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  "INFORMALE" a Modena

Recensione della mostra di Giuseppe Leo

 

   

 

 

 A Modena, dopo il successo di "Action Painting" dello scorso anno, una nuova mostra, realizzata dalla Fondazione CRM, esplora un'altra fetta di storia dell'arte del XX secolo, quella che col titolo di "INFORMALE" finisce per designare filoni, a volte confluenti a volte no, di esperienze artistiche che in realtà, ad un esame più accurato,  hanno avuto ben poco in comune. Il sottotitolo della mostra ha voluto tracciare due criteri con cui organizzare i materiali da esporre, uno geografico ed uno temporale. Il secondo stabilisce un 'range' temporale tra il 1945 ed il 1970. Ma è il primo criterio a porre i quesiti più inquietanti: esso fa riferimento a "Jean Dubuffet e l'arte europea", introducendo una polarità dialettica tra le opere del maestro francese e quelle di altri artisti europei che, per vie non sempre chiare e lineari, sono stati in qualche modo messi a confronto col fondatore dell'"Art Brut". Il quale peraltro, in diversi scritti ed interviste, ha finito per negare l'utilità del termine 'informale' come referente semantico onnicomprensivo del proprio pensare artistico. In una lettera1 a Enrico Crispolti del 1959 Dubuffet così scriveva: <<Non comprendo il senso preciso di questo termine: 'Arte informale'. Temo che tale termine non si applichi  a qualcosa che possa veramente essere definita e circoscritta. I miei lavori dipendono, o meglio alcuni di essi forse dipendono da ciò che alcuni hanno in vista quando enunciano questo termine? Non ne so nulla. Sono comunque persuaso che ogni arte che procede da formule o da sistemi è brutta, e non voglio per quanto mi concerne obbligarmi a nulla del genere. Se certi miei lavori possono forse soddisfare le condizioni richieste per la formula dell'Arte informale, è fuor di dubbio che altre mie opere, anch'esse molto numerose, siano in opposizione totale con questa formula. Quindi non vedo con chiarezza cosa io abbia a che fare con l'arte informale. Aggiungerei che io non amo affatto questo termine>>. Se non ci deve stupire la crudezza con cui Dubuffet respinge ogni tentativo di etichettatura della propria arte, egli che sin dagli esordi <<dimostrò (...) poca comprensione per i miti creati dall'avanguardia e prese le distanze, in maniera piuttosto deliberata, dai semidei allora ancora in auge quando questi lo chiamavano dal loro Parnaso>> (Messer2), possiamo comunque cercare di esplicitare i significati che il termine 'informale' può aver acquisito in certe fasi della vita artistica di Dubuffet, mentre risulta molto più arduo estenderlo a tutti gli altri artisti che la mostra modenese abbraccia. Anche perché altri termini, come spazialismo (nel caso di Fontana, che lo conia nel 1947), Art autre (secondo Tapié), Tachisme , Abstration lyrique sono tutti termini che si sono contesi il potere di designare un linguaggio che ha avuto la pretesa paradossale di essere un "sistema di segni al di fuori del linguaggio", secondo l'espressione di Levy Strauss. Ma quali concetti possono essere designati dal termine 'informale'? Esso fu introdotto per la prima volta da Michel Tapié (1909-1987)  nel 1951, in occasione della mostra parigina "Véhémences Confrontées", in cui artisti europei come Giuseppe Capogrossi, Hans Hartung, Jean-Paul Riopelle, Wols e Georges Mathieu vengono accostati agli americani Jackson Pollock e De Kooning. Ma la parola "inform" (informe) era stata già adoperata da Jean Dubuffet nel suo scritto del 1946 Prospectus. E' la figura di Dubuffet, che sin dall'immediato dopoguerra inizia a raccogliere opere create da psicotici e ricoverati nei manicomi, quella che certamente inaugura un nuovo, anti-tradizionale modo di trarre ispirazione dai moti più impulsivi, più 'inconsci' della mente, riallacciandosi in questa ricerca senz'altro al surrealismo. Ma rispetto alle varie avanguardie artistiche che avevano dominato in Europa il periodo tra le due guerre Dubuffet porta una nota inconfondibile: il rifiuto della cultura occidentale portata ad un  grado di radicalità, di rifiuto del 'pensiero categoriale' e di una qualsiasi forma di 'pensiero estetico' che non si era mai visto prima. Anche rispetto al surrealismo, con cui Dubuffet aveva stabilito dei contatti all'inizio della sua carriera, egli manterrà una sua originalità inequivocabile: <<l'obiettivo di Dubuffet non è né il sur-reale, né la cosiddetta oggettività, ma quella che si potrebbe definire trans-soggettività: le visioni e i deliri di una soggettività ordinaria non autocosciente, posta a un livello di inconscio-preverbale>>3. Informale come legittimazione della 'non forma' nella creatività artistica che trae dalla materia la sua forza espressiva. <<Nelle note del Prospectus>> scrive nel catalogo Lorenza Trucchi, <<troviamo la definizione di "informe" subito strettamente legata a quella  di "avventura", e troviamo dogmatizzata l'importanza costitutiva del materiale e dello strumento in rapporto non più di sudditanza con l'artista, ma in dialettica partecipazione: "L'arte deve nascere dal materiale e dallo strumento e deve mantenere la traccia dello strumento e la lotta di questo con la materia. L'artista deve esprimersi, ma anche lo strumento, anche il materiale (...). Ogni materiale ha il proprio linguaggio" ha scritto Dubuffet.  Enrico Crispolti1, nel suo saggio inserito nel catalogo della mostra, oltre a sottolineare come l'"informale" non abbia mai costituito una corrente 'compatta', in quanto non si è mai configurata come un movimento organizzato attorno a uno o più leaders, la accosta alla filosofia esistenzialistica e fenomenologica, 'imperante' nella cultura di quegli anni. Così Crispolti conclude il suo saggio:

Diverse, diversisime polarità sono presenti nella fenomenologia linguistica dell'Informale, tuttavia nel denominatore comune di un'intima pertinenza al mondo dell'esperienza, al livello di una prospettiva mondana, assolutamente immanentistica. Dunque rapporto diretto tra condizione esistenziale, condizione espressiva e comunicazione; pertinenza della materia, del segno, del gesto allo stesso spazio e tempo del vissuto, rinuncia a uno spazio ideale, d'immagine. Un rapporto con la realtà, che intende essere totale: la materia empirica, il percorso d'un gesto fisico, d'un segno, assumono emblematicamente allusività totale attraverso l'ambiguità. La più particolarizzata situazione esistenziale, unica e irripetibile - muro, brano materico, segno, impronta di gesto- assurge, proprio in quanto tale, in emblema totale, quale interrogazione globale sulla condizione umana, questione ontologica insomma. Il quadro, l'opera, è dunque luogo d'esperienza, è rischio, è scacco. In questo senso l'Informale ha rappresentato un perentorio richiamo alla realtà, riportando entro orizzonti terrestri ed esistenziali. E' stato dunque un movimento di cultura artistica strettamente parallelo e connesso in Europa all'Esistenzialismo (Heidegger, Sartre in particolare) e alla fenomenologia (Merleau-Ponty, Bachelard, Paci), negli Stati Uniti alla tradizione pragmatista e all'organicismo (Whitehead, in particolare). Ed è in fondo l'aspetto figurale d'una posizione in ambito letterario rappresentata in particolare dall'opera di Céline, di Artaud, di Michaux, di Ponge, di Beckett, in Europa, come di Henry Miller e di Faulkner negli Stati Uniti. Il dramma bellico non è la causa della profonda crisi che l'Informale ha rappresentato: ma è stato indubbiamente l'elemento che ne ha sollecitato la sua precipitazione. La crisi aveva origini più lontane, altrettanto di come intuizione di modi d'imagerie informale rimontano fin entro la cultura simbolista europea (Monet delle Ninfee, o Gustave Moreau).

Un importante tema della mostra è rappresentato dai contatti che gli artisti stabilirono tra le due sponde dell'atlantico nell'arco degli anni tra il 1945 ed il 1970. Dubuffet espone già a partire dal 1946 a New York, e trascorre nella metropoli americana gli anni 1951-1952. Mathieu organizza nella stessa città esposizioni in cui vengono messi a confronto gli artisti europei con quelli nordamericani. Abbiamo citato la mostra Art Autre organizzata da Tapié con l'intento di sottolineare soprattutto le comunanze tra artisti in cui è l'atto creativo (come nell'"Action painting") ad essere enfatizzato. Intanto, sul versante europeo, è Parigi senza dubbio a svolgere la funzione di polo di attrazione per le nuove tendenze, mentre in Italia sono Roma, Venezia e Milano i centri di maggiore aggregazione degli artisti. In particolare Venezia, grazie anche alla presenza di Peggy Guggenheim, finisce per svolgere una funzione di 'cerniera' culturale tra gli artisti dell'Espressionismo astratto americano e le nuove tendenze 'informali' europee. Ad illustrare l'importanza degli scambi artistici tra i due continenti significativamente la mostra ha posto l'uno accanto all'altro le opere di Cy Twombly (Senza titolo, 1960) e di Salvatore Scarpitta (In flagrante, 1964), quest'ultimo realizzato con tessuti, cinghie e materiali industriali. Un americano che vive tuttora a Roma ed un italiano negli USA vengono accostati quasi a creare un ponte tra i due paesi.

 

Il percorso della mostra

L'ingresso della mostra accoglie Il cane (Le Chien) opera scenografica che Dubuffet nel 1976 realizzò utilizzando una grande vela da barca. L'opera fu esposta per la sua antologica al Solomon R. Guggenheim Museum di new York ed ora per la prima volta viene esposta in Italia.

In questa stessa zona di ingresso sono esposte anche opere di grafica dei primi anni Quaranta di Dubuffet e di artisti che diedero vita al "linguaggio" dell'"Informale europeo".

In una zona successiva vengono esposte quelle opere di Dubuffet che testimoniano il suo legame con il Solomon R. Guggenheim Museum di New York.  Il museo, progettato da Frank Lloyd Wright, tenne due importanti antologiche, "Jean Dubuffet: A Retrospective" (1973) e "Jean Dubuffet, a retrospective glance at Eighty" (1981). In questa sala sono raccolte ben 14 opere di Dubuffet provenienti dal museo newyorkese, consentendo al visitatore di avere una panoramica della sua produzione dagli anni Quaranta agli anni Settanta. Si va da Miss Cholera del 1946 in cui la figura femminile viene deformata, in linea con l'ideologia anti-classica di Dubuffet,

come anche in Brunetta dal volto carnoso (Chataine aux hautes chairs) del 1951,

o anche in Corps de dame del 1950,

mentre la scultura Bidone l'Imbroglio (Bidon l'Esbrouffe) del 1967 appartiene al ciclo dell'Hourloupe.

 Oltre alle opere rappresentanti la figura umana in questa zona sono esposte quelle in cui l'in-formale, la non-forma si coniuga ad una matericità primitiva, come in Sostanza astrale (Substance d'astre) del 1959, come Knoll of Visions (1952),

o anche Nunc stans (1965), scenografico capolavoro dell'intera opera di Dubuffet.

In due salette attigue sono state sistemate delle interessanti opere grafiche di Dubuffet, circa 50, insieme ad una vetrina in cui vengono mostrate rarissime edizioni a stampa concernenti il Maestro. Infine 4 albums completano quest'angolo della mostra: Campi di silenzio (Champs de silence) del 1958, L'Agrimensore (L'Arpenteur) del 1958-62, Aree e luoghi (Aires et lieux) del 1959, e Teatro del suolo (Théatre du sol) del 1959. In mostra anche 24 albums contenenti 362 litografie facenti parte di Les Phénomènes (1958-1962).

Una terza zona della mostra riguarda le complesse aree di interscambio tra i vari gruppi di artisti europei che sono stati riuniti sotto la denominazione di Informale europeo. Il gruppo CoBrA, acronimo di Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam, le città di provenienza degli artisti, fu fondato a Parigi nel 1948 dagli olandesi Karel Appel, Constant (Anton Nieuwenhuys) e Corneille (Guillaume Cornelis van Beverloo), insieme al danese Asger Jorn ed agli scrittori belgi Christian Dotremont e Joseph Noiret. Ai fondatori si aggiungeranno, nei soli tre anni di vita del gruppo, altri artisti come Pierre Alechinski, di cui nella mostra è possibile ammirare Formicaio del 1954.

Di Asger Jorn è esposto Senza titolo (1956-57) proveniente dalla Collezione Peggy Guggenheim, e Balletto Verde del 1960, del Museo Solomon R. Guggenheim.

Dopo lo spazio dedicato al gruppo CoBrA il visitatore può imboccare due percorsi alternativi: uno, a sinistra,  porta a quello dedicato agli artisti che Peggy Guggenheim definiva "i miei nuovi Pollock", i giovani Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso, Edmondo Bacci e Tancredi Parmeggiani, l'altro, a destra, è dedicato agli artisti più rappresentativi dell'Informale europeo. Sono i Tancredi di Peggy, 19 opere mai esposte tutte insieme, che costituiscono una delle attrazioni più importanti della mostra modenese.

Tancredi, nato a Feltre (BN) nel 1927 e morto suicida a Roma nel settembre 1964, già durante gli ultimi anni del 2° conflitto mondiale viene in contatto con Emilio Vedova, che da partigiano si nascondeva nelle montagne bellunesi. Alla fine degli anni '40 inizia a stabilire i primi contatti con gli ambienti artistici romani, elaborando un linguagio vicino alle esperienze gestuali di Jackson Pollock, le cui opere Tancredi vede per la prima volta a Venezia nella collezione di Peggy Guggenheim e, poi, nel 1950 nella mostra allestita nella sala Napoleonica del Museo Correr. Peggy Guggenheim ben presto sosterrà la carriera artistica di Tancredi, offrendogli nel 1951 persino un locale nei sotterranei del suo Palazzo Venier de' Leoni come atelier. Agli inizi degli anni è un pullulare di segni sulla tela, una ricerca sulla rappresentabilità dello spazio che anima opere (visibili nella mostra modenese) come Paesaggio di spazio (1951-52), Senza titolo (1951-52 ca.) e Senza titolo (1952 ca.). Nei due Senza titolo del 1953 le campiture cromatiche accolgono segni che danno una viva vibrazione allo spazio. Nel guazzo Senza titolo del 1954 e nella tempera Composizione del 1957 il gesto pittorico produce un brulicare di segni in maniera originale, mai utilizzando la tecnica del dripping, essendo la pittura per Tancredi non traccia semplicemente di un gesto, ma traduzione in segni di un linguaggio interno allo spazio. In Composizione del 1955 il gesto pittorico compone dei frammenti di cerchi concentrici, saturi di colore, che nella composizione conferiscono allo spazio l'aspetto di vortici, insieme alle campiture rettangolari anch'esse risucchiate dal moto perpetuo.

Nella stessa sala sono esposte opere di Emilio Vedova (Città Ostaggio del 1954, Immagine del tempo del 1957, Scontro di situazioni '59, II-1 del 1959), di Bice Lazzari (Esperienze del 1958) e di Toti Scialoja (Impronta bianca su sabbia del 1959).

L'altro percorso alternativo conduce alle opere dei protagonisti dell'Informale europeo: Hartung con T-50 pittura 8 del 1950,

Riopelle con Dipinto del 1955,

Tàpies con Grande trittico marrone del 1978,

Mathieu con Senza titolo del 1957, Soulages con Dipinto del 1953

e Dipinto del 1956, Manzoni con Achrome del 1958.

La quarta area è dedicata ad Alberto Burri ed a Lucio Fontana. Di Burri è esposto un 'catrame' del 1949, lungo un percorso che passa attraverso i sacchi, i legni, fino al grande Metallo del 1959, acquisito dal Solomon R. Guggenheim Museum nel 1960.

Di Fontana vengono esposti, grazie alla collaborazione della Fondazione Lucio Fontana di Milano, sia opere informali - pietre, aniline e la serie dei "Barocchi" - sia le opere che a partire dalla fine degli anni Cinquanta furono caratterizzate dai tagli.

L'ultima area della mostra è dedicata a Pinot Gallizio con un gigantesco rotolo di pittura 'industriale' di 70 metri, che l'artista vendeva come "pittura a metro". L'opera proviene dall'Archivio Gallizio di Torino. Nella stessa sala di chiusura si possono ammirare anche Blu concentrico (1960) di Carla Accardi,

Superficie 210 (1957)

e Superficie 324 (1959) di Capogrossi, i quattro pannelli di Gastone Novelli Linea, Dialettica, Un obelisco per la memoria e Tonnerre printanier del 1968, ed infine Il giardino delle delizie (1959) di Afro Basaldella, accompagnato dai 5 studi preparatori.

 


     Note.

   (1) Lettera citata da Enrico Crispolti nel suo contributo "Sulla radicalità esistenziale dell'Informale" all'interno del catalogo della mostra. 

(2) Messer Th., "Jean Dubuffet", contributo nello stesso catalogo della mostra.    

(3) Margit Rowell, "Jean Dubuffet: un'arte ai margini della cultura", saggio pubblicato originariamente nel catalogo della mostra Jean Dubuffet. A Retrospective, (New York, The Solomon R. Guggenheim Foundation, 1973), ed ora riproposto nel catalogo della mostra.                   

 Mostra visitata il 3.03.2006 da Giuseppe Leo.

PERIODO
Dal 18 Dicembre 2005 al 9 Aprile 2006
Tutti i giorni orario continuato dalle 10.00 alle 19.00
Chiuso il lunedì, la mattina del 25 dicembre e del 1 gennaio
Aperto il 26 dicembre
 

SEDE
Modena
Foro Boario
Via Bono da Nonantola
Info 320 0452126

PRODUZIONE
Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
in collaborazione con Collezione Peggy Guggenheim

CURA
Luca Massimo Barbero

INGRESSO GRATUITO

VISITE GUIDATE
Sono disponibili, gratuitamente e senza prenotazione, percorsi guidati della durata di ca 45' nei seguenti orari:

Martedì ore 17.00
Mercoledì ore 17.00
Giovedì ore 17.00
Venerdì ore 17.00
Sabato ore 12.00
Domenica ore 12.00

Per gruppi superiori a 10 persone è possibile prenotare visite guidate concordando modalità ed orari
Info 320 0452126
 

SCUOLE
Info e prenotazioni 320 0452126

CATALOGO
Peggy Guggenheim Collection

INFORMAZIONI
Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
Via Emilia Centro, 283
41100 Modena
Tel. +39 059 239888
Fax +39 059 238966
e-mail: info@mostre.fondazione-crmo.it

UFFICIO STAMPA
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