|
A
Modena, dopo il successo di "Action Painting" dello scorso anno, una
nuova mostra, realizzata dalla Fondazione CRM, esplora un'altra
fetta di storia dell'arte del XX secolo, quella che col titolo di
"INFORMALE" finisce per designare filoni, a volte confluenti a volte
no, di esperienze artistiche che in realtà, ad un esame più
accurato, hanno avuto ben poco in comune. Il sottotitolo della
mostra ha voluto tracciare due criteri con cui organizzare i
materiali da esporre, uno geografico ed uno temporale. Il secondo
stabilisce un 'range' temporale tra il 1945 ed il 1970. Ma è il
primo criterio a porre i quesiti più inquietanti: esso fa
riferimento a "Jean Dubuffet e l'arte europea", introducendo una
polarità dialettica tra le opere del maestro francese e quelle di
altri artisti europei che, per vie non sempre chiare e lineari, sono
stati in qualche modo messi a confronto col fondatore dell'"Art
Brut". Il quale peraltro, in diversi scritti ed interviste, ha
finito per negare l'utilità del termine 'informale' come referente
semantico onnicomprensivo del proprio pensare artistico. In una
lettera1 a Enrico Crispolti del 1959 Dubuffet così
scriveva: <<Non comprendo il senso preciso di questo termine: 'Arte
informale'. Temo che tale termine non si applichi a qualcosa
che possa veramente essere definita e circoscritta. I miei lavori
dipendono, o meglio alcuni di essi forse dipendono da ciò che alcuni
hanno in vista quando enunciano questo termine? Non ne so nulla.
Sono comunque persuaso che ogni arte che procede da formule o da
sistemi è brutta, e non voglio per quanto mi concerne obbligarmi a
nulla del genere. Se certi miei lavori possono forse soddisfare le
condizioni richieste per la formula dell'Arte informale, è fuor di
dubbio che altre mie opere, anch'esse molto numerose, siano in
opposizione totale con questa formula. Quindi non vedo con chiarezza
cosa io abbia a che fare con l'arte informale. Aggiungerei che io
non amo affatto questo termine>>. Se non ci deve stupire la crudezza
con cui Dubuffet respinge ogni tentativo di etichettatura della
propria arte, egli che sin dagli esordi <<dimostrò (...) poca
comprensione per i miti creati dall'avanguardia e prese le distanze,
in maniera piuttosto deliberata, dai semidei allora ancora in auge
quando questi lo chiamavano dal loro Parnaso>> (Messer2),
possiamo comunque cercare di esplicitare i significati che il
termine 'informale' può aver acquisito in certe fasi della vita
artistica di Dubuffet, mentre risulta molto più arduo estenderlo a
tutti gli altri artisti che la mostra modenese abbraccia. Anche
perché altri termini, come spazialismo (nel caso di Fontana,
che lo conia nel 1947), Art autre (secondo Tapié),
Tachisme , Abstration lyrique sono tutti termini che si
sono contesi il potere di designare un linguaggio che ha avuto la
pretesa paradossale di essere un "sistema di segni al di fuori del
linguaggio", secondo l'espressione di Levy Strauss. Ma quali
concetti possono essere designati dal termine 'informale'? Esso fu introdotto per la prima volta da Michel Tapié
(1909-1987) nel 1951, in occasione della mostra parigina "Véhémences
Confrontées", in cui artisti europei come Giuseppe Capogrossi, Hans Hartung,
Jean-Paul Riopelle, Wols e Georges Mathieu vengono accostati agli
americani Jackson Pollock e De
Kooning. Ma la parola "inform" (informe) era stata già adoperata da
Jean Dubuffet nel suo scritto del 1946 Prospectus. E' la
figura di Dubuffet, che sin dall'immediato dopoguerra inizia a
raccogliere opere create da psicotici e ricoverati nei manicomi,
quella che certamente inaugura un nuovo, anti-tradizionale modo di
trarre ispirazione dai moti più impulsivi, più 'inconsci' della
mente, riallacciandosi in questa ricerca senz'altro al surrealismo.
Ma rispetto alle varie avanguardie artistiche che avevano dominato
in Europa il periodo tra le due guerre Dubuffet porta una nota
inconfondibile: il rifiuto della cultura occidentale portata ad un
grado di radicalità, di rifiuto del 'pensiero categoriale' e di una
qualsiasi forma di 'pensiero estetico' che non si era mai visto
prima. Anche rispetto al surrealismo, con cui Dubuffet aveva
stabilito dei contatti all'inizio della sua carriera, egli manterrà
una sua originalità inequivocabile: <<l'obiettivo di Dubuffet non è
né il sur-reale, né la cosiddetta oggettività, ma quella che si
potrebbe definire trans-soggettività: le visioni e i deliri di una
soggettività ordinaria non autocosciente, posta a un livello di
inconscio-preverbale>>3. Informale come legittimazione
della 'non forma' nella creatività artistica che trae dalla materia
la sua forza espressiva. <<Nelle note del Prospectus>> scrive
nel catalogo Lorenza Trucchi, <<troviamo la definizione di "informe"
subito strettamente legata a quella di "avventura", e troviamo
dogmatizzata l'importanza costitutiva del materiale e dello
strumento in rapporto non più di sudditanza con l'artista, ma in
dialettica partecipazione: "L'arte deve nascere dal materiale e
dallo strumento e deve mantenere la traccia dello strumento e la
lotta di questo con la materia. L'artista deve esprimersi, ma anche
lo strumento, anche il materiale (...). Ogni materiale ha il proprio
linguaggio" ha scritto Dubuffet. Enrico Crispolti1,
nel suo saggio inserito nel catalogo della mostra, oltre a
sottolineare come l'"informale" non abbia mai costituito una
corrente 'compatta', in quanto non si è mai configurata come un
movimento organizzato attorno a uno o più leaders, la accosta
alla filosofia esistenzialistica e fenomenologica, 'imperante' nella
cultura di quegli anni. Così Crispolti conclude il suo saggio:
Diverse,
diversisime polarità sono presenti nella fenomenologia linguistica
dell'Informale, tuttavia nel denominatore comune di un'intima
pertinenza al mondo dell'esperienza, al livello di una prospettiva
mondana, assolutamente immanentistica. Dunque rapporto diretto tra
condizione esistenziale, condizione espressiva e comunicazione;
pertinenza della materia, del segno, del gesto allo stesso spazio e
tempo del vissuto, rinuncia a uno spazio ideale, d'immagine. Un
rapporto con la realtà, che intende essere totale: la materia
empirica, il percorso d'un gesto fisico, d'un segno, assumono
emblematicamente allusività totale attraverso l'ambiguità. La più
particolarizzata situazione esistenziale, unica e irripetibile -
muro, brano materico, segno, impronta di gesto- assurge, proprio in
quanto tale, in emblema totale, quale interrogazione globale sulla
condizione umana, questione ontologica insomma. Il quadro, l'opera,
è dunque luogo d'esperienza, è rischio, è scacco. In questo senso
l'Informale ha rappresentato un perentorio richiamo alla realtà,
riportando entro orizzonti terrestri ed esistenziali. E' stato
dunque un movimento di cultura artistica strettamente parallelo e
connesso in Europa all'Esistenzialismo (Heidegger, Sartre in
particolare) e alla fenomenologia (Merleau-Ponty, Bachelard, Paci),
negli Stati Uniti alla tradizione pragmatista e all'organicismo (Whitehead,
in particolare). Ed è in fondo l'aspetto figurale d'una posizione in
ambito letterario rappresentata in particolare dall'opera di Céline,
di Artaud, di Michaux, di Ponge, di Beckett, in Europa, come di
Henry Miller e di Faulkner negli Stati Uniti. Il dramma bellico non
è la causa della profonda crisi che l'Informale ha rappresentato: ma
è stato indubbiamente l'elemento che ne ha sollecitato la sua
precipitazione. La crisi aveva origini più lontane, altrettanto di
come intuizione di modi d'imagerie informale rimontano fin entro la
cultura simbolista europea (Monet delle Ninfee, o Gustave Moreau).
Un importante
tema della mostra è rappresentato dai contatti che gli artisti
stabilirono tra le due sponde dell'atlantico nell'arco degli anni
tra il 1945 ed il 1970. Dubuffet espone già a partire dal 1946 a New
York, e trascorre nella metropoli americana gli anni 1951-1952.
Mathieu organizza nella stessa città esposizioni in cui vengono
messi a confronto gli artisti europei con quelli nordamericani.
Abbiamo citato la mostra Art Autre organizzata da Tapié con
l'intento di sottolineare soprattutto le comunanze tra artisti in
cui è l'atto creativo (come nell'"Action painting") ad essere
enfatizzato. Intanto, sul versante europeo, è Parigi senza dubbio a
svolgere la funzione di polo di attrazione per le nuove tendenze,
mentre in Italia sono Roma, Venezia e Milano i centri di maggiore
aggregazione degli artisti. In particolare Venezia, grazie anche
alla presenza di Peggy Guggenheim, finisce per svolgere una funzione
di 'cerniera' culturale tra gli artisti dell'Espressionismo astratto
americano e le nuove tendenze 'informali' europee. Ad illustrare
l'importanza degli scambi artistici tra i due continenti
significativamente la mostra ha posto l'uno accanto all'altro le
opere di Cy Twombly (Senza titolo, 1960) e di Salvatore
Scarpitta (In flagrante, 1964), quest'ultimo realizzato con
tessuti, cinghie e materiali industriali. Un americano che vive
tuttora a Roma ed un italiano negli USA vengono accostati quasi a
creare un ponte tra i due paesi.
Il percorso
della mostra
L'ingresso
della mostra accoglie Il cane (Le Chien) opera scenografica
che Dubuffet nel 1976 realizzò utilizzando una grande vela da barca.
L'opera fu esposta per la sua antologica al Solomon R. Guggenheim
Museum di new York ed ora per la prima volta viene esposta in
Italia.
In questa stessa zona di ingresso
sono esposte anche opere di grafica dei primi anni Quaranta di
Dubuffet e di artisti che diedero vita al "linguaggio"
dell'"Informale europeo".
In una zona successiva vengono
esposte quelle opere di Dubuffet che testimoniano il suo legame con
il Solomon R. Guggenheim Museum di New York. Il museo,
progettato da Frank Lloyd Wright, tenne due importanti antologiche,
"Jean Dubuffet: A Retrospective" (1973) e "Jean Dubuffet,
a retrospective glance at Eighty" (1981). In questa sala sono
raccolte ben 14 opere di Dubuffet provenienti dal museo newyorkese,
consentendo al visitatore di avere una panoramica della sua
produzione dagli anni Quaranta agli anni Settanta. Si va da Miss
Cholera del 1946 in cui la figura femminile viene deformata, in
linea con l'ideologia anti-classica di Dubuffet,
come anche in Brunetta dal
volto carnoso (Chataine aux hautes chairs) del 1951,
o anche in Corps de dame
del 1950,
mentre la scultura Bidone
l'Imbroglio (Bidon l'Esbrouffe) del 1967 appartiene al ciclo
dell'Hourloupe.
Oltre alle opere
rappresentanti la figura umana in questa zona sono esposte quelle in
cui l'in-formale, la non-forma si coniuga ad una matericità
primitiva, come in Sostanza astrale (Substance d'astre) del
1959, come Knoll of Visions (1952),
o anche Nunc stans (1965),
scenografico capolavoro dell'intera opera di Dubuffet.
In due salette attigue sono state
sistemate delle interessanti opere grafiche di Dubuffet, circa 50,
insieme ad una vetrina in cui vengono mostrate rarissime edizioni a
stampa concernenti il Maestro. Infine 4 albums completano quest'angolo
della mostra: Campi di silenzio (Champs de silence) del 1958,
L'Agrimensore (L'Arpenteur) del 1958-62, Aree e luoghi
(Aires et lieux) del 1959, e Teatro del suolo (Théatre du
sol) del 1959. In mostra anche 24 albums contenenti 362
litografie facenti parte di Les Phénomènes (1958-1962).
Una terza zona della mostra
riguarda le complesse aree di interscambio tra i vari gruppi di
artisti europei che sono stati riuniti sotto la denominazione di
Informale europeo. Il gruppo CoBrA, acronimo di Copenhagen,
Bruxelles e Amsterdam, le città di provenienza degli artisti, fu
fondato a Parigi nel 1948 dagli olandesi Karel Appel, Constant (Anton
Nieuwenhuys) e Corneille (Guillaume Cornelis van Beverloo), insieme
al danese Asger Jorn ed agli scrittori belgi Christian Dotremont e
Joseph Noiret. Ai fondatori si aggiungeranno, nei soli tre anni di
vita del gruppo, altri artisti come Pierre Alechinski, di cui nella
mostra è possibile ammirare Formicaio del 1954.
Di Asger Jorn è esposto Senza
titolo (1956-57) proveniente dalla Collezione Peggy Guggenheim,
e Balletto Verde del 1960, del Museo Solomon R. Guggenheim.
Dopo lo spazio dedicato al gruppo
CoBrA il visitatore può imboccare due percorsi alternativi: uno, a
sinistra, porta a quello dedicato agli artisti che Peggy
Guggenheim definiva "i miei nuovi Pollock", i giovani Emilio Vedova,
Giuseppe Santomaso, Edmondo Bacci e Tancredi Parmeggiani, l'altro, a
destra, è dedicato agli artisti più rappresentativi dell'Informale
europeo. Sono i Tancredi di Peggy, 19 opere mai esposte tutte
insieme, che costituiscono una delle attrazioni più importanti della
mostra modenese.
Tancredi, nato a Feltre (BN) nel
1927 e morto suicida a Roma nel settembre 1964, già durante gli
ultimi anni del 2° conflitto mondiale viene in contatto con Emilio
Vedova, che da partigiano si nascondeva nelle montagne bellunesi.
Alla fine degli anni '40 inizia a stabilire i primi contatti con gli
ambienti artistici romani, elaborando un linguagio vicino alle
esperienze gestuali di Jackson Pollock, le cui opere Tancredi vede
per la prima volta a Venezia nella collezione di Peggy Guggenheim e,
poi, nel 1950 nella mostra allestita nella sala Napoleonica del
Museo Correr. Peggy Guggenheim ben presto sosterrà la carriera
artistica di Tancredi, offrendogli nel 1951 persino un locale nei
sotterranei del suo Palazzo Venier de' Leoni come atelier.
Agli inizi degli anni è un pullulare di segni sulla tela, una
ricerca sulla rappresentabilità dello spazio che anima opere
(visibili nella mostra modenese) come Paesaggio di spazio
(1951-52), Senza titolo (1951-52 ca.) e Senza titolo
(1952 ca.). Nei due Senza titolo del 1953 le campiture
cromatiche accolgono segni che danno una viva vibrazione allo
spazio. Nel guazzo Senza titolo del 1954 e nella tempera
Composizione del 1957 il gesto pittorico produce un brulicare di
segni in maniera originale, mai utilizzando la tecnica del
dripping, essendo la pittura per Tancredi non traccia
semplicemente di un gesto, ma traduzione in segni di un linguaggio
interno allo spazio. In Composizione del 1955 il gesto
pittorico compone dei frammenti di cerchi concentrici, saturi di
colore, che nella composizione conferiscono allo spazio l'aspetto di
vortici, insieme alle campiture rettangolari anch'esse risucchiate
dal moto perpetuo.
Nella stessa sala sono esposte
opere di Emilio Vedova (Città Ostaggio del 1954, Immagine
del tempo del 1957, Scontro di situazioni '59, II-1 del
1959), di Bice Lazzari (Esperienze del 1958) e di Toti
Scialoja (Impronta bianca su sabbia del 1959).
L'altro percorso alternativo
conduce alle opere dei protagonisti dell'Informale europeo: Hartung
con T-50 pittura 8 del 1950,
Riopelle con Dipinto del
1955,
Tàpies con Grande trittico
marrone del 1978,
Mathieu con Senza titolo
del 1957, Soulages con Dipinto del 1953
e Dipinto del 1956, Manzoni
con Achrome del 1958.
La quarta area è dedicata ad
Alberto Burri ed a Lucio Fontana. Di Burri è esposto un 'catrame'
del 1949, lungo un percorso che passa attraverso i sacchi, i legni,
fino al grande Metallo del 1959, acquisito dal Solomon R.
Guggenheim Museum nel 1960.
Di Fontana vengono esposti, grazie
alla collaborazione della Fondazione Lucio Fontana di Milano, sia
opere informali - pietre, aniline e la serie dei "Barocchi"
- sia le opere che a partire dalla fine degli anni Cinquanta furono
caratterizzate dai tagli.
L'ultima area della mostra è
dedicata a Pinot Gallizio con un gigantesco rotolo di pittura
'industriale' di 70 metri, che l'artista vendeva come "pittura a
metro". L'opera proviene dall'Archivio Gallizio di Torino. Nella
stessa sala di chiusura si possono ammirare anche Blu concentrico
(1960) di Carla Accardi,
Superficie 210 (1957)
e Superficie 324 (1959) di
Capogrossi, i quattro pannelli di Gastone Novelli Linea,
Dialettica, Un obelisco per la memoria e Tonnerre printanier
del 1968, ed infine Il giardino delle delizie (1959) di
Afro Basaldella, accompagnato dai 5 studi preparatori.
|