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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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LA MOLTEPLICITA' CONDIVISA: Dai neuroni specchio alle relazioni interpersonali.

 

 di Vittorio Gallese

 

Vittorio Gallese was born and educated in Parma and  took his M.D. at the University of Parma in 1985. In 1989 he took the Degree in Neurology at the University of Parma.From 1990 to 1991 he worked at the Institute of Human Physiology of the University of Parma as researcher. He worked for two years as JSPS Fellow at the Dept. of Physiology of Nihon University, Tokyo, Japan with Hideo Sakata and Akira Murata. In 1994 he returned to Parma where he was appointed as Assistant Professor in Human Physiology and in 2000 he became Associate Professor of Human Physiology.

He's currently teaching cardiovascular physiology to undergraduate students at the School of Medicine of the University of Parma, and neurophysiology to undergraduate students at the School of Psychology of the same University.He's also teaching neuroscience to PhD students in Philosophy of Mind at the University of Bologna. He's member of the European Brain and Behaviour Society and of the Italian Society of Physiology. He's  a consultant of the McDonnell Project in Philosophy and the Neurosciences. A synthetical list of publications is quoted below.

 

                          

Introduzione

 

In questa relazione mi propongo di affrontare in modo forzatamente molto conciso alcuni aspetti delle basi neurofisiologiche dell’intersoggettività. Questo tema sta riscuotendo sempre di più l’attenzione delle neuroscienze cognitive. La possibilità di studiare le dinamiche neuronali in specie animali sociali a noi evolutivamente vicine, quali i primati non umani, unitamente alla possibilità di affiancare a questa ricerca lo studio dell’attivita cerebrale umana, grazie alle metodiche di visualizzazione per immagini dell’attività cerebrale come la Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), hanno dato grande slancio all’impresa scientifica di comprendere le basi nervose dell’intersoggettività. Tale ambizioso progetto offre interessanti spunti di dialogo e collaborazione con altre discipline quali la psicologia cognitiva, la psicopatologia, la filosofia della mente, e più in generale le scienze umane.

Una comprensione puntuale dell’intersoggettività, cioè di ciò che forse maggiormente definisce l’essenza di noi esseri umani, non può prescindere da una chiara distinzione dei livelli di descrizione. Quando parliamo di intersoggettività infatti ci riferiamo ad una serie di attitudini sociali, dotate di specifici contenuti fenomenici, a loro volta sottesi dall’attività di popolazioni di neuroni nel nostro cervello. La difficoltà maggiore di un progetto di naturalizzazione della cognizione sociale, ed in particolare dell’intersoggettività, consiste nel fornire un quadro integrato e coerente che abbracci tutti i possibili livelli di descrizione, senza sacrificarne alcuno a tentazioni eliminativiste.

La scienza cognitiva classica ha concentrato i propri sforzi soprattutto nel chiarire le regole formali che strutturano una mente essenzialmente solipsistica. Purtroppo si è molto meno indagato su ciò che innesca il senso d’identità di cui comunemente facciamo esperienza ogni volta che entriamo in contatto con i nostri consimili. Credo valga la pena di chiedersi se l’analisi solipsistica condotta dalla scienza cognitiva classica, ispirata dalla Psicologia del Senso Comune, costituisca l’unico approccio esplicativo possibile. In particolare, dobbiamo chiederci se questo approccio renda piena giustizia agli aspetti fenomenici ed esperienziali delle nostre relazioni interpersonali. La mia risposta ad entrambe le domande è negativa.

In quanto esseri umani, oltre a percepire la natura esterna ed oggettiva del comportamento altrui, ne esperiamo direttamente in modo pre-verbale anche il carattere intenzionale e teleologico, similmente a come esperiamo noi stessi quali agenti consapevoli e volontari delle nostre esperienze. Da una prospettiva in prima persona, il nostro ambiente sociale appare popolato da altri soggetti che similmente a noi intrattengono relazioni intenzionali con il mondo. In altre parole, ci troviamo naturalmente in una relazione di “consonanza intenzionale” con le relazioni intenzionali altrui.

Questa prospettiva si applica non solo al mondo delle azioni, ma anche più in generale all’esperienza delle emozioni e delle sensazioni vissute da altri. Diversamente da Mr. Spock, il celebre eroe alieno della saga Star Trek, il nostro campo mentale non si riduce e non è limitato ad una mera prospettiva oggettificante in terza persona. Non siamo alienati dal significato delle azioni, emozioni o sensazioni esperite dagli altri, proprio perché a differenza della mente aliena di Spock, condividiamo con gli altri non solo le stesse azioni, emozioni e sensazioni, ma anche i meccanismi nervosi che le sottendono. Grazie alla consonanza intenzionale, l’altro che ci sta di fronte è molto più che un altro sistema rappresentazionale: l’altro è un’altra persona come noi.

Nella mia relazione dimostrerò come gli stessi circuiti nervosi coinvolti nel controllo delle azioni e nell’esperienza soggettiva di emozioni e sensazioni siano attivi anche quando siamo testimoni delle azioni altrui e delle emozioni e sensazioni da essi esperite. Mostrerò come questi diversi aspetti dell’intersoggettività condividano ––ad un livello di base –– una cruciale caratteristica comune: la loro dipendenza dalla costituzione di uno spazio di senso interpersonale condiviso. Questo spazio condiviso, il Sistema della Molteplicità Condivisa – una possibile versione “allargata” della vecchia nozione di empatia, trasversale ai livelli di crescente complessità delle relazioni interpersonali –è sostenuto da uno specifico meccanismo funzionale: la “simulazione incarnata” (“embodied simulation”). Il sistema dei neuroni mirror, assieme ad altri analoghi circuiti di tipo mirror non motori, costituiscono il substrato neurale della simulazione incarnata, il meccanismo funzionale che garantisce la nostra consonanza intenzionale con gli altri. La parte finale della mia relazione esplorerà la possibilità di applicare la nozione della consonanza intenzionale allo studio della psicopatologia dell’intersoggettività, ed in particolare allo studio dell’autismo.

 

 

L’importanza dell’Identità Sociale

    Dall’inizio della nostra vita, la dimensione sociale esercita un ruolo decisivo all’interno delle interazioni che caratterizzano il nostro rapporto con il mondo. Il comportamento sociale non è una prerogativa dei primati; esso è diffuso in specie diverse ed evolutivamente lontane da noi quali le api e le formiche. All’interno di specie animali differenti le interazioni sociali giocano ruoli diversi, e sono probabilmente sostenute da meccanismi diversi. Tuttavia, la nozione d’identità degli individui occupa un ruolo centrale in tutte le specie sociali e –– all’interno delle specie più evolute di primati –– in tutte le culture sociali. Da ciò consegue che alla base di tutti i livelli d’interazione sociale caratterizzanti le facoltà cognitive dei singoli individui, devono esistere meccanismi capaci di garantire un mutuo riconoscimento ed una mutua intelligibilità.

    Come esseri umani noi sappiamo implicitamente che i nostri consimili sono dotati di quattro arti, camminano in un certo modo, agiscono e pensano in modi caratteristici, provano lo stesso tipo di emozioni e sensazioni. Se, ad esempio, condividiamo con altri individui la stessa cultura, tatueremo il nostro corpo allo stesso modo, oppure indosseremo la stessa sciarpa assistendo alla partita della nostra squadra del cuore. Se condividiamo con altri cittadini una certa prospettiva su come la nostra società dovrebbe essere governata, voteremo con loro per lo stesso partito politico. Potremmo fare infiniti altri esempi.

L’identità sociale può quindi essere articolata su differenti livelli di complessità in cui specie animali diverse possono manifestare differenti livelli di complessità. Tuttavia, indipendentemente dalla loro complessità, le relazioni d’identità sociale sono imprescindibili per ingenerare quel senso d’appartenenza ad una stessa comunità di altri individui. Per quale motivo questa caratteristica è stata preservata nel corso dell’evoluzione?

L’identità sociale è importante perché garantisce agli individui la capacità di meglio predire le conseguenze del comportamento altrui. L’attribuzione di uno status di identità agli altri individui consente infatti di contestualizzare automaticamente il loro comportamento. Ciò, a sua volta, riduce le variabili che devono essere analizzate, ottimizzando l’impiego di risorse cognitive attraverso la riduzione dello “spazio del significato” che deve essere mappato. Attraverso la contestualizzazione del contenuto significante che emerge da ogni relazione interpersonale, l’identità sociale consente di ridurre la quantità d’informazione che il nostro cervello deve analizzare. Nella prossima sezione esamineremo brevemente il problema dell’identità sociale da un punto di vista ontogenetico.

 

 

La “rivoluzione cognitiva” nella psicologia dello sviluppo

               Uno dei maggiori contributi alla comprensione dell’intersoggettività è stato fornito negli ultimi vent’anni dalla ricerca svolta nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva. La psicologia dell’età evolutiva ha letteralmente rivoluzionato le nostre concezioni sulle capacità cognitive di neonati e bambini. I risultati di queste ricerche hanno mostrato, tra l’altro, che fin dall’inizio della nostra vita siamo capaci di comportamenti che, se manifestati da individui adulti, ascriveremmo prontamente alle risorse più astratte del nostro sistema cognitivo.

Un aspetto interessante della propensione dei neonati a ciò che in individui adulti definiremmo “astrazione” è rappresentato dalla sorprendente capacità di operare un’integrazione multimodale dell’informazione sensoriale. Neonati di tre settimane sono infatti in grado di identificare visivamente ciucciotti che avevano precedentemente tenuto in bocca senza poterli vedere (Meltzoff e Borton 1979). Ciò che era stato in precedenza esperito come differente da un punto di vista tattile, viene successivamente riconosciuto anche come visivamente diverso. Altri studi hanno mostrato che i neonati sono perfettamente in grado di determinare l’intensità e l’andamento temporale di una stimolazione sensoriale, indipendentemente dalla specifica modalità (tattile, uditiva o visiva) attraverso cui viene convogliata (per una rassegna di questa letteratura, vedi Stern 1985). Il trasferimento cross-modale dell’informazione sembra essere quindi una capacità innata, o quantomeno a sviluppo molto precoce.

   Foto: Meltzoff

Questa capacità sembra svolgere un ruolo chiave nello sviluppo dell’intelligenza sociale, in quanto utilizzata per la costituzione di relazioni interpersonali. Come è stato infatti mostrato da Meltzoff e Moore, neonati di 18 ore sono in grado di riprodurre movimenti della faccia e della bocca mostrati da adulti (Meltzoff e Moore 1977; vedi anche Meltzoff e Moore 1997; Meltzoff 2002). Uno degli aspetti più sorprendenti è costituito dal fatto che i neonati sono in grado di imitare movimenti della faccia e della bocca, cioè utilizzano parti corporee cui non hanno alcun accesso visivo. L’informazione visiva relativa al comportamento osservato è tradotta nei comei motori richiesti per riprodurre quel comportamento.

L’imitazione precoce sembra costituire un ulteriore esempio della capacità del neonato di stabilire relazioni d’equivalenza fra diverse modalità d’esperienza. L’imitazione precoce ci aiuta a capire meglio l’intelligenza sociale in quanto mostra che i legami e le relazioni interpersonali sono stabiliti all’esordio della vita, ben prima dell’emergere del linguaggio, quando il soggetto auto-cosciente dell’esperienza non si è ancora pienamente costituito.

L’assenza di forme sofisticate e meta-rappresentazionali di soggettività auto-cosciente non preclude, tuttavia, la costituzione di uno spazio primitivo noi-centrico “sé/altro”. Il neonato condivide questo spazio “noi-centrico” con gli altri individui che popolano il suo mondo.

Le scoperte della psicologia dell’età evolutiva sono rilevanti per la nostra discussione dell’intersoggettività anche per un’altra ragione: questi dati mostrano infatti che il nostro sistema cognitivo è in grado di costruire una mappa multi-modale “astratta” che utilizza disparate sorgenti sensoriali, ben prima dello sviluppo del linguaggio (lo strumento d’astrazione per eccellenza) e di altre forme sofisticate di inter-azione sociale.

La Comprensione delle Azioni Altrui

Gran parte della nostra competenza sociale dipende dalla nostra capacità di comprendere il senso delle azioni altrui di cui siamo testimoni. Queste azioni appartengono fondamentalmente a due distinte categorie. La prima è costituita dalle azioni transitive, dirette verso oggetti esterni, come afferrare una tazza, sollevare il ricevitore del telefono, mordere una mela, o calciare una palla. La seconda categoria è composta dalle azioni intransitive, espressive o deittiche, come mandare baci, parlare o indicare una persona o un oggetto. Ciò che rende la percezione di entrambe queste categorie di azioni diversa da quella degli oggetti inanimati è il fatto che nella prima, chi osserva e chi agendo è osservato sono entrambi esseri umani che condividono lo stesso sistema cervello/corpo che li fa agire allo stesso modo. L’osservazione d’azioni costituisce un esempio di simulazione incarnata. Vediamo perché, iniziando dalla categoria delle azioni transitive.

 

 

La Comprensione delle azioni transitive

Poco più di dieci anni fa, il nostro gruppo ha scoperto e descritto una popolazione di neuroni premotori nel cervello di scimmia che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (ad es. afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni, “neuroni mirror” (Gallese e coll. 1996; Rizzolatti e coll. 1996a; vedi anche Gallese 2000a, 2001; Gallese e coll. 2002b; Rizzolatti, Fogassi e Gallese 2000, 2001).

Perché i neuroni mirror siano attivati durante l’osservazione di un’azione, questa deve consistere nell’interazione tra la mano di un agente ed un oggetto. La semplice presentazione visiva d’oggetti non evoca alcuna risposta. Neuroni con proprietà simili sono successivamente stati scoperti anche nel lobo parietale posteriore, nell’area 7B o PF, reciprocamente connessa all’area premotoria F5. Questi neuroni sono stati definiti “neuroni mirror di PF”, Gallese e coll. 2002b).

La scoperta dei neuroni mirror ha modificato il nostro modo di concepire i meccanismi alla base della comprensione delle azioni osservate. Vediamo perchè.

L’osservazione di un’azione induce l’attivazione dello stesso circuito nervoso deputato a controllarne l’esecuzione: l’osservazione dell’azione induce quindi nell’osservatore l’automatica simulazione della stessa azione. Abbiamo proposto che questo meccanismo possa essere alla base di una forma implicita di comprensione del comportamento altrui (Gallese e coll. 1996; Rizzolatti e coll. 1996a; vedi anche Gallese 200a, 2003b; Gallese e coll. 2002a,b).

La relazione tra simulazione dell’azione e sua comprensione emerge ancora più chiaramente dai risultati di una serie di recenti esperimenti. Nella prima serie d’esperimenti, Umiltà e collaboratori (2001) hanno studiato i neuroni mirror dell’area F5 di scimmia in due condizioni sperimentali: nella prima condizione, la scimmia poteva vedere l’intera azione (ad es. una mano che afferra un oggetto). Nella seconda condizione, invece, la scimmia osservava la stessa azione, che tuttavia veniva oscurata nella sua parte terminale, quella cioè in cui la mano dello sperimentatore interagiva con l’oggetto. In questa seconda condizione “oscurata”, la scimmia era al corrente del fatto che l’oggetto target dell’azione fosse nascosto dietro ad uno schermo oscurante, ma non era in grado materialmente di vedere la mano dello sperimentatore afferrare l’oggetto. Nonostante questo impedimento, oltre la metà dei neuroni registrati ha continuato a rispondere anche nella condizione oscurata (Umiltà e coll. 2001). L’inferenza circa gli scopi delle azioni altrui sembra essere mediata dall’attività di neuroni mirror che codificano nel cervello dell’osservatore gli scopi di quelle stesse azioni. Mediante la simulazione, la parte non vista dell’azione può essere ricostruita e quindi il suo scopo può essere inferito.

Alcuni tipi di azioni transitive dirette su oggetti sono caratteristicamente accompagnate da un suono. Immaginiamo di sentire il suono del campanello della nostra porta di casa. Questo suono ci indurrà a pensare che c’è qualcuno fuori della porta che attende di entrare in casa nostra. Quel suono particolare ci consente di comprendere ciò che sta avvenendo anche se siamo privi di qualsiasi informazione visiva al riguardo. Il suono del campanello ha il potere di consentirci di inferire l’azione di qualcuno che non vediamo.

Una serie recente d’esperimenti condotti nel nostro laboratorio ci ha consentito di indagare i meccanismi nervosi alla base di questa capacità. I neuroni mirror dell’area premotoria F5 di scimmia sono stati registrati durante 4 differenti condizioni sperimentali: quando la scimmia eseguiva azioni rumorose (ad es. rompere una nocciolina, strappare un foglio di carta, ecc.); quando la scimmia vedeva e sentiva l’azione; e infine quando la scimmia vedeva soltanto o udiva soltanto la stessa azione. I risultati hanno dimostrato che una consistente percentuale di neuroni mirror scaricavano sia quando la scimmia eseguiva l’azione, sia quando la scimmia udiva il rumore prodotto dall’azione o osservava la stessa azione priva del rumore caratteristico Kohler e coll. 2002; Keysers e coll. 2003).

Questi neuroni, che abbiamo definito “neuroni mirror audio-visivi”, non rispondevano solamente al suono prodotto da una particolare azione, ma erano in grado di discriminarlo anche dai suoni prodotti da azioni diverse. Le azioni il cui suono evocava la più forte risposta acustica erano anche quelle che producevano la più forte risposta quando erano osservate od eseguite. In altre parole, per questi neuroni non fa alcuna differenza se una data azione è udita, osservata, oppure eseguita. L’attivazione del circuito neuronale premotorio che normalmente controlla l’esecuzione dell’azione “A”, anche in sola presenza del suono o della visione relativa alla stessa azione “A”, può essere caratterizzato in termini di simulazione della stessa azione “A”.

La simulazione multi-modale dello scopo d’azioni esemplificata dall’attività dei neuroni mirror mostra caratteristiche e proprietà straordinariamente simili ad alcune proprietà simboliche del pensiero umano. La somiglianza con il contenuto concettuale appare, infatti, significativa: lo stesso contenuto concettuale (“lo scopo dell’azione A”), veicolato da una molteplicità di stati differenti come suoni o azioni osservate o eseguite, è codificato dall’attivazione multi-modale di un gruppo di neuroni mirror audio-visivi.

La simulazione dell’azione incarnata dai neuroni mirror audio-visivi appare molto simile all’uso dei predicati: il verbo “rompere” è utilizzato per trasmettere un significato che può essere utilizzato in contesti differenti: “Vedere qualcuno rompere una nocciolina”, “Udire qualcuno rompere una nocciolina”, Rompere una nocciolina”. Il significato del predicato, similmente alla risposta dei neuroni mirror audio-visivi, non cambia al cambiare del contesto cui è applicato, nè al cambiare del soggetto/agente che esegue l’azione. Ciò che cambia è semplicemente il contesto o il soggetto cui il predicato si applica.

Il quadro generale che emerge da questi dati è il seguente: L’integrazione multimodale sensori-motoria codificata dal sistema di neuroni mirror mette in essere simulazioni di azioni che vengono utilizzate non solo per il controllo esecutivo delle stesse azioni, ma anche per la loro comprensione implicita.

Quale rilevanza hanno questi risultati per la comprensione dei meccanismi neurofisiologici alla base dell’intersoggettività umana? Molteplici studi neuroscientifici utilizzanti tecnologie diverse hanno dimostrato come anche il cervello umano sia dotato di un sistema mirror che mappa le azioni osservate sugli stessi circuiti nervosi che ne controllano l’esecuzione attiva (vedi Fadiga e coll. 1995; Grafton e coll. 1996; Rizzolatti e coll. 1996b; Cochin e coll. 1998; Decety e coll. 1997; Hari e coll. 1999; Iacoboni e coll. 1999; Buccino e coll. 2001). In particolare, un recente studio di risonananza magnetica funzionale (fMRI) condotto su soggetti adulti sani, ha mostrato come il meccanismo della risonanza motoria sotteso dall’attivazione del circuito dei neuroni mirror non sia limitato all’osservazione di azioni eseguite con la mano, ma si estenda anche ad azioni eseguite con altri effettori come la bocca o il piede (Buccino e coll. 2001). Le aree parieto-premotorie attivate dall’osservazione di azioni eseguite da altri con diversi effettori sono le stesse che si attivano quando gli stessi effettori vengono impiegati dall’osservatore per eseguire quelle stesse azioni. In altri termini, la stessa organizzazione somatotopica dei circuiti parieto-premotori serve due funzioni: controllare l’esecuzione delle azioni e mapparne anche la comprensione implicita.

 

 

La Comprensione delle azioni intransitive

L’area premotoria F5 del macaco contiene anche neuroni che controllano l’esecuzione di azioni effettuate con la bocca. Abbiamo recentemente descritto una popolazione di neuroni mirror fondamentalmente correlati alla esecuzione/osservazione di azioni della bocca (Ferrari e coll. 2003). La maggior parte di questi neuroni scaricano quando la scimmia esegue e osserva azioni di tipo ingestivo, come afferrare oggetti con la bocca, morderli, o masticarli. Tuttavia una percentuale minore di neuroni mirror si attiva durante l’osservazione di azioni facciali comunicative eseguite dallo sperimentatore di fronte alla scimmia (neuroni mirror “comunicativi”, vedi Ferrari e coll. 2003). Queste azioni, caratteristiche del repertorio comunicativo dei macachi, sono il “lip-smacking” e la protrusione delle labbra o della lingua. Uno studio comportamentale ha dimostrato che le scimmie che osservavano queste azioni prodotte dallo sperimentatore erano perfettamente in grado di decodificarle, in quanto elicitavano da parte degli stessi macachi che le osservavano l’esecuzione di gesti espressivi congruenti (Ferrari e coll. 2003). Sembra quindi plausibile proporre che i neuroni mirror comunicativi possano costituire il correlato neurale di un’ulteriore aspetto delle relazioni interpersonali fondato sulla simulazione incarnata.

Un recente studio fMRI in cui soggetti umani adulti sani osservavano filmati in cui azioni bucco-facciali venivano eseguite rispettivamente da uomini, scimmie e cani, corrobora ulteriormente questa ipotesi (Buccino e coll. 2004a). Le azioni osservate erano transitive (un uomo, una scimmia o un cane mordono del cibo) ed intransitive (un uomo muove le labbra per parlare, una scimmia esegue il lipsmacking, un cane abbaia). I risultati hanno mostrato che l’osservazione di azioni comunicative che appartengono al repertorio comportamentale umano, oppure che non se ne discostano molto come nel caso della scimmia, inducono l’attivazione di regioni del sistema motorio dell’osservatore che mediano l’esecuzione di quelle stesse azioni o di azioni analoghe. Azioni comunicative che invece esulano dal repertorio comportamentale umano (come abbaiare) sono mappate e quindi categorizzate sulla base delle caratteristiche percettive visive, senza indurre alcun fenomeno di risonanza motoria nel cervello dell’osservatore.

Il coinvolgimento del sistema motorio durante l’osservazione di azioni comunicative della faccia e della bocca è ulteriormente provato da uno studio recente di stimolazione magnetica transcranica (TSM) ad opera di Watkins e coll. (2003). I risultati di questo studio dimostrano infatti che l’osservazione di un filmato muto di una persona che parla aumenta nell’osservatore l’eccitabilità degli stessi muscoli che normalmente impiegherebbe per realizzare quegli stessi movimenti labiali. La comprensione di queste azioni comunicative appare quindi essere accompagnata dalla simulazione motoria delle stesse azioni.

 

 

La comprensione delle azioni come simulazione

La pianificazione di un’azione richiede la previsione delle sue conseguenze. Ciò significa che quando stiamo per eseguire una data azione, siamo altresì in grado di prevederne le conseguenze. Questi tipo di predizione è il risultato computazionale del modello dell’azione. Grazie ad un processo di equivalenza motoria tra ciò che è agito e ciò che viene percepito, dal momento che entrambe le situazioni sono sottese dall’attivazione dello stesso substrato neuronale – una popolazione di neuroni mirror – si rende possibile una forma di comprensione diretta dell’azione altrui. Sia le predizioni che riguardano le nostre azioni che quelle che pertengono alle azioni altrui sono infatti processi di modellizzazione fondati sulla simulazione. La stessa logica che presiede alla modellizzazione delle nostre azioni presiede anche a quella delle azioni altrui. Percepire un’azione – e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente. Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse per penetrare il mondo dell’altro mediante un processo di modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo non conscio, automatico e pre-dichiarativo di simulazione motoria. Questo meccanismo instaura un legame diretto tra agente ed osservatore, in quanto entrambi vengono mappati in modo per così dire anonimo e neutrale. Il parametro “agente” è specificato, mentre non lo è il suo connotato specifico di identità. I neuroni mirror mappano in modo costitutivo una relazione agentiva: la semplice osservazione di un oggetto che non sia obbiettivo di alcuna azione non evoca infatti alcuna risposta (Gallese e coll. 1996). E’ quindi esclusivamente la relazione agentiva ad evocare l’attivazione dei neuroni mirror.

Nell’uomo, come nella scimmia quindi, l’osservazione dell’azione costituisce una forma di simulazione della stessa azione (Gallese e Goldman 1998; Gallese 2001).

 

 

Il sistema mirror e l’attribuzione di intenzioni

Secondo la mia ipotesi, la consonanza intenzionale è un requisito di base dell’intersoggettività. Dato che il sistema mirror è presente sia nella scimmia che nell’uomo, cosa consente all’uomo (e verosimilmente non alla scimmia) di comprendere non solo il significato delle azioni, ma anche l’intenzione che le promuove? I meccanismi nervosi alla base di questa funzione cognitiva tipicamente umana sono ancora sconosciuti. Una stessa azione può essere originata da intenzioni molto diverse. Supponiamo di osservare qualcuno afferrare un bicchiere. I neuroni mirror per l’afferramento si attiveranno nel cervello dell’osservatore. La semplice equivalenza motoria tra ciò che viene osservato e la sua rappresentazione motoria nel cervello dell’osservatore possono dirci solo quale tipo di azione è stata eseguita (un afferramento) e non perchè l’azione è stata eseguita (per bere? oppure per lavare il bicchiere?). Ma capire perchè il bicchiere è stato afferrato equivale a predire lo scopo dell’azione successiva non ancora osservata ( ad esempio portare il bicchiere alla bocca per bere). In un recente studio fMRI (Iacoboni e coll. 2005) abbiamo dimostrato come il sistema mirror premotorio sia in grado non solo di determinare il cosa di un’azione, ma anche il suo perchè, cioè l’intenzione che l’ha promossa. Determinare l’intenzione alla base dell’azione “A” è infatti equivalente a predire il suo scopo distale, cioè lo scopo della successive azione “B”.

La frequenza probabilistica del verificarsi di certe azioni in seguito ad altre, appresa sia per la loro ripetuta esecuzione che osservazione, può condizionare e plasmare la costituzione di specifiche traiettorie di inferenze/predizioni. L’ipotesi è che ciò possa avvenire grazie all’organizzazione sequenziale di differenti popolazioni di neuroni mirror che codificano non solo l’azione osservata al momento, ma anche quelle che in un certo contesto normalmente la seguirebbero. La differenza tra scimmie e specie umana potrebbe essere quindi costituita dall’enorme incremento della ricorsività computazionale acquisita dal nostro cervello. Una simile ipotesi è stata recentemente avanzata da Hauser, Fitch e Chomsky (2002) in relazione alla facoltà del linguaggio. Contrariamente a quanto sostenuto dalla scienza cognitiva classica, il riconoscimento di un’azione e la comprensione dell’intenzione che l’ha prodotta sarebbero processi sostenuti da uno stesso meccanismo funzionale, la simulazione incarnata.

La strategia epistemica ancora prevalente in ambito cognitivo consiste nel sottolineare e studiare in cosa la nostra specie differisca da quelle degli altri primati non umani. Secondo questo approccio, gli uomini sono dotati della teoria della mente, le altre specie no. Potremmo definire questo approccio come un Paradigma Neo-Tolemaico, caratterizzato da un fortissimo retrogusto antropocentrico. Si stabilisce infatti– a mio parere troppo frettolosamente – una relazione diretta e nomologica tra il nostro uso esclusivo degli atteggiamenti proposizionali e i loro apparentemente altrettanto esclusivamente umani correlati neurali. E’ indubbio che utilizziamo atteggiamenti proposizionali. Ma è perfettamente possible che non troveremo mai nel nostro cervello box contenti i correlati neurali di credenze, desideri ed intenzioni, in quanto tali.

Come è stato sottolineato da Allen e Bekoff (1997), questo approccio cognitivo di tipo “tutto-o-nulla” all’intersoggettività, questa disperata ricerca di un “Rubicone mentale” (più ampio è, meglio è) che separi la cognizione sociale umana da quelle di tutte le altre specie animali, è sicuramente discutibile. E’ ragionevole invece ipotizzare che l’evoluzione della cognizione sociale abbia proceduto lungo una linea di continuità (Gallese e Goldman 1998; Gallese e coll. 2002). Personalmente trovo molto più interessante studiare fino a che punto strategie cognitive di diversa complessità possano essere sostenute e promosse da meccanismi funzionali simili che hanno tuttavia acquisito una crescente complessità nel corso dell’evoluzione. I dati neuroscientifici qui riportati ne sembrano costituire un esempio.

 

 

Il corpo delle emozioni e la simulazione incarnata

Le emozioni costituiscono uno dei primi strumenti che consentono all’individuo di acquisire informazioni circa il proprio stato, permettendogli così di riorganizzare queste informazioni e conseguentemente le proprie azioni, sociali e non. Ciò indica un forte legame tra componenti affettivo-emotive e azione. Raramente cerchiamo, tocchiamo, fiutiamo o intratteniamo qualsiasi tipo di interazione con le cose o le situazioni che evocano reazioni emotivo-affettive di segno negativo. Non “traduciamo” cioè queste cose o situazioni negli schemi motori necessari per interagire con esse, come facciamo invece per le cose-situazioni che evocano reazioni edoniche di segno positivo. L’attività coordinata dei sistemi affettivi con quelli sensorimotori si traduce quindi nella semplificazione e automatizzazione delle risposte comportamentali richieste per assicurarsi la sopravvivenza. Lo stretto accoppiamento tra emozioni e integrazione sensorimotoria contribuisce inoltre in modo forse decisivo allo sviluppo della capacità degli individui di conseguire con la propria azione scopi sempre più distali e complessi (vedi in proposito Gallese e Metzinger 2003; Metzinger e Gallese 2003).

Questa stretta interrelazione tra emozioni e sistemi sensorimotori è attestata anche da un recente studio epidemiologico condotto da Adolphs e coll. (2000). In questo studio oltre cento pazienti neurologici che avevano sofferto danni cerebrali di vario tipo sono stati esaminati circa l’abilità di riconoscere e denominare le emozioni di base osservando fotografie di volti umani che le esprimevano. Il risultato sorprendente di questo studio è stato che erano i pazienti che avevano sofferto danni alle cortecce sensorimotorie a mostrare i deficit più gravi nel riconoscimento e denominazione delle emozioni di base. L’integrità del sistema sensorimotorio appare quindi cruciale per il riconoscimento delle emozioni altrui. Il sistema sensorimotorio media infatti il processo di ricostruzione di come ci sentiremmo se fossimo noi a provare quelle stesse emozioni. Riconosciamo cioè le emozioni degli altri mediante la simulazione incarnata degli stati corporei ad esse correlati.

Prima di affrontare il ruolo della simulazione incarnata nella comprensione sociale delle emozioni, è necessario chiarire a cosa ci riferiamo quando parliamo di “emozioni”. Vi sono molteplici modi di esperire un’emozione. “Emozione” è quindi una parola che designa e si riferisce ad un aspetto multidimensionale della nostra vita. Vivere un’emozione può essere descritto come esperire soggettivamente con variabili gradi di intensità degli stati corporei interni che possono o meno tradursi in comportamenti espliciti con un variabile grado di intensità, spesso localizzati in specifici distretti corporei, quali il volto.

Esperire un’emozione si configura quindi come uno stato complesso dell’organismo accompagnato da gradi variabili di consapevolezza di quello stesso stato. E’ infatti esperienza comune che chi ci sta vicino ci faccia domande del tipo: “Perché sei arrabbiato con me?”, destando la nostra sorpresa in quanto non eravamo consapevoli fino al momento in cui ci è stata rivolta la domanda di avere manifestato quell’emozione. Possiamo quindi trovarci in un dato stato emozionale ed esprimerlo col nostro corpo senza esperirne pienamente il contenuto, in quanto contenuto di una specifica emozione.

Lambie e Marcel (2002) hanno distinto due livelli di consapevolezza emozionale: uno stato fenomenico di primo ordine, da essi definito esperienza emozionale di primo ordine (“First-order emotion experience”), ed uno stato di consapevolezza esplicita, definito consapevolezza cosciente di secondo ordine. Il contenuto dello stato fenomenico di primo ordine è fisico, incentrato sul proprio stato corporeo. Il contenuto dello stato fenomenico autocosciente di secondo ordine può essere proposizionale o non proposizionale.

Occorre sottolineare come sia quindi possibile assistere alla manifestazione di una particolare emozione da parte di altri senza fare necessariamente riferimento ad una descrizione proposizionale di quello stato emozionale. E’ precisamente questa forma diretta di comprensione delle emozioni che mi interessa esaminare qui di seguito. Più specificamente, fornirò un quadro delle basi nervose della comprensione implicita delle emozioni fondata sul meccanismo della simulazione incarnata.

Un supporto empirico alla stretta connessione tra percezione delle emozioni altrui e simulazione incarnata proviene da uno studio fMRI (Carr e coll. 2003). Questo studio dimostra che sia l’osservazione che l’imitazione dell’espressione facciale delle emozioni di base (paura, rabbia, felicità, disgusto, sorpresa, e tristezza) attiva lo stesso ristretto gruppo di strutture cerebrali, che includono la corteccia premotoria ventrale, l’insula e l’amigdala. Le stesse strutture cerebrali sono alla base sia della percezione che della produzione attiva dell’ espressione facciale delle emozioni di base. La funzione di queste strutture cerebrali può essere caratterizzata come un meccanismo di tipo mirror. Si potrebbe però obbiettare che imitare o osservare una data emozione non ne garantisce anche la contestuale reale esperienza fenomenica affettiva da parte dell’osservatore/imitatore. Imitare un’espressione facciale emozionale non coincide necessariamente col provare in prima persona quella stessa emozione.

In uno studio fMRI recentemente pubblicato abbiamo deciso di verificare direttamente l’ipotesi dell’esistenza di un correlato neurale comune all’esperienza in prima e terza persona delle emozioni, studiando una delle emozioni di base, quella del disgusto. Abbiamo sottoposto a fMRI un gruppo di soggetti adulti durante l’esperienza fenomenica del disgusto, indotta facendogli inalare odoranti disgustosi, e l’osservazione della stessa emozione attraverso la visione di un video che riprendeva attori che esprimevano disgusto con la propria mimica facciale.

I risultati di questo studio hanno mostrato che la stessa ristretta regione cerebrale, situata nell’insula anteriore di sinistra, una porzione del lobo frontale, si attiva sia durante l’esperienza in prima persona del disgusto, sia durante l’osservazione della stessa emozione espressa dalla mimica facciale di altri individui (Wickers e coll. 2003). E’ verosimile che questo settore dell’insula contenga popolazioni di neuroni viscero-motori che con un meccanismo “mirror” si attivano sia quando i soggetti provano soggettivamente disgusto che quando riconoscono l’espressione della stessa emozione sul volto altrui.

Questa regione cerebrale associa stimoli olfattivi, gustativi e visivi alle corrispondenti sensazioni viscerali e risposte viscero-motorie. Penfield e Faulk (1955) hanno stimolato elettricamente l’insula anteriore nell’uomo nel corso di interventi neurochirurgici. Durante la stimolazione i pazienti, in anestesia locale, riferivano sensazione di nausea e di incipiente vomito.

Un ulteriore sostegno all’ipotesi in esame viene da alcuni casi clinici: la lesione dell’insula anteriore non provoca solo l’incapacità selettiva di provare disgusto, ma anche l’impossibilità di riconoscere quella stessa emozione quando espressa da altri (Calder e coll. 2000).

Riassumendo, possiamo affermare che sia l’esperienza in prima persona dell’emozione del disgusto che l’osservazione della stessa emozione espressa da altri attivano la stessa struttura nervosa: l’insula anteriore. Il danno a questa struttura produce un deficit non solo nella capacità di esperire quell’emozione ma anche di riconoscerla negli altri. Ciò suggerisce che, almeno per l’emozione del disgusto, l’esperienza in prima e terza persona di un’emozione condividono l’attivazione di uno stesso substrato neurale.

Quando vedo qualcuno esprimere col proprio volto una data emozione e questa percezione mi induce a comprendere il significato emotivo di quella espressione, non conseguo questa comprensione grazie ad un argomento per analogia. L’emozione dell’altro è costituita dall’osservatore e compresa grazie ad un meccanismo di simulazione incarnata che produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione. E’ per l’appunto la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore ed osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire “empatica”. Goldman e Sripada (2004) hanno definito questo meccanismo di simulazione come “risonanza diretta” (“unmediated resonance”).

Ovviamente la simulazione incarnata non è l’unico meccanismo che sottende la comprensione delle emozioni. Gli stimoli sociali possono essere compresi anche sulla base dell’esplicita elaborazione cognitiva dei loro aspetti percettivi. Questi due meccanismi non sono mutualmente esclusivi. La simulazione incarnata, probabilmente il meccanismo più antico da un punto di vista evolutivo, è tipicamente esperienziale, mentre il secondo meccanismo si configura come la descrizione cognitiva di uno stato di cose esterno al soggetto. La mia ipotesi è che la simulazione incarnata costituisca uno stadio necessario per il corretto sviluppo di strategie cognitive intersoggettive più sofisticate. Quando il meccanismo simulativo non si è sviluppato oppure si è costituito in modo anomalo, come forse in certe forme di autismo (vedi oltre), rimane solo un approccio di tipo dichiarativo-riflessivo, che però fornirà solo un quadro freddo e distaccato delle esperienze emotive altrui (vedi anche Gallese 2003c; Gallese e coll. 2004).

Damasio (1994, 1999) ha ripetutamente sottolineato come uno dei meccanismi che permettono di provare emozioni consista nell’attivazione di un circuito nervoso di tipo “come se”, cioè un circuito di simulazione. Secondo la mia ipotesi, è possibile che l'attivazione di questi circuiti "come se" possa avvenire non solo dall'interno, ma essere indotta anche dall'osservazione degli altri (vedi Adolphs 1999; Goldman e Gallese 2000; Gallese 2001). Inoltre, secondo la mia proposta, il meccanismo simulativo non è ristretto ad una mera replica sensoriale dello stato emotivo simulato, ma è in gran parte sostenuto dall’attivazione automatica dei suoi connotati viscero-motori ed autonomici, come testimoniato dal coinvolgimento dell’insula anteriore, una struttura corticale che come abbiamo vista presenta una valenza funzionale eminentemente viscero-motoria (Gallese e coll. 2004).

 

 

Entrare “in contatto”: simulazione e comprensione delle sensazioni altrui

Nel secondo libro delle Idee, Pubblicato postumo (1989), Husserl sottolinea come il Leib, cioè il corpo vissuto e agito, rappresenti il fondamento costitutivo di ogni percezione, inclusa quella sociale. Se volessimo adottare una prospettiva analoga per caratterizzare la cognizione sociale, potremmo affermare che l’architettura funzionale di modellizzazione/controllo delle funzioni corporee, fornisce la base anche per la modellizzazione delle relazioni intenzionali altrui. Il modello multimodale e dinamico del nostro corpo come di un organismo intrinsecamente teleologico fornisce anche l’architettura rappresentazionale per modellare le relazioni intenzionali. I risultati neuroscientifici fin qui discussi relativamente alla comprensione delle azioni e delle emozioni altrui sembrano suggerirlo. Ma vi è un’altra componenente del mondo esperienziale intersoggettivo che non abbiamo ancora preso in considerazione e che come vedremo corrobora ulteriormente la nostra ipotesi: quella delle sensazioni.

Concentriamoci inizialmente sul tatto. Le sensazioni tattili hanno uno status privilegiato nel conferire la qualità di persone agli attori che popolano il nostro mondo sociale. “Rimaniamo in contatto” è una comune espressione del linguaggio quotidiano che esprime metaforicamente il desiderio di rimanere collegati a qualcuno. Esempi come questo mostrano come la sensazione tattile sia intinsecamente legata alla dimensione interpersonale.

Uno studio da me recentemente pubblicato in collaborazione con altri colleghi mostra che l’esperienza soggettiva di essere toccati in una parte del proprio corpo determina l’attivazione dello stesso circuito neurale attivato dall’osservazione del corpo di qualcun altro che viene toccato in una parte corporea equivalente (Keysers e coll. 2004). La regione corticale implicata è l’area SII/PV, localizzata nell’opercolo parietale, comunemente ritenuta un’area esclusivamente tattile. La stessa regione corticale viene quindi attivata sia quando esperiamo in prima persona una sensazione tattile localizzata ad una parte del nostro corpo, che quando siamo testimoni di un’analoga esperienza sensoriale esperita da qualcun altro.

In un secondo esperimento abbiamo sostituito le gambe dell’attore mostrate nel video con oggetti inanimati, quali rotoli di carta o quaderni. Anche l’osservazione di questi oggetti che venivano toccati produceva una significativa attivazione della stessa regione corticale SII/PV (Keysers e coll. 2004). Il contatto fra due superfici del mondo esterno è in linea di principio qualcosa di molto astratto se unicamente mappato da un punto di vista visivo. Mappare questo stesso evento invece sul correlato della nostra esperienza tattile corporea evoca contestualmente un significato esperienziale personale molto preciso: cosa si prova durante un contatto.

I risultati congiunti di questi due recenti esperimenti suggeriscono quindi che lo stimolo critico per l’attivazione di SII/PV sia la percezione del contatto, indipendentemente dal fatto che ad essere toccato sia un altro corpo umano, un oggetto inanimato, oppure il nostro stesso corpo. Questa triplice modalità di attivazione della stessa regione cerebrale suggerisce che la nostra capacità di riconoscere e comprendere direttamente a livello esperienziale le esperienze tattili altrui, così come forse anche una nozione più astratta del tatto, possa essere mediata ancora una volta da un meccanismo di simulazione incarnata. Questi risultati sono stati recentemente confermati da un altro lavoro (Blakemore e coll. 2005).

Volendo allargare il discorso, potremmo spingerci a sostenere che una piena comprensione dell’altro in quanto persona non possa prescindere dal coinvolgimento in prima persona di un’esperienza tattile incarnata. Questa prospettiva ci riporta nuovamente ad Husserl e alla sua nozione di intersoggettività. Come infatti ripetutamente sostenuto dal fenomenologo Tedesco nel secondo libro delle Idee (1989), è proprio la duplice natura del nostro corpo come soggetto senziente e oggetto delle nostre percezioni, a consentirci la costituzione degli altri esseri umani come persone. Il corpo, simultaneamente percepito come oggetto esterno e come soggetto esperienziale, fonda sullo stesso substrato carnale il senso esperienziale di personalità che attribuiamo agli altri. Siamo così in grado di derivare dal comportamento altrui il senso interno delle esperienze e delle motivazioni che ne stanno alla base grazie al fatto che questi comportamenti percepiti attivano lo stesso meccanismo funzionale grazie al quale noi stessi ci esperiamo come persone.

E’ interessante sottolineare a questo proposito come anche gli studi della psicologia dello sviluppo ci conducano ad analoghe conclusioni. Il bambino mostra segni di autocoscienza non riflessiva ben prima dei due anni di età, quando cioè si riconosce guardandosi allo specchio, occasione che evoca anche una tipica emozione auto-cosciente quale quella dell’imbarazzo. Infatti appena dopo la nascita il neonato è già in grado di discriminare sensazioni tattili autoprodotte da quelle originate dal contatto con oggetti esterni (Rochat e Hespos 1997). Come suggerito dallo psicologo dello sviluppo Philip Rochat (1998), già a partire dalle prime settimane di vita i neonati sviluppano la capacità di riconoscere invarianze e regolarità multimodali nelle proprie esperienze sensorimotorie. Sono tali invarianze multimodali a garantire la specificazione di sé come entità distinta dal mondo circostante. In particolare, l’esperienza della doppia sensazione tattile prodotta dal contatto tra la mano del neonato e il proprio volto sembra svolgere un ruolo guida nella specificazione di questa primordiale fase della costruzione del sé. Nuovamente osserviamo come il corpo e le esperienze da esso generate siano intrinsecamente legati allo sviluppo cognitivo e psicologico dell’individuo.

Le evidenze sperimentali a sostegno dell’ipotesi del ruolo svolto dalla simulazione incarnata nel mediare la comprensione esperienziale delle sensazioni altrui non si limitano alle sensazioni tattili. Anche la percezione sociale del dolore, sembra infatti essere sostenuta da un meccanismo di simulazione incarnata. Hutchison e coll. (1999) hanno registrato l’attività di neuroni nella corteccia cingolata anteriore, una porzione del lobo frontale coinvolta nell’analisi degli stimoli dolorosi e nel controllo delle reazioni viscero-motorie collegate al dolore, in un paziente neurochirurgico anestetizzato localmente. In questo studio sono stati descritti neuroni attivati sia dalla somministrazione di stimoli dolorosi al paziente che durante la sua osservazione dell’applicazione degli stessi stimoli al corpo del neurochirurgo. E’ difficile non essere tentati dal caratterizzare questi neuroni come neuroni mirror per la percezione delle sensazioni dolorose.

Un’ulteriore supporto ad una teoria simulativa della percezione sociale delle sensazioni viene da uno studio fMRI sul dolore recentemente pubblicato (Singer e coll. 2004). In questo studio le stesse strutture nervose, l’insula anteriore e la corteccia cingolata anteriore, risultavano attivate sia durante la somministrazione ai soggetti di stimoli dolorosi sia durante la loro percezione, mediata dalla comparsa sullo schermo di computer di uno stimolo simbolico, dell’applicazione degli stessi stimoli dolorosi al corpo del proprio partner che giaceva a loro fianco, ma fuori dalla loro portata visiva. Anche la percezione “simbolica” e indiretta di una sensazione esperita da altri determina l’attivazione delle stesse strutture nervose coinvolte durante l’esperienza in prima persona di quella stessa sensazione.

 

 

 
I molteplici aspetti della simulazione

 

Abbiamo fin qui caratterizzato molteplici aspetti della cognizione sociale, mettendo in evidenza il meccanismo funzionale ad essi sotteso: la simulazione incarnata. E’ a questo punto opportuno chiarire meglio a quale accezione di simulazione abbiamo voluto fare riferimento. Il termine “simulazione” ha fondamentalmente due differenti accezioni:

1.      Descrive azioni intraprese con l’intento di ingannare gli altri.

2.      Connota il tentativo di imitare le caratteristiche di un processo o situazione, impiegando mezzi o strategie analoghe, col fine di comprenderlo meglio.

E’ la seconda accezione del termine che caratterizza la nozione di simulazione qui da me impiegata. La simulazione come modellizzazione d’eventi o circostanze, volta ad una loro comprensione, per così dire, “dall’interno”. L’accezione di simulazione come processo di modellizzazione è tra l’altro vicina all’etimologia del termine. Simulare deriva infatti dal latino “simulare”, che a sua volta deriva da “similis”. Questa accezione di simulazione appare consonante con l’approccio epistemico del mondo classico Greco-Romano, per cui la conoscenza è concepita come un processo mediante il quale chi conosce assimila ciò che si presume debba conoscere (per una discussione della storia filosofica del concetto di simulazione, vedi Romano 2002).

           Ho fin qui utilizzato il termine simulazione incarnata per connotare un meccanismo implicito di modellizzazione degli oggetti ed eventi che il sistema organismo controlla o cerca di controllare nel corso della costante interazione con essi. Il termine interazione va inteso nella sua accezione più ampia. La simulazione può essere considerata come espressione di un meccanismo funzionale di controllo, la cui funzione è di modellare gli “oggetti” del processo di controllo. La simulazione è considerata come il meccanismo impiegato dai modelli proiettivi anticipatori (“foward models”) per predire le conseguenze sensoriali delle azioni prima che queste siano intraprese. Il processo di simulazione consente di produrre delle conseguenze simulate che divengono “predizioni.

           La caratterizzazione del processo di simulazione incarnata da me proposta in questo articolo si discosta in parte dalla concezione di simulazione proposta in filosofia della mente da molti propugnatori della Teoria della Simulazione. Secondo questa teoria infatti, il processo di simulazione intrapreso dall’osservatore nell’atto di comprendere il comportamento altrui, è il risultato di un suo deliberato atto di volontà. Il processo di simulazione incarnata che sto descrivendo qui è invece automatico in quanto obbligato, non conscio, e pre-dichiarativo.

           Inoltre, la simulazione non è una prerogativa funzionale del sistema motorio. In altre parole, la simulazione non è espressione esclusiva delle strategie del controllo esecutivo che guidano il nostro comportamento di agenti nel mondo. La simulazione è verosimilmente –– questa almeno è l’ipotesi che intendo proporre –– la principale strategia epistemica disponibile per organismi viventi che come noi derivano la propria conoscenza del mondo in virtù delle interazioni con esso intraprese. Un vantaggio offerto dalla presente ipotesi consiste nel suo carattere di estrema parsimonia. Se la mia ipotesi è corretta, un singolo meccanismo –– la simulazione incarnata (“embodied simulation”, Gallese 2005 ab) –– è in grado di fornire un sostrato funzionale comune ad aspetti differenti dell’intersoggettività. E’ un processo funzionale che caratterizza la vita mentale, in quanto produttore di contenuti ricchi di significato. Ma è altresì incarnato non solo in quanto sub-personalmente realizzato a livello neuronale, ma soprattutto perché utilizza preesistenti modelli delle interazioni corpo/mondo e quindi implica forme pre-dichiarative di rappresentazione.

           I risultati neuroscientifici fin qui esposti sembrano suggerire che la simulazione incarnata costituisca una caratteristica funzionale di base del cervello dei primati, uomo compreso.

 

 

Il sistema della molteplicità condivisa e la consonanza intenzionale

La costituzione dell’identità sé-altro rappresenta una formidabile spinta per lo sviluppo di forme più articolate e sofisticate d’intersoggettività. E’ questa relazione d’identità che ci consente di comprendere il comportamento altrui e le intenzioni che lo hanno promosso, di imitarlo, di apprezzare e comprendere direttamente il significato delle sensazioni ed emozioni esperite dagli altri.

Propongo quindi di caratterizzare questa relazione d’identità, trasversale a tutte le forme di relazione interpersonale, in termini di un “sistema della molteplicità condivisa” (“shared manifold”, Gallese 2001, 2003abc, 2006). E’ questo sistema che rende possibile il riconoscimento degli altri umani come nostri simili, che promuove la comunicazione intersoggettiva, l’imitazione e l’attribuzione d’intenzioni agli altri, o almeno le forme più elementari di tale attribuzione. Questo sistema può essere definito operazionalmente a tre diversi livelli: un livello fenomenologico; un livello funzionale, ed un livello sub-personale.

Il livello fenomenologico è quello caratterizzato dal senso di famigliarità, dall’impressione soggettiva di essere individui facenti parte di una più larga comunità sociale composta da altri individui simili a noi. Può essere definito anche come il livello empatico, a patto di caratterizzare l’empatia secondo quell’accezione ampliata cui accennavo prima. Le azioni eseguite, le emozioni e le sensazioni esperite dagli altri acquistano per noi un significato in virtù della possibilità cha abbiamo di condividerle esperienzialmente, grazie alla presenza di un comune formato rappresentazionale. Questa condivisione noi-centrica è la consonanza intenzionale

Il livello funzionale, che abbiamo esplorato durante tutto il corso della nostra esposizione, è rappresentato da routines di simulazione incarnata, modalità “come se” di interazione che consentono di creare modelli del sé/altro. La stessa logica funzionale alla base del controllo del proprio agire ed esperire, opera anche durante la comprensione dell’agire ed esperire altrui. Entrambi sono espressione di modelli d’interazione, che mappano i propri referenti su identici nodi funzionali relazionali. Ogni modalità d’interazione interpersonale condivide il carattere relazionale. Nel sistema della molteplicità condivisa la logica operativa relazionale produce l’identità sé/altro, permettendo al sistema di identificare coerenza, predicibilità e regolarità, indipendentemente dalla loro sorgente. Da qui sgorga la consonanza intenzionale con l’altro.

Il livello sub-personale, è infine costituito dall’attività di una serie di circuiti neurali di tipo mirror. L’attività di questi circuiti neurali a sua volta è interconnessa con una serie di cambiamenti di stato corporei a più livelli. Il sistema neuronale mirror è il correlato sub-personale della condivisione multimodale dello spazio intenzionale. Rappresenta quindi il correlato neurale della consonanza intenzionale. Tutti questi aspetti dell’intersoggetività hanno alla propria base la co-costruzione di una consonanza intenzionale che inizia con i nostri primi rapporti interpersonali subito dopo la nascita e ci accompagna poi durante tutto il corso della nostra vita.

Vi è un punto importante che deve essere chiarito. Il sistema della molteplicità condivisa da me descritto non implica che noi esperiamo gli altri come esperiamo noi stessi. Tale sistema semplicemente costituisce e promuove il processo di mutua intelligibilità. Ovviamente, l’identità sé/altro costituisce solo un aspetto dell’intersoggettività. Come sottolineato da Husserl (1989; vedi anche Zahavi 2001), è il carattere d’alterità dell’altro che fornisce oggettività alla realtà. La qualità della nostra esperienza vitale (erlebnis) del “mondo esterno” ed il suo contenuto sono condizionati dalla presenza di altri soggetti che risultano intelligibili, pur mantenendo la propria alterità. Il carattere di alterità dell’altro può essere identificato anche al livello sub-personale, prendendo in considerazione, ad esempio, i differenti circuiti corticali attivati quando io agisco o esperisco rispetto a quando lo fanno gli altri. Questi circuiti nervosi sono infatti solo parzialmente condivisi.

 

 

Autismo come disturbo della consonanza intenzionale

Ho cercato di delineare un’ipotesi circa i meccanismi funzionali – ed i relativi correlati neuronali – alla base di alcuni fondamentali aspetti dell’intersoggettività. Un ovvio banco di prova per valutare la validità della mia ipotesi consiste nel verificarne l’applicabilità all’ambito psicopatologico, con particolare riferimento ad una sindrome, l’autismo, che si connota per la prevalente dimensione intersoggettiva e sociale. L’impresa appare da subito ardua in quanto il primo problema dell’autismo (così come per altre forme psicopatologiche, quali la schizofrenia) consiste nella sua definizione nosografica.

Di cosa parliamo precisamente, quando parliamo di autismo? Parliamo di un disturbo severo e cronico dello sviluppo, caratterizzato da deficit nei comportamenti comunicativi e sociali e da limitato interesse per l’ambiente circostante, verso cui viene intrapreso un numero ristretto e spesso stereotipato di iniziative (Dawson e coll. 2002). Essere autistici in pratica si traduce, con gradi variabili di gravità, nell’incapacità di entrare in comunicazione con il mondo degli altri, di stabilire un contatto visivo-attentivo con gli altri, di imitarne il comportamento e di comprenderne pensieri, emozioni e sensazioni.

Vorrei soffermarmi brevemente su alcuni dei sintomi più precoci con cui l’autismo si manifesta in età infantile. Già verso la fine del primo anno di vita i soggetti autistici mostrano difficoltà o impossibilità di orientarsi sulla base di indicazioni che provengono dagli altri, mostrano difficoltà nel condividere con gli altri l’attenzione verso uno stesso oggetto o avvenimento, incapacità di rispondere in modo congruente alle emozioni manifestate dagli altri, difficoltà nel riconoscere i volti umani, difficoltà nel manifestare comportamenti imitativi. Tutte queste manifestazioni precoci hanno un comune denominatore: sembrano mancare gli strumenti cognitivi per entrare a vario titolo in comunicazione con l’altro.

La mia ipotesi (vedi Gallese 2003c, 2006) è che questi deficit possano essere ascritti ad un disturbo della consonanza intenzionale. Se, come ho sostenuto nel corso di tuttola mia relazione, alla base dell’intersoggettività sta in primis la capacità di creare in modo diretto ed implicito uno spazio di senso condiviso che ci permette di entrare direttamente in comunicazione con le molteplici relazioni intenzionali manifestate dagli altri, mi sembra logico individuare a questo livello il problema principale della mente autistica. L’incapacità di sviluppare in modo pieno e compiuto una consonanza intenzionale con gli altri ha come inevitabile conseguenza lo sviluppo di una forma deficitaria e lacunosa di quella che abbiamo definito “molteplicità condivisa”.

La mancanza di una piena consonanza intenzionale si tradurrà in una serie variabile e diversificata di deficit cognitivi che tuttavia condividono la stessa origine funzionale: un deficit o malfunzionamento dei meccanismi di simulazione incarnata, verosimilmente sostenuto da alterazioni nella connettività e/o funzionamento del sistema neuronale mirror, o nella modulazione (in eccesso oppure in difetto) dell’attività funzionale di quello stesso sistema neuronale. Se la mia ipotesi è corretta, questo supposto disturbo della consonanza intenzionale dovrebbe manifestarsi ai diversi livelli – già esposti nel corso della relazione– in cui è possibile declinarla. Una serie di dati sperimentali sembrano dimostrarlo. Vediamoli molto succintamente.

Uno studio recente sugli atteggiamenti posturali nei bambini autistici ha mostrato che in questi soggetti sembra prevalere l’utilizzazione di modalità di controllo esecutivo motorio che si basano fondamentalmente sulle informazioni di feed-back provenienti dalla periferia sensoriale. I soggetti autistici a differenza dai soggetti sani non sembrano cioè utilizzare meccansimi predittivi a feed-forward. Questo disturbo della strategia del controllo motorio provoca l’incapacità di adottare atteggiamenti posturali anticipatori (Schmitz e coll. 2003). E’ difficile non vedere in questo disturbo un’esemplificazione di un deficit simulativo applicato alla sfera del controllo motorio. Questo deficit che non è di tipo interpersonale, manifesta però alla propria radice un malfunzionamento in un ambito specifico (quello esecutivo-motorio) di un meccanismo, la simulazione, che abbiamo proposto essere alla base della creazione di un senso comune condiviso con gli altri. Due recenti lavori dimostrano una relazione tra autismo ed un deficit dei meccanismi di risonanza motoria sostenuti dal sistema mirror per le azioni (Oberman e coll. 2005; Theoret e coll. 2005).

Un ulteriore esemplificazione di deficit simulativo è rappresentata dalla notoria difficoltà dei soggetti autistici nel comportamento imitativo. I bambini autistici presentano deficit nel comportamento imitativo simbolico e non simbolico dei movimenti corporei, nell’imitazione dell’uso degli oggetti, nell’imitazione vocale, e nell’imitazione delle espressioni facciali (per una rassegna di questa letteratura, vedi Rogers 1999). Questi deficit sono presenti sia nelle forme di autismo ad alto che a basso funzionamento. Inoltre, i deficit imitativi emergono non solo rispetto alle perfomances dei soggetti sani, ma anche rispetto a quelle di bambini con equivalente ritardo mentale e linguistico ma non autistici. Secondo la mia ipotesi, i deficit imitativi dell’autismo riposano sull’incapacità di stabilire un’equivalenza motoria fra dimostratore ed imitatore, verosimilmente per un malfunzionamento del sistema mirror, o per un’alterata regolazione affettivo-emotiva di questo sistema. I deficit imitativi si declinano cioè come un’ulteriore aspetto deficitario della molteplicità condivisa.

Veniamo ora ai deficit manifestati dai soggetti autistici nella sfera affettivo-emozionale. Numerosi studi hanno mostrato che i bambini autistici hanno difficoltà nell’espressione facciale delle emozioni e nella comprensione dell’espressione facciale delle emozioni negli altri (Snow e coll. 1988; Yirmiya e coll. 1989; Hobson e coll. 1988, 1989). Un’ulteriore manifestazione dei deficit affettivi nell’autismo è stata evidenziata da Hobson e Lee (1999). In questo studio i bambini autistici sono risultati significativamente peggiori rispetto ai controlli sani nel riprodurre le caratteristiche affettive delle azioni loro mostrate che dovevano riprodurre. Tutti questi disturbi della sfera affettivo-emozionale possono essere inquadrati come deficit della consonanza affettiva, una componente della consonanza intenzionale, rappresentando quindi un’ulteriore aspetto di una deficitaria molteplicità condivisa.

La mia ipotesi sull’autismo come disturbo della consonanza intenzionale procede in una direzione del tutto opposta rispetto a molte delle teorie oggi prevalenti sull’eziopatogenesi di questa sindrome. Una delle teorie più accreditate, pur con varie articolazioni e successive modulazioni –non sempre coerenti – sostiene infatti che l’autismo derivi sostanzialmente da un deficit dei moduli delle mente specificamente selezionati nel corso dell’evoluzione per costruire teorie della mente altrui (Baron-Cohen, Leslie e Frith 1985; Baron-Cohen 1988, 1995).

La tesi dell’autismo come deficit modulare della Teoria della Mente, cioè come incapacità di creare metarappresentazioni delle menti altrui, presenta tra le altre una prima grossa difficoltà: appare infatti difficilmente riconciliabile con quanto sostenuto da alcuni soggetti autistici ad alto funzionamento come Temple Grandin (1995), e cioè che per farsi un’idea di cosa il mondo degli altri significasse, dovevano costruire “teorie” su questo mondo. Queste testimonianze sembrano indicare che la teorizzazione sul mondo intenzionale dell’altro, lungi dall’essere il deficit di base, costituisce invece l’unica ancora di salvezza, l’unica strategia disponibile quando mancano strumenti cognitivi più elementari e diretti per condividere automaticamente le certezze implicite che danno un senso al mondo degli altri.

 

 

 

La mia ipotesi presenta diverse analogie con quella proposta da Hobson alla fine degli anni ottanta (Hobson 1989, 1993a, b). Secondo il modello psicologico dell’autismo proposto da Hobson infatti, all’origine della sindrome sarebbe l’incapacità di creare una correlazione affettiva con gli altri che impedisce al soggetto autistico di identificarsi con l’altro e quindi stabilire relazioni sociali. Tutti gli altri problemi sociali, inclusi quelli imitativi, sarebbero una conseguenza di questo deficit di base della sfera affettiva. Il modello di Hobson tuttavia non riesce a spiegare deficit imitativi in compiti in cui non è richiesta un’identificazione con il dimostratore, come quando le azioni da imitare sono presentate attraverso figure schematiche. Questi risultati sono invece perfettamente compatibili con un’ipotesi più generale, quale quella da me qui proposta. Il deficit della consonanza affettiva non è il deficit di base, ma solo un aspetto parziale di un problema più ampio, quello cioè di una lacunosa ed imperfetta consonanza intenzionale.

Tutto quanto detto fino ad ora circa i possibili meccanismi alla base dell’autismo infantile costituisce una semplice ipotesi. Credo che i tempi siano maturi per passare ad una verifica empirica di questa ipotesi. Ciò è quanto i miei colleghi ed io ci ripromettiamo di fare nell’immediato futuro.

 

Conclusioni

I dati neuroscientifici qui brevemente riassunti, suggeriscono l’esistenza di un livello di base nelle nostre relazioni interpersonali che non prevede l’uso esplicito di atteggiamenti proposizionali. Questo livello di base è costituito da processi di simulazione incarnata mediante i quali possiamo co-costituire nella relazione con gli altri uno spazio interpersonale condiviso e direttamente intelligibile. Questo spazio condiviso non si esaurisce nel mondo delle azioni. Coinvolge una dimensione più globale, comprendendo cioè tutti quegli aspetti che definiscono un organismo vivente, dalla forma del suo corpo, alle sue sensazioni ed emozioni. Questo multiforme spazio condiviso definisce l’ampia gamma di certezze implicite che nutriamo riguardo i nostri simili. Sé ed altro da sé sono correlati, in quanto entrambi rappresentano opposte estensioni di uno stesso spazio “noi-centrico”. Osservatore ed osservato sono entrambi parte di un sistema dinamico guidato da regole di reversibile reciprocità.

Lo spazio interpersonale in cui siamo letteralmente immersi fin dalla nascita continua a costituire per tutta la vita una parte sostanziale del nostro spazio semantico. Quando osserviamo il comportamento altrui, e siamo esposti al potere espressivo di questo agire (il modo in cui gli altri agiscono, le loro sensazioni ed emozioni), grazie ad un processo automatico di simulazione, si crea una consonanza intenzionale, un ponte interpersonale carico di significato. L’importanza della simulazione nelle relazioni interpersonali è sottolineata anche da una recente serie di studi in psicologia sociale. Molti di questi studi (per una recente rassegna, vedi Barsalou e coll. 2003) dimostrano che tendiamo ad accompagnare la nostra comprensione linguistica o la nostra attività immaginativa con reazioni corporee che simulano le esperienze reali. Gli stimoli, indipendentemente dalla loro natura esterna o interna, inducono forme di simulazione incarnata con la modalità di una reazione automatica, quasi riflessa. Questi studi mostrano insomma una sorprendente relazione tra differenti aspetti delle nostre funzioni cognitive più elevate e la simulazione incarnata.

E’ un problema empirico indagare fino a che punto questi meccanismi di simulazione possano spiegare la sofisticata –– ed apparentemente unicamente umana –– capacità di interpretare il mondo interiore degli altri. I dati presentati in questa relazione, e le ipotesi da essi suggerite, costituiscono credo già oggi una promettente base di partenza. Questi dati inoltre possono dischiudere nuove prospettive di ricerca multidisciplinare nell’ambito di altri aspetti legati all’intersoggettività quali etica ed estetica.

 


 

   

 

 

Bibliografia

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Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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