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  "L'interpretazione della colpa, la colpa dell'interpretazione" 

 

Marco Francesconi (a cura di), "L'interpretazione della colpa, la colpa dell'interpretazione", Bruno Mondadori, Milano, 2005.  Introduzione di Marco Francesconi
 

 

                             Si ringrazia sentitamente l'editore Bruno Mondadori e il curatore Prof. Marco Francesconi per aver autorizzato la pubblicazione su "Frenis Zero" di questo testo, che rispetto a quello pubblicato sul libro, è arricchito di una sintesi dei contributi degli altri autori.

 

 

 

1. Una premessa

 

 

Non possono esserci regole che stabiliscano quale sia la natura dell’esperienza emotiva destinata a mostrare che l’esperienza emotiva è matura per l’interpretazione. Io posso invece suggerire all’analista soltanto regole che lo aiuteranno a realizzare la condizione psichica di recettività nei confronti dell’O dell’esperienza analitica.[1]

 

 

Troviamo[2] nell’Eneide, libro V, la descrizione di Enea, che, tranquillizzato da Nettuno dopo una tempesta, ordina alla sua flotta di approfittare della calma delle acque per continuare il viaggio e incarica Palinuro della direzione delle navi. Il resto dei marinai si addormenta e Palinuro resta al timone orientandosi con le stelle. Il Sonno – ci racconta Virgilio –  invia all’innocente Palinuro tristi visioni. Sotto le spoglie di Forbas prende posto al suo fianco e gli dice: “Palinuro, figlio di Iasio, osserva come le onde conducono da sé la flotta; i venti soffiano sereni; questa è l’ora di riposare; china la testa e sottrai alla fatica gli occhi stanchi. Io ti sostituirò per un poco”. Alzando a malapena gli occhi, Palinuro gli risponde: “Vuoi che ignori che cos’è il mare in bonaccia e cosa sono le onde placide? Che mi fidi di questo mostro? Che affidi la sorte di Enea ai venti fallaci dopo essermi tante volte ingannato per le insidie di un cielo sereno?” Così dicendo, si alza con tutta la sua forza e non lascia neanche per un momento il timone, né distoglie gli occhi dagli astri, quando ecco che il dio gli getta sopra l’una e l’altra tempia la rugiada dell’oblio del Lete, infondendogli un invincibile sopore, per cui, malgrado i suoi sforzi, gli occhi gli si inondano di sonno. Appena un atteso sopore incominciò a impossessarsi delle sue membra, il dio si curvò su di lui e lo precipitò nelle liquide onde, mentre Palinuro nella sua caduta trascinava una parte della poppa e del timone e chiamava invano, ripetute volte, i suoi compagni. Enea si accorge che la sua nave va errando alla mercé delle onde, di aver perduto Palinuro e prende egli stesso il comando in mezzo alle tenebre, rattristato e lanciando profondi gemiti, con l’animo affranto per la sventura del suo amico, e dice: “Oh, Palinuro, per la tua eccessiva fiducia nella calma del cielo e del mare, giacerai insepolto in una spiaggia ignorata”.

 

Indipendentemente dalle evocazioni specifiche del pensiero di Bion a proposito di questo testo, ma seguendo il suo invito a che ciascuno utilizzi i “quadri” mitologici per associazioni personali, si potrebbe qui usare il mito di Palinuro leggendo la sua morte come un precipitare nella colpa persecutoria e nell’annientamento della vergogna laddove fallisca il tentativo di attribuire l’addormentamento ad una forza magica estrinseca (“la rugiada dell’oblio del Lete”) e non sia da Palinuro raggiungibile la posizione di Enea che riconosce invece la responsabilità effettiva della colpa e la verbalizza (“Oh, Palinuro, per la tua eccessiva fiducia nella calma del cielo e del mare, giacerai insepolto in una spiaggia ignorata!”). Quella che sembra la perversa volontà di un dio seduttivo e malevolo (un atteso sopore il dio si curvò su di lui e lo precipitò nelle liquide onde), che esonera apparentemente Palinuro da ogni colpa, non inganna Enea che, accompagnato da lutto e sentimenti depressivi, appare in grado di riconoscere la motivazione inconscia di Palinuro, che si concede un rilassamento fiducioso trasgredendo il mandato di vigilanza, forse anche invidiando i compagni addormentati. Le parole di Enea suonano come una interpretazione che trasforma la proiezione fatalistica in definizione di responsabilità.

Possiamo dire che Enea si assume la colpa di interpretare intenzionalità latenti, e, con tale esempio di archeopsicoanalisi – che anticipa la funzione (hegeliana) di guastafeste del pensiero (o di riduttore antagonistico, Bodei, 2002, 59) attribuibile, come ci ricorda Bodei (2001, 40) appunto a quella psicoanalisi che “insegna a curare le lacerazioni dell’animo” evitando il “più comodo aggirare le questioni” –, aprire la presentazione di questo volume, che nasce come filiazione indipendente ma geneticamente riconoscibile, di un Convegno omonimo tenutosi a Pavia nell’autunno 2003 grazie alla collaborazione dei Dipartimenti di Psicologia (Lettere e Filosofia) e di Scienze Psicocomportamentali (Medicina) della Università degli Studi di Pavia con il Collegio Ghislieri e con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Pavia.

 

Il tema ci è parso particolarmente importante e attuale e da leggere in un’ottica di confronto fra varie prospettive, anche conflittuali, in quanto numerosi sono stati i nodi concettuali che si è cercato di evidenziare nell’intersezione fra colpa e interpretazione: abbiamo chiesto a pensatori (anche religiosi) di tre diverse aree di cultura e ideologia (ebraica, musulmana e cristiana), a una storica laica che molto si è occupata di iconografia sacra, di spiegarci la loro visione del tema e/o di rispondere ad alcuni quesiti che da un lato il tema della colpa e della sua gestione e dall’altro l’interpretazione dei testi e dei discorsi considerati sacri, poneva a credenti e non: li abbiamo messi in dialogo con psicoanalisti in una stanza (Prima Parte, Alla radice: le religioni del libro e l’individualità), non tanto per definire una dimensione topica, per dirla alla Freud, ma per sottolineare l’utilità dell’incontro di due (in questo caso più di due!) persone piuttosto spaventate in una stanza, come Bion soleva definire la scena analitica, l’utilità del loro prodotto in funzione di incroci contaminanti tra prospettive e punti di vista in modo reciprocamente arricchente, se autenticamente vissuto con partecipazione emozionale e prossimità di interazione.

Analogamente altre scene di riflessione, in altre stanze (Seconda Parte, Interpretare la responsabilità: il punto di vista filosofico e storico; Terza Parte,  L’interpretazione della colpa, la colpa dell’interpretazione: il punto di vista clinico), hanno visto riuniti filosofi, psicologi e psicoanalisti, per sviluppare il tema della colpa e dell’interpretazione in una duplice prospettiva – come problema teorico, metodologico e etico in area specificamente filosofica – oppure come vicenda molto attuale nel lavoro clinico in stanza di terapia sia a proposito del rilievo da attribuire al dare la colpa (al soggetto, all’ambiente, a nessuno?) sia alla misura in cui l’interpretazione (come esplicitazione diretta al paziente) sia una legittima, doverosa, operazione terapeutica ovvero una forzatura quasi oppressiva, da sostituire mediante altre forme comunicative, pur mantenendo imprescindibili le regole del setting analitico.

 

Ne è emersa una vasta panoramica di pensieri e di proposte che, ripensati e integrati da altri contributi, è possibile proporre in forma di volume come importante rassegna di approfondimenti e riletture della letteratura su due temi – la colpa e l’interpretazione – dei quali è quanto mai importante occuparsi oggi. I partecipanti al Convegno hanno poi accettato di ripensare e “metabolizzare” le loro esposizioni, giungendo a elaborare testi che solo in parte rispecchiano le primitive relazioni, per costituire invece una rassegna autonoma di opinioni e considerazioni che è possibile proporre ai lettori, accompagnati da altri contributi.

 

Nel ringraziare tutti coloro che hanno, a vario titolo, partecipato alle iniziative, come rappresentante di un’area psicodinamica non posso mancare di porgere omaggio anche alla innovazione freudiana, la psicoanalisi, alla quale credo vada ricondotto il merito di aver guardato alla colpa non solo come ad un elemento causato (ma verrà poi discussa la complessità del margine di confine tra questo termine e il concetto di ragioni, seguendo le distinzioni di Wittgenstein), conseguenza di una azione negativa, bensì – in sintonia con i molti rovesciamenti dei consueti modi di pensare prodotti dal vedere l’inconscio come dimensione originaria e strutturata (l’Es) – come istanza a volte promotrice di azioni colpevoli.

Con tale concezione, Freud sottrae la dimensione inconscia alla rappresentazione di essa come luogo sconosciuto che lascia intatto un centro osservante ad esso estraneo, capace – nei fatti o nel potenziale – di slatentizzare ciò che sembra occulto, e introduce una funzione pensante inconscia dotata di una capacità propositiva, mai integralmente conoscibile, che pensa, decide, giudica: il paradosso è che la psicoanalisi, piuttosto che limitarsi al rendere conscio l’inconscio, finisce con il mostrarci una coscienza incosciente di quel che l’inconscio fa.

Se il fondatore della psicoanalisi relativizza le aree di consapevolezza all’interno del mondo psichico, non fa certo una operazione di deresponsabilizzazione, anzi. Come nella scena mitica di Enea e Palinuro, bionianamente, il campo si allarga mentre lo si esplora, e anche quello dove si dispiegano colpe e interpretazioni è uno dei settori di questa esplorazione, pur trovandosi passibile di trasformazione in un strumento della esplorazione stessa.

In ogni caso, il fine auspicabile è l’elaborazione della colpa, il lutto superabile di qualcosa che si è perso, ma, che, contemporaneamente, apre vie verso la riparazione, verso il recupero e la prosecuzione di un futuro possibile, per sé o per altri.

Trasformare la maledizione edipica (il destino omicida e tragico già definito ancor prima che il soggetto nasca) in una nuova forma di percorribilità del senso, di praticabilità del cambiamento può essere il messaggio del pensare psicoanaliticamente: non tutto è già scritto e già detto, altri nomi possono dirsi, altri pensieri possono trovare pensatori. E può essere liberatorio: come ci ricorda Bion, il dare un nome alle cose, anche alle proprie colpe (consce e inconsce), ci obbliga a liberare quelle aree che non appartengono a quello specifico oggetto, così se per denominare una cosa, devo tollerare il lutto dell’onnipotenza riconoscendo ciò che l’oggetto (o l’Io) non è (ed è una ferita narcisistica l’ammetterlo), per la colpa, tale atto definitorio di denominazione può paradossalmente rivelarsi l’artefice di una delimitazione dello stesso ambito della colpa (vera o presunta) liberando e sottraendo estese aree di praticabilità di non colpevolezza.

Delimitare uno spazio del castigo fa contemporaneamente nascere in prossimità un luogo non perseguibile, da esso separato da una barriera di contatto finalmente pensabile come valicabile.

Certo però occorrono operazioni trasformative, passaggi più o meno difficoltosi, personali e intimi o pubblici e collettivi: molti sarebbero i percorsi possibili di un discorso che lascerei per ora insaturo, limitandomi a ricordare la prioritaria funzione terapeutica (Bion) della simbolizzazione, come momento cardine del processo.

Personalmente, e cercherò di tornarci nelle mie pagine,[3] aggiungerei che, forse, un punto poco studiato a proposito della colpa parricida originaria e del pasto totemico dei figli, da Freud posti all’origine della colpa, ma anche del legame fraterno tema che ricorre in molti dei saggi contenuti nel testo potrebbe essere  quello che attiene alla possibilità di una era minoico micenea (per dirla alla Freud) caratterizzata da uno stadio precedente e rimosso ancor più profondamente, riguardante la fantasia più arcaica del matricidio originario. La primigenia, terribile colpa del matricidio, può avere avuto la sua altrettanto primigenia formulazione simbolica con lo spostamento verso la figura del padre, protosimbolo per eccellenza in quanto non-madre, e, capace per questo, come Klein e Segal ci hanno insegnato, di avviare il fenomeno di attenuazione della colpa concreta verso il meno grave attacco ad un suo rappresentante figurato. Lacanianamente, si potrebbe dire che anche la colpa, come l’Io, è (dicibile) là dove non è, ma dove è simbolicamente depositata.

Voglio tuttavia sottolineare, richiamandomi anche alla citazione di Bion posta all’inizio di questo scritto, la prioritaria attenzione che va data (come si nota anche nella ridondanza terminologica presente nella citazione) in tutti questi percorsi all’idea di esperienza emotiva: nel dare un nome non certo di solo sapere si tratta, e anche le regole sono di difficile identificazione, sfuggono… si può solo (ma non è poco) favorire una condizione psichica di recettività a quella che Bion indica, con la sigla ‘O’, avendo accesso solo ad una pallida ombra della realtà ultima, inconoscibile, in un continuo lavoro psichico di ampliamento, pur nella consapevolezza del suo essere sempre incompleto e inadeguato. È  il raggiungimento di questa condizione di recettività che rivolgo come augurio anche al lettore.

Vorrei chiudere questa nota introduttiva richiamando un mio precedente lavoro su violenza e tragedia classica (1993), dove mi chiedevo quale fosse il ruolo giocato da Creonte, quale il suo rapporto con la colpa e il suo trattamento. Certo è facile vedere nella sua figura, con l’intransigente condanna di Antigone, il rappresentante della legge astratta e disumana, che punisce con la morte le colpe (una metafora del Super Io tirannico e del suo ricorso alla legge del taglione), persecutorio e indifferente ai legami affettivi e familiari.

Tuttavia, nella tragedia, Creonte appare anche l’unica figura disposta ad apprendere dall’esperienza (secondo l’espressione bioniana), a mutare idea, sebbene troppo tardi per la salvezza materiale degli altri.

Cr.: Cedere è terribile, ma terribile è anche trascinare l’animo che resiste a cozzare contro le sventure...   Vano è accanirsi a combattere con il destino.

Coro: Va’, agisci tu, subito, non ti affidare ad altri.

Creonte si prospetta il cambiamento catastrofico, ma è il Coro ad esplicitare che solo l’assunzione del compito in prima persona potrà garantire la riuscita, consentendo quindi al tiranno il passo successivo, riferito ad Antigone condannata:

 Cr.: Io stesso, giacché ho cambiato opinione, come l’ho imprigionata, così sarò là a liberarla. 

Eppure, egli non si pone all’opera salvifica immediatamente, ma:

dopo aver lavato il corpo [di Polinice] con acqua pura, ne bruciammo i resti con rami appena divelti ed erigemmo un alto tumulo di terra nativa. Poi ci dirigemmo alla caverna della ragazza, pietosa stanza nuziale di Ade.

Creonte, dunque, sceglie di dar corso infine alla sepoltura del presunto traditore Polinice nonostante la sua azione colpevole,[4] ma, per far questo, posticipa il suo arrivo alla caverna-prigione di Antigone, che, intanto, si uccide.

La tragedia sembra dirci che, per attuare l’elaborazione della colpa, non si può evitare la consapevolezza di una perdita: per far proprio il messaggio di Antigone, Creonte deve confrontarsi con l’irreversibilità della scomparsa, trasformandola in una sorta di colpa propria, e riconoscere poi, pubblicamente e verbalmente, la responsabilità degli atti omicidi:

Cr.: Mai cadrà su altri mortali la colpa. E’ mia. Io, essere infelice, ti uccisi, ahimè: è la verità

dice, riferendosi all’ultima suicida, la moglie Euridice. Solo assumendola su di sé fino a sentirsi quasi annullato:

Cr.: portate lontano questo nulla

la colpa può essere tollerata e non fatta cadere su altri. Mi sembra di vedere qui rappresentata la trasformazione di una colpa persecutoria, che può solo essere fuggita o deviata su altri (secondo la terminologia di Grinberg), in una colpa depressiva, sopportabile e riparabile, riaprendo la possibilità di un dopo. Non a caso il Coro ripropone, quasi nelle ultime parole, la dimensione futura:

Coro: questo è il futuro, ora dobbiamo affrontare ciò che deve ancora accadere.

proprio come rinascita, in apparente contraddizione con le parole di Creonte disperato:

Cr.: venga il mio estremo destino ché dentro gli occhi io non abbia un altro giorno.

Ma se Edipo agisce materialmente con violenza contro i propri occhi, senza intaccare la propria personalità, Creonte, invece, rinuncia alla propria onnipotenza, alle maledizioni che impregnino di sé il destino venturo (a differenza di Laio e di Edipo stesso), e apre così lo spazio al futuro degli altri perché – come afferma – abbiano cura del futuro quelli a cui tocca averne cura. Egli sceglie dunque di imparare dalla sofferenza e di non celare la propria colpa, anche se questo sembra condannarlo ad essere ricordato solo come simbolo della tirannia. Dobbiamo pertanto riconoscergli – nel vero spirito della tragedia , secondo Vernant (1986, 75): “Le sofferenze umane, di solito deplorate o subìte, divengono nello specchio della finzione tragica, oggetto di una comprensione” –  una capacità di espiazione grazie alla quale appare possibile attribuire a Creonte, anche se divenuto nel nome sinonimo di “tiranno”, almeno la dignità di aver fermato il rovinio di colpa e violenza attraverso le generazioni. Ciò non impedisce naturalmente di riconoscere che una rigida applicazione della regola come legge dura può sopraffare una legge degli affetti non sempre necessariamente destinata ad essere annullata:

Cr.: I mali la miglior cosa è abbreviarli….

E, per farlo, solo l’unione collaborante delle risorse coscienti e di quelle inconsce può essere efficace: senza ricorrere necessariamente alla psicoanalisi, possiamo appoggiarci ancora a Vernant riconoscendogli il merito di un’ottima descrizione di questa problematica quando, pur partendo da premesse concettuali ben diverse, afferma: “Nella prospettiva tragica, agire comporta un duplice carattere: da un lato è tener consiglio dentro di sé, soppesare il pro e il contro, prevedere come meglio si può l’ordine dei mezzi e dei fini; dall’altro è scommettere sull’ignoto e sull’incomprensibile, avventurarsi su un terreno che vi resta impenetrabile, entrare nel gioco di forze soprannaturali delle quali non si sa se preparino, collaborando con voi, il vostro successo o la vostra rovina” (1972, 25).

Mi sembra da sottolineare, nell’alternativa fra successo e rovina e all’interno del sottile rapporto fra desiderio e necessità, l’accento posto sulla responsabilità. Si veda, a proposito del sacrificio di Ifigenia, quanto Vernant afferma: “Ciò che Agamennone è costretto a fare sotto il giogo di Ananke è anche ciò che desidera di tutto cuore, se tale è il prezzo per essere vincitore. L’oracolo di Artemide trasmesso da Calcante non si impone al re come imperativo categorico, non dice sacrifica tua figlia ma solamente se vuoi i venti devi pagarli con il sangue di tua figlia” (ivi, 52).

Se è vero dunque che il conflitto fra éthos (carattere) e dàimon (potenza divina negativa) ha l’aspetto di un confronto fra interno e esterno, fra  naturale e soprannaturale e, forse, fra premeditazione e raptus, è altrettanto vero che non può ritenersi assente una qualche forma di consapevolezza dell’individuo.

Ed è qui che si rivolgono i testi che seguono, con la speranza di offrire qualche elemento utile ad ampliare lo Zuiderzee[5] della consapevolezza responsabile.

 

Bibliografia

Bion W.R., La Griglia, In Il cambiamento catastrofico, Loescher, Torino, 1981, (1a ed. 1974).

Bion W.R., Attenzione e interpretazione,  Armando, Roma, 1973, (1a ed. 1970).

Bodei R., Il dottor Freud e i nervi dell’anima, Donzelli, Roma, 2001.

Bodei R., Destini personali, Feltrinelli, Milano, 2002.

Francesconi M., Violenza e tragedia classica. Spunti per una riflessione psicodinamica  a partire dall’Antigone di Sofocle, in Rampazi M., Scotto di Fasano D., a cura di, Il sonno della ragione. Saggi sulla violenza, Dell’Arco, Milano, 1993.

Freud S., Introduzione alla  psicoanalisi. (Nuovo ciclo di  lezioni) OSF, XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, (1a ed. 1932).

Grinberg, L., Colpa e depressione, Astrolabio, Roma, 1990 (1a ed.1971).

Grinberg, L. et al, Introduzione al pensiero di Bion, Cortina, Milano, 1993, (1a ed. 1991).

Vernant,  Mito e tragedia, Einaudi, Torino, 1976, (1a ed. 1972).

Vernant, Mito e tragedia due, Einaudi, Torino, 1991, (1a ed. 1986).

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Sintesi dei contributi

 

PRIMA PARTE 

Alla radice: le religioni del libro e l’individualità.

 

1.1  Giovanni Foresti  Teorie  laiche  e  culture  religiose di fronte al problema della colpa

Il testo propone un nucleo di tematiche a crocevia dei nodi culturali che verranno affrontati nelle successive trattazioni, in base alle opzioni d’appartenenza e al libero spirito di ricerca degli Autori della prima parte, sul tema della colpa e dell’interpretazione. L’asse tematico è quello costituito dalla sequenza aggressività/depressione/colpa, castigo/pentimento/riparazione, perdono e sua eventuale ritualizzazione e viene suddiviso in vari punti:

1)Prendendo spunto dall’articolo di Cordelia Schmidt-Hellerau (International Journal of Psychoanalysis, 2002) Why aggression, vengono richiamate le modellizzazioni psicoanalitiche del concetto di aggressività; 2) Un esempio di colpa originaria, quella di Caino, permette di interrogarsi sulla diversa significazione (e sulle diverse traduzioni nei testi sacri) del peccato e del castigo. Le liturgie sacrificali e le pratiche religiose possono essere viste in stretta correlazione con l’elaborazione o la mancata elaborazione della colpa. Se l’opzione positivistica sosteneva che non ci deve importare d’ignorare ciò che la razionalità scientifica non può esplorare, le vicende politico-sociali degli ultimi anni ci costringono a chiederci se possiamo rinunciare a cercare di capire qualcosa dei rapporti fra la dimensione del sacro e il sempre risorgente problema dell’aggressività, della violenza e della colpa. (La violenza e il sacro: un binomio indissolubile? La perdita della ritualizzazione collettiva apre inevitabilmente la strada alla riemersione della vendetta?); 3) la colpa come antidoto nei confronti del fanatismo e dell’integralismo; la colpa come fattore di promozione del pentimento e come precondizione del perdono (Religioni del Padre e religioni del Figlio); 4) la punizione, il castigo, come fattori di costruzione/maturazione del vissuto soggettivo; la punizione e la colpa come determinanti decisive dello sviluppo della capacità di responsabilità (Il male: come si interpreta e come si affronta?). Particolarmente interessante mi sembrano gli interrogativi circa l’utilità o meno della colpa e il quesito sullo spazio lasciato alla figura del Padre in queste vicende.

 

1.2  Abdesselam Cheddadi   Il problema della “tolleranza” nelle società islamiche.

L’autore affronta con mirabile equilibrio critico la problematica assai delicata del rapporto tolleranza/intolleranza. Nell’epoca della modernità, afferma, la tolleranza occupa un posto fondamentale non solo come valore religioso, morale o politico, ma come condizione della socializzazione e dell’esercizio del pensiero e, associata ai diritti dell’uomo nella loro più larga comprensione, come elemento strutturante del sociale, della politica e dell’economia. L’intolleranza non può apparire, quindi, che come il male assoluto, e l’opposizione tolleranza/intolleranza può così perfettamente servire dottrine come quella dello “scontro delle civiltà”. Ma di intolleranze al plurale occorrerebbe parlare poiché l’intolleranza non risparmia le società occidentali. In effetti, essa vi riveste nello stesso tempo forme interne ed esterne: le prime si manifestano nelle disfunzioni della democrazia, nei fondamentalismi religiosi e nel razzismo; le seconde si coprono dietro i rapporti di egemonia e di dominio sul piano militare, politico, economico e culturale. Non bisogna dimenticare, sostiene Cheddadi, che l’Islam classico sul piano intellettuale, nel suo periodo formativo è stato segnato dal pluralismo. L’elaborazione del sistema dogmatico e di quello giuridico, che è durata per due o tre secoli, è stata effettuata in un’atmosfera di dibattito in cui si sono confrontate le opinioni più diverse, in cui si possono seguire le tracce di un vastissimo spettro di dottrine religiose e filosofiche. Tra le migliori testimonianze di questo pluralismo, la profusione e la diversità delle tradizioni attribuite a Maometto, che si contavano a centinaia di migliaia prima della formazione del corpus delle tradizioni dette “autentiche”. La fratellanza fra gli uomini, l’invito alla conoscenza reciproca, la pari dignità degli individui, dei gruppi e dei popoli sono esaltati basandosi sul Corano e la Tradizione profetica. Eppure, tutto questo non deve nascondere i limiti che il sistema islamico ha continuato a rivelare sia a livello della vita intellettuale e religiosa sia nell’organizzazione sociale; limiti inerenti a tutte le civiltà agrarie o agro-pastorali premoderne. In effetti, il dibattito religioso e filosofico non ha potuto resistere alla tendenza all’instaurazione di un’ortodossia. Sia in campo dogmatico che in campo giuridico, un numero ristretto di correnti hanno finito per imporsi. Le scienze coraniche hanno disegnato le regole e i limiti dell’interpretazione del testo sacro, le scienze della Tradizione profetica hanno fatto la cernita fra le “buone” e le “cattive” tradizioni profetiche e messo fine alla produzione e circolazione delle tradizioni apocrife, una volta rifugio delle antiche saggezze e delle idee divergenti. L’ideologia del consenso per la salvaguardia dell’unità della comunità, attraverso la caccia alle eresie, la dissuasione della “riflessione personale” (ijtihâd), hanno portato all’eliminazione o all’emarginazione delle correnti giudicate eterodosse o eretiche. Si è così esasperato lo scontro con la cultura occidentale, in un crescendo di reciproche attribuzioni di colpe e di interpretazione degli eventi (o delle ipotesi) distorte più dalle difese irrazionali che da oggettive valutazioni. Ma l’autore non si nasconde, con grande umiltà critica, che, rafforzati dagli aiuti tecnologici, militari ed economici occidentali, salvati dai prestiti che sono stati loro facilmente concessi dagli organismi finanziari internazionali o dagli Stati occidentali, e, per alcuni di loro, approfittando delle manne petrolifere, gli Stati islamici si sono sentiti sufficientemente forti per non dovere procedere alle riforme sociali, politiche ed economiche che erano necessarie; hanno praticamente chiuso le porte del futuro alla maggioranza delle loro popolazioni non prestando sufficientemente attenzione ai settori vitali, che sono la scuola e la formazione. Invece di portare le loro società verso la libera espressione e l’esercizio di una maggiore democrazia, le hanno mantenute nell’ignoranza e nell’irresponsabilità, e hanno favorito una visione della cultura e della religione islamica troppo legata a uno spirito di conservatorismo e priva di apertura e creatività, condizionando una debolezza drammatica della società civile e della classe degli intellettuali.

 

1.3  Giuseppe Laras   Colpa e riscatto (Teshuvah) nella tradizione religiosa dell’ebraismo.

L’autore indaga la pluralità dei termini ebraici indicanti colpa e peccato e i rispettivi aloni semantici, evidenzia come la colpa originaria, quella di Adamo, sia stata la non accettazione di un limite, per giungere alla questione centrale del saggio, ovvero l’analisi di come nella religione ebraica assuma un rilievo particolare il concetto di Teshuvah, intesa come introspezione critica dell’individuo, sfociante in una auto-rigenerazione etico-spirituale. Con la Teshuvah (pentimento, riscatto, letteralmente = ritorno) si evidenzia la “solitudine del penitente”, che trova in sé e nella propria determinazione la via della riconciliazione con i suoi simili e con Dio, senza mediazioni assolutorie di alcun genere. Abbiamo però unaTeshuvah normale’ quando il soggetto è sinceramente pentito del peccato commesso, ma non ha modo di mettere alla prova il proprio proposito di non cadere più nella stessa possibilità di errore. Viceversa, se si ha la possibilità di sperimentare il proprio intento in condizioni analoghe a quelle in cui in passato fu commessa la colpa, si compirà una ‘Teshuvah eccellente’. Questo porta a sottolineare il valore della libertà di scelta del soggetto: per compiere Teshuvah, per autoanalizzarsi e riscattarsi, occorre infatti essere convinti della propria libertà di agire: se non si è liberi di decidere di cambiare, la Teshuvah risulta impossibile. Afferma l’autore che la colpa non è ineluttabile e che bisognerebbe scrivere e predicare molto sul dovere di ognuno di assumersi le proprie responsabilità; dovere che si presenta difficile oggi come ieri.

 

1.4  Pierangelo Sequeri   Immaginazione e colpa. Spunti di interpretazione cristiana..

Ancora la figura di Adamo “colpevole”, ma essenziale alla soggettivizzazione, compare nel saggio di Sequeri, che ci mostra come lo stesso senso di colpa che s’inscrive alle origini della vicenda umana ci annuncia che siamo vivi e non morti. Adamo ed Eva sopravvivono al frutto mortale, non ne muoiono, percepiscono però l’avvilimento del desiderio. Il senso della colpa fa percepire all’uomo che è, nonostante il peccato, vivo, mentre il desiderio frustrato, che ha incontrato un limite mortale e ne deve assumere la responsabilità, gli permette di sperimentare la sua condizione mortale. Un Dio punitivo colpisce la coppia, ma come detto in Genesi 3, 27, Dio, prima di congedare Adamo e Eva e mettere i cherubini a guardia del giardino, perché i progenitori non ricascassero nell’errore, si fermò a cucire loro dei vestiti di pelle. Si tratta di un gesto di cura e sollecitudine amorosa verso quelle stesse creature resesi da poco colpevoli - che Sequeri ha richiamato alla memoria nel corso del suo intervento al Convegno - che ho trovato molto suggestivo e importante da evocare in quanto mi è apparso sintono con la possibilità, evocata da molti dei contributi presenti in questo volume, di mantenere i legami oltre le differenze e oltre l’indispensabile lavoro evolutivo di separazione/individuazione.

L’autore conclude il suo discorso illustrandoci come, nonostante il permanere di una dialettica della colpa inconciliabile con le nostre risorse di autorealizzazione e di autoriscatto, noi impariamo a comprenderla e a reggerla senza mascheramenti. Il sostenere la colpa per quello che essa è senza infingimenti consente di saggiare la misura del bene e del male in modo perfettamente autoreferenziale e mette in guardia l’uomo dalla tentazione sempre presente del delirio narcisistico. La colpa – prosegue - non nullifica la dignità umana, che è in grado di reggerla e di affrontarla.  Essenziale è anche il riferimento al sostenere la colpa per terzi che allude all’aspetto complessivo e sempre plurale dell’esperienza umana in grado di mantenere dignità di fronte alla colpa, in un cammino individuale e interiore che trova un ineliminabile referente nell’analogo cammino compiuto dall’altro accanto a noi.

 

1.5  Mauro Pasqua    I docili Egizi e i selvaggi Semiti. Colpa e origini del monoteismo nell’opera di Freud.

Con questo saggio si accede ad uno spazio di intersezione fra tematiche teologiche e psicoanalisi: viene compiuta una competente analisi del tema della colpa prendendo spunto dai testi freudiani su Mosè e il monoteismo, integrandoli con le riflessioni e gli studi più recenti su di essi e sulle problematiche della cultura egizia della colpa. Viene infatti ricordato che se in Grecia l’uomo che si guadagnava memoria sociale era chi compiva imprese memorabili, fuori dall’ordinario, in Egitto contava soprattutto essere esenti da colpa, mediante il compimento degli impegni di convivenza, in termini di verità e di giustizia. La colpa danneggia il ricordo e distrugge la prospettiva di durata. Il colpevole passa, sarà dimenticato, chi è esente da colpa dura ed ha aperto l’opportunità del superamento della morte e dell’umana caducità.

Quando si è in presenza di colpa accertata socialmente, la punizione provvede alla purificazione attraverso le istituzioni che amministrano la giustizia. Ma per liberarsi dalle colpe non rilevate, invisibili agli altri, il singolo deve trovare altri modi, se vuole perdurare oltre la morte. Da qui la necessità di forme di purificazione dell’anima legate al rito funebre.

In una cultura della colpa, come quella antico egizia, la relazione tra l’immortalità e l’essere esenti da colpa è talmente stretta che la colpa è vista concretamente come una sostanza dannosa, capace di produrre putrefazione. La tecniche e i rituali di purificazione e giustificazione si sviluppano in relazione con le tecniche della mummificazione e dell’imbalsamazione e trovano significato all’interno della mitologia (Assmann).

Emerge da più parti una sorta di mitologhema originario, comune a varie culture e all’inconscio psicoanalitico: quello dell’uccisione del padre primigenio, ripetuto innumerevoli volte per millenni, fino a divenire – come Freud insegna - un’eredità arcaica, inaccessibile alla riflessione e alla elaborazione.  Anche l’assassinio di Mosè ne fu una ripetizione potente, che faceva rivivere memorie sepolte nella profondità della psiche, riallacciandosi a quella dialettica che Bion chiamerà mistico/istituzione, per cui da un lato i  Semiti tolsero di mezzo il tiranno, il Mosè egizio, per poi abbracciare la sua religione e, dall’altro, gli Egizi attesero finché il destino li sbarazzò della sacra persona del faraone, ma poi eliminarono definitivamente il monoteismo. Se Mosè fosse morto di morte naturale, lascia intendere Freud, non ci sarebbero stati gli effetti potenti sulla psiche collettiva che sono seguiti alla morte violenta. L’esperienza è stata traumatica per gli ebrei ed è per questo che ha lasciato effetti così duraturi. Il rinnegamento dell’azione violenta non cancella la presenza dell’azione o della colpa nella psiche, ma piuttosto aumenta l’accumulo inconscio di colpa e angoscia. Ciò che rende potente la coazione è la colpa rimossa.

Conseguenza di questa radicalmente diversa visione della colpa è che mentre per gli egizi, come sottolinea Pasqua, la colpa più grave è l’avidità poiché colpisce la comunità di appartenenza, per Israele il peccato dei peccati è l’idolatria, il sottrarsi alla dedizione all’unico Dio per rivolgersi ad altri dèi o agli oggetti del mondo. Sia la religione egizia che quella ebraica sono religioni della colpa, ma assume rilevanza fondamentale la distinzione tra “culture di purificazione” e “culture di redenzione”, tra culture della purezza e religioni redentrici. Il punto interessante è che sia nella cultura egizia antica sia in quella cristiana, la colpa può essere più riconoscibile e nominabile e quindi dare luogo al superamento di una interminabile espiazione masochistica. Infatti, nell’immaginario religioso degli egizi l’anima non sarà giudicata colpevole se ha con sé i papiri del libro dei morti e può recitarne le formule, per gli ebrei invece, ricorda Freud, la grande tragedia nasce dalla negazione della morte del Padre, il che determina un’espiazione crescente della sua colpa. La stessa colpa è stata riconosciuta, accettata e confessata dai Cristiani – anche se non riferita alla morte violenta di Dio ma sostituita con il peccato originale – e questo era possibile  perché Cristo, la vittima espiatoria, aveva redento quella colpa. Freud pensa di aver scoperto in questa contrapposizione l’inconscia accusa cristiana contro gli Ebrei: “non volete ammettere di aver assassinato Dio…Certo noi abbiamo fatto la stessa cosa, ma l’abbiamo riconosciuta” (Freud, Uomo Mosè…..). L’antisemitismo era il prezzo che gli Ebrei pagavano per restare “eletti”, invece di diventare “salvati” (Yerushalmi).

 

1.6  Daniela Scotto di Fasano    Sentinella di frontiera, non si può fermare il vento

Il problema dell’alterità viene qui affrontato nella sua complessità, in particolare, prendendo spunto da un suggestivo flash letterario, il racconto breve Sentinella di F. Brown, quando l’Altro evoca un profondo senso di disagio e di ‘fuori casa’, alterando il senso familiare del sé, spaesandolo. Lo spazio dell’incontro allora può essere persecutoriamente percepito, in termini emotivi, come area di frontiera, nella quale è indispensabile stare - e restare - ‘in guardia’, ricorrendo difensivamente a una ‘neutralizzazione’ dell’alterità che si esprime in un apparente accordo e in un’accoglienza di superficie che, in realtà, sono nella sostanza tesi a impedire un contatto - e un ‘contagio’ – autentici, ma perturbanti. Un momento storico come il nostro, particolarmente caratterizzato dall’incertezza dei confini e in continua trasformazione, reso incerto dalla globalizzazione, nonostante i vantaggi e le aspettative, pone in essere misure difensive poco identificabili che possono condurre anche alla cancellazione della possibilità di farsi mettere in discussione, così come di quella di assumersi la responsabilità (la “colpa”?) di mettere in discussione interpretando.

Il contrasto fra l’imparare la solitudine e una deteriore omogeneizzazione omologante non può essere invece evitato e comporta la capacità di sopportare di essere un po’ cattivi con il rischio di perdere l’amore degli oggetti amati. Attraverso una disamina in profondità dei presupposti psicoanalitici che sostengono la trattazione e raccordando il tema a trame antropologiche, si arriva ad affermare che il timore di perdere se stessi sia ciò che contribuisce a determinare il carattere perturbante dell’incontro con l’Altro, recuperando il valore di una assunzione dolorosa della propria finitezza, della capacità di assumersi e di tollerare dolore, esercitando quelle funzioni genitoriali proprie della parte adulta della mente. E anche, un po’ provocatoriamente, recuperando l’indifferenza come valore. Infatti, sia difese oltranziste di identità forti e “superiori”, sia buonismi fondati sul diniego delle differenze, si rivelano prima di tutto smentiti dall’inconscio e, poi, forieri di sconfitte.

Come nella conversazione plurilingue descritta in Film parlato da De Oliveira (2004) e augurandosi un esito difforme dal suo finale, l’apertura all’altro può avvenire senza temere di perdervisi, senza rinunciare a ciò che si è, alla propria lingua, permettendo dialogo e confronto anche nel rispetto delle differenze.

Il discorso viene poi sviluppato in una direzione più specificamente attinente all’area clinico-psicoanalitica, con una netta presa di posizione a favore di un’azione interpretativa che non eluda il suo compito e di un analista  custode dinamico (Quinodoz) di una funzione differenziante e di memoria che assicuri diversificazione e continuità in feconda congiunzione.

 

SECONDA PARTE

Interpretare la responsabilità: il punto di vista filosofico e storico.

 

2.1  Salvatore Veca   Le circostanze e i limiti dell’interpretazione

Il contributo del noto filosofo affronta il problema delle circostanze e dei limiti dell’interpretazione grazie a due argomenti classici sullo scetticismo e sulle condizioni di possibilità di qualcosa. Ricorda Veca che qualcosa deve essere offerto all’interpretazione perché essa sia praticabile e possibile, riconoscendo con questo un limite, il primo limite dell’interpretazione, nel dato esogeno e indipendente dall’interpretazione stessa, un fatto per l’interprete: ci viene allora suggerito che non tutti i fatti sono interpretazioni. Quanto l’autore vuole evitare è che si introducano nell’analisi entità strane e sospette, quali i fatti, definiti indipendentemente da qualsiasi interpretazione, non accettando congiuntamente la tesi secondo cui tutti i fatti che noi siamo in grado di riconoscere, identificare, descrivere e spiegare sono congiuntamente interpretazioni. Veca propone di risolvere la bizzarria del rompicapo introducendo una distinzione fra oggetti saturi o insaturi rispetto all’interpretazione. Un oggetto è saturo rispetto all’interpretazione quando, a un tempo dato, resta stabilmente fissata nel tempo una certa interpretazione di quell’oggetto, insaturo, invece, quando, a un tempo dato, è disponibile una varietà di interpretazioni di quell’oggetto. L’interprete lavora su un oggetto insaturo che è connesso a oggetti saturi, caratterizzati da una singola interpretazione che ne fissa stabilmente il significato. I limiti dell’interpretazione sono allora dati dall’insieme degli oggetti saturi rispetto all’interpretazione, cui è connesso in vari modi l’oggetto insaturo. Le possibilità di mutamento dei confini dello spazio concettuale corrispondono alla modificabilità degli oggetti saturi in insaturi, cioè che alla singola interpretazione, stabilmente fissata nel tempo, possa accadere di lasciare il posto a una varietà di interpretazioni alternative. E così via. Afferma Veca che l’interpretazione mira a ridurre l’incertezza. E la riduzione dell’incertezza si ottiene con la costruzione di una qualche teoria che metta un qualche ordine nel guazzabuglio. Le attività dell’interpretare fanno parte di una pratica in un senso vagamente performativo: interpretare è fare, in un senso affine al fare cose con parole. Interpretare qualcuno ha effetti sull’interpretato. Interpretare qualcosa ha effetti sulla cerchia di riconoscimento o identificazione di quella cosa. Allo sguardo psicoanalitico – aggiungo una considerazione – può forse apparire motivo di perplessità l’idea di una riduzione dell’incertezza: credo però che sia un punto essenziale, proprio nel senso definitorio di cui parlavo più sopra, di evitamento del tutto possibile (se non detto), è vero, peraltro, che il lavoro analitico, se colto nella sua complessiva progressione, opera in realtà spesso aumentando l’incertezza delle interpretazioni univoche (fino alla rigidità paranoicale) da parte del paziente. Ma questo mi sembra in sintonia con la riflessione di Veca, che infatti conclude con quello che mi sembra un prezioso strumento concettuale per il clinico, allorché, richiamandosi alla geografia dello spazio di Quine e a Wittgenstein, suggerisce che possiamo accettare che tutti i fatti possano essere interpretazioni, ma non possiamo accettare che tutti i fatti possano essere congiuntamente interpretazioni: qualcosa deve essere sottratto al dubbio perché si possa dubitare di qualcosa, qualsiasi oggetto può essere insaturo rispetto all’interpretazione, ma non tutti lo possono essere congiuntamente. Mi sembra che si introduca l’idea di un provvisorio necessario, per noi una transitabilità attraverso interpretazioni di prova, che, lungi dall’essere disvelamenti evangelici, siano ciottoli di sicurezza mentre si attraversa insieme il torrente del flusso psichico e vitale.

 

2.2  Aldo Giorgio Gargani    Dialogo con l’interpretazione

Con Gargani il discorso filosofico prosegue appoggiandosi in particolare all’autore da lui molto amato e studiato, Wittgenstein, laddove parla di interpretazione come attitudine o facoltà di stabilire delle connessioni tra oggetti e entità che in qualche modo fossero già simbolizzati; tuttavia, ci ricorda Gargani, c’è un senso più forte di interpretazione, il sense giving, che non è interpretare degli oggetti già costituiti ma è lo stesso atto processuale di costituzione della realtà. Viene sottolineata l’esistenza di una varietà di possibilità interpretative che rientrano nella visione della conoscenza come un repertorio di possibilità piuttosto che non come una rappresentazione speculare mimetica iconica delle cose in sé. Ne deriva la necessità di ottimizzare le nostre versioni del mondo su una base di convenzioni di punti di vista pragmaticamente più convincenti di altri e in questo senso anche la nozione di predicato di verità finisce di essere il nome di una cosa, un oggetto per caratterizzare un complesso di predicati: la consistenza, la pragmaticità, l’ampiezza dell’induzione che consente, e così via. L’idea della conoscenza si costituisce allora come repertorio di possibilità all’interno delle quali poi per motivate ragioni si fanno delle scelte. Questo significa la rottura del modello tradizionale dell’adequatio intellectus et rei cioè della conoscenza come corrispondenza e piuttosto prendere atto della grammaticalità come filtro tra noi e l’esperienza, tra noi e la realtà. Ciascuno cattura una dimensione rilevante dell’esperienza, ma questi mondi si avvicineranno più o meno al mondo com’è in sé, ma il mondo com’è in sé non è il mondo obbiettivo: è una certa versione del mondo. Cercare un riferimento assoluto sarebbe come voler fotografare una montagna senza punto di vista:  un’impresa impossibile. Gargani sottolinea inoltre come sia stato in fondo abbastanza tardivo nell’ambito filosofico il riconoscimento delle proprietà cognitive delle emozioni. Per la filosofia l’importanza dell’emotività è una scoperta piuttosto recente: Heidegger, in Sein und Zeit, dice che l’emotività è la condizione stessa secondo la quale l’uomo riconosce la propria posizione nel mondo e quindi ogni comprensione, ogni comprendere è realizzato emotivamente.  Quale conclusione possibile? Rinunciare – come insegna Quine – a concepire le parole come se fossero delle etichette  nel museo, etichette dietro gli oggetti conservati in bacheche e considerare i concetti come degli speech organizers, cioè come degli organizzatori di discorso, cercare delle regole ponte, cioè regole di traduzione per passare almeno parzialmente da un mondo all’altro sulla base di una concordanza delle nostre versioni, sapendo con Eliot, che non smetteremo mai di cercare e il fine di tutta la nostra ricerca è di arrivare là da dove eravamo partiti e di conoscere quel luogo per la prima volta.

 

2.3  Silvana Borutti   L’interpretazione tra dire e tacere

Particolarmente utile a raffinare lo strumento analitico e ad ampliare la prospettiva teorica sul tema, appare il lavoro di Silvana Borutti, che tratta del fatto che ogni volta che ci poniamo il problema di come comprendiamo o accediamo al senso, di interpretazione di significati, si impone a noi il nesso tra tacere e dire, tra rappresentabile e irrappresentabile: il comprendere non è separabile dall’essere. In scienze umane, non c’è senso che non sia coniugato con sottrazione e delimitazione, che non sia apertura orlata da silenzio; ma questo orlo invisibile è nello stesso tempo vitale e produttivo, dinamico e processuale: è la zona di silenzio e di invisibilità, di vuoto e di distanza, da cui emerge il senso.

L’autrice è particolarmente attenta ai limiti dell’interpretazione che hanno a che fare con l’essere dell’interpretato, con la risposta che dobbiamo dare all’interpretato, e con il rispetto che gli dobbiamo (cioè con lo spazio, la distanza, poiché re-spectus significa, appunto, sguardo all’indietro). La comprensione risulta un lavoro interpretativo che supplisce qualcosa che si sottrae, che non può cioè darsi esaustivamente nella forma di cosa. Nelle scienze esatte, dominano il linguaggio formale e la forma estensionale della legge, la forma è la legge: gli oggetti sono degli oggetti-classe, oggetti caratterizzati da tratti pertinenti e da criteri di appartenenza. Invece il modo con cui comprendiamo significati nelle scienze del senso non dipende dalla legge, e quindi dalla rappresentazione tematica degli oggetti come “cose”. Si tratta di una forma che deve presentare l’oggetto in modo indiretto (una forma intensionale, interpretativa) ‑ una forma che abbia interiorizzato l’assenza dell’oggetto come presenza tematica e referenziale. Ci ricorda Borutti come Kant e Wittgenstein adoperino il concetto di Darstellung, presentazione immaginativa, opponendolo a Vorstellung, rappresentazione concettuale: mentre Vorstellung è la rappresentazione conoscitiva intesa come rappresentazione mentale e concettuale, come categorizzazione dell’oggetto, Darstellung è presentazione indiretta di un essere che si sottrae come cosa, presentazione che ha interiorizzato il divieto a dire tematicamente, cioè direttamente ed esaustivamente, la cosa. Il valore della forma simbolica non è mimetico, non è in ciò che essa mantiene del contenuto sensibile, ma in ciò che sopprime, seleziona, lascia cadere dei dati, e rende quindi riconoscibile. In questo senso, il concetto di Darstellung ci consente di parlare dell’interpretazione come elaborazione immaginativa del lutto per l’assenza dell’oggetto in quanto cosa, rinuncia alla sua presenza effettiva, e elaborazione dell’assenza attraverso la mediazione immaginativa. I concetti wittgensteiniani di Darstellung, presentazione, o Bildhaftigkeit, figuratività, e quello freudiano di Darstellbarkeit, raffigurabilità, segnalano che nell’interpretazione c’è un legame necessario tra il figurabile e il non rappresentabile ontologico. Seguendo Wittgenstein a proposito dell’oggetto-linguaggio, l’autrice illustra come il linguaggio sia insieme condizione e limite, ciò che svela e ciò che copre. Il mito della traduzione completa in linguaggio è impossibile, ma nello stesso tempo è il linguaggio che configura per noi il rapporto tra visibile e invisibile, corpo e senso, carne e idealità, immanenza e trascendenza: il linguaggio è la nostra trascendenza limitata. La conoscenza non è mai restituzione linguistica della trasparenza dell’oggetto: è piuttosto un trattamento che elimina, aggiunge, seleziona, satura e sutura al fine di dare a vedere, ma che non arriverà mai a ricomporre in corrispondenza rappresentazione e realtà.

Se dobbiamo accettare di non sapere cosa sia l’oggetto in sé, non possiamo neppure ridurlo a testo decifrabile: i modelli del testo e del dialogo, se assolutizzati, rischiano di proporsi come la chiave della comprensione senza scarto, come se ci fosse data una via linguistica alla trasparenza dell’oggetto. Di contro, il senso dell’altro non è solo linguaggio e grafismo, ma è anche senso incarnato, e dunque affetto, opacità, passione, corpo vivente inconoscibile nell’informe della sua sofferenza, della sua pulsione, del suo desiderio, della sua felicità: c’è dell’intraducibile ontologico, c’è del limite nell’interpretazione. L’interpretazione è dominata da questa logica paradossale, perché indiretta e supplementare, del senso: nell’interpretazione, qualcosa si dà ritraendosi, rimanendo radicalmente altro. Allora gli oggetti psichici che l’analista è chiamato a riconoscere e a decifrare non gli appaiono come segni di un codice, ma piuttosto come eventi, istanze di discorso, tracce il cui senso è nell’occorrenza temporale e nel valore di posizione che la comparsa di un simbolo ha nella relazione analitica: in psicoanalisi, si lavora sull’eventualità e sulla temporalità del senso. Nelle costruzioni analitiche, l’interpretazione è riconoscimento ritmico di un evento del senso. Il distribuirsi del senso in unità discrete, ritmate da pause: la pausa, il silenzio, il vuoto hanno valore modellizzante. Come in ogni catena significante, non c’è senso senza il ritmo della non-parola: c’è un ritmo del fort-da, dell’assenza-presenza in ogni produzione di forma. Il tacere mostra per differenza il comparire del senso.

Mi sembra che la portata di questo discorso spazzi via in un sol colpo la miseria riduzionistica di una decisione interpretare/non interpretare come coppia ideologica oppositiva da assumere partiticamente e unilateralmente come fatto scelto (ma questo non sarebbe bioniano…), per evidenziarne il complesso e fecondo intergioco. Inoltre, sottolineare che il senso dell’altro non è solo linguaggio e grafismo, ma è anche senso incarnato, e dunque affetto, opacità, passione, corpo vivente inconoscibile nell’informe della sua sofferenza, della sua pulsione, del suo desiderio, della sua felicità, come scrive Borutti, pone pesanti ipoteche sull’uso dello strumento “terapeutico” in condizioni di absentia o effigie del soggetto fisico, come consentito dalle nuove tecnologie.

Tema questo che si sviluppa invece nel successivo contributo.

 

2.4  Paolo D’Alessandro Il World Wide Web: un’interpretazione (colpevole) del suo ethos.

L’autore tratta il tema del World Wide Web come proposta di globalizzazione che assume su di sé, in modo contraddittorio, i caratteri di necessità e di estrema libertà. Il Cyberspazio sembra sfuggire a ogni modellizzazione e pertanto a qualsiasi possibilità di controllo. S’impone così la ricerca di una sua regolamentazione, che ne argini lo sviluppo caotico, nell’intento di stabilire un’etica per l’uomo-cybor. Introducendo il discorso a partire dalla colpa che  sembra avere esistenza solo nella considerazione di un luogo teologico, un giudizio concordante con la norma, viene scelto di delineare una possibile etica del Web, proponendo considerazioni da un luogo teoretico. Il Web è visto come l’aspetto più clamoroso del fenomeno di globalizzazione in atto nella nostra epoca e un formidabile strumento di comunicazione totale, in quanto sconfinato ipertesto planetario. La Rete sembra sfuggire a qualsiasi modellizzazione, anche se, contraddittoriamente, essa può arrivare a funzionare soltanto a patto che siano rispettati proprio dei precisi protocolli e parametri matematici. Non è per caso, allora, che si parla spesso dell’anarchia che vige sovrana in essa. Sembra pertanto farsi davvero urgente la necessità di pensare a una regolamentazione del fenomeno; da qui tende naturalmente a imporsi il problema morale. Come dar regola, però, a una struttura così complessa e, per sua stessa natura, sfuggente? Quale regola può essere imposta, o per lo meno proposta? Con quali modalità e mezzi si può ipotizzare, poi, di imporre delle regole, una volta che siano state individuate? Sono questi gli interrogativi che si pone il filosofo, attento a non assumere posizioni né troppo fiduciose nel nuovo, né difensivamente ostili ad esso. Ricordando la distinzione tra etica da morale e raccordandosi al perturbante freudiano (unheimlich), si colloca l’essenza dell’uomo nel suo essere tra, nell’esistere nel luogo del frammezzo (das Zwischen), cosa peraltro molto freudiana, oltre che, come ricordato dal filosofo, ascrivibile alle riflessioni heideggeriane. E proprio riflettendo sulla lettura heideggeriana (“il soggiorno - quel che è solito - è per l’uomo l’ambito aperto alla presenza del dio - quel che è insolito -”) della frase eraclitea (ethos anthropo daimon), si chiede se non sia proprio il Web il nostro luogo di soggiorno abituale e insolito al tempo stesso e se non sia proprio questo a imporci la presa di distanza da qualsiasi determinazione statica, elaborata in modo definitivo e metafisico. L’etica della connessione non può in alcun modo stabilirsi in modo aprioristico, confidando in un punto di vista assoluto, ma va costituendosi nel movimento e nella situazione reale (Sitz in Leben), addirittura nell’evento e nella pratica di ogni singola connessione. Occorre imparare a soggiornare nello stato esistenziale particolare, da Heidegger definito della Gelassenheit, dell’abbandono. La  crescente potenza della tecnica evidenzia come siamo poco preparati a pensare, con pensiero meditante, piuttosto che con pensiero calcolante, il radicale mutamento in atto, che tutti coinvolge. Viene ricordato che il termine “abbandono” deriva dal francese medievale “a bon donner”, mettere a disposizione di chiunque, che intende riprodurre l’ambiguità di senso che viene individuata nel Gelassenheit, che sta a indicare allo stesso tempo il lasciare (lassen) le cose, abbandonarle, assieme (Ge) a se stessi, nell’abbandonarsi alle cose. Il rapporto con la Rete non può che darsi, dunque, sotto forma dialogica, con riferimento al dialogo autentico (Gadamer) che non trova mai sbocco e soluzione nel luogo in cui noi volevamo che approdasse. In esso si è presi e, addirittura, si può sostenere che è lo stesso dialogo che ci cattura e ci avviluppa. Il suo risultato non si stabilisce mediante la parola dell’uno, piuttosto che quella dell’altro di coloro che, nella comunicazione, vivono l’ethos della connessione in Rete, ma nel linguaggio che è ordito tra i dialoganti, creatori e fruitori interagenti del Web, nel frammezzo dei diversi interlocutori. È il linguaggio, la lingua comune del pensiero collettivo di Levy, che si determina pertanto nel luogo intermedio del comune soggiorno di tutti (il Ge-heimnis heideggeriano). Una parola mai predeterminata, che non preesiste neanche al nostro errare nell’esplorazione in Rete, così come non esiste senso alcuno della scrittura alfabetica, prima di un qualsiasi atto di lettura di quella stessa scrittura. Essere-in-Rete sta allora a significare che siamo messi in gioco, il nostro stesso essere si costituisce nel gioco. Il gioco dell’essere-in-Rete per un verso non è univocamente necessitato, per altro verso non è mai totalmente caotico, ma rispetta sempre le norme intrinseche della connessione e della relazione reticolare dei diversi elementi interagenti.

 

2.5  Luisa Accati   Il padre di sé, interprete della Legge, e il controllo della colpa.

Nel suo saggio, Luisa Accati sviluppa un tema che le è caro e si interroga sulle ragioni per le quali le civiltà orientali abbiano mostrato e mostrino una istanza di assimilazione al e del modus vivendi occidentale, suscitando indirettamente le fratture ideologico-politiche destinate a organizzarsi e a confluire nei fondamentalismi più intransigenti. Quale mito – si chiede – è sotteso a tale desiderio di omologazione? Risponde che il mito consiste nel fatto che il mondo occidentale è visto come ricco, allegro, senza colpa e con una straordinaria libertà, specialmente sessuale, un paese di cuccagna, dunque, capace di produrre ricchezza e conoscenza scientifica.  Ma la società della produzione di ricchezza e della scienza è una società sostanzialmente laica, liberale, illuminista e in gran parte nata in polemica con la religione, assumendo la scienza come libro, il nuovo libro, uguale per tutti, il nuovo universale, lasciando tuttavia spazio anche ad aspetti grandemente manipolatori. La religione e le sue leggi perdono ogni valore, non contano più. Si profila in questo modo un quadro in cui il cristianesimo diviene terreno di continue trasgressioni che rimangono senza conseguenze. Questa possibilità di trasgredire senza colpa e senza punizione rappresenta un’altra grande attrattiva della cultura occidentale, soprattutto per chi proviene da una religione severa che questo non permetterebbe. L’attrazione per l’occidente è dunque anche l’attrazione per il superamento della norma religiosa senza alcun prezzo. E nell’occidente parlare di religione permette spesso di non parlare di etica laica. Ciò vuol dire che non è possibile affrontare il discorso su quali dovrebbero essere le regole in sostituzione delle regole che non vengono più rispettate. Se il fondamento razionale della morale cristiana era la rivelazione oggi non si ragiona più in questi termini, ma in termini di razionalità empirico sperimentale. Per questo di frequente si crea uno scollamento tra pensiero razionale e sentimenti morali, confusamente cristiani, che fanno riferimento a un tipo di pensiero diverso, storicamente rilevante, ma irrimediabilmente altro rispetto al modo di pensare moderno. Lo scollamento tra razionalità e affetti è uno tra i principali temi della modernità ed è l’oggetto della psicoanalisi, ma è raro poter affrontare questa discrepanza sul piano della considerazione storico culturale e della riflessione sociale.

L’autrice sviluppa poi l’analisi di ciò che il cristianesimo racconta da duemila anni per immagini. L’immaginario cristiano comunica fin dalle origini che il figlio, il cui padre è stato privato della sua cultura, delle sue leggi, del suo Libro, soffre di una perenne agonia, perché non riesce più a identificarsi con il proprio padre e non può a sua volta diventare padre.

Questo figlio sofferente è il prototipo delle vittime e del gruppo di persone escluse. Cristo è la vittima ma anche il primo sacerdote, vale a dire colui che per primo si uniforma al celibato non riconciliandosi con la paternità terrena. La centralità del celibato, instaurata nel XI sec. e ridiscussa, per essere ribadita, nel XVI sec. dando luogo alla rottura tra cristianità cattolica e protestante, pone l’attenzione su un violento attacco condotto contro l’autorità paterna: non ci si riconcilia più con il padre e questo diventa un titolo di superiorità. L’assenza paterna fa perdere la capacità di controllare la legge, di gestirla e di interpretarla. Essa finisce per coincidere con chi la incarna non essendo più una norma astratta, ma una norma che si identifica in chi comanda.

Una volta perso il controllo dell’interpretazione, l’interprete della legge e la legge si confondono. L’interprete di Dio e Dio si confondono. Risulta quindi impossibile obbedire a una norma integrandola dentro di sé, perché in realtà si risponde a una persona che non può mai diventare noi stessi. Si ha così il paese di Cuccagna, un paese in cui la madre e il bambino fanno incetta di tutte le ricchezze non confrontandosi con il limite posto dal padre. Madre e figlio approfittano totalmente della ricchezza e questo paese di Bengodi, che soddisfa ogni aspettativa, che nutre senza richiesta, che lascia libera la sessualità, si pone nel sue esistere senza regole, senza colpa e senza responsabilità. Ma se l’immaginario cristiano offre numerosissimi esempi di Madonne col Bambino, ne offre altrettanti di Pietà, dove l’abbraccio mortale tra madre e figlio sancisce l’impossibilità distruttiva di separarsi. La mancanza di assunzione di colpa, la mancanza del padre e del contenimento paterno produce la fusione e la confusione tra madre e figlio: una comune rovina. L’autrice conclude che la differenza tra cristianesimo e ebraismo risiede proprio nella presenza di un padre. Ciò che suscita nel mondo cristiano un’accesa invidia nei confronti della cultura ebraica, dando luogo a un profondo  antisemitismo, è che gli ebrei, a differenza dei cristiani, dispongono di un padre. Il padre dell’ebraismo è mediatore e interprete della legge, contiene la colpa e ci può parlare della colpa perché egli conosce le regole per interpretarla, permettendone l’elaborazione. La frattura cristiana del 1563 portò a una polarizzazione di situazioni anziché favorire l’integrazione dei due aspetti. La condanna della concupiscenza caratterizzante l’unione tra padre e madre (condanna non presente nell’ebraismo dove il desiderio sessuale è visto come segno della benevolenza divina) portò i protestanti a chiudersi in un universo maschile-paterno che assorbì totalmente al suo interno la figura materna; mentre condusse i cattolici ad accentuare il valore della filiazione e dell’identificazione con l’ecclesiastico, identificazione che assorbì la figura materna nel figlio, giungendo così ad una paradossale forma di ri-equilibrio fondata sull’abolizione o lo svilimento da parte del padre o del figlio, dell’identità femminile soggettiva, che viene assunta in sé, distruggendo quell’alterità che invece resta presente nel rituale del matrimonio ebraico, all’origine del cristianesimo.

 

2.6  Silvia Vegetti Finzi  Sessualità, colpa  e parola, la psicoanalisi come sovversione del sapere.

La trattazione di Silvia Vegetti Finzi, unendo, come sempre, spessore teorico a maestria espositiva, riconduce la colpa ad un continuo riproporsi – mai concluso – di intersezioni fra il soggettivo e il sociale, fra il mondo interno e quello esterno, dove la dimensione linguistica si fa cardine essenziale non solo dell’espressione, ma della stessa costituzione degli elementi in gioco. E’ per tali ragioni che il suo saggio ben si presta a fare da ponte tra l’area filosofica-storica  e quella clinica. Dice l’autrice, infatti, che la  colpa non ha infatti altra evidenza che quella attribuitale dal linguaggio, da un atto di parola che istituisce contemporaneamente la norma, la trasgressione, la colpa e la pena. Oggetto specifico dell’investigazione psicoanalitica è la colpa inconscia che, non necessariamente connessa a una trasgressione reale, è comunque effetto di un giudizio morale, individuale o sociale. Il discorso si riannoda all’uccisione del padre primitivo come evento che l’antropologia freudiana pone all’origine dell’umanità: la colpa primigenia fonda la nostra storia e la nostra cultura ma, considerato dal punto di vista dell’interpretazione, quel  gesto perde la sua dimensione fattuale per rivelarsi piuttosto la conseguenza di un atto di parola. La constatazione condivisa dai figli del fatto che è preferibile vivere sotto il segno del divieto piuttosto che nell’anarchia delle pulsioni libidiche e aggressive poggia sugli esiti del pasto totemico e la stipulazione del patto sociale che ne consegue non è pertanto effetto del sangue versato ma del suo rifiuto, di un “mai più” che segna il discrimine simbolico tra natura e cultura.  Mangiando  il corpo del padre morto, i figli non solo condividono la colpa ma la interiorizzano e la perpetuano attraverso l’eredità filogenetica che, come il peccato originale,  rende ciascuno colpevole, indipendentemente dai suoi atti e dalle sue intenzioni. Nell’economia dell’inconscio il senso di colpa opera come un persecutore interno che formula accuse e rimproveri per un delitto che, come nei processi kafkiani, rimane  ignoto, sequestrato dalla rimozione. Se ne colgono piuttosto gli effetti nella ritualità coatta delle nevrosi ossessive o nelle autoaccuse  dei depressi. Ma finché  la colpa rimane senza nome, imputazione e pena si perpetuano fuori dal tempo. Si tratta allora di ritornare sul “luogo del delitto” reale o immaginario per sostituire alla rimozione la condanna morale trasformando così la malattia nevrotica in infelicità comune.

Viene quindi esplorato il campo analitico, ove, attraverso il percorso sinuoso delle libere associazioni, giungere a comprendere le ingiunzioni che hanno presieduto alla nostra storia e che, di conseguenza, orientano il nostro destino, rasentando l’atmosfera del sacro, ma senza dimenticare che sognare e interpretare hanno una dimensione  personale, unica, irripetibile, connessa alle vicende di ogni biografia, al materiale esperienziale del giorno, all’immediatezza dell’interazione transferale. La verità psicoanalitica ha uno statuto particolare rispetto alla verità religiosa perché esiste solo nel  riconoscimento soggettivo, nel momento in cui la struttura categoriale incontra il tempo vissuto, la concretezza dell’esperienza, l’intima  consonanza tra il dire e il sentire

L’interpretazione classica, che tende al vero, non può che evolvere verso un’interpretazione debole, che si accontenta del  verosimile: se il modello della prima è l’ermeneutica del testo sacro, quello della seconda è la storiografia, che, secondo Aristotele, racconta non ciò che è accaduto, che non sarebbe possibile, ma ciò che è probabilmente accaduto. Vegetti Finzi ricorda che in ogni caso, man mano che il campo psicoanalitico si amplia e aumenta la consapevolezza della complessità del compito terapeutico, si assiste a un depotenziamento dell’attività ermeneutica, come ci mostra Derrida attribuendo la verità non alla cura ma al sintomo, per la capacità di quest’ultimo di esprimere il compromesso tra il desiderio e l’interdizione che contraddistingue la condizione umana. Solo nel sintomo infatti la verità si mostra velata, come  prescrive l’Oracolo, mentre  ogni successiva interpretazione, disambiguandola,  la falsifica.

Il discorso si chiude con uno sguardo che può dirsi classico per Vegetti Finzi, quello che si rivolge all’isterica, al “linguaggio d’organo” che, attribuendo al corpo capacità di significazione, lo espone all’indagine ermeneutica e al lavoro dell’interpretazione. Anche l’isteria stessa si configura allora come un pittogramma da decifrare e interpretare per cogliere il significato nascosto delle sue plateali esibizioni, quella matrice incestuosa della sessualità umana, inscindibilmente connessa al divieto e alla colpa. Una rivelazione che muta l’immagine che l’uomo ha di se stesso, la sua presunta inviolata spiritualità, mostrando che il pensiero è corporeo e che il corpo è corpo pensante.

 

TERZA PARTE

L’interpretazione della colpa, la colpa dell’interpretazione: il punto di vista clinico.

 

3.1  Marco Francesconi     In“quadrare” l’interpretazione

Parafrasando, in apertura del saggio dello scrivente, l’affermazione di Blumenberg: “Tra i libri e la realtà è posta un’antica inimicizia”, si potrebbe dire che anche fra interpretazione e realtà sia sempre esistita – filosoficamente parlando – un’antica inimicizia, ma, se si fa riferimento al più ristretto ambito della teoria della tecnica psicoanalitica, potremmo forse arrivare a ipotizzare che una recente e ben più intensa inimicizia sia quasi giunta ad una vera e propria rottura. L’interpretazione non solo è giudicata cosa miope e polverosa, ma testimonianza evidente di un procedere analitico ineluttabilmente connesso alla freudiana impenetrabilità, fredda e asettica o alla kleiniana iperpenetrazione, sorta di sadico stupro conoscitivo, entrambe pratiche condannabili. Solo un analista “dal volto umano”, attento alla “relazione”, “intersoggettivo” può possedere quello che i greci chiamavano Aidòs, il rispetto, il riguardo, per sé e per l’altro e non farsi “colpevole”. Sarebbe quel “qualcosa in più” della sola interpretazione che ci propongono, fra i tanti, Daniel Stern e collaboratori. Occorrerebbe invece parlare di un “qualcosa in meno”, poiché sembra che il compito analitico principale sia tuttora rivolto alla comprensione di ciò che accade al/nel/con il paziente, mentre quello che si restringe fin quasi all’atrofia, è la verbalizzazione al paziente stesso di ciò che si è compreso. Un non dire che si contrappone al dire tutto della regola fondamentale data al paziente, ma in una luce diversa da quel tacere, atto a raccogliere pazientemente elementi da restituire poi, opportunamente trasformati, all’analizzando, la cui necessità Silvana Borutti magistralmente illustra nel suo saggio. Si illustra quindi la possibilità di inquadrare il concetto di interpretazione, non nel senso di chiudervi il discorso, ma nella consapevolezza che siamo continuamente sollecitati a ritagliare uno spazio finito, piccolo, una cornice. E’ voluta l’evocazione del termine encuadre (Bleger), relativamente traducibile con “setting”, cornice non processuale della seduta analitica, dove vive depositato un mondo fantasma la cui rottura brusca può aprire “una fessura attraverso la quale filtra la realtà, che è catastrofica per il paziente” (Bleger). Eppure, per superare le difese narcisistiche, occorre procedere ad una graduale “messa in crisi” di questa cornice rigida: l’interpretazione può dunque porsi come un microdosaggio di qualcosa “che può venire a mancare”, un confronto con una diversa prospettiva, una differenza/differanza, sempre relativamente frustranti l’onnipotenza fusionale, ma cardini dello sviluppo psichico. Si può attuare quella condizione di contenitore ludico, resa possibile proprio dal setting, di cui parla Hautmann, dove, attraverso l’interpretazione, “il senso della realtà viene continuamente recuperato sul limitare di un universo fantasmatico che pertanto non trapassa nel delirio.” Si potrebbe estendere il discorso ai giochi linguistici di Wittgenstein e alle loro regole. Giochi linguistici riconosciuti nel loro inevitabile aspetto “operoso”, del “fare” performativamente “qualcosa”, ma anche consapevoli dei limiti delle descrizioni perspicue.

Nell’impossibilità di passare in rassegna gli infiniti modelli di attività analitica, viene ricordato come dalla figura di un analista capitano della nave si sia giunti, forse con eccesso opposto, a un analista skipper, pronto a offrire la sua competenza accondiscendente al paziente che sa dove vuole andare (o così pensa). Infine, facendo riferimento a Bion in particolare, quando afferma che interpretare ha “a che fare non tanto con la scoperta quanto con la riparazione”, si propone di distinguere – e di diversamente giudicare – l’interpretazione depressiva, capace di occuparsi del benessere dell’altro, da quella persecutoria, riservando solo a quest’ultima, in quanto emanazione del narcisismo dell’analista, le note critiche circa i rischi di invasività e di insensibilità ai bisogni relazionali del paziente.

 

3.2  Fausto Petrella    Le vicissitudini della colpa e la necessità d’interpretarla

La lunga pratica clinica – psicoanalitica e psichiatrica – di Fausto Petrella diviene la fonte della sua profonda convinzione che non è possibile oggi orientarsi nella selva morale della colpa ignorando i fondamentali contributi della psicoanalisi, a partire da Lutto e melanconia, quest’opera freudiana decisiva per il pensiero etico contemporaneo. Con Freud la patologia psichica è divenuta il triste luogo d’elezione per mostrare, in forma ingigantita e caricaturale, la gamma di sfaccettature che il senso di colpa possiede, nelle sue manifestazioni, e persino nelle sue non-manifestazioni. Infatti, – ricorda Petrella – l’apparente assenza di senso di colpa, che ritroviamo individualmente e tipicamente nella festa maniacale o nelle micromanie croniche di certe personalità, mostra come interi atteggiamenti mentali e comportamentali vengano mobilitati per evitare l’autoafflizione della colpa e il suo originario radicarsi nelle paure fondamentali dell’uomo. È Freud ad inaugurare lo studio scientifico della colpa e ad attivare una serie di interrogativi: quale l’origine psicologica della colpa, quale senso hanno i miti che ne giustificano la presenza, perché essa è inflazionata in certi casi, mentre in altri sembra apparentemente assente. La colpa costituisce un problema perché contrasta col principio di piacere; perché mostra che anche il soffrire è desiderabile, benché non dia piacere, e perché, a suo modo, il sentimento di colpa può coniugarsi col piacere stesso nel masochismo morale.

La dimensione del giudizio etico diviene centrale nel pensare psicoanalitico: ciò che si produce nella cura analitica è un cambiamento di posizione nei riguardi dello scenario morale. Esso diventa appunto uno scenario, che va evidenziato, costruito, osservato e indagato come tale; ciò è reso possibile dalla scomposizione della personalità che l’analisi rivela, dal dolore psichico e dalla presenza del terapeuta, che si fa garante del mutamento di posizione richiesto e della elaborazione della colpa che è resa possibile da tale mutamento. Interessante e preciso il richiamo al possibile vantaggio secondario della colpa: come se la colpa servisse, almeno in certi casi, a zavorrare un Sé che teme il cambiamento, la levità e il vuoto di una libertà vertiginosa. Troviamo qui un motivo della resistenza opposta dal “colpevole” e la possibilità che si sviluppi una reazione terapeutica negativa. Essa può essere generata proprio dallo sforzo di smantellare una colpa, alla quale il paziente si sente indissolubilmente legato, perché la colpa si confonde con la propria essenza personale, in quanto ha colmato i vuoti di un’identità precaria, ed è stata perciò narcisisticamente investita. L’interprete dovrà allora essere non un contenitore illimitato, ma anche e soprattutto funzionare come un selettore, capace di scegliere e analizzare i dati; capace di un lavoro di attribuzione e creazione di forme, attraverso le quali cercare di “comprendere”.

Abdicare all’interpretazione significa infine rinuncia a comprendere. Occorre, invece, riconoscere all’interpretare l’importanza determinante dell’interazione tra testo e lettore, tra paziente e terapeuta.

 

3.3  Simona Argentieri   La forza dell’interpretazione

L’importanza dell’interpretare, precisata da Petrella come poco sopra ricordato, viene sottolineata con ulteriore vigore nel saggio di Simona Argentieri, che teme una odierna latitanza generale rispetto alla funzione interpretativa: la clinica tende ad eludere la fatica e la tensione emotiva che richiede l’impegnarsi in una interpretazione, soprattutto nell’interpretazione di transfert, cifra specifica della cura psicoanalitica, che la contraddistingue e distingue (o almeno dovrebbe) dalle altre forme di psicoterapia. Per mancanza o per scelta, spesso l’interpretazione è omessa, anche l’allievo in supervisione si autogiustifica dicendo che era sembrato prematuro, pericoloso interpretare o che il paziente non avrebbe tollerato l’interpretazione. Talora invece l’omissione viene teorizzata riferendosi più o meno legittimamente a scuole “del sé”, della “relazione”,  o come reazione al bombardamento interpretativo dei primi seguaci kleiniani, oppure malintendendo la lezione di grandi maestri, come Winnicott, con la sua attenzione precipua all’holding, e perfino di Rosenfeld, che raccomandava di non fare interpretazioni in fase paranoide, per non aumentare nel paziente la scissione ed i sentimenti di persecuzione. Per l’autrice si tratta di un grave equivoco il fatto di considerare come contrapposti contenimento e interpretazione; oppure confondere l’interpretare la colpa con il colpevolizzare il paziente tramite l’interpretazione. Forse è latente una certa difficoltà di accesso alla interpretazione di transfert, che, infatti, va inevitabilmente a toccare il problema dell’aggressività e della colpa ad essa connessa, o meglio, dei complicati meccanismi difensivi che si mettono in opera per sfuggire all’angoscia ed al dolore psichico che il riconoscimento della propria distruttività ed il farsi carico del sentimento di colpa inesorabilmente comportano.

Viene inoltre compiuta una sintetica rassegna di come i modelli teorici possano influire sulle scelte operative una volta scesi nel campo di azione clinica, ma viene anche affermata l’importanza di evidenziare quanto la scelta clinica dell’interpretazione della colpa - o della non interpretazione - possa essere illuminante per svelare le teorie implicite, preconsce dell’analista, nel senso indicato da J. Sandler. Qui il rimando non è solo alla seduta analitica, ma si estende al di là dei suoi confini, per riflettere la collusione con un generale atteggiamento culturale di carenza serpeggiante della funzione adulta, di una diffusa fragilità della cosiddetta funzione paterna, nella prevalenza delle organizzazioni narcisistiche nella nostra epoca. Trovando un punto di affinità con il discorso di Luisa Accati, viene rilevata una sorta di ‘indulgenza plenaria’ delle autorità, coniugata con la mancanza di protezione da parte della società e delle sue istituzioni.

Piuttosto che chiedersi se interpretare, occorrerebbe chiedersi come interpretare: il problema più delicato diviene quello tecnico di come formulare l’interpretazione della colpa - in tutte la sue accezioni, transferali ed extra transferali -  in particolare quando abbiamo a che fare con livelli precoci, cosiddetti pre-edipici, della mente.

Pur sottolineando il valore delucidante dell’analisi del controtransfert, l’autrice ci invita a un suo uso accorto e moderato per non cadere nell’arbitrio e distingue le difese dal sentimento della colpa, quelle ‘classiche’ - come la rimozione, la scissione e la proiezione, l’isolamento, il diniego…che si articolano nell’ambito della struttura - e quelle ‘nuove’, come la malafede, la non integrazione, che eludono a priori il conflitto, regredendo ai livelli primitivi indifferenziati dell’ambiguità, da più subdole modalità difensive, che organizzano la colpa come difesa, a salvaguardia paradossale dell’onnipotenza. E’ quanto accade, ad esempio, in certi lutti patologici, nei quali l’autoflagellazione serve a mantenere l’illusione che se solo avessimo voluto avremmo potuto salvare qualcuno dalla morte, eludendo così il penoso riconoscimento dei propri sentimenti aggressivi e colpevoli. Oppure, è ciò che si verifica in tanti casi di ritardo cronico, che mascherano la ribellione fallimentare del paziente contro le leggi dello spazio-tempo, nelle quali il senso di colpa è una difesa dai sentimenti profondi di annichilimento e di impotenza.

La conclusione dell’autrice è chiara: sia l’interpretare che il non interpretare possono andare al servizio delle resistenze, tanto del paziente, quanto dell’analista, ma l’attraversamento della colpa non è eludibile, anche se interpretare la colpa nel transfert è faticoso, difficile, talora rischioso. Non è tuttavia meno grave il rischio opposto, di spacciare per generosità o benevolenza verso il paziente la nostra pigrizia, macchiandoci per viltà della colpa di non interpretare.

 

3.4  Laura Ambrosiano   Gruppo: identificazione inconscia e ricerca del significato

Coerentemente al percorso teorico su cui, con Eugenio Gaburri, si è recentemente soffermata con i suoi lavori su conformismo e rêverie, l’autrice studia qui la colpa come potente fattore endogamico al servizio del bisogno di appartenenza, senza catastrofi separanti. La colpa viene intesa come un tentativo di irreggimentare la reazione aggressiva e violenta verso gli oggetti e verso le identificazioni precoci con questi. Essa occlude l’elaborazione dell’aggressività emancipativa, rinsalda il legame identificatorio, endogamico, prende in carico l’aggressività congelandola contro i percorsi di individuazione, a favore del conformarsi alla mentalità consolidata del gruppo di appartenenza. Ne deriva che, all’opposto, l’aggressività mette a disposizione del soggetto l’energia emotiva per distaccarsi, proprio per dis-attaccarsi dalla nebulosa identificatoria. Questo è un processo penoso, implica paura e lutto, confronta con i limiti, la solitudine, la responsabilità.

Il male viene dunque inteso come proterva determinazione ad eludere le dimensioni del non pensabile e del non rappresentabile, che si mantengono peraltro presenti in tutta la nostra esistenza sotto forma di necessità di far fronte all’angoscia e alla paura dinanzi ad un senso che è sempre aldilà delle nostre interpretazioni. In questa luce l’identificazione – qui mi chiederei: o una delle forme possibili di identificazione? –  diviene un meccanismo che mantiene una connessione a massa, endogamica, con l’universo degli altri, portando il gruppo a parassitare il singolo.

Il valore della dimensione edipica risiede allora non tanto nel promuovere nuove identificazioni, ma nel promuove disidentificazioni: l’aspirazione a “circoscrivere l’ombra degli oggetti nell’Io”.

Anche questa autrice richiama poi la metafora del pasto totemico, scena che Freud ci ha consegnato come narrazione del passaggio generazionale nella sigla della introiezione, della identificazione e della disidentificazione. Tale passaggio non può essere compiuto se non in presenza di un gruppo (caregivers e famiglia allargata) che lo tiene in campo e lo supporta.  Parallelamente esso ha bisogno di un coraggio che consente al singolo di non concedere al gruppo nulla di superfluo, come dice Freud nel ‘21. Ci difende dal torpore consensuale verso la tradizione  il lavoro psichico, che si sostanzia di un pensiero liberamente associativo e della rêverie. Queste funzioni mantengono un contatto con l’universo condiviso ma, in parte, lo travalicano, trasgredendo.

Questo vale anche per l’analisi, dove è proprio l’emancipazione dalle identificazioni con gli assunti del gruppo a consentire anche all’analista di fare spazio alla specificità propria e a quella del paziente, riproponendo anche in tale sede la inevitabile conflittualità fra l’atteggiamento mistico (in senso bioniano) dinanzi all’ignoto, tollerante solitudine e paura e, invece, il bisogno di tenersi attaccati senza scarti al gruppo, che è la nostra colpa e insieme la proclamazione della nostra inconsolabile incompletezza.

 

3.5  Lavinia Barone   Funzionalità e disfunzionalità nello sviluppo del senso di colpa.

La prospettiva di Lavinia Barone è coerente con la sua competenza e formazione, unisce infatti una solida conoscenza della psicologia dello sviluppo ad un attento rispetto dei modelli dinamici, letti soprattutto alla luce delle teorie dell’attaccamento. Lo studio che l’autrice compie è sistematico ed esaustivo, dando alla colpa una sua collocazione fenomenologica, clinica e, per quanto possibile, scientifica. Viene descritto e precisato il valore dato oggi all’assetto emotivo dal soggetto anche da parte dell’impostazione tradizionalmente più attenta al versante cognitivo, cosicché la distinzione tra razionale ed emotivo - che ha comportato, per le discipline psicologiche, una negativa settorializzazione dei rispettivi campi d’indagine - erede della tradizione razionalistico-cartesiana, attenua i suoi criteri di legittimità per lasciare spazio ad una tematizzazione dell’esperienza mentale emotiva in cui l’elemento della complessità si esprime nella presenza di diverse forme di integrazione tra emozione e conoscenza.

L’affermazione dei modelli socio-cognitivi delle emozioni ha arricchito la comprensione dello sviluppo emotivo e ha dato importanza all’analisi delle cosiddette “teorie mentali” sulle emozioni, ossia il modo in cui gli individui, a seconda del loro livello di sviluppo e delle competenze possedute, fanno riferimento ad un sistema rappresentazionale di conoscenze, credenze e strategie di coping, che collega ciascuna emozione a specifiche strategie di adattamento.

La colpa appartiene al gruppo delle emozioni definite complesse o sociali, in quanto richiede la capacità di riflettere sul proprio operato e di valutarlo in relazione alle norme sociali e all’insieme dei rapporti interpersonali in cui il soggetto è inserito. Viene anche definita emozione autoconsapevole o autoriflessiva e compare, dal punto di vista dello sviluppo individuale, più tardivamente rispetto alle emozioni denominate primarie. Tali emozioni complesse sanciscono l’ingresso del bambino nel complesso mondo delle relazioni interpersonali. L’emozione della colpa si sovrappone con alcune altre esperienze emotive affini come vergogna e imbarazzo. Ciascuna di queste emozioni condivide infatti la caratteristica di esporre il soggetto direttamente o indirettamente al giudizio degli altri e, al tempo stesso, presenta importanti elementi di differenziazione che ne giustificano il ruolo diverso giocato all’interno della regolazione delle relazioni interpersonali. Gli studi concordano sull’affermazione che esse non siano discriminabili sulla base delle situazioni “tipiche” capaci di indurre rispettivamente l’una o l’altra: molte azioni possono in certi individui far sorgere la colpa e in altri la vergogna. Si fa riferimento a H.B. Lewis, il quale sottolinea come nella colpa l’attenzione sia incentrata sui comportamenti o sulle azioni compiute, mentre nella vergogna venga direttamente coinvolto il sé che, in quanto tale, diventa l’oggetto della valutazione negativa alla base dell’esperienza emozionale, e a studi successivi dove la colpa viene concepita come un’emozione meno dolorosa, poiché riguarda un’azione o una parte del sé, non coinvolgendo così l’intera identità individuale. La vergogna, invece, si caratterizza per essere un’emozione di acuta sofferenza, tipicamente associata al bisogno di ritirarsi o al sentirsi piccolo, a un senso di mancanza di valore, di indegnità, di impotenza e di inefficacia. Può risultare interessante rilevare che il vissuto di inferiorità che ne deriva esercita un’influenza pervasiva sul sé, comportando ritiro ed evitamento del contatto e dell’esposizione sociale con riduzione delle abilità di mentalizzazione.

La colpa invece, legata alla sfera dello scambio sociale e maggiormente centrata sul livello delle scelte comportamentali o d’azione adottate, risulta, secondo questa visuale, funzionale al mantenimento dell’autostima grazie alla possibilità di intraprendere azioni riparatorie rispetto ai danni arrecati. La persona che prova senso di colpa non reagisce quindi chiudendosi in sé ed evitando il confronto sociale, ma adotta strategie utili a recuperare l’autostima e il rapporto con gli altri che sono stati danneggiati. In questo caso l’attivazione emozionale, con l’aumento della tensione che ne consegue, non comporta una perdita di regolazione e controllo emotivo, bensì offre l’occasione per utilizzare la propria emotività in modo socialmente adeguato.

Si rileva dunque come questo approccio, in cui non manca la sottolineatura critica verso troppo schematiche distinzioni, si rivolga al problema prevalentemente dal punto di vista del visibile, che non necessariamente concorda con altre prospettive in questo volume illustrate, ma le completa. Mi sembra che l’apporto maggiore consista proprio nell’utile apertura di riflessione sulle ragioni per cui lo sviluppo del senso di colpa può intraprendere percorsi funzionali piuttosto che disfunzionali e, soprattutto, su quali siano le implicazioni relative alla possibilità di interpretare tale emozioni nel caso in cui la sua valenza potenzialmente adattativa venga ridotta o persa.

L’autrice chiude infine il suo esteso saggio richiamando una ricerca personale effettuata su soggetti adolescenti, età nella quale le tematiche della colpa e della vergogna appaiono particolarmente in evidenza: duecentoquaranta adolescenti appartenenti a due diversi ambienti socio-culturali, di cui uno normativo ed uno in condizione di rischio, rappresentato da ospiti di strutture residenziali su disposizione del Tribunale dei Minori per problematiche di inadeguatezza genitoriale.

Solo il gruppo di controllo mostra una adeguata comprensione del fatto che il disagio o la sofferenza altrui possano dipendere dal nostro comportamento, accedendo così a strategie riparatorie di regolazione emozionale e comportamentali. In ogni caso per tutti i ragazzi colpa e vergogna si contraddistinguono per essere le esperienze soggettive più difficili da ricordare, in quanto la percentuale di ragazzi che omette la propria risposta risulta più alta rispetto alle domande relative ad altri stati emotivi di base. Parlare e raccontare di quando ci si è sentiti in colpa oppure di quando si è provata vergogna non si è rivelato un compito facile per gli adolescenti. Inoltre si rileva diffusamente la propensione a declinare il proprio vissuto emotivo sulle problematiche relative al proprio valore, piuttosto che sul confronto con la norma (in accordo con quanto rilevato da Pietropolli Charmet), segnale di una forma di potenziale vulnerabilità individuale. Questo accade in relazione ad un vissuto di fallimento nei confronti della propria capacità di realizzare progetti od obiettivi individuali che, come emerge dalle risposte dei ragazzi, accomuna in maniera indifferenziata vissuti di colpa e vergogna, non coinvolge solo quella specifica situazione non riuscita, ma diventa un vissuto pervasivo di inadeguatezza di sé in rapporto all’esperienza di sentirsi esposto al giudizio dell’altro. Ciò segnala un’estesa presenza di un’area critica nelle potenzialità adattative dell’emozione di colpa, in cui lo scivolamento della valutazione dal piano dei comportamenti al piano del giudizio sul sé crea le condizioni per un uso disfunzionale di questa emozione all’interno delle relazioni interpersonali.

 

3.6  Vanna Berlincioni       Interpretazione e colpa in una dimensione transculturale

Questo saggio va ad esplorare un’altra area di possibile approccio al problema, quella che attiene alle multiculturalità. Fra i tanti compiti dell’interpretazione, infatti, può esservi anche quello di porsi di fronte alla difficoltà di comprensione della diversità (dell’Altro, di un altro che è diverso per lingua, cultura, organizzazione dell’espressione attraverso il linguaggio). In questi casi capire in base ai propri riferimenti culturali significa avviarsi ad un fraintendimento sistematico oppure rinunciare a comprendere ed attivare sistemi di azione autoritaria che rispondono ad esigenze proprie e non danno alcuno spazio all’altro, ai suoi parametri di comprensione ed espressione. La comunicazione perde in questo caso ogni reciprocità. L’interpretazione deve perciò essere preceduta da un atto di assimilazione delle esigenze, bisogni, forme idiosincrasiche di espressione, forme culturali di appartenenza dell’altro e modalità specifiche di gestione di questi aspetti che regolano l’essere specifico di uno specifico soggetto. Ciò significa conoscere la “forma di vita” che ne condiziona i giochi linguistici.

La colpa assume in altri contesti culturali forme di elaborazione molto diverse da quelle consentite nella nostra cultura. L’autrice esamina cosa significa colpa, come questa è gestita, quali sono gli aspetti sconvolgenti che la colpa determina nell’assetto mentale e quali i rimedi che di volta in volta sono impiegati, quale funzione viene attribuita a medici-psicologi, come tecnici sul tema di ciò che noi chiamiamo colpa. Se un disagio psichico è ritenuto prodotto da azioni persecutorie legate a “maleficio”, a “fattura” e a “malocchio”, avendo come ipotesi esplicativa l’azione malevola di un terzo, viene ad attivarsi una prassi esorcistica: non la collocazione della colpa nell’uomo interiore, in un’intenzionalità umana magari inconscia, ma in un’azione esterna, che si esprime con la produzione di oggetti magici, che vanno neutralizzati o eliminati. La malattia si carica di significati specifici che dovranno essere decodificati volta per volta. Essa ha dunque un significato sociale e non individuale, con implicazioni morali, culturali e religiose. Ed è il gruppo sociale intero che si attiva di fronte al male.

E’ l’orizzonte della etnopsicoanalisi e dell’etnopsichiatria a realizzare i nostri quadri di comprensione e a interrogarci su quelli delle culture altre operanti di fatto nei nostri contesti culturali e non solo da parte degli immigrati extracomunitari. Ma occorre uno sguardo da fuori per poter percepire il mezzo in cui siamo immersi, e prenderne le distanze per evitare l’imprigionamento di cui si diceva. È ciò che Devereux descriveva come posizione culturalmente neutra. Con ciò si vuole sottolineare la necessità ed utilità delle differenze anche interpretative, senza disporle necessariamente in una linea gerarchica ascendente, ossia in un sistema di valore.

 

 

 



[1] Bion (1970, 47). Per un commento più dettagliato di questa citazione in versione estesa e per quanto riguarda il tema dell’interpretazione, rimando al mio saggio “Inquadrare l’interpretazione”, in questo volume.

[2] riprendo da Grinberg, 1991, 87 e da Bion, 1974, 71

[3] Rimando a Francesconi, In-‘quadrare’ l’interpretazione, in questo volume, anche per i riferimenti testuali.

[4] Nel saggio proponevo di smascherare il falso mitologico rappresentato dalla soppressione di quella parte della narrazione che ci mostrava Polinice sì aggressore della propria città, ma dopo che il fratello Eteocle (passato alla storia mitica come il buono) aveva opposto un rifiuto intransigente ad attuare l’alternanza annuale al governo della città che i due gemelli avevano in precedenza concordato.

[5] Metafora freudiana utilizzata nella XXI lez.del nuovo ciclo di Introduzione alla Psicoanalisi (1932, 190)  indicante il settore marino costiero prosciugato e bonificato in Olanda.

 

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

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