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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

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Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 13, anno VII, gennaio 2010

"Malessere delle Culture"

 

   

ESPLORAZIONI PSICOANALITICHE SULLA CRISI MEDIO-ORIENTALE

 

  di Yolanda Gampel

 

   

 

Questo articolo è  parte di una conferenza tenuta al Convegno di Pisa sulla violenza socio-politica del giugno 2008. Sebbene il contenuto dell’articolo sia ancora rilevante al giorno d’oggi, i lettori dovrebbero tenere in considerazione che esso è stato scritto prima della  guerra tra Hamas di Gaza e l’esercito israeliano (dicembre 2008- gennaio 2009).

L'articolo nella sua interezza verrà pubblicato in un libro di prossima uscita per le Edizioni Frenis Zero, che si intitolerà "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria".

Yolanda Gampel è psicoanalista di "training" della "Israeli Psychoanalytic Society" e docente alla "Tel Aviv University".   Tra le sue numerose pubblicazioni si menziona: "Growing up in a Holocaust Culture" (con Judith Kestenberg), In Psychiatry and Related Sciences. 20/1 &2 129-146, 1983; "A daughter of silence", capitolo del libro "Generations of the Holocaust", a cura di Martin S. Bergmann & Milton E. Jucovy, Columbia University Press, New York, 1990; "Ideology, Deprivation, and Adolescence: A Psychoanalytical, Clinical Point of View", in Journal of Youth and Adolescence, Vol. 22, 1993; "The Interminable Uncanny", capitolo del libro "Psychoanalysis at the Political Border", a cura di Leo Rangell e Rena Moses-Hruskovski, Madison, 1996; "Mais là où il y a péril...", capitolo del libro "Mémoires du génocide arménien : héritage traumatique et travail analytique", a cura di Janine Altounian, Presses Universitaires de France, Paris, 2009.

 

 

  Foto: Yolanda Gampel
 
 

 

Vorrei  esordire condividendo con il lettore tre momenti differenti in cui possiamo entrare in contatto con la sofferenza degli individui negli ultimi venti anni di occupazione e di Intifada nell'ambito dell'infinito conflitto tra israeliani e palestinesi.

         Il primo momento risale al 1990. In un gruppo di sopravvissuti alla Shoah, che  stavo incontrando da svariati anni, un motivo ricorrente di discussione era dato dal ruolo spiacevole che i soldati israeliani erano costretti a  svolgere sin dall'inizio dell'Intifada nel dicembre 1987. L'essere capaci di parlare di ciò aveva aggiunto particolari sfumature alla comprensione da parte dei partecipanti della violenza sociale che aveva avuto luogo ai tempi della Shoah e di cui essi, da sopravvissuti, portavano un carico di viventi testimonianze. Il gruppo comprendeva sopravvissuti della Shoah che erano stati bambini all'epoca della Seconda Guerra Mondiale, che si riunivano regolarmente per condividere il loro passato ma anche le esperienze in corso (Gampel, 1990a, 1990b, 2005).  Il tema di discussione fu dapprima sollevato da una coppia che era stata nel gruppo sin dall'inizio (Gampel, 1992). Il marito, il Sig. S., lasciò Auschwitz quando aveva dodici anni e  mezzo  dopo avervi passato un lungo periodo. La moglie, la Sig.ra S., aveva trascorso l'infanzia in un campo differente ed aveva subito molte esperienze traumatiche e spostamenti prima di entrare nel campo.

         La Sig.ra S. aprì la discussione dicendo di voler sollevare l'argomento dell'occupazione, e di voler ascoltare cosa sentiva a tal riguardo ciascun membro del gruppo. Il pensiero di suo figlio, in particolare, ma anche  di tutti gli altri giovani soldati israeliani -  che dovevano entrare nelle case nel cuore della notte, svegliare le famiglie, e talora portar via il padre di bambini ansiosi e spaventati - la faceva stare molto male e la rendeva inquieta. L'intera scena era impensabile per lei, in quanto le ricordava quanto le era stato fatto quando era piccola. Secondo le sue testuali parole: <<Come può un soldato ebreo far questo? Noi che abbiamo subito le persecuzioni, non possiamo permetterci di fare questo>>.

         Non voglio cercare di  fornire un resoconto di  tutte le reazioni che le sue parole generarono nel gruppo nei successivi due anni, ma dirò solo che parte del gruppo si identificò con la Sig.ra S. ed espresse una grande tristezza, mentre gli altri sembravano offesi dal paragone.  Questa seconda posizione vedeva nell'occupazione  una forma necessaria di auto-protezione allo scopo di assicurare la  sopravvivenza, essendo venute meno le altre alternative. La loro maggiore preoccupazione era che  la Shoah non dovrebbe mai più ripetersi ed essi erano convinti che invece si  sarebbe ripetuta qualora gli Ebrei permettessero a se stessi di essere deboli. Ma era anche evidente che essi stavano sperimentando un grande dolore.

         Il secondo momento che voglio condividere  si svolse durante un incontro organizzato dal Centro 'Peres' per la Pace a Stoccarda nel luglio 2003, in cui undici palestinesi ed undici israeliani stettero insieme nello stesso posto per quattro giorni. I lavori duravano otto ore al giorno. Durante i pasti parlavamo della nostra e della loro vita quotidiana, delle famiglie, dei figli, del lavoro.

         Alcuni di questi palestinesi sono stati da me conosciuti per lungo tempo. Uno dei colleghi, che erano considerati dagli altri come professionisti di alto profilo, non era entusiasta degli israeliani. Conoscendo i suoi sentimenti verso gli israeliani,  gli chiesi perché egli avesse deciso di venire all'incontro. Egli  rispose con una domanda: <<Sai cosa mi avete fatto? Io vivo a Gerusalemme, mentre la clinica dove lavoro è a Ramallah. Ogni giorno devo attraversare due 'checkpoints', uno da Gerusalemme Est per andare nella parte occidentale, quindi di nuovo nei territori occupati per andare a Ramallah. Mi ci vogliono ore per mettermi in fila ed aspettare, qualche volta  due o tre ore. Il tempo necessario per andare da Gerusalemme a Ramallah senza 'checkpoints' sarebbe di 20 minuti. E' uno spreco di tempo non necessario, e questo senza parlare dell'umiliazione che devo sopportare ogni giorno. In più, la mia famiglia è vissuta in questa terra per generazioni, eppure tutte le nostre terre vicine a Hebron sono state prese dal governo israeliano. Sto sopportando tutto questo ed ancora altro da almeno 20 anni e la situazione va sempre peggio. Non posso tollerare che i miei bambini dovranno passare attraverso la stessa sofferenza, e ora è il turno dei miei nipoti... Ho una buona influenza e posizione sociale, così ho deciso di venire qui per cercare di cambiare qualcosa per il bene dei nostri bambini>>.

         Il terzo momento  ha a che fare con una lettera ricevuta nel 2007 da Eyad Sarraj, direttore del "Gaza Community Mental Health Program", che ha ricevuto nel 1997 il premio "Medici per i Diritti Umani" e nel 1998 il premio "Martin Ennals" per la difesa dei diritti umani.

 

Un palestinese a Gaza   19 giugno 2007

(riporterò qui solo dei brani da questa lettera molto lunga)

 <<Feci un giro domenica mattina. Gaza era stancamente tranquilla e la gente era sconcertata. Un uomo anziano mi disse "Okay, hanno distrutto il Corrotto. Siamo contenti. Possono sfamarci ora?" Io gli dissi cosa era rimasto della casa saccheggiata di Mohammed Dahlan, comandante dei servizi segreti di Gaza, e delle ville sulla spiaggia che erano usate per l'addestramento delle sue nuove reclute. La mia famiglia ed io avevamo passato parecchi giorni traumatici e notti insonni, cercando di trovare un angolo sicuro nella nostra casa non appena le esplosioni e i bombardamenti impazzirono attorno a noi. Mio figlio piccolo era coi nonni quando scoppiarono i combattimenti e non potemmo tenerlo in casa o addirittura vederlo fino a che tutto non cessò. La cosa più allarmante era il trattamento inumano di quelli che erano stati catturati. Un uomo fu legato e gettato giù dal decimo piano di un edificio. Alcuni combattenti feriti vennero uccisi nei loro letti d'ospedale. E le storie di folli torture erano numerose ed orribili>> ... Egli continuava nella sua lettera: <<L'assedio imposto ai palestinesi è stato feroce. La povertà ha raggiunto livelli inauditi, assieme alla disoccupazione. Secondo la Banca Mondiale, il 60% dei palestinesi vivono con meno di 2 dollari al giorno. Israele, che è nel pieno controllo di tutti i confini di Gaza  e delle sue coste, ha intensificato il blocco riducendo il movimento dei palestinesi. A volte è proibito persino pescare. Già sovraffollata, la delinquenza è diventata imperante a Gaza. Furti e rapine a mano armata hanno spaventato tutti. La scorsa settimana l'auto di mio fratello è stata portata via in seguito a minacce con le armi. Molta gente è stata costretta a cedere il proprio portafoglio o il proprio telefono cellulare. I barboni vagano per le strade chiedendo denaro o pane. Per più di 18 mesi gli impiegati pubblici non hanno ricevuto un salario, solo una parte di esso ora sì ora no. Agli impiegati comunali è stata data una borsa con del pane ogni giorno anziché ricevere lo stipendio.

         L'esplosione era destinata a venire, e l'ultima goccia che fece traboccare il vaso fu quando il Ministro degli Interni dichiarò che non poteva assolvere ai propri compiti e si dimise. Egli accusò il direttore dei servizi segreti di Fatah di atteggiamento ostruzionistico. Ovviamente, gli affari palestinesi non sono solo palestinesi. I maggiori attori sono a Washington, a Teheran e a Tel Aviv. Ci sembra che  gli USA e l'Iran stiano combattendo la loro guerra a Gaza, in Libano ed in Iraq. Ma questa situazione è qualcosa di più di una lotta di potere. Essa nasce dall'assenza in Palestina di una cultura democratica e del ruolo della legge. Uscendo a metà degli anni '90 dall'occupazione di Israele, noi di Gaza sognavamo una nuova era. Invece, la nostra Autorità Palestinese continua la cultura delle armi. Essa è basata sulla lealtà, sulla segretezza e sulla persecuzione degli oppositori. Non c'è alcun rispetto per i diritti umani come anche del ruolo della legge o della stessa vita umana.

         Ciò che cominciò all'insegna della resistenza all'occupazione israeliana è peggiorato durante gli anni di potere di Yasser Arafat. Molte volte mi sono confrontato e persino sono stato arrestato dagli ufficiali delle forze di sicurezza - persone che una volta erano state nella resistenza, ma mostravano nessuna comprensione della gravità della tortura e degli abusi legali. La cultura delle armi è contagiosa. Le persone armate esibiscono un'immagine euforica e di fiducia in sé, dato che l'arma in mano compensa la loro impotenza interiore... I capi delle milizie armate diventano un nuovo modello, il simbolo del potere che può uccidere a volontà e torturare gli altri senza alcun rimorso.

         Svanendo il sogno di una Palestina indipendente – come  risultato del continuo depredare l'area della West Bank da parte di Israele e dell'anarchia di Gaza - ora noi immaginiamo gli incubi che possono giungerci. Ci saranno tre Stati anziché due: Israele, West Bank e Gaza? Ce ne sarà solo uno? Gaza diverrà un posto ancora più estremistico di quanto lo sia ora?

         I palestinesi sono divisi dalla politica e dalla geografia, dato che l'ufficio di emergenza si trova e opera nella West Bank, mentre il governo guidato da Hamas si trova e opera a Gaza. Separare i nostri due territori era uno degli obiettivi del piano di Ariel Sharon di ritiro unilaterale. La tragica ironia è che i capi palestinesi sono serviti solo al piano di Sharon ed a delegittimare la nostra volontà di auto-governo.

         L'unica soluzione è un governo fatto da persone neutrali di tale integrità da chiedere negoziati di pace con Israele, ma insistendo nel mantenere unita la Palestina>>.

         Israeliani e palestinesi, non avendo mai conosciuto un solo giorno di pace, sono stati condizionati a percepire un solo quadro della realtà, quello di una guerra senza fine. Pochissime persone sono ancora capaci di uno sforzo mentale ed emozionale richiesto dalla complessità della situazione: ciò esclude certamente la maggioranza dei politici. Eppure, persino ora possiamo abbandonare l'idea della pace? C’è davvero un’opportunità?

 

 

 

(fine della prima parte dell'articolo che verrà pubblicato nella sua interezza in un volume di prossima uscita per le Edizioni Frenis Zero)

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 BIBLIOGRAFIA

 

Gampel Y. (1998). Liens inviolables et Violation de Liens. Journal de la Psychanalyse de l’enfant,23, 256-270.

Gampel.Y(1999): Between the background of safety and the background of the uncanny in the context of social violence, In E. Bott Spillius (Ed. In chief), Psychoanalysis on the Move. London: Routledge, pp. 59-74.

Gampel.Y (2000): Reflections on the Prevalence of the Uncanny in Social Violence, In A. Robben, & O. Suarez-Orozco (Eds.), Cultures under Siege: Collective Violence and Trauma in Interdisciplinary Perspectives. Cambridge University Press.

  Gampel, Y. (2002). Unavoidable Links and Violable Links: Israelis and Palestinians in Psychoanalytic Psychotherapy Training. In J. Bunzl, & B. Beit-Hallahmi (Eds.) Psychoanalysis, Identity, and Ideology – Critical Essays on the Israel/Palestine Case (pp. 201-214). Boston-Dordrecht-London: Kluwer Academic Publishers.

Gampel.Y (2005) : Ces parents qui vivent a travers moi. Les enfants de. Fayard, Paris.

 Zelniker T, E El-Sarraj, and  Hertz-Lazarowitz, 2007 Palestinian-Israeli Cooperation on Mental Health Training: Gaza Community Mental Health Program and Tel-Aviv University, 1993-2007 Chapter in a book edited by Judy Kuriansky: "Beyond Bullets and Bombs: Grassroots Peace Building Between Israelis and Palestinians"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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