1.
Una premessa
Non
possono esserci regole che stabiliscano quale sia la natura
dell’esperienza emotiva destinata a mostrare che
l’esperienza emotiva è matura per l’interpretazione. Io
posso invece suggerire all’analista soltanto regole che lo
aiuteranno a realizzare la condizione psichica di recettività
nei confronti dell’O dell’esperienza analitica.
Troviamo
nell’Eneide, libro V, la descrizione di Enea, che,
tranquillizzato da Nettuno dopo una tempesta, ordina alla sua
flotta di approfittare della calma delle acque per continuare
il viaggio e incarica Palinuro della direzione delle navi. Il
resto dei marinai si addormenta e Palinuro resta al timone
orientandosi con le stelle. Il Sonno – ci racconta Virgilio
– invia
all’innocente Palinuro tristi visioni. Sotto le spoglie di
Forbas prende posto al suo fianco e gli dice: “Palinuro,
figlio di Iasio, osserva come le onde conducono da sé la
flotta; i venti soffiano sereni; questa è l’ora di
riposare; china la testa e sottrai alla fatica gli occhi
stanchi. Io ti sostituirò per un poco”. Alzando a malapena
gli occhi, Palinuro gli risponde: “Vuoi che ignori che
cos’è il mare in bonaccia e cosa sono le onde placide? Che
mi fidi di questo mostro? Che affidi la sorte di Enea ai venti
fallaci dopo essermi tante volte ingannato per le insidie di
un cielo sereno?” Così dicendo, si alza con tutta la sua
forza e non lascia neanche per un momento il timone, né
distoglie gli occhi dagli astri, quando ecco che il dio gli
getta sopra l’una e l’altra tempia la rugiada dell’oblio
del Lete, infondendogli un invincibile sopore, per cui,
malgrado i suoi sforzi, gli occhi gli si inondano di sonno.
Appena un atteso sopore incominciò a impossessarsi delle sue
membra, il dio si curvò su di lui e lo precipitò nelle
liquide onde, mentre Palinuro nella sua caduta trascinava una
parte della poppa e del timone e chiamava invano, ripetute
volte, i suoi compagni. Enea si accorge che la sua nave va
errando alla mercé delle onde, di aver perduto Palinuro e
prende egli stesso il comando in mezzo alle tenebre,
rattristato e lanciando profondi gemiti, con l’animo
affranto per la sventura del suo amico, e dice: “Oh,
Palinuro, per la tua eccessiva fiducia nella calma del cielo e
del mare, giacerai insepolto in una spiaggia ignorata”.
Indipendentemente dalle evocazioni
specifiche del pensiero di Bion a proposito di questo testo,
ma seguendo il suo invito a che ciascuno utilizzi i
“quadri” mitologici per associazioni personali, si
potrebbe qui usare il mito di Palinuro leggendo la sua morte
come un precipitare nella colpa persecutoria e
nell’annientamento della vergogna laddove fallisca il tentativo di attribuire l’addormentamento
ad una forza magica estrinseca (“la rugiada dell’oblio del
Lete”) e non sia da Palinuro raggiungibile la posizione di
Enea che riconosce invece la responsabilità
effettiva della colpa e la verbalizza (“Oh, Palinuro,
per la tua eccessiva fiducia nella calma del cielo e del mare,
giacerai insepolto in una spiaggia ignorata!”). Quella che
sembra la perversa volontà di un dio seduttivo e malevolo (un
atteso sopore… il dio si curvò su di lui e
lo precipitò nelle liquide onde), che esonera
apparentemente Palinuro da ogni colpa, non inganna Enea che,
accompagnato da lutto e sentimenti depressivi,
appare in grado di riconoscere la motivazione inconscia
di Palinuro, che si concede un rilassamento fiducioso
trasgredendo il mandato di vigilanza, forse anche invidiando i
compagni addormentati. Le parole di Enea suonano come una interpretazione
che trasforma la proiezione fatalistica in definizione di
responsabilità.
Possiamo dire che Enea si assume la colpa di
interpretare intenzionalità latenti, e, con tale esempio di archeopsicoanalisi
– che anticipa la funzione (hegeliana) di guastafeste del
pensiero (o di riduttore antagonistico, Bodei,
2002, 59) attribuibile, come ci ricorda Bodei (2001,
40) appunto a quella psicoanalisi che “insegna a curare le
lacerazioni dell’animo” evitando il “più comodo
aggirare le questioni” –, aprire la presentazione di
questo volume, che nasce come filiazione indipendente ma
geneticamente riconoscibile, di un Convegno omonimo tenutosi a
Pavia nell’autunno 2003 grazie alla collaborazione dei
Dipartimenti di Psicologia (Lettere e Filosofia) e di Scienze
Psicocomportamentali (Medicina) della Università degli Studi
di Pavia con il Collegio Ghislieri e con il sostegno della
Fondazione Banca del Monte di Pavia.
Il tema ci è parso particolarmente importante e
attuale e da leggere in un’ottica di confronto fra varie
prospettive, anche conflittuali, in quanto numerosi sono stati
i nodi concettuali che si è cercato di evidenziare
nell’intersezione fra colpa e interpretazione: abbiamo
chiesto a pensatori (anche religiosi) di tre diverse aree di
cultura e ideologia (ebraica, musulmana e cristiana), a una
storica laica che molto si è occupata di iconografia sacra,
di spiegarci la loro visione del tema e/o di rispondere ad
alcuni quesiti che da un lato il tema della colpa e della sua
gestione e dall’altro l’interpretazione dei testi e dei
discorsi considerati sacri, poneva a credenti e non: li
abbiamo messi in dialogo con psicoanalisti in una stanza
(Prima Parte, Alla radice: le religioni del libro e
l’individualità), non tanto per definire una dimensione
topica, per dirla alla Freud, ma per sottolineare
l’utilità dell’incontro di due (in questo caso più
di due!) persone piuttosto spaventate in una stanza,
come Bion soleva definire la scena analitica, l’utilità del
loro prodotto in funzione di incroci contaminanti tra
prospettive e punti di vista in modo reciprocamente
arricchente, se autenticamente vissuto con partecipazione
emozionale e prossimità di interazione.
Analogamente altre scene di riflessione, in altre
stanze (Seconda Parte, Interpretare la responsabilità: il
punto di vista filosofico e storico; Terza Parte, L’interpretazione della colpa, la colpa
dell’interpretazione: il punto di vista clinico), hanno
visto riuniti filosofi, psicologi e psicoanalisti, per
sviluppare il tema della colpa e dell’interpretazione in una
duplice prospettiva – come problema teorico, metodologico e
etico in area specificamente filosofica – oppure come
vicenda molto attuale nel lavoro clinico in stanza di terapia
sia a proposito del rilievo da attribuire al dare la colpa
(al soggetto, all’ambiente, a nessuno?) sia alla misura in
cui l’interpretazione (come esplicitazione diretta al
paziente) sia una legittima, doverosa, operazione terapeutica
ovvero una forzatura quasi oppressiva, da sostituire mediante
altre forme comunicative, pur mantenendo imprescindibili le
regole del setting analitico.
Ne è emersa una vasta panoramica di pensieri e di
proposte che, ripensati e integrati da altri contributi, è
possibile proporre in forma di volume come importante rassegna
di approfondimenti e riletture della letteratura su due temi
– la colpa e l’interpretazione – dei quali è quanto mai
importante occuparsi oggi. I partecipanti al Convegno hanno
poi accettato di ripensare e “metabolizzare” le loro
esposizioni, giungendo a elaborare testi che solo in parte
rispecchiano le primitive relazioni, per costituire invece una
rassegna autonoma di opinioni e considerazioni che è
possibile proporre ai lettori, accompagnati da altri
contributi.
Nel ringraziare tutti coloro che hanno, a vario
titolo, partecipato alle iniziative, come rappresentante di
un’area psicodinamica non posso mancare di porgere
omaggio anche alla innovazione freudiana, la psicoanalisi,
alla quale credo vada ricondotto il merito di aver guardato
alla colpa non solo come ad un elemento causato (ma
verrà poi discussa la complessità del margine di confine tra
questo termine e il concetto di ragioni, seguendo le
distinzioni di Wittgenstein), conseguenza di una azione
negativa, bensì – in sintonia con i molti rovesciamenti
dei consueti modi di pensare prodotti dal vedere l’inconscio
come dimensione originaria e strutturata (l’Es) – come
istanza a volte promotrice di azioni colpevoli.
Con tale concezione, Freud sottrae la dimensione
inconscia alla rappresentazione di essa come luogo
sconosciuto che lascia intatto un centro osservante ad esso
estraneo, capace – nei fatti o nel potenziale – di
slatentizzare ciò che sembra occulto, e introduce una
funzione pensante inconscia dotata di una capacità
propositiva, mai integralmente conoscibile, che pensa,
decide, giudica: il paradosso è che la psicoanalisi,
piuttosto che limitarsi al rendere conscio l’inconscio,
finisce con il mostrarci una coscienza incosciente
di quel che l’inconscio fa.
Se il fondatore della psicoanalisi relativizza le
aree di consapevolezza all’interno del mondo psichico, non
fa certo una operazione di deresponsabilizzazione, anzi. Come
nella scena mitica di Enea e Palinuro, bionianamente, il
campo si allarga mentre lo si esplora, e anche
quello dove si dispiegano colpe e interpretazioni è uno dei
settori di questa esplorazione, pur trovandosi passibile di
trasformazione in un strumento della esplorazione stessa.
In ogni caso, il fine auspicabile è l’elaborazione
della colpa, il lutto superabile di qualcosa che si è
perso, ma, che, contemporaneamente, apre vie verso la
riparazione, verso il recupero e la prosecuzione di un futuro
possibile, per sé o per altri.
Trasformare la maledizione edipica (il destino
omicida e tragico già definito ancor prima che il soggetto
nasca) in una nuova forma di percorribilità del senso, di
praticabilità del cambiamento può essere il messaggio del pensare
psicoanaliticamente: non tutto è già scritto e già
detto, altri nomi possono dirsi, altri pensieri
possono trovare pensatori. E può essere liberatorio: come
ci ricorda Bion, il dare un nome alle cose, anche alle
proprie colpe (consce e inconsce), ci obbliga a liberare
quelle aree che non appartengono a quello specifico oggetto,
così se per denominare una cosa, devo tollerare il lutto
dell’onnipotenza riconoscendo ciò che l’oggetto (o
l’Io) non è (ed è una ferita narcisistica
l’ammetterlo), per la colpa, tale atto definitorio di
denominazione può paradossalmente rivelarsi l’artefice di
una delimitazione dello stesso ambito della colpa (vera o
presunta) liberando e sottraendo estese aree di praticabilità
di non colpevolezza.
Delimitare uno spazio del castigo fa
contemporaneamente nascere in prossimità un luogo non
perseguibile, da esso separato da una barriera di
contatto finalmente pensabile come valicabile.
Certo però occorrono operazioni
trasformative, passaggi più o meno difficoltosi, personali e
intimi o pubblici e collettivi: molti sarebbero i percorsi
possibili di un discorso che lascerei per ora insaturo,
limitandomi a ricordare la prioritaria funzione terapeutica
(Bion) della simbolizzazione, come momento cardine del
processo.
Personalmente, e
cercherò di tornarci nelle mie pagine,
aggiungerei che, forse, un punto poco studiato a proposito
della colpa parricida originaria e del pasto totemico
dei figli, da Freud posti all’origine della colpa, ma anche
del legame fraterno – tema che ricorre in molti dei saggi contenuti nel testo –
potrebbe essere quello che attiene alla possibilità di una era minoico
micenea (per dirla alla Freud) caratterizzata da uno
stadio precedente e rimosso ancor più profondamente,
riguardante la fantasia più arcaica del matricidio
originario. La primigenia, terribile colpa del matricidio, può
avere avuto la sua altrettanto primigenia formulazione simbolica
con lo spostamento verso la figura del padre, protosimbolo
per eccellenza in quanto non-madre, e, capace per questo,
come Klein e Segal ci hanno insegnato, di avviare il fenomeno
di attenuazione della colpa concreta verso il meno grave
attacco ad un suo rappresentante figurato. Lacanianamente, si
potrebbe dire che anche la colpa, come l’Io, è (dicibile)
là dove non è, ma dove è simbolicamente depositata.
Voglio tuttavia sottolineare, richiamandomi anche
alla citazione di Bion posta all’inizio di questo scritto,
la prioritaria attenzione che va data (come si nota anche
nella ridondanza terminologica presente nella citazione) in
tutti questi percorsi all’idea di esperienza emotiva:
nel dare un nome non certo di solo sapere si
tratta, e anche le regole sono di difficile identificazione,
sfuggono… si può solo (ma non è poco) favorire una condizione
psichica di recettività a quella che Bion indica, con la
sigla ‘O’, avendo accesso solo ad una pallida ombra
della realtà ultima, inconoscibile, in un continuo
lavoro psichico di ampliamento, pur nella consapevolezza del
suo essere sempre incompleto e inadeguato. È
il raggiungimento di questa condizione di recettività
che rivolgo come augurio anche al lettore.
Vorrei chiudere questa nota introduttiva richiamando
un mio precedente lavoro su violenza e tragedia classica
(1993), dove mi chiedevo quale fosse il ruolo giocato da
Creonte, quale il suo rapporto con la colpa e il suo trattamento.
Certo è facile vedere nella sua figura, con l’intransigente
condanna di Antigone, il rappresentante della legge astratta e
disumana, che punisce con la morte le colpe (una metafora del
Super Io tirannico e del suo ricorso alla legge del
taglione), persecutorio e indifferente ai legami affettivi
e familiari.
Tuttavia, nella tragedia, Creonte appare anche
l’unica figura disposta ad apprendere dall’esperienza
(secondo l’espressione bioniana), a mutare idea, sebbene
troppo tardi per la salvezza materiale degli altri.
Cr.:
Cedere è terribile, ma terribile è anche trascinare
l’animo che resiste a cozzare contro le sventure...
Vano è accanirsi a combattere con il destino.
Coro:
Va’, agisci tu, subito, non ti affidare ad altri.
Creonte si prospetta il cambiamento catastrofico,
ma è il Coro ad esplicitare che solo l’assunzione del
compito in prima persona potrà garantire la riuscita,
consentendo quindi al tiranno il passo successivo, riferito ad
Antigone condannata:
Cr.:
Io stesso, giacché ho cambiato opinione, come l’ho
imprigionata, così sarò là a liberarla.
Eppure, egli non si pone all’opera salvifica
immediatamente, ma:
dopo aver
lavato il corpo [di Polinice] con acqua pura, ne bruciammo i
resti con rami appena divelti ed erigemmo un alto tumulo di
terra nativa. Poi ci dirigemmo alla caverna della ragazza,
pietosa stanza nuziale di Ade.
Creonte, dunque, sceglie di dar corso infine alla sepoltura
del presunto traditore Polinice nonostante la sua azione colpevole,
ma, per far questo, posticipa il suo arrivo alla
caverna-prigione di Antigone, che, intanto, si uccide.
La tragedia sembra dirci che, per attuare
l’elaborazione della colpa, non si può evitare la
consapevolezza di una perdita: per far proprio il messaggio di
Antigone, Creonte deve confrontarsi con l’irreversibilità
della scomparsa, trasformandola in una sorta di colpa
propria, e riconoscere poi, pubblicamente e verbalmente,
la responsabilità degli atti omicidi:
Cr.: Mai
cadrà su altri mortali la colpa. E’ mia. Io, essere
infelice, ti uccisi, ahimè: è la verità
dice, riferendosi all’ultima suicida, la moglie
Euridice. Solo assumendola su di sé fino a sentirsi quasi
annullato:
Cr.:
portate lontano questo nulla
la colpa può essere tollerata e non fatta cadere su
altri. Mi sembra di vedere qui rappresentata la trasformazione
di una colpa persecutoria, che può solo essere fuggita
o deviata su altri (secondo la terminologia di Grinberg), in
una colpa depressiva, sopportabile e riparabile,
riaprendo la possibilità di un dopo. Non a caso il
Coro ripropone, quasi nelle ultime parole, la dimensione
futura:
Coro:
questo è il futuro, ora dobbiamo affrontare ciò che deve
ancora accadere.
proprio come rinascita, in apparente contraddizione
con le parole di Creonte disperato:
Cr.: venga
il mio estremo destino ché dentro gli occhi io non abbia un
altro giorno.
Ma se Edipo agisce materialmente con violenza contro
i propri occhi, senza intaccare la propria personalità,
Creonte, invece, rinuncia alla propria onnipotenza, alle
maledizioni che impregnino di sé il destino venturo (a
differenza di Laio e di Edipo stesso), e apre così lo spazio
al futuro degli altri perché – come afferma –
abbiano cura del futuro quelli a cui tocca averne cura.
Egli sceglie dunque di imparare dalla sofferenza e di non
celare la propria colpa, anche se questo sembra condannarlo ad
essere ricordato solo come simbolo della tirannia. Dobbiamo
pertanto riconoscergli – nel vero spirito della tragedia ,
secondo Vernant (1986, 75): “Le sofferenze umane, di solito
deplorate o subìte, divengono nello specchio della finzione
tragica, oggetto di una comprensione” –
una capacità di espiazione grazie alla quale appare
possibile attribuire a Creonte, anche se divenuto nel nome sinonimo
di “tiranno”, almeno la dignità di aver fermato il
rovinio di colpa e violenza attraverso le generazioni. Ciò
non impedisce naturalmente di riconoscere che una rigida
applicazione della regola come legge dura può
sopraffare una legge degli affetti non sempre
necessariamente destinata ad essere annullata:
Cr.:
I mali la miglior cosa è abbreviarli….
E, per farlo, solo l’unione
collaborante delle risorse coscienti e di quelle inconsce può
essere efficace: senza ricorrere necessariamente alla
psicoanalisi, possiamo appoggiarci ancora a Vernant
riconoscendogli il merito di un’ottima descrizione di questa
problematica quando, pur partendo da premesse concettuali ben
diverse, afferma: “Nella prospettiva tragica, agire comporta
un duplice carattere: da un lato è tener consiglio dentro di
sé, soppesare il pro e il contro, prevedere come meglio si può
l’ordine dei mezzi e dei fini; dall’altro è scommettere
sull’ignoto e sull’incomprensibile, avventurarsi su un
terreno che vi resta impenetrabile, entrare nel gioco di forze
soprannaturali delle quali non si sa se preparino,
collaborando con voi, il vostro successo o la vostra rovina”
(1972, 25).
Mi sembra da sottolineare, nell’alternativa fra successo
e rovina e all’interno del sottile rapporto fra desiderio
e necessità, l’accento posto sulla responsabilità. Si
veda, a proposito del sacrificio di Ifigenia, quanto Vernant
afferma: “Ciò che Agamennone è costretto a fare sotto il
giogo di Ananke è anche ciò che desidera di tutto cuore, se
tale è il prezzo per essere vincitore. L’oracolo di
Artemide trasmesso da Calcante non si impone al re come
imperativo categorico, non dice sacrifica tua figlia ma
solamente se vuoi i venti devi pagarli con il sangue di tua
figlia” (ivi, 52).
Se è vero dunque che il conflitto fra éthos
(carattere) e dàimon (potenza divina negativa) ha
l’aspetto di un confronto fra interno e esterno, fra
naturale e soprannaturale e, forse, fra premeditazione
e raptus, è altrettanto vero che non può ritenersi assente
una qualche forma di consapevolezza dell’individuo.
Ed è qui che si rivolgono i testi che seguono, con
la speranza di offrire qualche elemento utile ad ampliare lo Zuiderzee
della consapevolezza responsabile.
Bibliografia
Bion W.R., La Griglia, In Il
cambiamento catastrofico, Loescher, Torino, 1981, (1a
ed. 1974).
Bion
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interpretazione, Armando,
Roma, 1973, (1a ed. 1970).
Bodei
R., Il dottor Freud e i nervi dell’anima, Donzelli,
Roma, 2001.
Bodei
R., Destini personali, Feltrinelli, Milano, 2002.
Francesconi
M., Violenza e tragedia classica. Spunti per una
riflessione psicodinamica
a partire dall’Antigone di Sofocle, in
Rampazi M., Scotto di Fasano D., a cura di, Il sonno della
ragione. Saggi sulla violenza, Dell’Arco, Milano, 1993.
Freud
S., Introduzione alla
psicoanalisi. (Nuovo ciclo di
lezioni) OSF, XI, Bollati Boringhieri, Torino,
1989, (1a ed. 1932).
Grinberg, L., Colpa
e depressione, Astrolabio, Roma, 1990 (1a
ed.1971).
Grinberg,
L. et al, Introduzione al pensiero di Bion, Cortina,
Milano, 1993, (1a ed. 1991).
Vernant,
Mito e tragedia, Einaudi, Torino, 1976, (1a
ed. 1972).
Vernant, Mito e tragedia due,
Einaudi, Torino, 1991, (1a ed. 1986).
2.
Sintesi dei contributi
PRIMA PARTE
Alla radice: le religioni del libro e
l’individualità.
1.1 Giovanni
Foresti Teorie
laiche e
culture religiose
di fronte al problema della colpa
Il testo propone
un nucleo di tematiche a crocevia dei nodi culturali che
verranno affrontati nelle successive trattazioni, in base alle
opzioni d’appartenenza e al libero spirito di ricerca degli
Autori della prima parte, sul tema della colpa e
dell’interpretazione.
L’asse tematico è quello costituito dalla sequenza aggressività/depressione/colpa,
castigo/pentimento/riparazione, perdono e sua eventuale
ritualizzazione e viene suddiviso in vari punti:
1)Prendendo
spunto dall’articolo di Cordelia Schmidt-Hellerau (International Journal of Psychoanalysis, 2002) Why aggression,
vengono richiamate le modellizzazioni psicoanalitiche del
concetto di aggressività; 2) Un esempio di colpa originaria,
quella di Caino, permette di interrogarsi sulla diversa
significazione (e sulle diverse traduzioni nei testi sacri)
del peccato e del castigo. Le liturgie sacrificali e le
pratiche religiose possono essere viste in stretta
correlazione con l’elaborazione o la mancata elaborazione
della colpa. Se l’opzione positivistica sosteneva che non ci
deve importare d’ignorare ciò che la razionalità
scientifica non può esplorare, le vicende politico-sociali
degli ultimi anni ci costringono a chiederci se possiamo
rinunciare a cercare di capire qualcosa dei rapporti fra la
dimensione del sacro e il sempre risorgente problema
dell’aggressività, della violenza e della colpa. (La
violenza e il sacro: un binomio indissolubile? La perdita
della ritualizzazione collettiva apre inevitabilmente la
strada alla riemersione della vendetta?); 3) la colpa come
antidoto nei confronti del fanatismo e dell’integralismo; la
colpa come fattore di promozione del pentimento e come
precondizione del perdono
(Religioni del Padre e religioni del Figlio); 4) la punizione,
il castigo, come fattori di costruzione/maturazione del
vissuto soggettivo; la punizione e la colpa come determinanti
decisive dello sviluppo della capacità di responsabilità (Il
male: come si interpreta e come si affronta?). Particolarmente
interessante mi sembrano gli interrogativi circa l’utilità
o meno della colpa e il quesito sullo spazio lasciato alla
figura del Padre in queste vicende.
1.2 Abdesselam
Cheddadi Il problema della “tolleranza” nelle società islamiche.
L’autore affronta con mirabile equilibrio critico
la problematica assai delicata del rapporto
tolleranza/intolleranza. Nell’epoca della modernità,
afferma, la tolleranza occupa un posto fondamentale non
solo come valore religioso, morale o politico, ma come
condizione della socializzazione e dell’esercizio del
pensiero e, associata ai diritti dell’uomo nella loro più
larga comprensione, come elemento strutturante del sociale,
della politica e dell’economia. L’intolleranza non
può apparire, quindi, che come il male assoluto, e
l’opposizione tolleranza/intolleranza può così
perfettamente servire dottrine come quella dello “scontro
delle civiltà”. Ma di intolleranze al plurale
occorrerebbe parlare poiché l’intolleranza non risparmia le
società occidentali. In effetti, essa vi riveste nello stesso
tempo forme interne ed esterne: le prime si manifestano nelle
disfunzioni della democrazia, nei fondamentalismi religiosi e
nel razzismo; le seconde si coprono dietro i rapporti di
egemonia e di dominio sul piano militare, politico, economico
e culturale. Non bisogna dimenticare, sostiene Cheddadi, che
l’Islam classico sul piano intellettuale, nel suo periodo
formativo è stato segnato dal pluralismo. L’elaborazione
del sistema dogmatico e di quello giuridico, che è durata per
due o tre secoli, è stata effettuata in un’atmosfera di
dibattito in cui si sono confrontate le opinioni più diverse,
in cui si possono seguire le tracce di un vastissimo spettro
di dottrine religiose e filosofiche. Tra le migliori
testimonianze di questo pluralismo, la profusione e la
diversità delle tradizioni attribuite a Maometto, che si
contavano a centinaia di migliaia prima della formazione del
corpus delle tradizioni dette “autentiche”. La fratellanza
fra gli uomini, l’invito alla conoscenza reciproca, la pari
dignità degli individui, dei gruppi e dei popoli sono
esaltati basandosi sul Corano e la Tradizione profetica.
Eppure, tutto questo non deve nascondere i limiti che il
sistema islamico ha continuato a rivelare sia a livello della
vita intellettuale e religiosa sia nell’organizzazione
sociale; limiti inerenti a tutte le civiltà agrarie o
agro-pastorali premoderne. In effetti, il dibattito religioso
e filosofico non ha potuto resistere alla tendenza
all’instaurazione di un’ortodossia. Sia in campo dogmatico
che in campo giuridico, un numero ristretto di correnti hanno
finito per imporsi. Le scienze coraniche hanno disegnato le
regole e i limiti dell’interpretazione del testo sacro, le
scienze della Tradizione profetica hanno fatto la cernita fra
le “buone” e le “cattive” tradizioni profetiche e
messo fine alla produzione e circolazione delle tradizioni
apocrife, una volta rifugio delle antiche saggezze e delle
idee divergenti. L’ideologia del consenso per la
salvaguardia dell’unità della comunità, attraverso la
caccia alle eresie, la dissuasione della “riflessione
personale” (ijtihâd), hanno portato all’eliminazione o
all’emarginazione delle correnti giudicate eterodosse o
eretiche. Si è così esasperato lo scontro con la cultura
occidentale, in un crescendo di reciproche attribuzioni di
colpe e di interpretazione degli eventi (o delle ipotesi)
distorte più dalle difese irrazionali che da oggettive
valutazioni. Ma l’autore non si nasconde, con grande umiltà
critica, che, rafforzati dagli aiuti tecnologici, militari ed
economici occidentali, salvati dai prestiti che sono stati
loro facilmente concessi dagli organismi finanziari
internazionali o dagli Stati occidentali, e, per alcuni di
loro, approfittando delle manne petrolifere, gli Stati
islamici si sono sentiti sufficientemente forti per non dovere
procedere alle riforme sociali, politiche ed economiche che
erano necessarie; hanno praticamente chiuso le porte del
futuro alla maggioranza delle loro popolazioni non prestando
sufficientemente attenzione ai settori vitali, che sono la
scuola e la formazione. Invece di portare le loro società
verso la libera espressione e l’esercizio di una maggiore
democrazia, le hanno mantenute nell’ignoranza e
nell’irresponsabilità, e hanno favorito una visione della
cultura e della religione islamica troppo legata a uno spirito
di conservatorismo e priva di apertura e creatività,
condizionando una debolezza drammatica della società civile e
della classe degli intellettuali.
1.3 Giuseppe Laras
Colpa e riscatto
(Teshuvah) nella tradizione religiosa dell’ebraismo.
L’autore indaga la pluralità
dei termini ebraici indicanti colpa e peccato e i rispettivi
aloni semantici, evidenzia come la colpa originaria, quella di
Adamo, sia stata la non accettazione di un limite, per
giungere alla questione centrale del saggio, ovvero
l’analisi di come nella religione ebraica assuma un rilievo
particolare il concetto di Teshuvah, intesa come
introspezione critica dell’individuo, sfociante in una
auto-rigenerazione etico-spirituale. Con la Teshuvah
(pentimento, riscatto, letteralmente = ritorno) si evidenzia
la “solitudine del penitente”, che trova in sé e nella
propria determinazione la via della riconciliazione con i suoi
simili e con Dio, senza mediazioni assolutorie di alcun
genere. Abbiamo però una ‘Teshuvah normale’ quando il
soggetto è sinceramente pentito del peccato commesso, ma non
ha modo di mettere alla prova il proprio proposito di non
cadere più nella stessa possibilità di errore. Viceversa, se
si ha la possibilità di sperimentare il proprio intento in
condizioni analoghe a quelle in cui in passato fu commessa la
colpa, si compirà una ‘Teshuvah eccellente’.
Questo porta a sottolineare il valore della libertà di scelta
del soggetto: per compiere Teshuvah, per
autoanalizzarsi e riscattarsi, occorre infatti essere convinti
della propria libertà di agire: se non si è liberi di
decidere di cambiare, la Teshuvah risulta impossibile.
Afferma l’autore che la colpa non è ineluttabile e che
bisognerebbe scrivere e predicare molto sul dovere di ognuno
di assumersi le proprie responsabilità; dovere che si
presenta difficile oggi come ieri.
1.4 Pierangelo
Sequeri Immaginazione
e colpa. Spunti di interpretazione cristiana..
Ancora la figura di Adamo “colpevole”, ma
essenziale alla soggettivizzazione, compare nel saggio di
Sequeri, che ci mostra come lo stesso senso di colpa che
s’inscrive alle origini della vicenda umana ci annuncia che
siamo vivi e non morti. Adamo ed Eva sopravvivono al frutto
mortale, non ne muoiono, percepiscono però l’avvilimento
del desiderio. Il senso della colpa fa percepire all’uomo
che è, nonostante il peccato, vivo, mentre il desiderio
frustrato, che ha incontrato un limite mortale e ne deve
assumere la responsabilità, gli permette di sperimentare la
sua condizione mortale. Un Dio punitivo colpisce la coppia, ma
come detto in Genesi 3, 27, Dio, prima di congedare Adamo e
Eva e mettere i cherubini a guardia del giardino, perché i
progenitori non ricascassero nell’errore, si fermò a cucire
loro dei vestiti di pelle. Si tratta di un gesto di cura e
sollecitudine amorosa verso quelle stesse creature resesi da
poco colpevoli - che Sequeri ha richiamato alla memoria nel
corso del suo intervento al Convegno - che ho
trovato molto suggestivo e importante da evocare in quanto mi
è apparso sintono con la possibilità, evocata da molti dei
contributi presenti in questo volume, di mantenere i legami
oltre le differenze e oltre l’indispensabile lavoro
evolutivo di separazione/individuazione.
L’autore conclude il suo discorso illustrandoci
come, nonostante il permanere di una dialettica della colpa
inconciliabile con le nostre risorse di autorealizzazione e di
autoriscatto, noi impariamo a comprenderla e a reggerla senza
mascheramenti. Il sostenere la colpa per quello che essa è
senza infingimenti consente di saggiare la misura del bene e
del male in modo perfettamente autoreferenziale e mette in
guardia l’uomo dalla tentazione sempre presente del delirio
narcisistico. La colpa – prosegue - non nullifica la dignità
umana, che è in grado di reggerla e di affrontarla.
Essenziale è anche il riferimento al sostenere la
colpa per terzi che allude all’aspetto complessivo e sempre
plurale dell’esperienza umana in grado di mantenere dignità
di fronte alla colpa, in un cammino individuale e interiore
che trova un ineliminabile referente nell’analogo cammino
compiuto dall’altro accanto a noi.
1.5 Mauro
Pasqua I docili Egizi e i selvaggi Semiti. Colpa
e origini del monoteismo nell’opera di Freud.
Con questo saggio si accede ad uno
spazio di intersezione fra tematiche teologiche e
psicoanalisi: viene compiuta una competente analisi del tema
della colpa prendendo spunto dai testi freudiani su Mosè e il
monoteismo, integrandoli con le riflessioni e gli studi più
recenti su di essi e sulle problematiche della cultura egizia
della colpa. Viene infatti ricordato che se in Grecia
l’uomo che si guadagnava memoria sociale era chi compiva
imprese memorabili, fuori dall’ordinario, in Egitto contava
soprattutto essere esenti da colpa, mediante il compimento
degli impegni di convivenza, in termini di verità e di
giustizia. La colpa danneggia il ricordo e distrugge la
prospettiva di durata. Il colpevole passa, sarà dimenticato,
chi è esente da colpa dura ed ha aperto l’opportunità del
superamento della morte e dell’umana caducità.
Quando
si è in presenza di colpa accertata socialmente, la punizione
provvede alla purificazione attraverso le istituzioni che
amministrano la giustizia. Ma per liberarsi dalle colpe non
rilevate, invisibili agli altri, il singolo deve trovare altri
modi, se vuole perdurare oltre la morte. Da qui la necessità
di forme di purificazione dell’anima legate al rito funebre.
In
una cultura della colpa, come quella antico egizia, la
relazione tra l’immortalità e l’essere esenti da colpa è
talmente stretta che la colpa è vista concretamente come una
sostanza dannosa, capace di produrre putrefazione. La tecniche
e i rituali di purificazione e giustificazione si sviluppano
in relazione con le tecniche della mummificazione e
dell’imbalsamazione e trovano significato all’interno
della mitologia (Assmann).
Emerge da più parti una sorta di mitologhema originario,
comune a varie culture e all’inconscio psicoanalitico:
quello dell’uccisione del padre primigenio, ripetuto
innumerevoli volte per millenni, fino a divenire – come
Freud insegna - un’eredità arcaica, inaccessibile alla
riflessione e alla elaborazione.
Anche l’assassinio di Mosè ne fu una ripetizione
potente, che faceva rivivere memorie sepolte nella profondità
della psiche, riallacciandosi a quella dialettica che Bion
chiamerà mistico/istituzione, per cui da un lato i Semiti
tolsero di mezzo il tiranno, il Mosè egizio, per poi
abbracciare la sua religione e, dall’altro, gli Egizi
attesero finché il destino li sbarazzò della sacra persona
del faraone, ma poi eliminarono definitivamente il monoteismo.
Se Mosè fosse morto di morte naturale, lascia intendere Freud,
non ci sarebbero stati gli effetti potenti sulla psiche
collettiva che sono seguiti alla morte violenta.
L’esperienza è stata traumatica per gli ebrei ed è per
questo che ha lasciato effetti così duraturi. Il rinnegamento
dell’azione violenta non cancella la presenza dell’azione
o della colpa nella psiche, ma piuttosto aumenta l’accumulo
inconscio di colpa e angoscia. Ciò che rende potente la
coazione è la colpa rimossa.
Conseguenza di questa radicalmente
diversa visione della colpa è che mentre per gli egizi, come
sottolinea Pasqua, la colpa più grave è l’avidità
poiché colpisce la comunità di appartenenza, per Israele il
peccato dei peccati è l’idolatria, il sottrarsi alla
dedizione all’unico Dio per rivolgersi ad altri dèi o agli
oggetti del mondo. Sia la religione egizia che quella ebraica
sono religioni della colpa, ma assume rilevanza fondamentale
la distinzione tra “culture di purificazione” e “culture
di redenzione”, tra culture della purezza e religioni
redentrici. Il punto interessante è che sia nella cultura
egizia antica sia in quella cristiana, la colpa può essere più
riconoscibile e nominabile e quindi dare luogo al superamento
di una interminabile espiazione masochistica. Infatti, nell’immaginario
religioso degli egizi l’anima non sarà giudicata colpevole
se ha con sé i papiri del libro dei morti e può recitarne le
formule, per gli ebrei invece, ricorda Freud, la grande
tragedia nasce dalla negazione della morte del Padre, il che
determina un’espiazione crescente della sua colpa. La stessa
colpa è stata riconosciuta, accettata e confessata dai
Cristiani – anche se non riferita alla morte violenta di Dio
ma sostituita con il peccato originale – e questo era
possibile perché
Cristo, la vittima espiatoria, aveva redento quella colpa.
Freud pensa di aver scoperto in questa contrapposizione
l’inconscia accusa cristiana contro gli Ebrei: “non volete
ammettere di aver assassinato Dio…Certo noi abbiamo fatto la
stessa cosa, ma l’abbiamo riconosciuta” (Freud, Uomo Mosè…..).
L’antisemitismo era il prezzo che gli Ebrei pagavano per
restare “eletti”, invece di diventare “salvati” (Yerushalmi).
1.6
Daniela
Scotto di Fasano
Sentinella
di frontiera, non si può fermare il vento
Il
problema dell’alterità viene qui affrontato nella sua
complessità, in particolare, prendendo spunto da un
suggestivo flash letterario, il racconto breve Sentinella di
F. Brown, quando l’Altro evoca un profondo
senso di disagio e di ‘fuori casa’, alterando
il senso familiare del sé, spaesandolo.
Lo spazio dell’incontro allora può essere
persecutoriamente percepito, in termini emotivi, come area di frontiera,
nella quale è indispensabile stare - e restare - ‘in
guardia’, ricorrendo difensivamente a una
‘neutralizzazione’ dell’alterità che si esprime in un
apparente accordo e in un’accoglienza di superficie che, in
realtà, sono nella sostanza tesi a impedire un contatto - e
un ‘contagio’ – autentici, ma perturbanti. Un
momento storico come il nostro, particolarmente caratterizzato
dall’incertezza dei confini e in continua trasformazione,
reso incerto dalla globalizzazione, nonostante i vantaggi e le
aspettative, pone in essere misure difensive poco
identificabili che possono condurre anche alla cancellazione
della possibilità di farsi mettere in discussione, così
come di quella di assumersi la responsabilità (la
“colpa”?) di mettere in discussione interpretando.
Il
contrasto fra l’imparare
la solitudine e una deteriore omogeneizzazione omologante non
può essere invece evitato e comporta la capacità di
sopportare di essere un po’ cattivi
con il rischio di perdere l’amore degli oggetti amati.
Attraverso una disamina in profondità dei presupposti
psicoanalitici che sostengono la trattazione e raccordando il
tema a trame antropologiche, si arriva ad affermare che il
timore di perdere se stessi sia ciò che contribuisce a
determinare il carattere perturbante dell’incontro con
l’Altro, recuperando il valore di una assunzione dolorosa
della propria finitezza, della capacità di assumersi e di
tollerare dolore, esercitando quelle funzioni genitoriali proprie
della parte adulta della mente. E anche, un po’
provocatoriamente, recuperando l’indifferenza
come valore. Infatti, sia difese oltranziste di identità forti e “superiori”,
sia buonismi fondati sul diniego delle differenze, si rivelano
prima di tutto smentiti dall’inconscio e, poi, forieri di
sconfitte.
Come nella conversazione plurilingue descritta in Film
parlato da De Oliveira (2004) e augurandosi un esito
difforme dal suo finale, l’apertura all’altro può
avvenire senza temere di perdervisi, senza rinunciare a ciò
che si è, alla propria lingua, permettendo dialogo e
confronto
anche nel rispetto delle differenze.
Il
discorso viene poi sviluppato in una direzione più
specificamente attinente all’area clinico-psicoanalitica,
con una netta presa di posizione a favore di un’azione
interpretativa che non eluda il suo compito e di un analista
custode dinamico (Quinodoz) di una funzione differenziante e
di memoria che assicuri diversificazione e continuità in
feconda congiunzione.
SECONDA PARTE
Interpretare
la responsabilità: il punto di vista filosofico e storico.
2.1 Salvatore
Veca Le
circostanze e i limiti dell’interpretazione
Il contributo del noto filosofo
affronta il problema delle circostanze e dei limiti
dell’interpretazione grazie a due argomenti classici sullo
scetticismo e sulle condizioni di possibilità di qualcosa.
Ricorda Veca che qualcosa
deve essere offerto
all’interpretazione perché essa sia praticabile e
possibile, riconoscendo con questo un limite, il primo
limite dell’interpretazione, nel dato esogeno e
indipendente dall’interpretazione stessa, un fatto
per l’interprete: ci viene allora suggerito che non tutti i fatti sono interpretazioni. Quanto l’autore vuole evitare è che si introducano nell’analisi entità
strane e sospette, quali i fatti, definiti indipendentemente
da qualsiasi interpretazione,
non accettando congiuntamente la tesi secondo cui tutti
i fatti che noi siamo in grado di riconoscere, identificare,
descrivere e spiegare sono congiuntamente
interpretazioni. Veca propone di risolvere la bizzarria del
rompicapo introducendo una distinzione fra oggetti saturi
o insaturi rispetto all’interpretazione. Un oggetto
è saturo rispetto all’interpretazione quando, a un tempo
dato, resta stabilmente fissata nel tempo una certa
interpretazione di quell’oggetto, insaturo, invece, quando,
a un tempo dato, è disponibile una varietà di
interpretazioni di quell’oggetto. L’interprete lavora su
un oggetto insaturo che è connesso a oggetti saturi,
caratterizzati da una singola interpretazione che ne fissa
stabilmente il significato. I limiti dell’interpretazione
sono allora dati dall’insieme degli oggetti saturi rispetto
all’interpretazione, cui è connesso in vari modi
l’oggetto insaturo. Le possibilità di mutamento dei confini
dello spazio concettuale corrispondono alla modificabilità
degli oggetti saturi in insaturi, cioè che alla singola
interpretazione, stabilmente fissata nel tempo, possa accadere
di lasciare il posto a una varietà di interpretazioni
alternative. E così via. Afferma Veca che l’interpretazione
mira a ridurre l’incertezza. E la riduzione
dell’incertezza si ottiene con la costruzione di una qualche
teoria che metta un qualche ordine nel guazzabuglio. Le
attività dell’interpretare fanno parte di una pratica in un
senso vagamente performativo: interpretare è fare, in un
senso affine al fare cose con parole. Interpretare qualcuno ha
effetti sull’interpretato. Interpretare qualcosa ha effetti
sulla cerchia di riconoscimento o identificazione di quella
cosa. Allo sguardo psicoanalitico – aggiungo una
considerazione – può forse apparire motivo di perplessità
l’idea di una riduzione dell’incertezza: credo però che
sia un punto essenziale, proprio nel senso definitorio di cui
parlavo più sopra, di evitamento del tutto possibile (se
non detto), è vero, peraltro, che il lavoro analitico, se
colto nella sua complessiva progressione, opera in realtà
spesso aumentando l’incertezza delle interpretazioni
univoche (fino alla rigidità paranoicale) da parte del
paziente. Ma questo mi sembra in sintonia con la riflessione
di Veca, che infatti conclude con quello che mi sembra un
prezioso strumento concettuale per il clinico, allorché,
richiamandosi alla geografia dello spazio di Quine e a
Wittgenstein, suggerisce che possiamo accettare che tutti i
fatti possano essere interpretazioni, ma non possiamo
accettare che tutti i fatti possano essere congiuntamente
interpretazioni: qualcosa deve essere sottratto al
dubbio perché si possa dubitare di qualcosa, qualsiasi
oggetto può essere insaturo rispetto all’interpretazione,
ma non tutti lo possono essere congiuntamente. Mi sembra che
si introduca l’idea di un provvisorio necessario, per
noi una transitabilità attraverso interpretazioni di prova,
che, lungi dall’essere disvelamenti evangelici, siano
ciottoli di sicurezza mentre si attraversa insieme il torrente
del flusso psichico e vitale.
2.2 Aldo
Giorgio Gargani
Dialogo con l’interpretazione
Con Gargani il discorso filosofico prosegue
appoggiandosi in particolare all’autore da lui molto amato e
studiato, Wittgenstein, laddove parla di interpretazione come
attitudine o facoltà di stabilire delle connessioni tra
oggetti e entità che in qualche modo fossero già
simbolizzati; tuttavia, ci ricorda Gargani, c’è un senso più
forte di interpretazione, il sense giving, che non è
interpretare degli oggetti già costituiti ma è lo stesso
atto processuale di costituzione della realtà. Viene
sottolineata l’esistenza di una varietà di possibilità
interpretative che rientrano nella visione della conoscenza
come un repertorio di possibilità piuttosto che non come una
rappresentazione speculare mimetica iconica delle cose in sé.
Ne deriva la necessità di ottimizzare le nostre versioni del
mondo su una base di convenzioni di punti di vista
pragmaticamente più convincenti di altri e in questo senso
anche la nozione di predicato di verità finisce di essere il
nome di una cosa, un oggetto per caratterizzare un complesso
di predicati: la consistenza, la pragmaticità, l’ampiezza
dell’induzione che consente, e così via. L’idea della
conoscenza si costituisce allora come repertorio di possibilità
all’interno delle quali poi per motivate ragioni si fanno
delle scelte. Questo significa la rottura del modello
tradizionale dell’adequatio
intellectus et rei cioè della conoscenza come
corrispondenza e piuttosto prendere atto della grammaticalità
come filtro tra noi e l’esperienza, tra noi e la realtà.
Ciascuno cattura una dimensione rilevante dell’esperienza,
ma questi mondi si avvicineranno più o meno al mondo com’è
in sé, ma il mondo com’è in sé non è il mondo
obbiettivo: è una certa versione del mondo. Cercare un
riferimento assoluto sarebbe come voler fotografare una
montagna senza punto di vista: un’impresa impossibile. Gargani sottolinea inoltre come sia
stato in fondo abbastanza tardivo nell’ambito filosofico il
riconoscimento delle proprietà cognitive delle emozioni. Per
la filosofia l’importanza dell’emotività è una scoperta
piuttosto recente: Heidegger, in Sein und Zeit, dice
che l’emotività è la condizione stessa secondo la quale
l’uomo riconosce la propria posizione nel mondo e quindi
ogni comprensione, ogni comprendere è realizzato
emotivamente. Quale
conclusione possibile? Rinunciare – come insegna Quine – a
concepire le parole come se fossero delle etichette
nel museo, etichette dietro gli oggetti conservati in
bacheche e considerare i concetti come degli speech organizers,
cioè come degli organizzatori di discorso, cercare delle
regole ponte, cioè regole di traduzione per passare almeno
parzialmente da un mondo all’altro sulla base di una
concordanza delle nostre versioni, sapendo con Eliot, che non
smetteremo mai di cercare e il fine di tutta la nostra ricerca
è di arrivare là da dove eravamo partiti e di conoscere quel
luogo per la prima volta.
2.3
Silvana
Borutti L’interpretazione
tra dire e tacere
Particolarmente
utile a raffinare lo strumento analitico e ad ampliare la
prospettiva teorica sul tema, appare il lavoro di Silvana
Borutti, che tratta del fatto che ogni volta che ci poniamo il
problema di come comprendiamo o accediamo al senso, di
interpretazione di significati, si impone a noi il nesso tra tacere
e dire, tra rappresentabile e irrappresentabile: il
comprendere non è separabile dall’essere. In scienze umane,
non c’è senso che non sia coniugato con sottrazione e
delimitazione, che non sia apertura orlata da silenzio;
ma questo orlo invisibile è nello stesso tempo vitale e
produttivo, dinamico e processuale: è la zona di silenzio e
di invisibilità, di vuoto e di distanza, da cui emerge il
senso.
L’autrice
è particolarmente attenta ai limiti dell’interpretazione che hanno a che fare
con l’essere dell’interpretato, con la risposta che
dobbiamo dare all’interpretato, e con il rispetto che
gli dobbiamo (cioè con lo spazio, la distanza, poiché re-spectus
significa, appunto, sguardo all’indietro). La comprensione
risulta un lavoro interpretativo che supplisce qualcosa che
si sottrae, che non può cioè darsi esaustivamente nella
forma di cosa. Nelle scienze esatte, dominano il
linguaggio formale e la forma estensionale della legge, la
forma è la legge: gli oggetti sono degli oggetti-classe, oggetti caratterizzati da tratti pertinenti e da
criteri di appartenenza. Invece il modo con cui comprendiamo
significati nelle scienze del senso non dipende dalla legge, e
quindi dalla rappresentazione tematica degli oggetti come
“cose”. Si tratta di una forma che deve presentare
l’oggetto in modo indiretto (una forma intensionale, interpretativa) ‑ una forma che abbia interiorizzato l’assenza
dell’oggetto come presenza tematica e referenziale. Ci
ricorda Borutti come Kant e Wittgenstein adoperino il concetto
di Darstellung, presentazione
immaginativa, opponendolo a Vorstellung,
rappresentazione concettuale: mentre Vorstellung è
la rappresentazione conoscitiva intesa come rappresentazione
mentale e concettuale, come categorizzazione dell’oggetto, Darstellung
è presentazione indiretta di un essere che si sottrae come
cosa, presentazione che ha interiorizzato il divieto a dire
tematicamente, cioè direttamente ed esaustivamente, la cosa.
Il valore della forma simbolica non è mimetico, non è in ciò
che essa mantiene del contenuto sensibile, ma in ciò che
sopprime, seleziona,
lascia cadere dei dati, e rende quindi riconoscibile. In
questo senso, il concetto di Darstellung
ci consente di parlare dell’interpretazione come elaborazione
immaginativa del lutto per l’assenza dell’oggetto in
quanto cosa, rinuncia
alla sua presenza effettiva, e elaborazione dell’assenza
attraverso la mediazione immaginativa. I concetti
wittgensteiniani di Darstellung,
presentazione, o Bildhaftigkeit,
figuratività, e quello freudiano di Darstellbarkeit,
raffigurabilità, segnalano che nell’interpretazione c’è
un legame necessario tra il figurabile
e il non rappresentabile ontologico.
Seguendo Wittgenstein a proposito
dell’oggetto-linguaggio, l’autrice illustra come il
linguaggio sia insieme condizione e limite, ciò
che svela e ciò che copre. Il mito della traduzione
completa in linguaggio è impossibile, ma nello stesso tempo
è il linguaggio che configura per noi il rapporto tra
visibile e invisibile, corpo e senso, carne e idealità,
immanenza e trascendenza: il linguaggio è la nostra trascendenza limitata. La conoscenza
non è mai restituzione linguistica della trasparenza
dell’oggetto: è piuttosto un
trattamento che elimina, aggiunge, seleziona, satura e sutura
al fine di dare a vedere, ma che non arriverà mai a
ricomporre in corrispondenza rappresentazione e realtà.
Se
dobbiamo accettare di non sapere cosa sia l’oggetto in sé,
non possiamo neppure ridurlo a testo decifrabile: i modelli
del testo e del dialogo, se assolutizzati, rischiano di
proporsi come la chiave della comprensione senza scarto, come
se ci fosse data una via linguistica alla trasparenza
dell’oggetto. Di contro, il senso dell’altro non è solo
linguaggio e grafismo, ma è anche senso incarnato, e dunque
affetto, opacità, passione, corpo vivente inconoscibile
nell’informe della sua sofferenza, della sua pulsione, del
suo desiderio, della sua felicità: c’è dell’intraducibile
ontologico, c’è del limite nell’interpretazione.
L’interpretazione è dominata da questa
logica paradossale, perché indiretta e supplementare, del
senso: nell’interpretazione, qualcosa si dà
ritraendosi, rimanendo radicalmente altro. Allora gli oggetti
psichici che l’analista è chiamato a riconoscere e a
decifrare non gli appaiono come segni di un codice, ma
piuttosto come eventi,
istanze di discorso, tracce il cui senso è nell’occorrenza
temporale e nel valore di posizione che la comparsa di un
simbolo ha nella relazione analitica: in psicoanalisi, si
lavora sull’eventualità e sulla temporalità del senso.
Nelle costruzioni analitiche, l’interpretazione è riconoscimento ritmico di un evento del senso. Il distribuirsi del
senso in unità discrete, ritmate da pause: la pausa, il
silenzio, il vuoto
hanno valore modellizzante.
Come in ogni catena significante, non c’è senso senza il
ritmo della non-parola: c’è un ritmo del fort-da,
dell’assenza-presenza
in ogni produzione di forma. Il tacere mostra per differenza
il comparire del senso.
Mi sembra che la portata di questo discorso spazzi
via in un sol colpo la miseria riduzionistica di una decisione
interpretare/non interpretare come coppia ideologica
oppositiva da assumere partiticamente e unilateralmente come fatto
scelto (ma questo non sarebbe
bioniano…), per evidenziarne il complesso e fecondo
intergioco. Inoltre, sottolineare che il senso dell’altro non è solo linguaggio e
grafismo, ma è anche senso incarnato, e dunque affetto,
opacità, passione, corpo vivente inconoscibile nell’informe
della sua sofferenza, della sua pulsione, del suo desiderio,
della sua felicità, come scrive Borutti, pone pesanti
ipoteche sull’uso dello strumento “terapeutico” in
condizioni di absentia o effigie del soggetto fisico,
come consentito dalle nuove tecnologie.
Tema
questo che si sviluppa invece nel successivo contributo.
2.4 Paolo
D’Alessandro Il World Wide Web: un’interpretazione
(colpevole) del suo ethos.
L’autore
tratta il tema del World
Wide Web come proposta di globalizzazione che assume su di
sé, in modo contraddittorio, i caratteri di necessità e di
estrema libertà. Il Cyberspazio sembra sfuggire a ogni
modellizzazione e pertanto a qualsiasi possibilità di
controllo. S’impone così la ricerca di una sua
regolamentazione, che ne argini lo sviluppo caotico,
nell’intento di stabilire un’etica per l’uomo-cybor. Introducendo il discorso a partire dalla colpa che
sembra avere esistenza solo nella considerazione di un luogo
teologico, un giudizio concordante con la norma, viene
scelto di delineare una possibile etica del Web, proponendo
considerazioni da un luogo teoretico. Il Web è visto
come l’aspetto più clamoroso del fenomeno di
globalizzazione in atto nella nostra epoca e un
formidabile strumento di comunicazione totale, in
quanto sconfinato ipertesto planetario. La Rete sembra sfuggire
a qualsiasi modellizzazione, anche se,
contraddittoriamente, essa può arrivare a funzionare soltanto
a patto che siano rispettati proprio dei precisi protocolli e
parametri matematici. Non è per caso, allora, che si parla
spesso dell’anarchia che vige sovrana in essa. Sembra
pertanto farsi davvero urgente la necessità di pensare a una
regolamentazione del fenomeno; da qui tende naturalmente a imporsi
il problema morale. Come dar regola, però, a una
struttura così complessa e, per sua stessa natura, sfuggente?
Quale regola può essere imposta, o per lo meno proposta? Con
quali modalità e mezzi si può ipotizzare, poi, di imporre
delle regole, una volta che siano state individuate? Sono
questi gli interrogativi che si pone il filosofo, attento a
non assumere posizioni né troppo fiduciose nel nuovo, né
difensivamente ostili ad esso. Ricordando la distinzione tra
etica da morale e raccordandosi al perturbante freudiano (unheimlich),
si colloca l’essenza dell’uomo nel suo essere tra,
nell’esistere nel luogo del frammezzo (das Zwischen),
cosa peraltro molto freudiana, oltre che, come ricordato dal
filosofo, ascrivibile alle riflessioni heideggeriane. E
proprio riflettendo sulla lettura heideggeriana (“il
soggiorno - quel che è solito - è per l’uomo l’ambito
aperto alla presenza del dio - quel che è insolito -”)
della frase eraclitea (ethos anthropo daimon), si
chiede se non sia proprio il Web il nostro luogo di soggiorno
abituale e insolito al tempo stesso e se non sia proprio
questo a imporci la presa di distanza da qualsiasi
determinazione statica, elaborata in modo definitivo e
metafisico. L’etica della connessione non può in alcun modo
stabilirsi in modo aprioristico, confidando in un punto di
vista assoluto, ma va costituendosi nel movimento e nella
situazione reale (Sitz in Leben), addirittura
nell’evento e nella pratica di ogni singola connessione.
Occorre imparare a soggiornare nello stato esistenziale
particolare, da Heidegger definito della Gelassenheit,
dell’abbandono. La crescente
potenza della tecnica evidenzia come siamo poco preparati a
pensare, con pensiero meditante, piuttosto che con pensiero
calcolante, il radicale mutamento in atto, che tutti
coinvolge. Viene
ricordato che il
termine “abbandono” deriva dal francese medievale “a
bon donner”, mettere a disposizione di chiunque, che
intende riprodurre l’ambiguità di senso che viene
individuata nel Gelassenheit, che sta a indicare allo
stesso tempo il lasciare (lassen) le cose,
abbandonarle, assieme (Ge) a se stessi,
nell’abbandonarsi alle cose. Il rapporto con la Rete
non può che darsi, dunque, sotto forma dialogica, con
riferimento al dialogo autentico (Gadamer) che non trova mai
sbocco e soluzione nel luogo in cui noi volevamo che
approdasse. In esso si è presi e, addirittura, si può
sostenere che è lo stesso dialogo che ci cattura e ci
avviluppa. Il suo risultato non si stabilisce mediante la
parola dell’uno, piuttosto che quella dell’altro di coloro
che, nella comunicazione, vivono l’ethos della
connessione in Rete, ma nel linguaggio che è ordito tra
i dialoganti, creatori e fruitori interagenti del Web, nel frammezzo
dei diversi interlocutori. È il linguaggio, la lingua
comune del pensiero collettivo di Levy, che si determina
pertanto nel luogo intermedio del comune
soggiorno di tutti (il Ge-heimnis heideggeriano). Una
parola mai predeterminata, che non preesiste neanche al nostro
errare nell’esplorazione in Rete, così come non esiste
senso alcuno della scrittura alfabetica, prima di un qualsiasi
atto di lettura di quella stessa scrittura.
Essere-in-Rete
sta allora a significare che siamo messi in gioco, il
nostro stesso essere si costituisce nel gioco. Il gioco
dell’essere-in-Rete per un verso non è univocamente
necessitato, per altro verso non è mai totalmente caotico, ma
rispetta sempre le norme intrinseche della connessione e della
relazione reticolare dei diversi elementi interagenti.
2.5 Luisa
Accati Il
padre di sé, interprete della Legge, e il controllo della
colpa.
Nel suo saggio, Luisa Accati sviluppa un tema che le
è caro e si interroga sulle ragioni per le quali le civiltà
orientali abbiano mostrato e mostrino una istanza di
assimilazione al e del modus vivendi occidentale, suscitando
indirettamente le fratture ideologico-politiche destinate a
organizzarsi e a confluire nei fondamentalismi più
intransigenti. Quale mito – si chiede – è sotteso
a tale desiderio di omologazione? Risponde che il mito
consiste nel fatto che il mondo occidentale è visto come
ricco, allegro, senza colpa e con una straordinaria libertà,
specialmente sessuale, un paese di cuccagna, dunque,
capace di produrre ricchezza e conoscenza scientifica.
Ma la società della produzione di ricchezza e della
scienza è una società sostanzialmente laica, liberale,
illuminista e in gran parte nata in polemica con la religione,
assumendo la scienza come libro, il nuovo libro,
uguale per tutti, il nuovo universale, lasciando tuttavia
spazio anche ad aspetti grandemente manipolatori. La religione
e le sue leggi perdono ogni valore, non contano più. Si
profila in questo modo un quadro in cui il cristianesimo
diviene terreno di continue trasgressioni che rimangono senza
conseguenze. Questa possibilità di trasgredire senza colpa e
senza punizione rappresenta un’altra grande attrattiva della
cultura occidentale, soprattutto per chi proviene da una
religione severa che questo non permetterebbe. L’attrazione
per l’occidente è dunque anche l’attrazione per il
superamento della norma religiosa senza alcun prezzo. E
nell’occidente parlare di religione permette spesso di non
parlare di etica laica. Ciò vuol dire che non è possibile
affrontare il discorso su quali dovrebbero essere le regole in
sostituzione delle regole che non vengono più rispettate. Se
il fondamento razionale della morale cristiana era la
rivelazione oggi non si ragiona più in questi termini, ma in
termini di razionalità empirico sperimentale. Per questo di
frequente si crea uno scollamento tra pensiero razionale e
sentimenti morali, confusamente cristiani, che fanno
riferimento a un tipo di pensiero diverso, storicamente
rilevante, ma irrimediabilmente altro rispetto al modo di
pensare moderno. Lo scollamento tra razionalità e affetti è
uno tra i principali temi della modernità ed è l’oggetto
della psicoanalisi, ma è raro poter affrontare questa
discrepanza sul piano della considerazione storico culturale e
della riflessione sociale.
L’autrice sviluppa poi l’analisi di ciò che il
cristianesimo racconta da duemila anni per immagini.
L’immaginario cristiano comunica fin dalle origini che il
figlio, il cui padre è stato privato della sua cultura, delle
sue leggi, del suo Libro, soffre di una perenne agonia, perché
non riesce più a identificarsi con il proprio padre e non può
a sua volta diventare padre.
Questo figlio sofferente è il prototipo delle
vittime e del gruppo di persone escluse. Cristo è la vittima
ma anche il primo sacerdote, vale a dire colui che per primo
si uniforma al celibato non riconciliandosi con la paternità
terrena. La centralità del celibato, instaurata nel XI sec. e
ridiscussa, per essere ribadita, nel XVI sec. dando luogo alla
rottura tra cristianità cattolica e protestante, pone
l’attenzione su un violento attacco condotto contro
l’autorità paterna: non ci si riconcilia più con il padre
e questo diventa un titolo di superiorità. L’assenza
paterna fa perdere la capacità di controllare la legge, di
gestirla e di interpretarla. Essa finisce per coincidere con
chi la incarna non essendo più una norma astratta, ma una
norma che si identifica in chi comanda.
Una volta perso il controllo
dell’interpretazione, l’interprete della legge e la legge
si confondono. L’interprete di Dio e Dio si confondono.
Risulta quindi impossibile obbedire a una norma integrandola
dentro di sé, perché in realtà si risponde a una persona
che non può mai diventare noi stessi. Si ha così il paese di
Cuccagna, un paese in cui la madre e il bambino fanno incetta
di tutte le ricchezze non confrontandosi con il limite posto
dal padre. Madre e figlio approfittano totalmente della
ricchezza e questo paese di Bengodi, che soddisfa ogni
aspettativa, che nutre senza richiesta, che lascia libera la
sessualità, si pone nel sue esistere senza regole, senza
colpa e senza responsabilità. Ma se l’immaginario cristiano
offre numerosissimi esempi di Madonne col Bambino, ne offre
altrettanti di Pietà, dove l’abbraccio mortale tra madre e
figlio sancisce l’impossibilità distruttiva di separarsi.
La mancanza di assunzione di colpa, la mancanza del padre e
del contenimento paterno produce la fusione e la confusione
tra madre e figlio: una comune rovina. L’autrice conclude
che la differenza tra cristianesimo e ebraismo risiede proprio
nella presenza di un padre. Ciò che suscita nel mondo
cristiano un’accesa invidia nei confronti della cultura
ebraica, dando luogo a un profondo
antisemitismo, è che gli ebrei, a differenza dei
cristiani, dispongono di un padre. Il padre dell’ebraismo è
mediatore e interprete della legge, contiene la colpa e ci può
parlare della colpa perché egli conosce le regole per
interpretarla, permettendone l’elaborazione. La frattura
cristiana del 1563 portò a una polarizzazione di situazioni
anziché favorire l’integrazione dei due aspetti. La
condanna della concupiscenza caratterizzante l’unione tra
padre e madre (condanna non presente nell’ebraismo dove il
desiderio sessuale è visto come segno della benevolenza
divina) portò i protestanti a chiudersi in un universo
maschile-paterno che assorbì totalmente al suo interno la
figura materna; mentre condusse i cattolici ad accentuare il
valore della filiazione e dell’identificazione con
l’ecclesiastico, identificazione che assorbì la figura
materna nel figlio, giungendo così ad una paradossale forma
di ri-equilibrio fondata sull’abolizione o lo svilimento da
parte del padre o del figlio, dell’identità femminile
soggettiva, che viene assunta in sé, distruggendo quell’alterità
che invece resta presente nel rituale del matrimonio ebraico,
all’origine del cristianesimo.
2.6 Silvia
Vegetti Finzi Sessualità,
colpa e parola,
la psicoanalisi come sovversione del sapere.
La trattazione di Silvia Vegetti Finzi, unendo, come
sempre, spessore teorico a maestria espositiva, riconduce la
colpa ad un continuo riproporsi – mai concluso – di
intersezioni fra il soggettivo e il sociale, fra il mondo
interno e quello esterno, dove la dimensione linguistica si fa
cardine essenziale non solo dell’espressione, ma della
stessa costituzione degli elementi in gioco. E’ per tali
ragioni che il suo saggio ben si presta a fare da ponte
tra l’area filosofica-storica e quella clinica. Dice l’autrice, infatti, che la
colpa non ha infatti altra evidenza che quella
attribuitale dal linguaggio, da un atto di parola che
istituisce contemporaneamente la norma, la trasgressione, la
colpa e la pena. Oggetto specifico dell’investigazione
psicoanalitica è la colpa inconscia che, non necessariamente
connessa a una trasgressione reale, è comunque effetto di un
giudizio morale, individuale o sociale. Il discorso si
riannoda all’uccisione del padre primitivo come evento che
l’antropologia freudiana pone all’origine dell’umanità:
la colpa primigenia fonda la nostra storia e la nostra cultura
ma, considerato dal punto di vista dell’interpretazione,
quel gesto perde
la sua dimensione fattuale per rivelarsi piuttosto la
conseguenza di un atto di parola. La constatazione condivisa
dai figli del fatto che è preferibile vivere sotto il segno
del divieto piuttosto che nell’anarchia delle pulsioni
libidiche e aggressive poggia sugli esiti del pasto totemico e
la stipulazione del patto sociale che ne consegue non è
pertanto effetto del sangue versato ma del suo rifiuto, di un
“mai più” che segna il discrimine simbolico tra natura e
cultura. Mangiando
il corpo del padre morto, i figli non solo condividono
la colpa ma la interiorizzano e la perpetuano attraverso
l’eredità filogenetica che, come il peccato originale,
rende ciascuno colpevole, indipendentemente dai suoi
atti e dalle sue intenzioni. Nell’economia dell’inconscio
il senso di colpa opera come un persecutore interno che
formula accuse e rimproveri per un delitto che, come nei
processi kafkiani, rimane
ignoto, sequestrato dalla rimozione. Se ne colgono
piuttosto gli effetti nella ritualità coatta delle nevrosi
ossessive o nelle autoaccuse
dei depressi. Ma finché
la colpa rimane senza nome, imputazione e pena si
perpetuano fuori dal tempo. Si tratta allora di ritornare sul
“luogo del delitto” reale o immaginario per sostituire
alla rimozione la condanna morale trasformando così la malattia
nevrotica in infelicità comune.
Viene quindi esplorato il campo analitico,
ove, attraverso il percorso sinuoso delle libere associazioni,
giungere a comprendere le ingiunzioni che hanno presieduto
alla nostra storia e che, di conseguenza, orientano il nostro
destino, rasentando l’atmosfera del sacro, ma senza
dimenticare che sognare e interpretare hanno una dimensione
personale, unica, irripetibile, connessa alle vicende
di ogni biografia, al materiale esperienziale del giorno,
all’immediatezza dell’interazione transferale. La verità
psicoanalitica ha uno statuto particolare rispetto alla verità
religiosa perché esiste solo nel
riconoscimento soggettivo, nel momento in cui la
struttura categoriale incontra il tempo vissuto, la
concretezza dell’esperienza, l’intima
consonanza tra il dire e il sentire
L’interpretazione classica, che tende al vero, non
può che evolvere verso un’interpretazione debole, che si
accontenta del verosimile:
se il modello della prima è l’ermeneutica del testo sacro,
quello della seconda è la storiografia, che, secondo
Aristotele, racconta non ciò che è accaduto, che non sarebbe
possibile, ma ciò che è probabilmente accaduto. Vegetti
Finzi ricorda che in ogni caso, man mano che il campo
psicoanalitico si amplia e aumenta la consapevolezza della
complessità del compito terapeutico, si assiste a un
depotenziamento dell’attività ermeneutica, come ci mostra
Derrida attribuendo la verità non alla cura ma al sintomo,
per la capacità di quest’ultimo di esprimere il compromesso
tra il desiderio e l’interdizione che contraddistingue la
condizione umana. Solo nel sintomo infatti la verità si
mostra velata, come prescrive
l’Oracolo, mentre ogni
successiva interpretazione, disambiguandola,
la falsifica.
Il discorso si chiude con uno sguardo che può dirsi classico
per Vegetti Finzi, quello che si rivolge all’isterica, al
“linguaggio d’organo” che, attribuendo al corpo
capacità di significazione, lo espone all’indagine
ermeneutica e al lavoro dell’interpretazione. Anche
l’isteria stessa si configura allora come un pittogramma da
decifrare e interpretare per cogliere il significato nascosto
delle sue plateali esibizioni, quella matrice incestuosa della
sessualità umana, inscindibilmente connessa al divieto e alla
colpa. Una rivelazione che muta l’immagine che l’uomo ha
di se stesso, la sua presunta inviolata spiritualità,
mostrando che il pensiero è corporeo e che il corpo è corpo
pensante.
TERZA
PARTE
L’interpretazione della colpa, la
colpa dell’interpretazione: il punto di vista clinico.
3.1 Marco
Francesconi
In“quadrare”
l’interpretazione
Parafrasando, in apertura del saggio dello scrivente,
l’affermazione di Blumenberg: “Tra i libri e la realtà è
posta un’antica
inimicizia”, si potrebbe dire che anche fra
interpretazione e realtà sia sempre esistita –
filosoficamente parlando – un’antica inimicizia, ma, se si
fa riferimento al più ristretto ambito della teoria della
tecnica psicoanalitica, potremmo forse arrivare a ipotizzare
che una recente e ben più intensa inimicizia sia quasi giunta
ad una vera e propria rottura. L’interpretazione non solo è
giudicata cosa miope e polverosa, ma testimonianza evidente di
un procedere analitico ineluttabilmente connesso alla
freudiana impenetrabilità, fredda e asettica o alla kleiniana
iperpenetrazione, sorta di sadico stupro conoscitivo, entrambe
pratiche condannabili. Solo un analista “dal volto umano”,
attento alla “relazione”, “intersoggettivo” può
possedere quello che i greci chiamavano Aidòs,
il rispetto, il riguardo, per sé e per l’altro e non farsi
“colpevole”. Sarebbe quel “qualcosa in più” della
sola interpretazione che ci propongono, fra i tanti, Daniel
Stern e collaboratori. Occorrerebbe invece parlare di un
“qualcosa in meno”, poiché sembra che il compito
analitico principale sia tuttora rivolto alla comprensione di
ciò che accade al/nel/con il paziente, mentre quello che si
restringe fin quasi all’atrofia, è la verbalizzazione al
paziente stesso di ciò che si è compreso. Un non dire
che si contrappone al dire tutto della regola
fondamentale data al paziente, ma in una luce diversa da quel tacere,
atto a raccogliere pazientemente elementi da restituire poi,
opportunamente trasformati, all’analizzando, la cui necessità
Silvana Borutti magistralmente illustra nel suo saggio. Si
illustra quindi la possibilità di inquadrare il
concetto di interpretazione, non nel senso di chiudervi il
discorso, ma nella consapevolezza che siamo continuamente
sollecitati a ritagliare uno spazio finito, piccolo, una cornice.
E’ voluta l’evocazione del termine encuadre
(Bleger), relativamente traducibile con “setting”,
cornice non processuale della seduta analitica, dove vive
depositato un mondo
fantasma la cui rottura brusca può aprire “una fessura
attraverso la quale filtra la realtà, che è catastrofica per
il paziente” (Bleger). Eppure, per superare le difese
narcisistiche, occorre procedere ad una graduale “messa in
crisi” di questa cornice rigida: l’interpretazione può
dunque porsi come un microdosaggio di qualcosa “che può
venire a mancare”, un confronto con una diversa prospettiva,
una differenza/differanza,
sempre relativamente frustranti l’onnipotenza fusionale,
ma cardini dello sviluppo psichico. Si può attuare quella
condizione di contenitore ludico, resa possibile proprio dal setting, di cui parla
Hautmann, dove, attraverso l’interpretazione, “il senso
della realtà viene continuamente recuperato sul limitare di
un universo fantasmatico che pertanto non trapassa nel
delirio.” Si potrebbe estendere il discorso ai giochi
linguistici di Wittgenstein e alle loro regole.
Giochi linguistici riconosciuti nel loro inevitabile
aspetto “operoso”, del “fare” performativamente
“qualcosa”, ma anche consapevoli dei limiti delle descrizioni perspicue.
Nell’impossibilità di passare in rassegna gli
infiniti modelli di attività analitica, viene ricordato come
dalla figura di un analista capitano
della nave si sia giunti, forse con eccesso opposto, a un analista
skipper, pronto a offrire la sua competenza
accondiscendente al paziente che sa dove vuole andare
(o così pensa). Infine, facendo riferimento a Bion in
particolare, quando afferma che interpretare ha “a che fare
non tanto con la scoperta quanto con la riparazione”, si
propone di distinguere – e di diversamente giudicare –
l’interpretazione
depressiva, capace di occuparsi del benessere dell’altro,
da quella persecutoria,
riservando solo a quest’ultima, in quanto emanazione del
narcisismo dell’analista, le note critiche circa i rischi di
invasività e di insensibilità ai bisogni relazionali del
paziente.
3.2
Fausto Petrella
Le vicissitudini della colpa e la necessità
d’interpretarla
La lunga pratica clinica – psicoanalitica e
psichiatrica – di Fausto Petrella diviene la fonte della sua
profonda convinzione che non è possibile oggi orientarsi
nella selva morale della colpa ignorando i fondamentali
contributi della psicoanalisi, a partire da Lutto
e melanconia, quest’opera freudiana decisiva per il
pensiero etico contemporaneo. Con Freud la patologia psichica
è divenuta il triste luogo d’elezione per mostrare, in
forma ingigantita e caricaturale, la gamma di sfaccettature
che il senso di colpa possiede, nelle sue manifestazioni, e
persino nelle sue non-manifestazioni. Infatti, – ricorda
Petrella – l’apparente assenza di senso di colpa, che
ritroviamo individualmente e tipicamente nella festa maniacale
o nelle micromanie croniche di certe personalità, mostra come
interi atteggiamenti mentali e comportamentali vengano
mobilitati per evitare l’autoafflizione della colpa e il suo
originario radicarsi nelle paure fondamentali dell’uomo. È
Freud ad inaugurare lo studio scientifico della colpa e ad
attivare una serie di interrogativi: quale l’origine
psicologica della colpa, quale senso hanno i miti che ne
giustificano la presenza, perché essa è inflazionata in
certi casi, mentre in altri sembra apparentemente assente. La
colpa costituisce un problema perché contrasta col principio
di piacere; perché mostra che anche il soffrire è
desiderabile, benché non dia piacere, e perché, a suo modo,
il sentimento di colpa può coniugarsi col piacere stesso nel
masochismo morale.
La dimensione del giudizio etico diviene centrale nel
pensare psicoanalitico: ciò che si produce nella cura
analitica è un cambiamento di posizione nei riguardi dello
scenario morale. Esso diventa appunto uno scenario, che va
evidenziato, costruito, osservato e indagato come tale; ciò
è reso possibile dalla scomposizione della personalità che
l’analisi rivela, dal dolore psichico e dalla presenza del
terapeuta, che si fa garante del mutamento di posizione
richiesto e della elaborazione della colpa che è resa
possibile da tale mutamento. Interessante e preciso il
richiamo al possibile vantaggio secondario della colpa:
come se la colpa servisse, almeno in certi casi, a zavorrare
un Sé che teme il cambiamento, la levità e il vuoto di una
libertà vertiginosa. Troviamo qui un motivo della resistenza
opposta dal “colpevole” e la possibilità che si sviluppi
una reazione terapeutica negativa. Essa può essere generata
proprio dallo sforzo di smantellare una colpa, alla quale il
paziente si sente indissolubilmente legato, perché la colpa
si confonde con la propria essenza personale, in quanto ha
colmato i vuoti di un’identità precaria, ed è stata perciò
narcisisticamente investita. L’interprete dovrà allora
essere non un contenitore illimitato, ma anche e soprattutto
funzionare come un selettore, capace di scegliere e analizzare
i dati; capace di un lavoro di attribuzione e creazione di
forme, attraverso le quali cercare di “comprendere”.
Abdicare all’interpretazione significa infine
rinuncia a comprendere. Occorre, invece, riconoscere
all’interpretare l’importanza determinante
dell’interazione tra testo e lettore, tra paziente e
terapeuta.
3.3
Simona Argentieri
La forza
dell’interpretazione
L’importanza
dell’interpretare, precisata da Petrella come poco sopra
ricordato, viene sottolineata con ulteriore vigore nel saggio
di Simona Argentieri, che teme una odierna latitanza
generale rispetto alla funzione interpretativa: la clinica
tende ad eludere la fatica e la tensione emotiva che richiede
l’impegnarsi in una interpretazione, soprattutto
nell’interpretazione di transfert, cifra specifica della
cura psicoanalitica, che la contraddistingue e distingue (o
almeno dovrebbe) dalle altre forme di psicoterapia. Per
mancanza o per scelta, spesso l’interpretazione è omessa,
anche l’allievo in supervisione si autogiustifica dicendo
che era sembrato prematuro, pericoloso interpretare o che il
paziente non avrebbe tollerato l’interpretazione. Talora
invece l’omissione viene teorizzata riferendosi più o meno
legittimamente a scuole “del sé”, della “relazione”,
o come reazione al bombardamento interpretativo dei
primi seguaci kleiniani, oppure malintendendo la lezione di
grandi maestri, come Winnicott, con la sua attenzione precipua
all’holding, e
perfino di Rosenfeld, che raccomandava di non fare
interpretazioni in fase paranoide, per non aumentare nel
paziente la scissione ed i sentimenti di persecuzione. Per
l’autrice si tratta di un grave equivoco il fatto di
considerare come contrapposti contenimento e interpretazione;
oppure confondere l’interpretare la colpa con il
colpevolizzare il paziente tramite l’interpretazione. Forse
è latente una certa difficoltà di accesso alla
interpretazione di transfert, che, infatti, va inevitabilmente
a toccare il problema dell’aggressività e della colpa ad
essa connessa, o meglio, dei complicati meccanismi difensivi
che si mettono in opera per sfuggire all’angoscia ed al
dolore psichico che il riconoscimento della propria
distruttività ed il farsi carico del sentimento di colpa
inesorabilmente comportano.
Viene inoltre compiuta una sintetica rassegna di come
i modelli teorici possano influire sulle scelte operative una
volta scesi nel campo di azione clinica, ma viene anche
affermata l’importanza di evidenziare quanto la scelta
clinica dell’interpretazione della colpa - o della non
interpretazione - possa essere illuminante per svelare le teorie
implicite, preconsce dell’analista, nel senso indicato
da J. Sandler. Qui il rimando non è solo alla seduta
analitica, ma si estende al di là dei suoi confini, per
riflettere la collusione con un generale atteggiamento
culturale di carenza serpeggiante della funzione adulta, di
una diffusa fragilità della cosiddetta funzione paterna,
nella prevalenza delle organizzazioni narcisistiche nella
nostra epoca. Trovando un punto di affinità con il discorso
di Luisa Accati, viene rilevata una sorta di ‘indulgenza
plenaria’ delle autorità, coniugata con la mancanza di
protezione da parte della società e delle sue istituzioni.
Piuttosto che chiedersi se interpretare,
occorrerebbe chiedersi come interpretare: il problema
più delicato diviene quello tecnico
di come formulare l’interpretazione della colpa - in tutte
la sue accezioni, transferali ed extra transferali -
in particolare quando abbiamo a che fare con livelli
precoci, cosiddetti pre-edipici, della mente.
Pur sottolineando il valore delucidante
dell’analisi del controtransfert, l’autrice ci invita a un
suo uso accorto e moderato per non cadere nell’arbitrio e
distingue le difese
dal sentimento della colpa, quelle ‘classiche’
- come la rimozione, la scissione e la proiezione,
l’isolamento, il diniego…che si articolano nell’ambito
della struttura - e quelle ‘nuove’, come la
malafede, la non integrazione, che eludono a priori il
conflitto, regredendo ai livelli primitivi indifferenziati
dell’ambiguità, da più subdole modalità difensive, che
organizzano la
colpa come difesa, a salvaguardia paradossale
dell’onnipotenza. E’ quanto accade, ad esempio, in certi
lutti patologici, nei quali l’autoflagellazione serve a
mantenere l’illusione che se solo avessimo voluto avremmo
potuto salvare qualcuno dalla morte, eludendo così il penoso
riconoscimento dei propri sentimenti aggressivi e colpevoli.
Oppure, è ciò che si verifica in tanti casi di ritardo
cronico, che mascherano la ribellione fallimentare del
paziente contro le leggi dello spazio-tempo, nelle quali il
senso di colpa è una difesa dai sentimenti profondi di
annichilimento e di impotenza.
La conclusione dell’autrice è chiara: sia
l’interpretare che il non interpretare possono andare al
servizio delle resistenze, tanto del paziente, quanto
dell’analista, ma l’attraversamento della colpa non è
eludibile, anche se interpretare la colpa nel transfert è
faticoso, difficile, talora rischioso. Non è tuttavia meno
grave il rischio opposto, di spacciare per generosità o
benevolenza verso il paziente la nostra pigrizia, macchiandoci
per viltà della colpa di non interpretare.
3.4
Laura Ambrosiano
Gruppo: identificazione inconscia e ricerca del
significato
Coerentemente al percorso teorico su cui, con Eugenio
Gaburri, si è recentemente soffermata con i suoi lavori su conformismo
e rêverie,
l’autrice studia qui la colpa
come potente fattore endogamico al servizio del bisogno di
appartenenza, senza catastrofi separanti. La colpa viene
intesa come un tentativo di irreggimentare la reazione
aggressiva e violenta verso gli oggetti e verso le
identificazioni precoci con questi. Essa occlude
l’elaborazione dell’aggressività emancipativa, rinsalda
il legame identificatorio, endogamico, prende in carico
l’aggressività congelandola contro i percorsi di
individuazione, a favore del conformarsi alla mentalità
consolidata del gruppo di appartenenza. Ne deriva che,
all’opposto, l’aggressività mette a disposizione del
soggetto l’energia emotiva per distaccarsi, proprio per
dis-attaccarsi dalla nebulosa identificatoria. Questo è un
processo penoso, implica paura e lutto, confronta con i
limiti, la solitudine, la responsabilità.
Il male viene dunque inteso
come proterva determinazione ad eludere le dimensioni del non
pensabile e del non rappresentabile, che si mantengono
peraltro presenti in tutta la nostra esistenza sotto forma di
necessità di far fronte all’angoscia e alla paura dinanzi
ad un senso che è sempre aldilà delle nostre
interpretazioni. In questa luce l’identificazione – qui mi
chiederei: o una delle forme possibili di
identificazione? – diviene
un
meccanismo che mantiene una connessione a massa, endogamica,
con l’universo degli altri, portando il gruppo a parassitare
il singolo.
Il valore della dimensione edipica
risiede allora non tanto nel promuovere nuove identificazioni,
ma nel promuove disidentificazioni: l’aspirazione a
“circoscrivere l’ombra degli oggetti nell’Io”.
Anche questa autrice richiama poi la metafora del pasto
totemico, scena che Freud ci ha consegnato come narrazione
del passaggio generazionale nella sigla della introiezione,
della identificazione e della disidentificazione. Tale
passaggio non può essere compiuto se non in presenza di un
gruppo (caregivers e famiglia allargata) che lo tiene in campo
e lo supporta. Parallelamente
esso ha bisogno di un coraggio che consente al singolo
di non concedere al gruppo nulla di superfluo, come dice Freud
nel ‘21. Ci difende dal torpore consensuale verso la
tradizione il
lavoro psichico, che si sostanzia di un pensiero
liberamente associativo e della rêverie. Queste funzioni
mantengono un contatto con l’universo condiviso ma, in
parte, lo travalicano, trasgredendo.
Questo vale anche per l’analisi, dove è proprio
l’emancipazione dalle identificazioni con gli assunti del
gruppo a consentire anche all’analista di fare spazio alla
specificità propria e a quella del paziente, riproponendo
anche in tale sede la inevitabile conflittualità fra l’atteggiamento
mistico (in senso bioniano) dinanzi all’ignoto,
tollerante solitudine e paura e, invece, il bisogno di tenersi
attaccati senza scarti al gruppo, che è la nostra colpa
e insieme la proclamazione della nostra inconsolabile
incompletezza.
3.5
Lavinia Barone
Funzionalità e disfunzionalità nello sviluppo del
senso di colpa.
La prospettiva di Lavinia Barone è coerente con
la sua competenza e formazione, unisce infatti una solida
conoscenza della psicologia dello sviluppo ad un attento
rispetto dei modelli dinamici, letti soprattutto alla luce
delle teorie dell’attaccamento. Lo studio che l’autrice
compie è sistematico ed esaustivo, dando alla colpa una sua
collocazione fenomenologica, clinica e, per quanto possibile,
scientifica. Viene descritto e precisato il valore dato oggi
all’assetto emotivo dal soggetto anche da parte
dell’impostazione tradizionalmente più attenta al versante
cognitivo, cosicché la distinzione tra razionale ed emotivo -
che ha comportato, per le discipline psicologiche, una
negativa settorializzazione dei rispettivi campi d’indagine
- erede della tradizione razionalistico-cartesiana, attenua i
suoi criteri di legittimità per lasciare spazio ad una
tematizzazione dell’esperienza mentale emotiva in cui
l’elemento della complessità si esprime nella presenza di
diverse forme di integrazione tra emozione e conoscenza.
L’affermazione
dei modelli socio-cognitivi delle emozioni ha arricchito la
comprensione dello sviluppo emotivo e ha dato importanza
all’analisi delle cosiddette “teorie mentali” sulle
emozioni, ossia il modo in cui gli individui, a seconda del
loro livello di sviluppo e delle competenze possedute, fanno
riferimento ad un sistema rappresentazionale di conoscenze,
credenze e strategie di coping, che collega ciascuna emozione a specifiche strategie di
adattamento.
La colpa
appartiene al gruppo delle emozioni definite complesse o
sociali, in quanto richiede la capacità di riflettere sul
proprio operato e di valutarlo in relazione alle norme sociali
e all’insieme dei rapporti interpersonali in cui il soggetto
è inserito. Viene anche definita emozione autoconsapevole o
autoriflessiva e compare, dal punto di vista dello sviluppo
individuale, più tardivamente rispetto alle emozioni
denominate primarie. Tali emozioni complesse sanciscono
l’ingresso del bambino nel complesso mondo delle relazioni
interpersonali. L’emozione della colpa si sovrappone con
alcune altre esperienze emotive affini come vergogna e
imbarazzo. Ciascuna di queste emozioni condivide infatti la
caratteristica di esporre il soggetto direttamente o
indirettamente al giudizio degli altri e, al tempo stesso,
presenta importanti elementi di differenziazione che ne
giustificano il ruolo diverso giocato all’interno della
regolazione delle relazioni interpersonali. Gli studi
concordano sull’affermazione che esse non siano
discriminabili sulla base delle situazioni “tipiche”
capaci di indurre rispettivamente l’una o l’altra: molte
azioni possono in certi individui far sorgere la colpa e in
altri la vergogna. Si fa riferimento a H.B. Lewis, il quale
sottolinea come nella colpa l’attenzione sia incentrata sui
comportamenti o sulle azioni compiute, mentre nella vergogna
venga direttamente coinvolto il sé che, in quanto tale,
diventa l’oggetto della valutazione negativa alla base
dell’esperienza emozionale, e a studi successivi dove la
colpa viene concepita come un’emozione meno dolorosa, poiché
riguarda un’azione o una parte del sé, non coinvolgendo così
l’intera identità individuale. La vergogna, invece, si
caratterizza per essere un’emozione di acuta sofferenza,
tipicamente associata al bisogno di ritirarsi o al sentirsi
piccolo, a un senso di mancanza di valore, di indegnità, di
impotenza e di inefficacia. Può risultare interessante
rilevare che il vissuto di inferiorità che ne deriva esercita
un’influenza pervasiva sul sé, comportando ritiro ed
evitamento del contatto e dell’esposizione sociale con
riduzione delle abilità di mentalizzazione.
La colpa
invece, legata alla sfera dello scambio sociale e maggiormente
centrata sul livello delle scelte comportamentali o d’azione
adottate, risulta, secondo questa visuale, funzionale al
mantenimento dell’autostima grazie alla possibilità di
intraprendere azioni riparatorie rispetto ai danni arrecati.
La persona che prova senso di colpa non reagisce quindi
chiudendosi in sé ed evitando il confronto sociale, ma adotta
strategie utili a recuperare l’autostima e il rapporto con
gli altri che sono stati danneggiati. In questo caso
l’attivazione emozionale, con l’aumento della tensione che
ne consegue, non comporta una perdita di regolazione e
controllo emotivo, bensì offre l’occasione per utilizzare
la propria emotività in modo socialmente adeguato.
Si rileva
dunque come questo approccio, in cui non manca la
sottolineatura critica verso troppo schematiche distinzioni,
si rivolga al problema prevalentemente dal punto di vista del visibile,
che non necessariamente concorda con altre prospettive in
questo volume illustrate, ma le completa. Mi sembra che
l’apporto maggiore consista proprio nell’utile apertura di
riflessione sulle ragioni per cui lo sviluppo del senso di
colpa può intraprendere percorsi funzionali piuttosto che
disfunzionali e, soprattutto, su quali siano le implicazioni
relative alla possibilità di interpretare tale emozioni nel
caso in cui la sua valenza potenzialmente adattativa venga
ridotta o persa.
L’autrice
chiude infine il suo esteso saggio richiamando una ricerca
personale effettuata su soggetti adolescenti, età nella quale
le tematiche della colpa e della vergogna appaiono
particolarmente in evidenza: duecentoquaranta adolescenti
appartenenti a due diversi ambienti socio-culturali, di cui
uno normativo ed uno in condizione di rischio, rappresentato
da ospiti di strutture residenziali su disposizione del
Tribunale dei Minori per problematiche di inadeguatezza
genitoriale.
Solo il gruppo
di controllo mostra una adeguata comprensione del fatto che il
disagio o la sofferenza altrui possano dipendere dal nostro
comportamento, accedendo così a strategie riparatorie di
regolazione emozionale e comportamentali. In ogni caso per
tutti i ragazzi colpa e vergogna si contraddistinguono per
essere le esperienze soggettive più difficili da ricordare,
in quanto la percentuale di ragazzi che omette la propria
risposta risulta più alta rispetto alle domande relative ad
altri stati emotivi di base. Parlare e raccontare di quando ci
si è sentiti in colpa oppure di quando si è provata vergogna
non si è rivelato un compito facile per gli adolescenti.
Inoltre si rileva diffusamente la propensione a declinare il
proprio vissuto emotivo sulle problematiche relative al
proprio valore, piuttosto che sul confronto con la norma (in
accordo con quanto rilevato da Pietropolli Charmet), segnale
di una forma di potenziale vulnerabilità individuale. Questo
accade in relazione ad un vissuto di fallimento nei confronti
della propria capacità di realizzare progetti od obiettivi
individuali che, come emerge dalle risposte dei ragazzi,
accomuna in maniera indifferenziata vissuti di colpa e
vergogna, non coinvolge solo quella specifica situazione non
riuscita, ma diventa un vissuto pervasivo di inadeguatezza di
sé in rapporto all’esperienza di sentirsi esposto al
giudizio dell’altro. Ciò segnala un’estesa presenza di
un’area critica nelle potenzialità adattative
dell’emozione di colpa, in cui lo scivolamento della
valutazione dal piano dei comportamenti al piano del giudizio
sul sé crea le condizioni per un uso disfunzionale di questa
emozione all’interno delle relazioni interpersonali.
3.6
Vanna Berlincioni
Interpretazione e colpa in una dimensione
transculturale
Questo saggio va ad esplorare
un’altra area di possibile approccio al problema, quella che
attiene alle multiculturalità. Fra i tanti compiti
dell’interpretazione, infatti, può esservi anche quello di
porsi di fronte alla difficoltà di comprensione della
diversità (dell’Altro, di un altro che è diverso per
lingua, cultura, organizzazione dell’espressione attraverso
il linguaggio). In questi casi capire in base ai propri
riferimenti culturali significa avviarsi ad un fraintendimento
sistematico oppure rinunciare a comprendere ed attivare
sistemi di azione autoritaria che rispondono ad esigenze
proprie e non danno alcuno spazio all’altro, ai suoi
parametri di comprensione ed espressione. La comunicazione
perde in questo caso ogni reciprocità. L’interpretazione
deve perciò essere preceduta da un atto di assimilazione
delle esigenze, bisogni, forme idiosincrasiche di espressione,
forme culturali di appartenenza dell’altro e modalità
specifiche di gestione di questi aspetti che regolano
l’essere specifico di uno specifico soggetto. Ciò significa
conoscere la “forma di vita” che ne condiziona i giochi
linguistici.
La colpa assume in altri contesti culturali forme di
elaborazione molto diverse da quelle consentite nella nostra
cultura. L’autrice esamina cosa significa colpa, come questa
è gestita, quali sono gli aspetti sconvolgenti che la colpa
determina nell’assetto mentale e quali i rimedi che di volta
in volta sono impiegati, quale funzione viene attribuita a
medici-psicologi, come tecnici sul tema di ciò che noi
chiamiamo colpa. Se un disagio psichico è ritenuto prodotto
da azioni persecutorie legate a “maleficio”, a
“fattura” e a “malocchio”, avendo come ipotesi
esplicativa l’azione malevola di un terzo, viene ad
attivarsi una prassi esorcistica: non la collocazione della
colpa nell’uomo interiore, in un’intenzionalità umana
magari inconscia, ma in un’azione esterna, che si esprime
con la produzione di oggetti magici, che vanno neutralizzati o
eliminati. La malattia si carica di significati specifici che
dovranno essere decodificati volta per volta. Essa ha dunque
un significato sociale e non individuale, con implicazioni
morali, culturali e religiose. Ed è il gruppo sociale intero
che si attiva di fronte al male.
E’ l’orizzonte della etnopsicoanalisi e dell’etnopsichiatria
a realizzare i nostri quadri di comprensione e a interrogarci
su quelli delle culture altre operanti di fatto nei nostri
contesti culturali e non solo da parte degli immigrati
extracomunitari. Ma occorre uno sguardo da fuori per
poter percepire il mezzo in cui siamo immersi, e prenderne le
distanze per evitare l’imprigionamento di cui si diceva. È
ciò che Devereux descriveva come posizione culturalmente
neutra. Con ciò si vuole sottolineare la necessità ed
utilità delle differenze anche interpretative, senza disporle
necessariamente in una linea gerarchica ascendente, ossia in
un sistema di valore.
Metafora freudiana utilizzata nella XXI lez.del nuovo
ciclo di Introduzione alla Psicoanalisi (1932, 190)
indicante il settore marino costiero prosciugato e
bonificato in Olanda.
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