo spazio
condiviso, il Sistema della Molteplicità Condivisa
– una possibile versione “allargata” della vecchia
nozione di empatia, trasversale ai livelli di crescente
complessità delle relazioni interpersonali –è
sostenuto da uno specifico meccanismo funzionale: la
“simulazione incarnata” (“embodied simulation”).
Il sistema dei neuroni mirror, assieme ad altri analoghi
circuiti di tipo mirror non motori, costituiscono il
substrato neurale della simulazione incarnata, il
meccanismo funzionale che garantisce la nostra
consonanza intenzionale con gli altri. La parte finale
della mia relazione esplorerà la possibilità di
applicare la nozione della consonanza intenzionale allo
studio della psicopatologia dell’intersoggettività,
ed in particolare allo studio dell’autismo.
L’importanza
dell’Identità Sociale
Dall’inizio
della nostra vita, la dimensione sociale esercita un
ruolo decisivo all’interno delle interazioni che
caratterizzano il nostro rapporto con il mondo. Il
comportamento sociale non è una prerogativa dei
primati; esso è diffuso in specie diverse ed
evolutivamente lontane da noi quali le api e le
formiche. All’interno di specie animali differenti le
interazioni sociali giocano ruoli diversi, e sono
probabilmente sostenute da meccanismi diversi. Tuttavia,
la nozione d’identità degli individui occupa un ruolo
centrale in tutte le specie sociali e ––
all’interno delle specie più evolute di primati
–– in tutte le culture sociali. Da ciò
consegue che alla base di tutti i livelli
d’interazione sociale caratterizzanti le facoltà
cognitive dei singoli individui, devono esistere
meccanismi capaci di garantire un mutuo riconoscimento
ed una mutua intelligibilità.
Come
esseri umani noi sappiamo implicitamente che i nostri
consimili sono dotati di quattro arti, camminano in un
certo modo, agiscono e pensano in modi
caratteristici, provano lo stesso tipo di emozioni e
sensazioni. Se, ad esempio, condividiamo con altri
individui la stessa cultura, tatueremo il nostro corpo
allo stesso modo, oppure indosseremo la stessa sciarpa
assistendo alla partita della nostra squadra del cuore.
Se condividiamo con altri cittadini una certa
prospettiva su come la nostra società dovrebbe essere
governata, voteremo con loro per lo stesso partito
politico. Potremmo fare infiniti altri esempi.
L’identità
sociale può quindi essere articolata su differenti
livelli di complessità in cui specie animali diverse
possono manifestare differenti livelli di complessità.
Tuttavia, indipendentemente dalla loro complessità, le
relazioni d’identità sociale sono imprescindibili per
ingenerare quel senso d’appartenenza ad una stessa
comunità di altri individui. Per quale motivo questa
caratteristica è stata preservata nel corso
dell’evoluzione?
L’identità
sociale è importante perché garantisce agli individui
la capacità di meglio predire le conseguenze del
comportamento altrui. L’attribuzione di uno status di
identità agli altri individui consente infatti di
contestualizzare automaticamente il loro comportamento.
Ciò, a sua volta, riduce le variabili che devono essere
analizzate, ottimizzando l’impiego di risorse
cognitive attraverso la riduzione dello “spazio del
significato” che deve essere mappato. Attraverso la
contestualizzazione del contenuto significante che
emerge da ogni relazione interpersonale, l’identità
sociale consente di ridurre la quantità
d’informazione che il nostro cervello deve analizzare.
Nella prossima sezione esamineremo brevemente il
problema dell’identità sociale da un punto di vista
ontogenetico.
La
“rivoluzione cognitiva” nella psicologia dello
sviluppo
Uno
dei maggiori contributi alla comprensione
dell’intersoggettività è stato fornito negli ultimi
vent’anni dalla ricerca svolta nell’ambito della
psicologia dell’età evolutiva. La psicologia
dell’età evolutiva ha letteralmente rivoluzionato le
nostre concezioni sulle capacità cognitive di neonati e
bambini. I risultati di queste ricerche hanno mostrato,
tra l’altro, che fin dall’inizio della nostra vita
siamo capaci di comportamenti che, se manifestati da
individui adulti, ascriveremmo prontamente alle risorse
più astratte del nostro sistema cognitivo.
Un
aspetto interessante della propensione dei neonati a ciò
che in individui adulti definiremmo “astrazione” è
rappresentato dalla sorprendente capacità di operare
un’integrazione multimodale dell’informazione
sensoriale. Neonati di tre settimane sono infatti in
grado di identificare visivamente ciucciotti che avevano
precedentemente tenuto in bocca senza poterli vedere (Meltzoff
e Borton 1979). Ciò che era stato in precedenza
esperito come differente da un punto di vista tattile,
viene successivamente riconosciuto anche come
visivamente diverso. Altri studi hanno mostrato che i
neonati sono perfettamente in grado di determinare
l’intensità e l’andamento temporale di una
stimolazione sensoriale, indipendentemente dalla
specifica modalità (tattile, uditiva o visiva)
attraverso cui viene convogliata (per una rassegna di
questa letteratura, vedi Stern 1985). Il trasferimento
cross-modale dell’informazione sembra essere quindi
una capacità innata, o quantomeno a sviluppo molto
precoce.
Foto:
Meltzoff
Questa
capacità sembra svolgere un ruolo chiave nello sviluppo
dell’intelligenza sociale, in quanto utilizzata per la
costituzione di relazioni interpersonali. Come è stato
infatti mostrato da Meltzoff e Moore, neonati di 18 ore
sono in grado di riprodurre movimenti della faccia e
della bocca mostrati da adulti (Meltzoff e Moore 1977;
vedi anche Meltzoff e Moore 1997; Meltzoff 2002). Uno
degli aspetti più sorprendenti è costituito dal fatto
che i neonati sono in grado di imitare movimenti della
faccia e della bocca, cioè utilizzano parti corporee
cui non hanno alcun accesso visivo. L’informazione
visiva relativa al comportamento osservato è tradotta
nei comei motori richiesti per riprodurre quel
comportamento.
L’imitazione
precoce sembra costituire un ulteriore esempio della
capacità del neonato di stabilire relazioni
d’equivalenza fra diverse modalità d’esperienza.
L’imitazione precoce ci aiuta a capire meglio
l’intelligenza sociale in quanto mostra che i legami e
le relazioni interpersonali sono stabiliti all’esordio
della vita, ben prima dell’emergere del linguaggio,
quando il soggetto auto-cosciente dell’esperienza non
si è ancora pienamente costituito.
L’assenza
di forme sofisticate e meta-rappresentazionali di
soggettività auto-cosciente non preclude, tuttavia, la
costituzione di uno spazio primitivo noi-centrico “sé/altro”.
Il neonato condivide questo spazio “noi-centrico”
con gli altri individui che popolano il suo mondo.
Le
scoperte della psicologia dell’età evolutiva sono
rilevanti per la nostra discussione
dell’intersoggettività anche per un’altra ragione:
questi dati mostrano infatti che il nostro sistema
cognitivo è in grado di costruire una mappa
multi-modale “astratta” che utilizza disparate
sorgenti sensoriali, ben prima dello sviluppo del
linguaggio (lo strumento d’astrazione per
eccellenza) e di altre forme sofisticate di
inter-azione sociale.
La
Comprensione delle Azioni Altrui
Gran
parte della nostra competenza sociale dipende dalla
nostra capacità di comprendere il senso delle azioni
altrui di cui siamo testimoni. Queste azioni
appartengono fondamentalmente a due distinte categorie.
La prima è costituita dalle azioni transitive, dirette
verso oggetti esterni, come afferrare una tazza,
sollevare il ricevitore del telefono, mordere una mela,
o calciare una palla. La seconda categoria è composta
dalle azioni intransitive, espressive o deittiche, come
mandare baci, parlare o indicare una persona o un
oggetto. Ciò che rende la percezione di entrambe queste
categorie di azioni diversa da quella degli oggetti
inanimati è il fatto che nella prima, chi osserva e chi
agendo è osservato sono entrambi esseri umani che
condividono lo stesso sistema cervello/corpo che li fa
agire allo stesso modo. L’osservazione d’azioni
costituisce un esempio di simulazione incarnata. Vediamo
perché, iniziando dalla categoria delle azioni
transitive.
La
Comprensione delle azioni transitive
Poco
più di dieci anni fa, il nostro gruppo ha scoperto e
descritto una popolazione di neuroni premotori nel
cervello di scimmia che si attivavano non solo quando la
scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (ad es.
afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le
stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o
scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni,
“neuroni mirror” (Gallese e coll. 1996; Rizzolatti e
coll. 1996a; vedi anche Gallese 2000a, 2001; Gallese e
coll. 2002b; Rizzolatti, Fogassi e Gallese 2000, 2001).
Perché
i neuroni mirror siano attivati durante l’osservazione
di un’azione, questa deve consistere
nell’interazione tra la mano di un agente ed un
oggetto. La semplice presentazione visiva d’oggetti
non evoca alcuna risposta. Neuroni con proprietà simili
sono successivamente stati scoperti anche nel lobo
parietale posteriore, nell’area 7B o PF,
reciprocamente connessa all’area premotoria F5. Questi
neuroni sono stati definiti “neuroni mirror di PF”,
Gallese e coll. 2002b).
La
scoperta dei neuroni mirror ha modificato il nostro modo
di concepire i meccanismi alla base della comprensione
delle azioni osservate. Vediamo perchè.
L’osservazione
di un’azione induce l’attivazione dello stesso
circuito nervoso deputato a controllarne l’esecuzione:
l’osservazione dell’azione induce quindi
nell’osservatore l’automatica simulazione della
stessa azione. Abbiamo proposto che questo meccanismo
possa essere alla base di una forma implicita di
comprensione del comportamento altrui (Gallese e coll.
1996; Rizzolatti e coll. 1996a; vedi anche Gallese 200a,
2003b; Gallese e coll. 2002a,b).
La
relazione tra simulazione dell’azione e sua
comprensione emerge ancora più chiaramente dai
risultati di una serie di recenti esperimenti. Nella
prima serie d’esperimenti, Umiltà e collaboratori
(2001) hanno studiato i neuroni mirror dell’area F5 di
scimmia in due condizioni sperimentali: nella prima
condizione, la scimmia poteva vedere l’intera azione
(ad es. una mano che afferra un oggetto). Nella seconda
condizione, invece, la scimmia osservava la stessa
azione, che tuttavia veniva oscurata nella sua parte
terminale, quella cioè in cui la mano dello
sperimentatore interagiva con l’oggetto. In questa
seconda condizione “oscurata”, la scimmia era al
corrente del fatto che l’oggetto target dell’azione
fosse nascosto dietro ad uno schermo oscurante, ma non
era in grado materialmente di vedere la mano dello
sperimentatore afferrare l’oggetto. Nonostante questo
impedimento, oltre la metà dei neuroni registrati ha
continuato a rispondere anche nella condizione oscurata
(Umiltà e coll. 2001). L’inferenza circa gli scopi
delle azioni altrui sembra essere mediata dall’attività
di neuroni mirror che codificano nel cervello
dell’osservatore gli scopi di quelle stesse azioni.
Mediante la simulazione, la parte non vista
dell’azione può essere ricostruita e quindi il suo
scopo può essere inferito.
Alcuni
tipi di azioni transitive dirette su oggetti sono
caratteristicamente accompagnate da un suono.
Immaginiamo di sentire il suono del campanello della
nostra porta di casa. Questo suono ci indurrà a pensare
che c’è qualcuno fuori della porta che attende di
entrare in casa nostra. Quel suono particolare ci
consente di comprendere ciò che sta avvenendo anche se
siamo privi di qualsiasi informazione visiva al
riguardo. Il suono del campanello ha il potere di
consentirci di inferire l’azione di qualcuno che non
vediamo.
Una
serie recente d’esperimenti condotti nel nostro
laboratorio ci ha consentito di indagare i meccanismi
nervosi alla base di questa capacità. I neuroni mirror
dell’area premotoria F5 di scimmia sono stati
registrati durante 4 differenti condizioni sperimentali:
quando la scimmia eseguiva azioni rumorose (ad es.
rompere una nocciolina, strappare un foglio di carta,
ecc.); quando la scimmia vedeva e sentiva l’azione; e
infine quando la scimmia vedeva soltanto o udiva
soltanto la stessa azione. I risultati hanno dimostrato
che una consistente percentuale di neuroni mirror
scaricavano sia quando la scimmia eseguiva l’azione,
sia quando la scimmia udiva il rumore prodotto
dall’azione o osservava la stessa azione priva del
rumore caratteristico Kohler e coll. 2002; Keysers e
coll. 2003).
Questi
neuroni, che abbiamo definito “neuroni mirror
audio-visivi”, non rispondevano solamente al suono
prodotto da una particolare azione, ma erano in grado di
discriminarlo anche dai suoni prodotti da azioni
diverse. Le azioni il cui suono evocava la più forte
risposta acustica erano anche quelle che producevano la
più forte risposta quando erano osservate od eseguite.
In altre parole, per questi neuroni non fa alcuna
differenza se una data azione è udita, osservata,
oppure eseguita. L’attivazione del circuito neuronale
premotorio che normalmente controlla l’esecuzione
dell’azione “A”, anche in sola presenza del suono
o della visione relativa alla stessa azione “A”, può
essere caratterizzato in termini di simulazione della
stessa azione “A”.
La
simulazione multi-modale dello scopo d’azioni
esemplificata dall’attività dei neuroni mirror mostra
caratteristiche e proprietà straordinariamente simili
ad alcune proprietà simboliche del pensiero umano. La
somiglianza con il contenuto concettuale appare,
infatti, significativa: lo stesso contenuto concettuale
(“lo scopo dell’azione A”), veicolato da una
molteplicità di stati differenti come suoni o azioni
osservate o eseguite, è codificato dall’attivazione
multi-modale di un gruppo di neuroni mirror
audio-visivi.
La
simulazione dell’azione incarnata dai neuroni mirror
audio-visivi appare molto simile all’uso dei
predicati: il verbo “rompere” è utilizzato per
trasmettere un significato che può essere utilizzato in
contesti differenti: “Vedere qualcuno rompere una
nocciolina”, “Udire qualcuno rompere una
nocciolina”, Rompere una nocciolina”. Il significato
del predicato, similmente alla risposta dei neuroni
mirror audio-visivi, non cambia al cambiare del contesto
cui è applicato, nè al cambiare del soggetto/agente
che esegue l’azione. Ciò che cambia è semplicemente
il contesto o il soggetto cui il predicato si applica.
Il
quadro generale che emerge da questi dati è il
seguente: L’integrazione multimodale sensori-motoria
codificata dal sistema di neuroni mirror mette in essere
simulazioni di azioni che vengono utilizzate non solo
per il controllo esecutivo delle stesse azioni, ma anche
per la loro comprensione implicita.
Quale
rilevanza hanno questi risultati per la comprensione dei
meccanismi neurofisiologici alla base
dell’intersoggettività umana? Molteplici studi
neuroscientifici utilizzanti tecnologie diverse hanno
dimostrato come anche il cervello umano sia dotato di un
sistema mirror che mappa le azioni osservate sugli
stessi circuiti nervosi che ne controllano
l’esecuzione attiva (vedi Fadiga e coll. 1995; Grafton
e coll. 1996; Rizzolatti e coll. 1996b; Cochin e coll.
1998; Decety e coll. 1997; Hari e coll. 1999; Iacoboni e
coll. 1999; Buccino e coll. 2001). In particolare, un
recente studio di risonananza magnetica funzionale (fMRI)
condotto su soggetti adulti sani, ha mostrato come il
meccanismo della risonanza motoria sotteso
dall’attivazione del circuito dei neuroni mirror non
sia limitato all’osservazione di azioni eseguite con
la mano, ma si estenda anche ad azioni eseguite con
altri effettori come la bocca o il piede (Buccino e
coll. 2001). Le aree parieto-premotorie attivate
dall’osservazione di azioni eseguite da altri con
diversi effettori sono le stesse che si attivano quando
gli stessi effettori vengono impiegati
dall’osservatore per eseguire quelle stesse azioni. In
altri termini, la stessa organizzazione somatotopica dei
circuiti parieto-premotori serve due funzioni:
controllare l’esecuzione delle azioni e mapparne anche
la comprensione implicita.
La
Comprensione delle azioni intransitive
L’area
premotoria F5 del macaco contiene anche neuroni che
controllano l’esecuzione di azioni effettuate con la
bocca. Abbiamo recentemente descritto una popolazione di
neuroni mirror fondamentalmente correlati alla
esecuzione/osservazione di azioni della bocca (Ferrari e
coll. 2003). La maggior parte di questi neuroni
scaricano quando la scimmia esegue e osserva azioni di
tipo ingestivo, come afferrare oggetti con la bocca,
morderli, o masticarli. Tuttavia una percentuale minore
di neuroni mirror si attiva durante l’osservazione di
azioni facciali comunicative eseguite dallo
sperimentatore di fronte alla scimmia (neuroni mirror
“comunicativi”, vedi Ferrari e coll. 2003). Queste
azioni, caratteristiche del repertorio comunicativo dei
macachi, sono il “lip-smacking” e la protrusione
delle labbra o della lingua. Uno studio comportamentale
ha dimostrato che le scimmie che osservavano queste
azioni prodotte dallo sperimentatore erano perfettamente
in grado di decodificarle, in quanto elicitavano da
parte degli stessi macachi che le osservavano
l’esecuzione di gesti espressivi congruenti (Ferrari e
coll. 2003). Sembra quindi plausibile proporre che i
neuroni mirror comunicativi possano costituire il
correlato neurale di un’ulteriore aspetto delle
relazioni interpersonali fondato sulla simulazione
incarnata.
Un
recente studio fMRI in cui soggetti umani adulti sani
osservavano filmati in cui azioni bucco-facciali
venivano eseguite rispettivamente da uomini, scimmie e
cani, corrobora ulteriormente questa ipotesi (Buccino e
coll. 2004a). Le azioni osservate erano transitive (un
uomo, una scimmia o un cane mordono del cibo) ed
intransitive (un uomo muove le labbra per parlare, una
scimmia esegue il lipsmacking, un cane abbaia). I
risultati hanno mostrato che l’osservazione di azioni
comunicative che appartengono al repertorio
comportamentale umano, oppure che non se ne discostano
molto come nel caso della scimmia, inducono
l’attivazione di regioni del sistema motorio
dell’osservatore che mediano l’esecuzione di quelle
stesse azioni o di azioni analoghe. Azioni comunicative
che invece esulano dal repertorio comportamentale umano
(come abbaiare) sono mappate e quindi categorizzate
sulla base delle caratteristiche percettive visive,
senza indurre alcun fenomeno di risonanza motoria nel
cervello dell’osservatore.
Il
coinvolgimento del sistema motorio durante
l’osservazione di azioni comunicative della faccia e
della bocca è ulteriormente provato da uno studio
recente di stimolazione magnetica transcranica (TSM) ad
opera di Watkins e coll. (2003). I risultati di questo
studio dimostrano infatti che l’osservazione di un
filmato muto di una persona che parla aumenta
nell’osservatore l’eccitabilità degli stessi
muscoli che normalmente impiegherebbe per realizzare
quegli stessi movimenti labiali. La comprensione di
queste azioni comunicative appare quindi essere
accompagnata dalla simulazione motoria delle stesse
azioni.
La
comprensione delle azioni come simulazione
La
pianificazione di un’azione richiede la previsione
delle sue conseguenze. Ciò significa che quando stiamo
per eseguire una data azione, siamo altresì in grado di
prevederne le conseguenze. Questi tipo di predizione è
il risultato computazionale del modello dell’azione.
Grazie ad un processo di equivalenza motoria tra ciò
che è agito e ciò che viene percepito, dal momento che
entrambe le situazioni sono sottese dall’attivazione
dello stesso substrato neuronale – una popolazione di
neuroni mirror – si rende possibile una forma di
comprensione diretta dell’azione altrui. Sia le
predizioni che riguardano le nostre azioni che quelle
che pertengono alle azioni altrui sono infatti processi
di modellizzazione fondati sulla simulazione. La stessa
logica che presiede alla modellizzazione delle nostre
azioni presiede anche a quella delle azioni altrui.
Percepire un’azione – e comprenderne il significato
– equivale a simularla internamente. Ciò consente
all’osservatore di utilizzare le proprie risorse per
penetrare il mondo dell’altro mediante un processo di
modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo non
conscio, automatico e pre-dichiarativo di simulazione
motoria. Questo meccanismo instaura un legame diretto
tra agente ed osservatore, in quanto entrambi vengono
mappati in modo per così dire anonimo e neutrale. Il
parametro “agente” è specificato, mentre non lo è
il suo connotato specifico di identità. I neuroni
mirror mappano in modo costitutivo una relazione
agentiva: la semplice osservazione di un oggetto che non
sia obbiettivo di alcuna azione non evoca infatti alcuna
risposta (Gallese e coll. 1996). E’ quindi
esclusivamente la relazione agentiva ad evocare
l’attivazione dei neuroni mirror.
Nell’uomo,
come nella scimmia quindi, l’osservazione
dell’azione costituisce una forma di simulazione della
stessa azione (Gallese e Goldman 1998; Gallese 2001).
Il
sistema mirror e l’attribuzione di intenzioni
Secondo
la mia ipotesi, la consonanza intenzionale è un
requisito di base dell’intersoggettività. Dato che il
sistema mirror è presente sia nella scimmia che
nell’uomo, cosa consente all’uomo (e verosimilmente
non alla scimmia) di comprendere non solo il significato
delle azioni, ma anche l’intenzione che le promuove? I
meccanismi nervosi alla base di questa funzione
cognitiva tipicamente umana sono ancora sconosciuti. Una
stessa azione può essere originata da intenzioni molto
diverse. Supponiamo di osservare qualcuno afferrare un
bicchiere. I neuroni mirror per l’afferramento si
attiveranno nel cervello dell’osservatore. La semplice
equivalenza motoria tra ciò che viene osservato e la
sua rappresentazione motoria nel cervello
dell’osservatore possono dirci solo quale tipo di
azione è stata eseguita (un afferramento) e non perchè
l’azione è stata eseguita (per bere? oppure per
lavare il bicchiere?). Ma capire perchè il bicchiere è
stato afferrato equivale a predire lo scopo
dell’azione successiva non ancora osservata ( ad
esempio portare il bicchiere alla bocca per bere). In un
recente studio fMRI (Iacoboni e coll. 2005) abbiamo
dimostrato come il sistema mirror premotorio sia in
grado non solo di determinare il cosa di
un’azione, ma anche il suo perchè, cioè
l’intenzione che l’ha promossa. Determinare
l’intenzione alla base dell’azione “A” è
infatti equivalente a predire il suo scopo distale, cioè
lo scopo della successive azione “B”.
La
frequenza probabilistica del verificarsi di certe azioni
in seguito ad altre, appresa sia per la loro ripetuta
esecuzione che osservazione, può condizionare e
plasmare la costituzione di specifiche traiettorie di
inferenze/predizioni. L’ipotesi è che ciò possa
avvenire grazie all’organizzazione sequenziale di
differenti popolazioni di neuroni mirror che codificano
non solo l’azione osservata al momento, ma anche
quelle che in un certo contesto normalmente la
seguirebbero. La differenza tra scimmie e specie umana
potrebbe essere quindi costituita dall’enorme
incremento della ricorsività computazionale acquisita
dal nostro cervello. Una simile ipotesi è stata
recentemente avanzata da Hauser, Fitch e Chomsky (2002)
in relazione alla facoltà del linguaggio.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla scienza
cognitiva classica, il riconoscimento di un’azione e
la comprensione dell’intenzione che l’ha prodotta
sarebbero processi sostenuti da uno stesso meccanismo
funzionale, la simulazione incarnata.
La
strategia epistemica ancora prevalente in ambito
cognitivo consiste nel sottolineare e studiare in cosa
la nostra specie differisca da quelle degli altri
primati non umani. Secondo questo approccio, gli uomini
sono dotati della teoria della mente, le altre specie
no. Potremmo definire questo approccio come un Paradigma
Neo-Tolemaico, caratterizzato da un fortissimo
retrogusto antropocentrico. Si stabilisce infatti– a
mio parere troppo frettolosamente – una relazione
diretta e nomologica tra il nostro uso esclusivo degli
atteggiamenti proposizionali e i loro apparentemente
altrettanto esclusivamente umani correlati neurali. E’
indubbio che utilizziamo atteggiamenti proposizionali.
Ma è perfettamente possible che non troveremo mai nel
nostro cervello box contenti i correlati neurali di
credenze, desideri ed intenzioni, in quanto tali.
Come
è stato sottolineato da Allen e Bekoff (1997), questo
approccio cognitivo di tipo “tutto-o-nulla”
all’intersoggettività, questa disperata ricerca di un
“Rubicone mentale” (più ampio è, meglio è) che
separi la cognizione sociale umana da quelle di tutte le
altre specie animali, è sicuramente discutibile. E’
ragionevole invece ipotizzare che l’evoluzione della
cognizione sociale abbia proceduto lungo una linea di
continuità (Gallese e Goldman 1998; Gallese e coll.
2002). Personalmente trovo molto più interessante
studiare fino a che punto strategie cognitive di diversa
complessità possano essere sostenute e promosse da
meccanismi funzionali simili che hanno tuttavia
acquisito una crescente complessità nel corso
dell’evoluzione. I dati neuroscientifici qui riportati
ne sembrano costituire un esempio.
Il
corpo delle emozioni e la simulazione incarnata
Le
emozioni costituiscono uno dei primi strumenti che
consentono all’individuo di acquisire informazioni
circa il proprio stato, permettendogli così di
riorganizzare queste informazioni e conseguentemente le
proprie azioni, sociali e non. Ciò indica un forte
legame tra componenti affettivo-emotive e azione.
Raramente cerchiamo, tocchiamo, fiutiamo o intratteniamo
qualsiasi tipo di interazione con le cose o le
situazioni che evocano reazioni emotivo-affettive di
segno negativo. Non “traduciamo” cioè queste cose o
situazioni negli schemi motori necessari per interagire
con esse, come facciamo invece per le cose-situazioni
che evocano reazioni edoniche di segno positivo.
L’attività coordinata dei sistemi affettivi con
quelli sensorimotori si traduce quindi nella
semplificazione e automatizzazione delle risposte
comportamentali richieste per assicurarsi la
sopravvivenza. Lo stretto accoppiamento tra emozioni e
integrazione sensorimotoria contribuisce inoltre in modo
forse decisivo allo sviluppo della capacità degli
individui di conseguire con la propria azione scopi
sempre più distali e complessi (vedi in proposito
Gallese e Metzinger 2003; Metzinger e Gallese 2003).
Questa
stretta interrelazione tra emozioni e sistemi
sensorimotori è attestata anche da un recente studio
epidemiologico condotto da Adolphs e coll. (2000). In
questo studio oltre cento pazienti neurologici che
avevano sofferto danni cerebrali di vario tipo sono
stati esaminati circa l’abilità di riconoscere e
denominare le emozioni di base osservando fotografie di
volti umani che le esprimevano. Il risultato
sorprendente di questo studio è stato che erano i
pazienti che avevano sofferto danni alle cortecce
sensorimotorie a mostrare i deficit più gravi nel
riconoscimento e denominazione delle emozioni di base.
L’integrità del sistema sensorimotorio appare quindi
cruciale per il riconoscimento delle emozioni altrui. Il
sistema sensorimotorio media infatti il processo di
ricostruzione di come ci sentiremmo se fossimo noi a
provare quelle stesse emozioni. Riconosciamo cioè le
emozioni degli altri mediante la simulazione incarnata
degli stati corporei ad esse correlati.
Prima
di affrontare il ruolo della simulazione incarnata nella
comprensione sociale delle emozioni, è necessario
chiarire a cosa ci riferiamo quando parliamo di
“emozioni”. Vi sono molteplici modi di esperire
un’emozione. “Emozione” è quindi una parola che
designa e si riferisce ad un aspetto multidimensionale
della nostra vita. Vivere un’emozione può essere
descritto come esperire soggettivamente con variabili
gradi di intensità degli stati corporei interni che
possono o meno tradursi in comportamenti espliciti con
un variabile grado di intensità, spesso localizzati in
specifici distretti corporei, quali il volto.
Esperire
un’emozione si configura quindi come uno stato
complesso dell’organismo accompagnato da gradi
variabili di consapevolezza di quello stesso stato. E’
infatti esperienza comune che chi ci sta vicino ci
faccia domande del tipo: “Perché sei arrabbiato con
me?”, destando la nostra sorpresa in quanto non
eravamo consapevoli fino al momento in cui ci è stata
rivolta la domanda di avere manifestato
quell’emozione. Possiamo quindi trovarci in un dato
stato emozionale ed esprimerlo col nostro corpo senza
esperirne pienamente il contenuto, in quanto contenuto
di una specifica emozione.
Lambie
e Marcel (2002) hanno distinto due livelli di
consapevolezza emozionale: uno stato fenomenico di primo
ordine, da essi definito esperienza emozionale di primo
ordine (“First-order emotion experience”), ed uno
stato di consapevolezza esplicita, definito
consapevolezza cosciente di secondo ordine. Il contenuto
dello stato fenomenico di primo ordine è fisico,
incentrato sul proprio stato corporeo. Il contenuto
dello stato fenomenico autocosciente di secondo ordine
può essere proposizionale o non proposizionale.
Occorre
sottolineare come sia quindi possibile assistere alla
manifestazione di una particolare emozione da parte di
altri senza fare necessariamente riferimento ad una
descrizione proposizionale di quello stato emozionale.
E’ precisamente questa forma diretta di comprensione
delle emozioni che mi interessa esaminare qui di
seguito. Più specificamente, fornirò un quadro delle
basi nervose della comprensione implicita delle emozioni
fondata sul meccanismo della simulazione incarnata.
Un
supporto empirico alla stretta connessione tra
percezione delle emozioni altrui e simulazione incarnata
proviene da uno studio fMRI (Carr e coll. 2003). Questo
studio dimostra che sia l’osservazione che
l’imitazione dell’espressione facciale delle
emozioni di base (paura, rabbia, felicità, disgusto,
sorpresa, e tristezza) attiva lo stesso ristretto gruppo
di strutture cerebrali, che includono la corteccia
premotoria ventrale, l’insula e l’amigdala. Le
stesse strutture cerebrali sono alla base sia della
percezione che della produzione attiva dell’
espressione facciale delle emozioni di base. La funzione
di queste strutture cerebrali può essere caratterizzata
come un meccanismo di tipo mirror. Si potrebbe però
obbiettare che imitare o osservare una data emozione non
ne garantisce anche la contestuale reale esperienza
fenomenica affettiva da parte
dell’osservatore/imitatore. Imitare un’espressione
facciale emozionale non coincide necessariamente col
provare in prima persona quella stessa emozione.
In
uno studio fMRI recentemente pubblicato abbiamo deciso
di verificare direttamente l’ipotesi dell’esistenza
di un correlato neurale comune all’esperienza in prima
e terza persona delle emozioni, studiando una delle
emozioni di base, quella del disgusto. Abbiamo
sottoposto a fMRI un gruppo di soggetti adulti durante
l’esperienza fenomenica del disgusto, indotta
facendogli inalare odoranti disgustosi, e
l’osservazione della stessa emozione attraverso la
visione di un video che riprendeva attori che
esprimevano disgusto con la propria mimica facciale.
I
risultati di questo studio hanno mostrato che la stessa
ristretta regione cerebrale, situata nell’insula
anteriore di sinistra, una porzione del lobo frontale,
si attiva sia durante l’esperienza in prima persona
del disgusto, sia durante l’osservazione della stessa
emozione espressa dalla mimica facciale di altri
individui (Wickers e coll. 2003). E’ verosimile che
questo settore dell’insula contenga popolazioni di
neuroni viscero-motori che con un meccanismo
“mirror” si attivano sia quando i soggetti provano
soggettivamente disgusto che quando riconoscono
l’espressione della stessa emozione sul volto altrui.
Questa
regione cerebrale associa stimoli olfattivi, gustativi e
visivi alle corrispondenti sensazioni viscerali e
risposte viscero-motorie. Penfield e Faulk (1955) hanno
stimolato elettricamente l’insula anteriore
nell’uomo nel corso di interventi neurochirurgici.
Durante la stimolazione i pazienti, in anestesia locale,
riferivano sensazione di nausea e di incipiente vomito.
Un
ulteriore sostegno all’ipotesi in esame viene da
alcuni casi clinici: la lesione dell’insula anteriore
non provoca solo l’incapacità selettiva di provare
disgusto, ma anche l’impossibilità di riconoscere
quella stessa emozione quando espressa da altri (Calder
e coll. 2000).
Riassumendo,
possiamo affermare che sia l’esperienza in prima
persona dell’emozione del disgusto che
l’osservazione della stessa emozione espressa da altri
attivano la stessa struttura nervosa: l’insula
anteriore. Il danno a questa struttura produce un
deficit non solo nella capacità di esperire
quell’emozione ma anche di riconoscerla negli altri.
Ciò suggerisce che, almeno per l’emozione del
disgusto, l’esperienza in prima e terza persona di
un’emozione condividono l’attivazione di uno stesso
substrato neurale.
Quando
vedo qualcuno esprimere col proprio volto una data
emozione e questa percezione mi induce a comprendere il
significato emotivo di quella espressione, non conseguo
questa comprensione grazie ad un argomento per analogia.
L’emozione dell’altro è costituita
dall’osservatore e compresa grazie ad un meccanismo di
simulazione incarnata che produce nell’osservatore uno
stato corporeo condiviso con l’attore di quella
espressione. E’ per l’appunto la condivisione dello
stesso stato corporeo tra osservatore ed osservato a
consentire questa forma diretta di comprensione, che
potremmo definire “empatica”. Goldman e Sripada
(2004) hanno definito questo meccanismo di simulazione
come “risonanza diretta” (“unmediated resonance”).
Ovviamente
la simulazione incarnata non è l’unico meccanismo che
sottende la comprensione delle emozioni. Gli stimoli
sociali possono essere compresi anche sulla base
dell’esplicita elaborazione cognitiva dei loro aspetti
percettivi. Questi due meccanismi non sono mutualmente
esclusivi. La simulazione incarnata, probabilmente il
meccanismo più antico da un punto di vista evolutivo,
è tipicamente esperienziale, mentre il secondo
meccanismo si configura come la descrizione cognitiva di
uno stato di cose esterno al soggetto. La mia ipotesi è
che la simulazione incarnata costituisca uno stadio
necessario per il corretto sviluppo di strategie
cognitive intersoggettive più sofisticate. Quando il
meccanismo simulativo non si è sviluppato oppure si è
costituito in modo anomalo, come forse in certe forme di
autismo (vedi oltre), rimane solo un approccio di tipo
dichiarativo-riflessivo, che però fornirà solo un
quadro freddo e distaccato delle esperienze emotive
altrui (vedi anche Gallese 2003c; Gallese e coll. 2004).
Damasio
(1994, 1999) ha ripetutamente sottolineato come uno dei
meccanismi che permettono di provare emozioni consista
nell’attivazione di un circuito nervoso di tipo
“come se”, cioè un circuito di simulazione. Secondo
la mia ipotesi, è possibile che l'attivazione di questi
circuiti "come se" possa avvenire non solo
dall'interno, ma essere indotta anche dall'osservazione
degli altri (vedi Adolphs 1999; Goldman e Gallese 2000;
Gallese 2001). Inoltre, secondo la mia proposta, il
meccanismo simulativo non è ristretto ad una mera
replica sensoriale dello stato emotivo simulato, ma è
in gran parte sostenuto dall’attivazione automatica
dei suoi connotati viscero-motori ed autonomici, come
testimoniato dal coinvolgimento dell’insula anteriore,
una struttura corticale che come abbiamo vista presenta
una valenza funzionale eminentemente viscero-motoria
(Gallese e coll. 2004).
Entrare
“in contatto”: simulazione e comprensione delle
sensazioni altrui
Nel
secondo libro delle Idee, Pubblicato postumo (1989),
Husserl sottolinea come il Leib, cioè il corpo vissuto
e agito, rappresenti il fondamento costitutivo di ogni
percezione, inclusa quella sociale. Se volessimo
adottare una prospettiva analoga per caratterizzare la
cognizione sociale, potremmo affermare che
l’architettura funzionale di modellizzazione/controllo
delle funzioni corporee, fornisce la base anche per la
modellizzazione delle relazioni intenzionali altrui. Il
modello multimodale e dinamico del nostro corpo come di
un organismo intrinsecamente teleologico fornisce anche
l’architettura rappresentazionale per modellare le
relazioni intenzionali. I risultati neuroscientifici fin
qui discussi relativamente alla comprensione delle
azioni e delle emozioni altrui sembrano suggerirlo. Ma
vi è un’altra componenente del mondo esperienziale
intersoggettivo che non abbiamo ancora preso in
considerazione e che come vedremo corrobora
ulteriormente la nostra ipotesi: quella delle
sensazioni.
Concentriamoci
inizialmente sul tatto. Le sensazioni tattili hanno uno
status privilegiato nel conferire la qualità di persone
agli attori che popolano il nostro mondo sociale.
“Rimaniamo in contatto” è una comune espressione
del linguaggio quotidiano che esprime metaforicamente il
desiderio di rimanere collegati a qualcuno. Esempi come
questo mostrano come la sensazione tattile sia
intinsecamente legata alla dimensione interpersonale.
Uno
studio da me recentemente pubblicato in collaborazione
con altri colleghi mostra che l’esperienza soggettiva
di essere toccati in una parte del proprio corpo
determina l’attivazione dello stesso circuito neurale
attivato dall’osservazione del corpo di qualcun altro
che viene toccato in una parte corporea equivalente (Keysers
e coll. 2004). La regione corticale implicata è
l’area SII/PV, localizzata nell’opercolo parietale,
comunemente ritenuta un’area esclusivamente tattile.
La stessa regione corticale viene quindi attivata sia
quando esperiamo in prima persona una sensazione tattile
localizzata ad una parte del nostro corpo, che quando
siamo testimoni di un’analoga esperienza sensoriale
esperita da qualcun altro.
In
un secondo esperimento abbiamo sostituito le gambe
dell’attore mostrate nel video con oggetti inanimati,
quali rotoli di carta o quaderni. Anche l’osservazione
di questi oggetti che venivano toccati produceva una
significativa attivazione della stessa regione corticale
SII/PV (Keysers e coll. 2004). Il contatto fra due
superfici del mondo esterno è in linea di principio
qualcosa di molto astratto se unicamente mappato da un
punto di vista visivo. Mappare questo stesso evento
invece sul correlato della nostra esperienza tattile
corporea evoca contestualmente un significato
esperienziale personale molto preciso: cosa si prova
durante un contatto.
I
risultati congiunti di questi due recenti esperimenti
suggeriscono quindi che lo stimolo critico per
l’attivazione di SII/PV sia la percezione del
contatto, indipendentemente dal fatto che ad essere
toccato sia un altro corpo umano, un oggetto inanimato,
oppure il nostro stesso corpo. Questa triplice modalità
di attivazione della stessa regione cerebrale suggerisce
che la nostra capacità di riconoscere e comprendere
direttamente a livello esperienziale le esperienze
tattili altrui, così come forse anche una nozione più
astratta del tatto, possa essere mediata ancora una
volta da un meccanismo di simulazione incarnata. Questi
risultati sono stati recentemente confermati da un altro
lavoro (Blakemore e coll. 2005).
Volendo
allargare il discorso, potremmo spingerci a sostenere
che una piena comprensione dell’altro in quanto
persona non possa prescindere dal coinvolgimento in
prima persona di un’esperienza tattile incarnata.
Questa prospettiva ci riporta nuovamente ad Husserl e
alla sua nozione di intersoggettività. Come infatti
ripetutamente sostenuto dal fenomenologo Tedesco nel
secondo libro delle Idee (1989), è proprio la duplice
natura del nostro corpo come soggetto senziente e
oggetto delle nostre percezioni, a consentirci la
costituzione degli altri esseri umani come persone. Il
corpo, simultaneamente percepito come oggetto esterno e
come soggetto esperienziale, fonda sullo stesso
substrato carnale il senso esperienziale di personalità
che attribuiamo agli altri. Siamo così in grado di
derivare dal comportamento altrui il senso interno delle
esperienze e delle motivazioni che ne stanno alla base
grazie al fatto che questi comportamenti percepiti
attivano lo stesso meccanismo funzionale grazie al quale
noi stessi ci esperiamo come persone.
E’
interessante sottolineare a questo proposito come anche
gli studi della psicologia dello sviluppo ci conducano
ad analoghe conclusioni. Il bambino mostra segni di
autocoscienza non riflessiva ben prima dei due anni di
età, quando cioè si riconosce guardandosi allo
specchio, occasione che evoca anche una tipica emozione
auto-cosciente quale quella dell’imbarazzo. Infatti
appena dopo la nascita il neonato è già in grado di
discriminare sensazioni tattili autoprodotte da quelle
originate dal contatto con oggetti esterni (Rochat e
Hespos 1997). Come suggerito dallo psicologo dello
sviluppo Philip Rochat (1998), già a partire dalle
prime settimane di vita i neonati sviluppano la capacità
di riconoscere invarianze e regolarità multimodali
nelle proprie esperienze sensorimotorie. Sono tali
invarianze multimodali a garantire la specificazione di
sé come entità distinta dal mondo circostante. In
particolare, l’esperienza della doppia sensazione
tattile prodotta dal contatto tra la mano del neonato e
il proprio volto sembra svolgere un ruolo guida nella
specificazione di questa primordiale fase della
costruzione del sé. Nuovamente osserviamo come il corpo
e le esperienze da esso generate siano intrinsecamente
legati allo sviluppo cognitivo e psicologico
dell’individuo.
Le
evidenze sperimentali a sostegno dell’ipotesi del
ruolo svolto dalla simulazione incarnata nel mediare la
comprensione esperienziale delle sensazioni altrui non
si limitano alle sensazioni tattili. Anche la percezione
sociale del dolore, sembra infatti essere sostenuta da
un meccanismo di simulazione incarnata. Hutchison e
coll. (1999) hanno registrato l’attività di neuroni
nella corteccia cingolata anteriore, una porzione del
lobo frontale coinvolta nell’analisi degli stimoli
dolorosi e nel controllo delle reazioni viscero-motorie
collegate al dolore, in un paziente neurochirurgico
anestetizzato localmente. In questo studio sono stati
descritti neuroni attivati sia dalla somministrazione di
stimoli dolorosi al paziente che durante la sua
osservazione dell’applicazione degli stessi stimoli al
corpo del neurochirurgo. E’ difficile non essere
tentati dal caratterizzare questi neuroni come neuroni
mirror per la percezione delle sensazioni dolorose.
Un’ulteriore
supporto ad una teoria simulativa della percezione
sociale delle sensazioni viene da uno studio fMRI sul
dolore recentemente pubblicato (Singer e coll. 2004). In
questo studio le stesse strutture nervose, l’insula
anteriore e la corteccia cingolata anteriore,
risultavano attivate sia durante la somministrazione ai
soggetti di stimoli dolorosi sia durante la loro
percezione, mediata dalla comparsa sullo schermo di
computer di uno stimolo simbolico, dell’applicazione
degli stessi stimoli dolorosi al corpo del proprio
partner che giaceva a loro fianco, ma fuori dalla loro
portata visiva. Anche la percezione “simbolica” e
indiretta di una sensazione esperita da altri determina
l’attivazione delle stesse strutture nervose coinvolte
durante l’esperienza in prima persona di quella stessa
sensazione.
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I
molteplici aspetti della simulazione
Abbiamo
fin qui caratterizzato molteplici aspetti della cognizione
sociale, mettendo in evidenza il meccanismo funzionale ad essi
sotteso: la simulazione incarnata. E’ a questo punto
opportuno chiarire meglio a quale accezione di simulazione
abbiamo voluto fare riferimento. Il termine “simulazione”
ha fondamentalmente due differenti accezioni:
1.
Descrive azioni intraprese con l’intento di ingannare
gli altri.
2.
Connota il tentativo di imitare le caratteristiche di
un processo o situazione, impiegando mezzi o strategie
analoghe, col fine di comprenderlo meglio.
E’
la seconda accezione del termine che caratterizza la nozione
di simulazione qui da me impiegata. La simulazione come
modellizzazione d’eventi o circostanze, volta ad una loro
comprensione, per così dire, “dall’interno”.
L’accezione di simulazione come processo di modellizzazione
è tra l’altro vicina all’etimologia del termine. Simulare
deriva infatti dal latino “simulare”, che a sua
volta deriva da “similis”. Questa accezione di
simulazione appare consonante con l’approccio epistemico del
mondo classico Greco-Romano, per cui la conoscenza è
concepita come un processo mediante il quale chi conosce assimila
ciò che si presume debba conoscere (per una discussione della
storia filosofica del concetto di simulazione, vedi Romano
2002).
Ho
fin qui utilizzato il termine simulazione incarnata
per connotare un meccanismo implicito di modellizzazione degli
oggetti ed eventi che il sistema organismo controlla o cerca
di controllare nel corso della costante interazione con essi.
Il termine interazione va inteso nella sua accezione più
ampia. La simulazione può essere considerata come espressione
di un meccanismo funzionale di controllo, la cui funzione è
di modellare gli “oggetti” del processo di controllo. La
simulazione è considerata come il meccanismo impiegato dai
modelli proiettivi anticipatori (“foward models”) per
predire le conseguenze sensoriali delle azioni prima che
queste siano intraprese. Il processo di simulazione consente
di produrre delle conseguenze simulate che divengono
“predizioni.
La
caratterizzazione del processo di simulazione incarnata da me
proposta in questo articolo si discosta in parte dalla
concezione di simulazione proposta in filosofia della mente da
molti propugnatori della Teoria della Simulazione. Secondo
questa teoria infatti, il processo di simulazione intrapreso
dall’osservatore nell’atto di comprendere il comportamento
altrui, è il risultato di un suo deliberato atto di volontà.
Il processo di simulazione incarnata che sto descrivendo qui
è invece automatico in quanto obbligato, non conscio, e
pre-dichiarativo.
Inoltre,
la simulazione non è una prerogativa funzionale del
sistema motorio. In altre parole, la simulazione non è
espressione esclusiva delle strategie del controllo esecutivo
che guidano il nostro comportamento di agenti nel mondo. La
simulazione è verosimilmente –– questa almeno è
l’ipotesi che intendo proporre –– la principale
strategia epistemica disponibile per organismi viventi che
come noi derivano la propria conoscenza del mondo in virtù
delle interazioni con esso intraprese. Un vantaggio offerto
dalla presente ipotesi consiste nel suo carattere di estrema
parsimonia. Se la mia ipotesi è corretta, un singolo
meccanismo –– la simulazione incarnata (“embodied
simulation”, Gallese 2005 ab) –– è in grado di fornire
un sostrato funzionale comune ad aspetti differenti
dell’intersoggettività. E’ un processo funzionale che
caratterizza la vita mentale, in quanto produttore di
contenuti ricchi di significato. Ma è altresì incarnato
non solo in quanto sub-personalmente realizzato a livello
neuronale, ma soprattutto perché utilizza preesistenti
modelli delle interazioni corpo/mondo e quindi implica forme
pre-dichiarative di rappresentazione.
I
risultati neuroscientifici fin qui esposti sembrano suggerire
che la simulazione incarnata costituisca una caratteristica
funzionale di base del cervello dei primati, uomo compreso.
Il
sistema della molteplicità condivisa e la consonanza
intenzionale
La
costituzione dell’identità sé-altro rappresenta una
formidabile spinta per lo sviluppo di forme più articolate e
sofisticate d’intersoggettività. E’ questa relazione
d’identità che ci consente di comprendere il comportamento
altrui e le intenzioni che lo hanno promosso, di imitarlo, di
apprezzare e comprendere direttamente il significato delle
sensazioni ed emozioni esperite dagli altri.
Propongo
quindi di caratterizzare questa relazione d’identità,
trasversale a tutte le forme di relazione interpersonale, in
termini di un “sistema della molteplicità condivisa” (“shared
manifold”, Gallese 2001, 2003abc, 2006). E’ questo sistema
che rende possibile il riconoscimento degli altri umani come
nostri simili, che promuove la comunicazione intersoggettiva,
l’imitazione e l’attribuzione d’intenzioni agli altri, o
almeno le forme più elementari di tale attribuzione. Questo
sistema può essere definito operazionalmente a tre diversi
livelli: un livello fenomenologico; un livello funzionale, ed
un livello sub-personale.
Il livello fenomenologico
è quello caratterizzato dal senso di famigliarità,
dall’impressione soggettiva di essere individui facenti
parte di una più larga comunità sociale composta da altri
individui simili a noi. Può essere definito anche come il
livello empatico, a patto di caratterizzare l’empatia
secondo quell’accezione ampliata cui accennavo prima. Le
azioni eseguite, le emozioni e le sensazioni esperite dagli
altri acquistano per noi un significato in virtù della
possibilità cha abbiamo di condividerle esperienzialmente,
grazie alla presenza di un comune formato rappresentazionale.
Questa condivisione noi-centrica è la consonanza intenzionale
Il livello funzionale, che
abbiamo esplorato durante tutto il corso della nostra
esposizione, è rappresentato da routines di simulazione
incarnata, modalità “come se” di interazione che
consentono di creare modelli del sé/altro. La stessa logica
funzionale alla base del controllo del proprio agire ed
esperire, opera anche durante la comprensione dell’agire ed
esperire altrui. Entrambi sono espressione di modelli
d’interazione, che mappano i propri referenti su identici
nodi funzionali relazionali. Ogni modalità d’interazione
interpersonale condivide il carattere relazionale. Nel sistema
della molteplicità condivisa la logica operativa relazionale
produce l’identità sé/altro, permettendo al sistema di
identificare coerenza, predicibilità e regolarità,
indipendentemente dalla loro sorgente. Da qui sgorga la
consonanza intenzionale con l’altro.
Il livello
sub-personale, è infine costituito dall’attività di
una serie di circuiti neurali di tipo mirror. L’attività di
questi circuiti neurali a sua volta è interconnessa con una
serie di cambiamenti di stato corporei a più livelli. Il
sistema neuronale mirror è il correlato sub-personale della
condivisione multimodale dello spazio intenzionale.
Rappresenta quindi il correlato neurale della consonanza
intenzionale. Tutti questi aspetti dell’intersoggetività
hanno alla propria base la co-costruzione di una consonanza
intenzionale che inizia con i nostri primi rapporti
interpersonali subito dopo la nascita e ci accompagna poi
durante tutto il corso della nostra vita.
Vi è
un punto importante che deve essere chiarito. Il sistema della
molteplicità condivisa da me descritto non implica che noi
esperiamo gli altri come esperiamo noi stessi. Tale
sistema semplicemente costituisce e promuove il processo di
mutua intelligibilità. Ovviamente, l’identità sé/altro
costituisce solo un aspetto dell’intersoggettività. Come
sottolineato da Husserl (1989; vedi anche Zahavi 2001), è il
carattere d’alterità dell’altro che fornisce
oggettività alla realtà. La qualità della nostra esperienza
vitale (erlebnis) del “mondo esterno” ed il suo
contenuto sono condizionati dalla presenza di altri soggetti
che risultano intelligibili, pur mantenendo la propria alterità.
Il carattere di alterità dell’altro può essere
identificato anche al livello sub-personale, prendendo in
considerazione, ad esempio, i differenti circuiti corticali
attivati quando io agisco o esperisco rispetto a quando
lo fanno gli altri. Questi circuiti nervosi sono
infatti solo parzialmente condivisi.
Autismo
come disturbo della consonanza intenzionale
Ho
cercato di delineare un’ipotesi circa i meccanismi
funzionali – ed i relativi correlati neuronali – alla base
di alcuni fondamentali aspetti dell’intersoggettività. Un
ovvio banco di prova per valutare la validità della mia
ipotesi consiste nel verificarne l’applicabilità
all’ambito psicopatologico, con particolare riferimento ad
una sindrome, l’autismo, che si connota per la prevalente
dimensione intersoggettiva e sociale. L’impresa appare da
subito ardua in quanto il primo problema dell’autismo (così
come per altre forme psicopatologiche, quali la schizofrenia)
consiste nella sua definizione nosografica.
Di
cosa parliamo precisamente, quando parliamo di autismo?
Parliamo di un disturbo severo e cronico dello sviluppo,
caratterizzato da deficit nei comportamenti comunicativi e
sociali e da limitato interesse per l’ambiente circostante,
verso cui viene intrapreso un numero ristretto e spesso
stereotipato di iniziative (Dawson e coll. 2002). Essere
autistici in pratica si traduce, con gradi variabili di gravità,
nell’incapacità di entrare in comunicazione con il mondo
degli altri, di stabilire un contatto visivo-attentivo con gli
altri, di imitarne il comportamento e di comprenderne
pensieri, emozioni e sensazioni.
Vorrei
soffermarmi brevemente su alcuni dei sintomi più precoci con
cui l’autismo si manifesta in età infantile. Già verso la
fine del primo anno di vita i soggetti autistici mostrano
difficoltà o impossibilità di orientarsi sulla base di
indicazioni che provengono dagli altri, mostrano difficoltà
nel condividere con gli altri l’attenzione verso uno stesso
oggetto o avvenimento, incapacità di rispondere in modo
congruente alle emozioni manifestate dagli altri, difficoltà
nel riconoscere i volti umani, difficoltà nel manifestare
comportamenti imitativi. Tutte queste manifestazioni precoci
hanno un comune denominatore: sembrano mancare gli strumenti
cognitivi per entrare a vario titolo in comunicazione con
l’altro.
La
mia ipotesi (vedi Gallese 2003c, 2006) è che questi deficit
possano essere ascritti ad un disturbo della consonanza
intenzionale. Se, come ho sostenuto nel corso di tuttola mia
relazione, alla base dell’intersoggettività sta in
primis la capacità di creare in modo diretto ed implicito
uno spazio di senso condiviso che ci permette di entrare
direttamente in comunicazione con le molteplici relazioni
intenzionali manifestate dagli altri, mi sembra logico
individuare a questo livello il problema principale della
mente autistica. L’incapacità di sviluppare in modo pieno e
compiuto una consonanza intenzionale con gli altri ha come
inevitabile conseguenza lo sviluppo di una forma deficitaria e
lacunosa di quella che abbiamo definito “molteplicità
condivisa”.
La
mancanza di una piena consonanza intenzionale si tradurrà in
una serie variabile e diversificata di deficit cognitivi che
tuttavia condividono la stessa origine funzionale: un deficit
o malfunzionamento dei meccanismi di simulazione incarnata,
verosimilmente sostenuto da alterazioni nella connettività
e/o funzionamento del sistema neuronale mirror, o nella
modulazione (in eccesso oppure in difetto) dell’attività
funzionale di quello stesso sistema neuronale. Se la mia
ipotesi è corretta, questo supposto disturbo della consonanza
intenzionale dovrebbe manifestarsi ai diversi livelli – già
esposti nel corso della relazione– in cui è possibile
declinarla. Una serie di dati sperimentali sembrano
dimostrarlo. Vediamoli molto succintamente.
Uno
studio recente sugli atteggiamenti posturali nei bambini
autistici ha mostrato che in questi soggetti sembra prevalere
l’utilizzazione di modalità di controllo esecutivo motorio
che si basano fondamentalmente sulle informazioni di feed-back
provenienti dalla periferia sensoriale. I soggetti autistici a
differenza dai soggetti sani non sembrano cioè utilizzare
meccansimi predittivi a feed-forward. Questo disturbo della
strategia del controllo motorio provoca l’incapacità di
adottare atteggiamenti posturali anticipatori (Schmitz e coll.
2003). E’ difficile non vedere in questo disturbo
un’esemplificazione di un deficit simulativo applicato alla
sfera del controllo motorio. Questo deficit che non è di tipo
interpersonale, manifesta però alla propria radice un
malfunzionamento in un ambito specifico (quello
esecutivo-motorio) di un meccanismo, la simulazione, che
abbiamo proposto essere alla base della creazione di un senso
comune condiviso con gli altri. Due recenti lavori dimostrano
una relazione tra autismo ed un deficit dei meccanismi di
risonanza motoria sostenuti dal sistema mirror per le azioni (Oberman
e coll. 2005; Theoret e coll. 2005).
Un
ulteriore esemplificazione di deficit simulativo è
rappresentata dalla notoria difficoltà dei soggetti autistici
nel comportamento imitativo. I bambini autistici presentano
deficit nel comportamento imitativo simbolico e non simbolico
dei movimenti corporei, nell’imitazione dell’uso degli
oggetti, nell’imitazione vocale, e nell’imitazione delle
espressioni facciali (per una rassegna di questa letteratura,
vedi Rogers 1999). Questi deficit sono presenti sia nelle
forme di autismo ad alto che a basso funzionamento. Inoltre, i
deficit imitativi emergono non solo rispetto alle perfomances
dei soggetti sani, ma anche rispetto a quelle di bambini con
equivalente ritardo mentale e linguistico ma non autistici.
Secondo la mia ipotesi, i deficit imitativi dell’autismo
riposano sull’incapacità di stabilire un’equivalenza
motoria fra dimostratore ed imitatore, verosimilmente per un
malfunzionamento del sistema mirror, o per un’alterata
regolazione affettivo-emotiva di questo sistema. I deficit
imitativi si declinano cioè come un’ulteriore aspetto
deficitario della molteplicità condivisa.
Veniamo
ora ai deficit manifestati dai soggetti autistici nella sfera
affettivo-emozionale. Numerosi studi hanno mostrato che i
bambini autistici hanno difficoltà nell’espressione
facciale delle emozioni e nella comprensione
dell’espressione facciale delle emozioni negli altri (Snow e
coll. 1988; Yirmiya e coll. 1989; Hobson e coll. 1988, 1989).
Un’ulteriore manifestazione dei deficit affettivi
nell’autismo è stata evidenziata da Hobson e Lee (1999). In
questo studio i bambini autistici sono risultati
significativamente peggiori rispetto ai controlli sani nel
riprodurre le caratteristiche affettive delle azioni loro
mostrate che dovevano riprodurre. Tutti questi disturbi della
sfera affettivo-emozionale possono essere inquadrati come
deficit della consonanza affettiva, una componente della
consonanza intenzionale, rappresentando quindi un’ulteriore
aspetto di una deficitaria molteplicità condivisa.
La
mia ipotesi sull’autismo come disturbo della consonanza
intenzionale procede in una direzione del tutto opposta
rispetto a molte delle teorie oggi prevalenti
sull’eziopatogenesi di questa sindrome. Una delle teorie più
accreditate, pur con varie articolazioni e successive
modulazioni –non sempre coerenti – sostiene infatti che
l’autismo derivi sostanzialmente da un deficit dei moduli
delle mente specificamente selezionati nel corso
dell’evoluzione per costruire teorie della mente altrui (Baron-Cohen,
Leslie e Frith 1985; Baron-Cohen 1988, 1995).
La
tesi dell’autismo come deficit modulare della Teoria della
Mente, cioè come incapacità di creare metarappresentazioni
delle menti altrui, presenta tra le altre una prima grossa
difficoltà: appare infatti difficilmente riconciliabile con
quanto sostenuto da alcuni soggetti autistici ad alto
funzionamento come Temple Grandin (1995), e cioè che per
farsi un’idea di cosa il mondo degli altri significasse,
dovevano costruire “teorie” su questo mondo. Queste
testimonianze sembrano indicare che la teorizzazione sul mondo
intenzionale dell’altro, lungi dall’essere il deficit di
base, costituisce invece l’unica ancora di salvezza,
l’unica strategia disponibile quando mancano strumenti
cognitivi più elementari e diretti per condividere
automaticamente le certezze implicite che danno un senso al
mondo degli altri.
La
mia ipotesi presenta diverse analogie con quella proposta da
Hobson alla fine degli anni ottanta (Hobson 1989, 1993a, b).
Secondo il modello psicologico dell’autismo proposto da
Hobson infatti, all’origine della sindrome sarebbe
l’incapacità di creare una correlazione affettiva con gli
altri che impedisce al soggetto autistico di identificarsi con
l’altro e quindi stabilire relazioni sociali. Tutti gli
altri problemi sociali, inclusi quelli imitativi, sarebbero
una conseguenza di questo deficit di base della sfera
affettiva. Il modello di Hobson tuttavia non riesce a spiegare
deficit imitativi in compiti in cui non è richiesta
un’identificazione con il dimostratore, come quando le
azioni da imitare sono presentate attraverso figure
schematiche. Questi risultati sono invece perfettamente
compatibili con un’ipotesi più generale, quale quella da me
qui proposta. Il deficit della consonanza affettiva non è il
deficit di base, ma solo un aspetto parziale di un
problema più ampio, quello cioè di una lacunosa ed
imperfetta consonanza intenzionale.
Tutto
quanto detto fino ad ora circa i possibili meccanismi alla
base dell’autismo infantile costituisce una semplice
ipotesi. Credo che i tempi siano maturi per passare ad una
verifica empirica di questa ipotesi. Ciò è quanto i miei
colleghi ed io ci ripromettiamo di fare nell’immediato
futuro.
Conclusioni
I
dati neuroscientifici qui brevemente riassunti, suggeriscono
l’esistenza di un livello di base nelle nostre relazioni
interpersonali che non prevede l’uso esplicito di
atteggiamenti proposizionali. Questo livello di base è
costituito da processi di simulazione incarnata mediante i
quali possiamo co-costituire nella relazione con gli altri uno
spazio interpersonale condiviso e direttamente intelligibile.
Questo spazio condiviso non si esaurisce nel mondo delle
azioni. Coinvolge una dimensione più globale, comprendendo
cioè tutti quegli aspetti che definiscono un organismo
vivente, dalla forma del suo corpo, alle sue sensazioni ed
emozioni. Questo multiforme spazio condiviso definisce
l’ampia gamma di certezze implicite che nutriamo riguardo i
nostri simili. Sé ed altro da sé sono correlati, in quanto
entrambi rappresentano opposte estensioni di uno stesso spazio
“noi-centrico”. Osservatore ed osservato sono entrambi
parte di un sistema dinamico guidato da regole di reversibile
reciprocità.
Lo
spazio interpersonale in cui siamo letteralmente immersi fin
dalla nascita continua a costituire per tutta la vita una
parte sostanziale del nostro spazio semantico. Quando
osserviamo il comportamento altrui, e siamo esposti al potere
espressivo di questo agire (il modo in cui gli altri agiscono,
le loro sensazioni ed emozioni), grazie ad un processo
automatico di simulazione, si crea una consonanza
intenzionale, un ponte interpersonale carico di significato.
L’importanza della simulazione nelle relazioni
interpersonali è sottolineata anche da una recente serie di
studi in psicologia sociale. Molti di questi studi (per una
recente rassegna, vedi Barsalou e coll. 2003) dimostrano che
tendiamo ad accompagnare la nostra comprensione linguistica o
la nostra attività immaginativa con reazioni corporee che
simulano le esperienze reali. Gli stimoli, indipendentemente
dalla loro natura esterna o interna, inducono forme di
simulazione incarnata con la modalità di una reazione
automatica, quasi riflessa. Questi studi mostrano insomma una
sorprendente relazione tra differenti aspetti delle nostre
funzioni cognitive più elevate e la simulazione incarnata.
E’
un problema empirico indagare fino a che punto questi
meccanismi di simulazione possano spiegare la sofisticata
–– ed apparentemente unicamente umana –– capacità di
interpretare il mondo interiore degli altri. I dati presentati
in questa relazione, e le ipotesi da essi suggerite,
costituiscono credo già oggi una promettente base di
partenza. Questi dati inoltre possono dischiudere nuove
prospettive di ricerca multidisciplinare nell’ambito di
altri aspetti legati all’intersoggettività quali etica ed
estetica.
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