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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts 

   Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica), viale Gallipoli, 29 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Livia Marigonda (Venezia), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce
 Numero 9, anno V, gennaio 2008

"Psicoanalisi e Neuroscienze"

Numero speciale in memoria di Mauro Mancia

 

Editoriale

 
Foto: R. Pousette-Dart,"Opaque Harmony" (1941-1943)

 

"Dopo il pluralismo: verso un nuovo, integrato paradigma psicoanalitico"               

di Juan Pablo Jiménez

"Memoria, inconscio e funzioni terapeutiche: la psicoanalisi in dialogo con le neuroscienze"  di Mauro Mancia Juan Pablo Jiménez è psicoanalista dell'I.P.A. e lavora presso il "Departamento de Psiquiatria y Salud Mental" dell'Università del Cile a Santiago. Si ringrazia, oltre che l'autore, l'editor dell'International Journal of Psychoanalysis (Dana Birksted-Breen) per aver concesso l'autorizzazione alla traduzione di questo articolo apparso su quella rivista nel 2006 (Int.J.Psychoanal. 2006; 87: 1-20). La traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.

 "Per un dialogo tra la psicoanalisi e le neuroscienze" di Franco Scalzone

Abstract
"Identificazione proiettiva e alterazione della coscienza (Un ponte  tra psicoanalisi e neuroscienze ?) di Cristiana Cimino e Antonello Correale
 

 

After a restatement of the isolationism of psychoanalysis from allied disciplines, and an examination of some of the reasons for the diversity of schools of thought and the fragmentation of psychoanalytic knowledge, the author suggests the need to adopt principles of correspondence or external coherence along with those of hermeneutic coherence to validate psychoanalytic hypotheses. Recent developments in neurocognitive science have come to the aid of psychoanalysis in this period of crisis, resulting in the proposition of integrating both areas to form a new paradigm for the construction of the theory of the mind. This emerging paradigm tries to integrate clinical knowledge with neurocognitive science, fi ndings from studies on the process and outcome of psychotherapy, research into the early mother–infant relationship, and developmental psychopathology. The author examines theoretical– technical models based on the concept of drives and of relationships in the light of interdisciplinary findings. He concludes that the relational model has a broad empirical base, except when the concept of drives is discredited. Interdisciplinary findings have led to the positing of the replacement of the Freudian model of drives with a model of motivational systems centred on affective processes. He draws certain conclusions which have a bearing on the technique of psychoanalytic treatment. These arise from the adoption of the new integrated paradigm.  

 

Keywords: pluralism, neurosciences, empirical research, crisis of psychoanalysis, epistemology, relational psychoanalysis, theory of drives

   

Oltre la crisi della psicoanalisi

 
 
 
E' toccato a noi di praticare la nostra professione in tempi turbolenti, ma al contempo stimolanti, poiché lo stato complessivo dell'odierna psicoanalisi è ambiguo. Da un lato, nel corso degli anni '90, eravamo osservatori e partecipanti del dibattito sulla cosiddetta 'crisi della psicoanalisi'. Molti hanno contribuito a descrivere la situazione di un campo isolato, sprovvisto di connessioni con gli altri approcci psicoterapeutici e di legami metodologici con la biologia, con la psicologia e con la psichiatria, e, soprattutto, mancante di una sufficiente ricerca empirica tale da supportare l'efficacia dei trattamenti basati sulla psicoanalisi. Questo, visto da una società sempre più guidata dalla fiducia nei criteri della salute mentale basati sull'evidenza, genera dubbi circa il futuro della professione psicoanalitica. In più, la controversia che circonda il processo di accumulazione della conoscenza clinica, il terzo pilastro della definizione freudiana della psicoanalisi, è diventata evidente. Dopo decenni in cui la costruzione della teoria psicoanalitica è apparsa dominata dall'assunto che esisteva solo un'unica verità psicoanalitica, noi celebriamo con entusiasmo la conferma che l'approccio monistico è un'illusione, e che la diversità teorica e tecnica è la regola al giorno d'oggi (Wallerstein, 1988, 1990). Questa posizione epistemologica monistica è stata sostenuta da un clima autoritario nelle nostre istituzioni, ed ogni scuola psicoanalitica credeva di essere il detentore della 'vera' eredità freudiana.

Certamente Freud ha sempre considerato la possibilità di una scienza psicoanalitica unificata ed integrata. Per arrivare a tal punto, la conoscenza clinica doveva essere 'accumulata' fino a che costituisse una disciplina scientifica (Freud, 1923). Comunque, ci sono molte indicazioni sul fatto che Freud pensasse che la psicoanalisi solo provvisoriamente si sarebbe sviluppata indipendentemente dalla biologia. Il fatto è che Freud, nel corso del suo lavoro, ha coerentemente affermato che, un giorno, la psicoanalisi sarebbe stata integrata con le neuroscienze. Nondimeno, al contempo, egli non finì mai di insistere sul fatto che ciò non sarebbe stato possibile finché le neuroscienze non avessero sviluppato una metodologia che fosse capace di abbracciare il carattere complesso, dinamico dei processi mentali (Solms, 2003).

Comunque, anche se sosteniamo che la psicoanalisi possa essere una disciplina autonoma, dobbiamo riconoscere che la conoscenza psicoanalitica, piuttosto che un'accumulazione in  modo sistematico, sembra aver accumulato in  un modo 'accalcato', con poca 'disciplina' fino a tal punto che Fonagy ed altri (1999) parlano di frammentazione della conoscenza psicoanalitica e Thomä (2000) dell'apparenza caotica della moderna psicoanalisi. La verità è che, piuttosto che un pluralismo, ciò che esiste è una mera pluralità o, ancora peggio, una frammentazione teorica; quello che manca è una metodologia che possa essere applicata sistematicamente per confrontare le varie teorie ed i vari approcci tecnici. Wilson ci ha avvertito del fatto che il pluralismo di oggi, che ha dovuto rimediare al monismo autoritario di ieri, 'può facilmente evolvere in un incubo di domani, senza che alcun principio guida disegni una rotta che sembra evolversi in un senso sempre più integrativo' (2000, pag. 412). Bernardi (2005) sembrerebbe condividere gli stessi temi quando pone la questione su cosa farà seguito al pluralismo, e su quali condizioni saranno necessarie per convertire la situazione di diversità in campo psicoanalitico in un fattore che porterà ad un progresso. Dato che, per quanto allegramente noi accogliamo la diversità in psicoanalisi, questa stessa diversità ha anche certi aspetti negativi. Non è un'esagerazione dire che, ogni volta che professionisti con diverse culture psicoanalitiche cercano di comunicare tra di loro, si riproduce la 'babelizzazione' della psicoanalisi. Gli studi di Bernardi (2002, 2003) sul modo in cui gli psicoanalisti discutono differenti punti controversi ci lasciano un sentimento di pessimismo riguardo alla nostra capacità di trovare una via di uscita da questa situazione. Secondo me è impossibile superare questa 'impasse' senza modificare il paradigma che guida la costruzione della teoria in psicoanalisi. Questo perché la tendenza verso la frammentazione della conoscenza appare essere inerente allo sviluppo di una psicoanalisi che si basa unicamente su principi ermeneutici (Fonagy, 1999; Jiménez, 2005; Strenger, 1991; Thomä & Kächele, 1987).

  Foto: Peter Fonagy

Secondo Fonagy (1999) i problemi correlati con il ragionamento induttivo spiegano la sovrabbondanza di teorie e la frammentazione della conoscenza psicoanalitica, e questi saranno i fattori responsabili in ultima analisi dell'isolamento della psicoanalisi.

La strategia fondamentale nella costruzione di una teoria in psicoanalisi rientra nella cornice del cosiddetto 'induzionismo enumerativo'. Quando cura un paziente, l'analista ha accesso ad un insieme di osservazioni che sorgono dalla valutazione e dall'evoluzione del processo terapeutico. Dopo aver ottenuto questo insieme di osservazioni, alcune di queste vengono scelte come 'fatti selezionati' e, sulla base di questi, vengono tracciate delle conclusioni riguardanti il paziente. In questo modo l'analista sarà predisposto a concentrarsi su quegli aspetti della relazione col paziente che hanno senso nei termini dei costrutti privilegiati da parte dell'analista. Naturalmente, questi costrutti provengono anche dalle 'teorie cliniche' di altri analisti, creati in riferimento ad altri casi clinici (Fonagy, 2003a). Klimovsky afferma che 'il metodo induttivo appartiene al contesto della scoperta, posto che nelle sue applicazioni ciò che si ottiene è un'ipotesi, che non è nulla di più di una congettura che richiede indagine [per mezzo di altri metodi ] per stabilire se sia valida oppure no' (2004, pag. 67).

Sebbene si possa arguire che i criteri ermeneutici di coerenza narrativa servano a guidare il processo di convalida nel lavoro clinico quotidiano, questo non è sufficiente come criterio di verità nel proposito di convalidare la teoria psicoanalitica come conoscenza nomotetica (Rubovits-Seitz, 1992). Come afferma Strenger (1991), oltre che coerenti, le proposizioni teoriche devono essere consistenti con un corpus generalmente accettato di conoscenze incorporate in discipline correlate e devono essere affini ad esso. Dal punto di vista del comune senso epistemologico, questo è un requisito standard per ogni teoria scientifica.

Perciò sembra che l'esclusiva applicazione del solo criterio di coerenza sia il fattore che abbia portato alla frammentazione della conoscenza psicoanalitica. Quindi, se vogliamo cambiar corso, i processi di convalida delle ipotesi psicoanalitiche richiedono che noi passiamo a cercare una coerenza esterna, in altre parole, ad operare la  convalida in un contesto differente da quello della situazione analitica. Questo cambiamento di contesto deriva dall'uso dei metodi di indagine che non sono quelli della metodologia clinica psicoanalitica (Kandel, 1999; Main, 1993; Thomä & Kächele, 1975; Wallerstein, 1993). L'assunto che sottostà a questa ricerca consiste nel fatto che c'è 'qualcosa fuori' che, persino quando non siamo capaci di afferrare ciò in modo completo ed omogeneo, agisce come referente e come condizione a priori del dialogo psicoanalitico tra il paziente e l'analista, all'interno della comunità psicoanalitica, e anche tra il campo della psicoanalisi ed il mondo accademico e scientifico (Cavell, 1993, 1998).

Allo stesso modo, Fonagy e collaboratori propongono alcune strategie per la convalida esterna del metodo psicoanalitico. Tra questi, essi sottolineano il 'rafforzamento dell'approccio basato sulle evidenze in psicoanalisi' (1999, pag. 43), in accordo col fatto che la psicoanalisi 'dovrebbe ... sviluppare legami sempre più stretti con metodi che raccolgono dati alternativi nelle moderne scienze sociali e biologiche'. In questo modo, 'la convergenza di evidenze da svariate fonti di dati ... fornirà il migliore supporto per le teorie della mente proposte dalla psicoanalisi' (pag. 45).

 

Il bisogno di psicoanalisi nelle neuroscienze

 

Dall'altro lato, ed in contrasto con la situazione finora descritta, l'eminente neuroscienziato Eric Kandel, vincitore del Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia, ha suggerito che nonostante tutto 'la psicoanalisi rappresenta ancora la più coerente ed intellettualmente soddisfacente visione della mente' (1999, pag. 505). In due articoli fondamentali (1998, 1999), Kandel critica anche, in modo acuto, la stagnazione della psicoanalisi durante la seconda metà del XX secolo e propone che 'la sfida per gli psicoanalisti sia il diventare dei partecipanti attivi nel difficile tentativo congiunto della biologia e della psicologia, compresa la psicoanalisi, di comprendere la mente' (1999, pag. 521). Solo facendo questo la psicoanalisi può sopravvivere come forza intellettuale nel XXI secolo. Kandel ci avverte, comunque, che, perché questa trasformazione possa aver luogo nel clima intellettuale della psicoanalisi, gli stessi istituti psicoanalitici devono cambiare rispetto al fatto di essere dei meri istituti professionali per divenire dei centri di ricerca e di insegnamento accademico. La sfida, quindi, è quella di partire traendo vantaggio dalla crisi e smettendola di considerare questa come una minaccia, ma piuttosto vedendola come un'opportunità.

Ovviamente, è vero che l'integrazione della psicoanalisi e delle neuroscienze può non solo essere di beneficio per la prima, ma sembra anche un passo necessario se le neuroscienze devono contribuire allo studio della mente. Secondo Kandel, la psicoanalisi, assieme alla psichiatria ed alla psicologia cognitiva, ' può definire per la biologia quelle funzioni mentali che devono essere studiate per una comprensione significativa e sofisticata della biologia della mente umana' (Kandel, 1998, pag. 459). In questo modo, ciò che viene proposto è un nuovo paradigma metodologico che tenta di integrare l'approccio 'soggettivo' alla mente, tipico della psicoanalisi, con quello 'oggettivo', tipico delle neuroscienze. In particolare, lo sviluppo delle moderne tecniche di 'imaging' cerebrale ha chiaramente mostrato il bisogno di adottare un modello dinamico di comprensione del funzionamento del cervello. Ma la cosa più sorprendente è che il modello emergente dalle neuroscienze nell'ultimo decennio è estremamente compatibile col modello psicoanalitico della mente (si veda Cozolino, 2002; V. Green, 2003: Levin, 1991, 2002; Kandel, 1998, 1999; Kaplan-Solms & Solms, 2000; Siegel, 1999; Solms & Turnbull, 2002).

Presenterò ora alcune idee su quelle che ritengo siano le implicazioni di questo paradigma emergente per la teoria psicoanalitica. Credo che questo nuovo paradigma cerchi di integrare non solo la psicoanalisi clinica con le scienze neurocognitive, ma anche le scoperte dell'attuale ricerca empirica nei processi e negli esiti della psicoterapia coi recenti studi sulle relazioni precoci madre-bambino e con la nuova psicopatologia dello sviluppo.

Per meglio comprendere il cambiamento teorico  a cui mi sono riferito in questa presentazione, passo all'esame delle teorie psicoanalitiche nel libro pionieristico di Greenberg e Mitchell (1983), utilizzando la tesi che essi posero come punto di partenza.

 

Due modelli teorici e tecnici della psicoanalisi: il modello pulsionale ed il modello relazionale

 

Greenberg & Mitchell (1983) affermano che le teorie diagnostiche e terapeutiche in psicoanalisi non sono omogenee, ma piuttosto possono essere analizzate in termini di differenti combinazioni di due modelli basilari, essendo questi profondamente differenti e perennemente in conflitto tra di loro sin dalle origini della psicoanalisi. Uno è il modello basato sulla nozione di pulsione, e l'altro è il modello basato su quella di relazione.

Secondo il modello pulsionale, il paziente arriva al trattamento con dei conflitti patogenetici che sono intrapsichici ed incapsulati. L'analista deve rendere tali conflitti consci. Allo stesso modo in cui l'oggetto è sempre esterno allo scopo della pulsione, l'analista resta al di fuori del processo nevrotico. Il concetto freudiano di 'schermo vuoto' riassume il modo di avvicinare la situazione terapeutica. La relazione con l'analista è fondamentalmente compresa in termini di spostamento dal passato. Il transfert è determinato solo dalla storia esperenziale del paziente ed i suoi contenuti sono in funzione delle richieste fatte agli oggetti precoci e delle difese erette contro di esse. In un paziente che può essere analizzato, e data una minima interferenza da parte dell'analista, questi contenuti verranno gradualmente spiegati per cristallizzarsi alla fine in una nevrosi di transfert. Le interruzioni nel processo associativo vengono interpretate come resistenze, essendo esse ciò che emerge dall'ansia generata dai conflitti tra le pulsioni. Il controtransfert è un segno dei conflitti nevrotici che non sono stati risolti nell'analista, essendo il paziente semplicemente colui che scatena questo processo proprio come i residui diurni sono gli stimoli da cui origina un sogno. Ogni espressione o manifestazione agìta dei sentimenti controtransferali sarà dannosa per il progresso del trattamento, dato che interferirà con lo sviluppo del transfert del paziente.

Quanto al modello basato sulle relazioni, la situazione analitica è intrinsecamente diadica. La situazione terapeutica non viene vista come il mero dispiegamento dall'interno delle strutture dinamiche che costituiscono la nevrosi del paziente. Piuttosto, quello che emerge dalla situazione del trattamento viene concepito come creato nell'interazione tra terapeuta e paziente. Alla pari del modello pulsionale, l'analista viene collocato in una serie di ruoli dal paziente, derivati dalle relazioni passate del paziente. Comunque, questa costruzione differisce dalla precedente per il fatto che l'analista non opera mai dall'esterno del transfert. Come persona individuale, non solo il terapeuta gioca differenti ruoli, ma anche li precipita. Qualsiasi cosa che faccia l'analista modella il transfert indipendentemente dal fatto se ciò risponda o meno alle richieste transferali. La partecipazione dell'analista esercita una pressione sul paziente e, a questo modo, l'analista diviene il co-autore del transfert. Parimenti, il modo in cui il paziente sperimenta il suo analista ed il suo comportamento crea una pressione sull'analista. Il diventare consapevole di queste pressioni rende il terapeuta capace di usare questa conoscenza per comprendere le modalità ('patterns') relazionali del paziente. Perciò, il controtransfert offre degli indizi cruciali circa le configurazioni transferali predominanti, dato che il transfert ed il controtransfert si compenetrano reciprocamente.

Comunque, come la ripetizione dei 'patterns' del passato, 'qualcosa di più' ha luogo nell'esperienza del paziente col suo analista. Un autentico contatto emotivo si stabilisce, con un'intimità ed una libertà che fino a quel momento non si era mai sperimentato nella storia interpersonale del paziente. Questo permette al paziente di trascendere i limiti dei vecchi modelli relazionali, sostenuti dall'ansietà oppure dall'attaccamento a cattivi oggetti.

Per il modello basato sulle pulsioni, lo scopo dell'analisi è la conoscenza ed il ruolo dell'analista consiste nell'interpretare le difese del paziente ed i sottostanti impulsi basati su di esse. Per mezzo di questa auto-conoscenza, che comporta il divenire consapevole dei fattori che erano stati in precedenza respinti, il paziente sarà in una posizione tale da abbandonare gli oggetti del suo passato e di stabilire traguardi più realistici. Presupponendo l'astinenza e la mancanza di partecipazione dell'analista, il transfert viene visto come la 'ri-presentazione' nel presente di vecchi conflitti che, proprio in virtù della loro rappresentazione, vengono resi accessibili all'interpretazione. L'effetto terapeutico deriva dall'auto-conoscenza: l'interpretazione conduce all'insight, e questo alla cura.

Nel caso di quegli analisti che sono guidati dal modello relazionale, l'azione terapeutica della psicoanalisi si basa non solo sull'auto-conoscenza, ma anche sulla capacità del terapeuta di rimediare ai fallimenti evolutivi. Comunque, dato che il fattore più cruciale nello sviluppo del paziente è la qualità delle relazioni precoci, l'efficacia terapeutica dipende dalla qualità della relazione che si stabilisce tra il paziente e l'analista. Il paziente viene visto come qualcuno che è vissuto in un mondo chiuso di relazioni oggettuali arcaiche che lo hanno portato a profezie auto-avverantesi. Per mezzo di una nuova modalità di interazione col paziente, il terapeuta riuscirà ad entrare in questo mondo e ad aprirlo allo sviluppo di nuove modalità di relazione. Ovviamente, l'analista interpreta e quindi comunica informazione al paziente circa il suo mondo interno, ma non è affatto questa informazione isolata a produrre il cambiamento. Piuttosto, l'essenza della cura risiede nella natura della relazione che si sviluppa attorno a questa comunicazione.

Certamente, tutti gli autori e le scuole di pensiero psicoanalitico combinano  entrambi i modelli, sebbene il significato tecnico attribuito alle interpretazioni ed alla relazione sia differente, allo stesso modo in cui varia il valore che si dà all'assenza ed alla presenza nel trattamento. Nell'America Latina, specialmente per la psicoanalisi nell'area del River Plate (Argentina e Uruguay), la concezione relazionale è ben radicata. In una recente rassegna, Winograd suggeriva che

<<... la costruzione di un sistema esplicativo del campo clinico basato sui contributi di autori provenienti dall'area del River Plate dovrebbe comprendere i modelli della teoria del legame e del processo a spirale di Pichon Rivière come una concettualizzazione diacronica o uno sviluppo temporale del campo terapeutico e del processo terapeutico; dovrebbe includere la teoria del campo dinamico di Baranger che significherebbe una modalità più sincronica di attraversare le vicissitudini e le produzioni della coppia terapeutica; un contributo della teoria di David Liberman sulla presenza di indicatori clinici nel materiale discorsivo, insieme all'importanza di strutture complementari e di stile interpretativo (insieme al contenuto dell'interpretazione) introdotta da Alvarez de Toledo; l'esplorazione dello spazio interno dell'analista che funziona come un indicatore ed un decodificatore, concetto presentato la prima volta da Racker e ripreso da colleghi come Cesio e altri>> . (2002, pagina 15)

Il modello relazionale e quello pulsionale alla luce delle scoperte interdisciplinari

In contrasto con l'opinione di Greenberg e Mitchell (1983) secondo cui i due modelli fondamentali della psicoanalisi sarebbero inconciliabili, a causa del fatto che essi deriverebbero da radici antropologiche irriducibili, credo che le attuali conoscenze consentano una riformulazione di questa dicotomia e puntino verso una nuova integrazione dei due modelli. L'irruzione di ciò che è stato chiamato psicoanalisi relazionale negli anni '90, nelle sue versioni intersoggettiva (Stolorow e Atwood, 1992) ed interattiva (Beebe e Lachmann, 2002), in particolare la brillante argomentazione di Mitchell (1988, 2000), sembrerebbe sufficiente ad espellere per sempre la nozione di pulsioni dall'universo teorico psicoanalitico. Comunque, credo che il modello relazionale senza il concetto di pulsioni sia incompatibile con le scoperte delle scienze neurocognitive, sebbene dovremmo comprendere le pulsioni in un modo che sia molto differente da quello con cui sono state comprese tradizionalmente.

Nondimeno, penso che la crisi del modello pulsionale sia stata precipitata dalla pratica clinica. Il modello pulsionale, che supporta la psicoanalisi classica, era orientato al trattamento della nevrosi. Comunque, nel corso degli ultimi 50 anni, la varietà di pazienti che hanno cercato il trattamento psicoterapeutico ha visto uno spostamento epidemiologico verso pazienti più disturbati classificati come 'casi borderline' (A. Green, 1975). Questi pazienti sono borderline poiché sono precisamente al limite dell'analizzabilità ed hanno portato a mutamenti della tecnica, che includono nella maggior parte dei casi concetti basati sul modello relazionale. Tali casi gravi tendono ad avere difficoltà nell'usare il setting come ambiente facilitante per il lavoro terapeutico. In questi pazienti, la cornice del trattamento, solitamente silenzioso, e percepito solo come assenza, fa sentire la sua presenza ostacolando il lavoro di simbolizzazione ed essi richiedendo l'arduo compito di contenimento da parte del terapeuta.

Eppure ciò che ha dato la maggiore legittimazione al modello relazionale è dato dagli studi riguardanti lo sviluppo precoce, e la ricerca empirica sui processi e sugli esiti sia in psicoterapia che in psicoanalisi. In questo contesto, Stern afferma che

<<Alcuni pensatori psicoanalitici sono interessati alle azioni infantili, non in quanto tali, ma piuttosto solo come precursori del pensiero o del linguaggio. Analogamente, lo strutturarsi nella mente dell'esperienza è stato visto come possibile solo all'interno, ed a causa, dell'assenza di azione o dell'assenza di un oggetto su cui agire.... La visione opposta [supportata dalla moderna 'infant research] consiste nel fatto che sono l'azione e gli oggetti su cui si agisce a strutturare l'esperienza ed a permettere la sua rappresentazione. (L'assenza richiama solo o rievoca queste rappresentazioni; essa non le struttura)>>. (1995, p. 197, nota 2, mio corsivo)

Le conseguenze per la tecnica del trattamento sono immediatamente evidenti: il cambiamento terapeutico deriva da un certo tipo di scambio emotivo, cognitivo e corporeo tra paziente e terapeuta - nel qui ed ora - piuttosto che dall'interpretazione di rappresentazioni inconsce, e cioè dall'impatto dell'assenza.

Dalla prospettiva dell'attuale ricerca sul processo e sugli esiti in psicoterapia ed in psicoanalisi, la relazione tra qualità del legame terapeutico ed esito terapeutico è l'area maggiormente studiata. La qualità globale della relazione terapeutica viene coerentemente associata con risultati positivi (Horvath, 2005; Horvath et al., 1993; Orlinsky, 1994; Wampold, 2002). Orlinsky (1994, p. 116) pone degli interrogativi circa le implicazioni di queste scoperte per la pratica e la teoria psicoanalitica, concludendo che sarebbe un errore serio interpretarle come una conferma del concetto di 'cura transferale'. Nel modello centrato sulle pulsioni, il transfert viene considerato come una sorta di esperienza solipsistica e conflittuale che, se non risolto per mezzo dell'interpretazione, tenderà a portare ad un fallimento terapeutico. Comunque, per Orlinsky, la ricerca conferma il concetto winnicottiano di 'holding environment' come uno strumento più adeguato per comprendere il modo in cui il legame contribuisce al successo terapeutico.

  Foto: D. W. Winnicott

Se i pazienti sperimentano questo legame come capace di fornire un ambiente sicuro per un comportamento esplorativo indipendente, questo rafforzerà la loro capacità di porre fine alle reazioni difensive e migliorerà la loro capacità di apprendere modalità più adattative per confrontarsi con ciò che costituiva in precedenza delle situazioni minacciose. L'impressione che ciò che  qui è implicato sia la realtà presente e non le fantasie regressive viene rinforzata dalle scoperte concernenti l'importanza del rapporto empatico e della sintonia comunicativa. Le scoperte riguardanti l'importanza di una relazione collaborativa significano anche che gli aspetti adulti del paziente ed il terapeuta devono giocare una parte nell'alleanza terapeutica. Chiaramente, questa alleanza può essere minacciata da un eccessivo distacco, risultato della 'neutralità analitica'. Allo stesso modo, l'alleanza può essere sovvertita se la dipendenza è necessaria per avviare un 'processo analitico'. Secondo Orlinsky, la condizione nevrotica del paziente è sufficiente ad assicurare che le fantasie regressive ed i conflitti transferali emergeranno spontaneamente nel corso del trattamento. Quando ciò accade, la soluzione positiva del conflitto dipenderà notevolmente dalla conservazione dell'alleanza terapeutica e dal sostegno da parte del funzionamento adulto del paziente.

Ciò che è certo è che  c'è un'enorme quantità di evidenze empiriche ed un crescente consenso clinico per cui la qualità della relazione terapeutica è uno strumento predittivo potente dell'esito del trattamento. Naturalmente,  resta la questione- e questa deve essere risolta da ulteriori ricerche - se l'alleanza terapeutica è in se stessa la componente curativa della terapia oppure se, di fatto, la relazione crea il contesto interpersonale necessario perché altri elementi terapeutici scendano in campo (Horvath, 2005). In ogni caso l'idea è che le resistenze e le controresistenze, derivanti dall'interazione tra transfert e controtransfert, sovvertano in modo permanente il 'migliore legame possibile' tra l'analista ed il paziente.

La ricerca psicoanalitica empirica mostra dei risultati che sono compatibili con ciò che è stato menzionato in precedenza. Il progetto Menninger ha mostrato che i risultati delle terapie di sostegno e di quelle espressive tendono a convergere e non a divergere come ci si aspetterebbe in linea con la teoria psicoanalitica del cambiamento terapeutico. Ciò ha portato Wallerstein ad affermare che il sostegno <<merita una specificazione ben più rispettosa in tutte le sue forme e varianti di quanto generalmente gli sia stato accordato nella letteratura psicoanalitica>> (1986, p. 730).

Le scoperte dello studio di Stoccolma sugli esiti della psicoanalisi e della psicoterapia hanno mostrato che

<<Una parte significativa delle differenze nell'esito tra pazienti in psicoanalisi e pazienti in psicoterapia potrebbe essere spiegata grazie all'adozione, in un ampio gruppo di terapeuti, di atteggiamenti psicoanalitici ortodossi che sembravano controproducenti nella pratica della psicoterapia ma non in psicoanalisi>> (Sandell et al., 2000, p. 921)

Senza dubbio questo non significa che la neutralità come risorsa o l'insight come obbiettivo siano inadeguati. Il punto critico sembra essere il fatto che la prospettiva psicoanalitica classica, dietro il pretesto della regola dell'astinenza, sembra dar poco valore al calore, ad intense relazioni interpersonali e al far sentire al paziente che qualcuno si prende cura di lui. Questo non sembra così importante nel setting psicoanalitico classico, ma è importante in psicoterapia. I risultati di questa ricerca suggeriscono che gli analisti che possono essere chiamati classici tendono a condurre cattive psicoterapie, mentre gli analisti orientati in senso relazionale generalmente hanno buoni esiti in entrambe le forme di trattamento.

Analoghi risultati si possono trovare in uno studio retrospettivo di 763 casi di psicoterapia e psicoanalisi in bambini, condotto all'Anna Freud Centre a Londra (Fonagy e Target, 1996). Per gli autori gli interventi più utili per i casi più complessi differivano da quelli che sono abitualmente descritti come centrali nella tecnica psicoterapeutica per i bambini. In particolare, le interpretazioni di conflitti inconsci finalizzate a promuovere l'insight, che per molto tempo è stato considerato l'asse centrale di questo approccio, sembrano avere un valore limitato nei casi più gravi. I bambini meno disturbati, al contrario, apparivano beneficiare da un approccio interpretativo.

  Foto: Peter Fonagy

Infine, gli studi di processo-esito mostrano che c'è convergenza tra un tipo di paziente che vuole lavorare in modo psicoterapeutico ed un analista con specifiche caratteristiche personali e professionali, capace di dedicare se stesso ai bisogni di questo particolare paziente, cosa che può spiegare il successo o il fallimento del trattamento. I risultati dello studio di Boston sull'esito della psicoanalisi conferma che non sono le caratteristiche personali del paziente e dell'analista ad essere importanti, ma l'incontro (match) tra di essi:

<<... mentre può esserci qualche caratteristica di particolari pazienti ed analisti che sembrano renderli dei partners bene o male adattati tra di loro sin dall'inizio, l'aspetto dinamico delle loro interazioni, le loro risonanze e dissonanze, e la loro capacità o limitatezza condivisa nell'espandere le 'macchie cieche' o nel colmare le differenze che si sviluppa nel corso del lavoro analitico sono probabilmente centrali nel decidere l'esito>> (Kantrowitz, 1993, p. 327).

Ma la ricerca empirica sul processo psicoterapeutico è andata oltre, focalizzandosi sui microprocessi dell'interscambio paziente-terapeuta. Di fatto, l'intera teoria del cambiamento ed i concetti relazionali come quello di ambiente facilitante, di sostegno e di contenimento sarebbero una vuota metafora senza tali microprocessi. Lo studio dei processi dello scambio affettivo tra paziente e terapeuta mostra che questo incontro empatico assume una forma non verbale, per mezzo del contatto con lo sguardo, della posizione del corpo e dei cambiamenti nel tono della voce. Vari studi hanno mostrato che il comportamento mimico, specialmente quello su base emotiva tanto da parte del paziente quanto del terapeuta, nei suoi aspetti interattivi, è un indicatore del legame affettivo ed un significativo fattore predittivo dell'esito terapeutico. Studi che correlano il comportamento mimico, il contenuto verbale e l'esperienza emotiva rendono possibile operativizzare i processi che determinano il campo intersoggettivo descrivendo possibili relazioni tra contenuto cognitivo ed interazione affettiva (Benecke et al., 2001, 2005).

Il "Boston Process of Change Study Group" (PCSG, 1998) ha proposto un modello di cambiamento nella terapia psicoanalitica che comprende le attuali conoscenze sui recenti sviluppi nelle scienze cognitive. Utilizzando gli studi sull'interazione madre-bambino come punto di partenza, come anche i sistemi dinamici non lineari e le loro relazioni con le teorie della mente, gli autori affermano che l'effetto terapeutico del legame risiede nei processi intersoggettivi ed interattivi che dànno origine a ciò che essi chiamano conoscenza relazionale implicita. Questo è un ambito non simbolico, differente dalla conoscenza dichiarativa, esplicita, conscia o preconscia, che è simbolicamente rappresentata in un modo verbale o immaginario. Storicamente, l'interpretazione si è focalizzata sulla dinamica intrapsichica rappresentata ad un livello simbolico, piuttosto che sulle regole implicite che governano le nostre transazioni con gli altri, essendo questa una situazione che è cambiata di recente. Secondo questo modello, nella relazione analitica ci sono momenti di incontro intersoggettivo tra paziente e terapeuta che sono in grado di creare nuove organizzazioni in questa relazione e dunque di riorganizzare la conoscenza implicita che il paziente ha riguardo al modo in cui egli si relaziona agli altri. Questa conoscenza non è conscia; è inscritta nella memoria procedurale a lungo termine e comprende i modelli di attaccamento. Le differenti modalità di interazione tra paziente e terapeuta si modellano in un processo sequenziale condotto dallo scambio verbale tra loro che può includere svariati interventi. Il momento mutativo nella terapia emerge, comunque, quando il movimento della negoziazione intersoggettiva porta a momenti di incontro in cui paziente ed analista condividono una comprensione della reciproca relazione implicita, e quindi viene prodotta una ricontestualizzazione della conoscenza implicita relazionale del paziente. In queste occasioni ciò che ha luogo tra paziente ed analista è un reciproco riconoscimento di ciò che c'è nella mente di entrambi riguardo la natura e lo stato presente della loro relazione reciproca. Questo reciproco riconoscimento porta il paziente e l'analista ad un regno che trascende la relazione 'professionale', senza cancellarla, e, facendo questo, esso in parte li libera dalle tonalità della relazione transfert-controtransfert. La conoscenza condivisa può essere in seguito confermata in modo conscio. Comunque, può anche restare implicita. Questo illustra ciò che i clinici hanno conosciuto per molto tempo e cioè che ci sono trattamenti in cui il livello di auto-conoscenza ottenuta non spiega l'ampiezza dei cambiamenti raggiunti dal paziente.

Memoria, il legame terapeutico ed il cambiamento terapeutico

 

Gli studi del PCSG sono compatibili con le attuali concezioni della scienza neurocognitiva riguardanti il funzionamento della memoria. Questi studi sono in fase di incorporazione nella teoria psicoanalitica del cambiamento terapeutico, dando conferma al modello relazionale (Fonagy, 1999; Leuzinger-Bohleber e Pfeifer, 2002). Fonagy propone questo punto di vista in un modo radicale:

<<Gli analisti ed i pazienti frequentemente presumono che il ricordare gli eventi passati abbia causato dei cambiamenti. Credo che il ritorno a tali ricordi sia un epifenomeno, un'inevitabile conseguenza dell'esplorazione dei modelli mentali delle relazioni. Che l'evento ricordato sia oppure no uno di quei fattori che hanno stabilito una modalità patogenetica di sperimentare se stesso con un altro, il significato del suo recupero è uguale. Esso fornisce una spiegazione, ma è inerte dal punto di vista terapeutico. L'azione terapeutica risiede nell'elaborazione conscia di modelli di rappresentazioni relazionali preconsce, principalmente attraverso l'attenzione dell'analista al transfert>> (1999, p. 218)

Ad ogni modo  questa conoscenza sul funzionamento della memoria non è totalmente nuova in psicoanalisi.

  Foto: I. Matte Blanco

  Matte Blanco (1988, pp. 162-164) fa notare che la Klein avesse già toccato questo problema:

<<Tutto questo viene sentito dal bambino piccolo in modi molto più primitivi di quanto il linguaggio possa esprimere. Quando queste emozioni e fantasie pre-verbali sono rivissute nella situazione transferale, esse appaiono come 'ricordi in sentimenti', ... e vengono ricostruiti e messi in parole con l'aiuto dell'analista. Allo stesso modo le parole devono essere usate quando stiamo ricostruendo e descrivendo altri fenomeni che appartengono agli stadi precoci dello sviluppo. Di fatto non possiamo tradurre il linguaggio dell'inconscio in coscienza senza prestargli le parole che provengono dal nostro regno conscio>> (Klein, 1957, p. 5, nota a piè di pagina)

Con i seguenti commenti Matte Blanco colloca questo ricordare i sentimenti in un contesto relazionale:

<<Sono arrivato a pensare che l'espressione di questi 'ricordi in sentimenti' è fondamentale nel trattamento di alcuni casi. Senza di loro questi pazienti non potrebbero essere curati. Alcuni dei pazienti a cui mi sto riferendo hanno avuto dei ricordi delle loro (ripetute) situazioni traumatiche, altri no . Non è stato ottenuto alcun aumento nei ricordi degli avvenimenti. Invece i sentimenti sono stati abbondantemente e ripetutamente scaricati per molto tempo. Credo che questa ripetuta espressione dei più variegati sentimenti connessi con gli episodi e le persone implicate, ora resa nei confronti di un analista fondamentalmente rispettoso e tollerante che cerca di comprendere il significato dell'espressione emozionale e delle sue connessioni con i dettagli delle esperienze precoci e con le relazioni attuali, sia il reale fattore curativo>> (1988, p. 163, corsivo in originale)

Gli studi scientifici sui processi di memoria hanno suggerito che le esperienze che contribuiscono a certe relazioni oggettuali hanno luogo troppo precocemente per essere ricordate, nel senso dell'esperienza conscia di recupero di un'esperienza passata per riportarla al presente. Ciò non significa, comunque, che l'esperienza iniziale non sia formativa. Quel che accade è che essa viene immagazzinata in aree del cervello che sono separate da quelle in cui i ricordi autobiografici sono codificati ed immagazzinati, e da cui essi possono essere recuperati. La memoria non costituisce un singolo meccanismo; piuttosto, essa coinvolge differenti sistemi. Esiste un sistema di  memoria dichiarativa o esplicita che partecipa nel recupero cosciente dell'informazione dal passato, ed un sistema implicito o procedurale in cui l'informazione può essere recuperata senza passare attraverso l'esperienza del ricordare. La memoria dichiarativa contiene i ricordi e l'informazione riguardanti gli eventi, mentre la memoria procedurale è vuota di contenuti e partecipa all'acquisizione di sequenze di azioni - nel 'come' del comportamento, ad es. come correre in bicicletta o come 'stare con gli altri'.

Il concetto di 'rappresentazione' non si adatta ai modelli relazionali immagazzinati nella memoria procedurale, che viene meglio compresa nell'ambito dell'interazione di un organismo col suo ambiente. Quel che appare all'osservatore psicoanalitico essere una struttura di significato non è il risultato di una rappresentazione interna ma piuttosto deriva da una quantità di differenti processi nell'interazione con il mondo reale (Cohen e Varela [su internet]; Leuzinger-Bohleber e Pfeifer, 2002; Stern, 2004). Il concetto di rappresentazione lega la conoscenza ad un mondo esterno che  esisteva in anticipo. Comunque, la nostra esperienza nel mondo di ogni giorno mostra che questo approccio è lontano dall'essere completo. La conoscenza vivente consiste, in gran parte, nel porsi questioni rilevanti, questioni che emergono ad ogni momento della nostra vita. Tali questioni non sono predefinite ma sono piuttosto 'attuate' (enacted) ed emergono da uno sfondo, e ciò che è rilevante è cosa il nostro buonsenso giudica come tali, sempre all'interno di un certo contesto (Varela, 1990). In questa emergenza di aspetti significativi, la memoria procedurale, opposta a quella dichiarativa, è quella che entra in gioco. La memoria implicita di un'esperienza di sé con un'altra persona è ciò che Sandler e Joffe hanno chiamato il regno non-esperenziale (the non-experential realm), <<intrinsecamente inconoscibile, eccetto ciò che può diventare conosciuto grazie alla creazione o accadimento di un evento fenomenico nel regno dell'esperienza soggettiva>> (1969, p. 82).

  Foto: Joseph Sandler

Questo regno non-esperenziale può solo divenire esplicito e conoscibile quando è attuato (enacted) o quando viene reificato in una fantasia inconscia. Per Fonagy (1999) la distinzione tra 'enactment' ed esperienza inconscia è cruciale, poiché la reazione emotiva (conscia o inconscia) ad un ricordo implicito apparirà solo quando questo ricordo è entrato nel regno esperenziale, cioè solo quando esso manifesta se stesso nel transfert. Leuzinger-Bohleber e Pfeifer spiegano ciò con le seguenti parole:

<<... la percezione (inconscia) di certi stati sensomotori e di certi processi [nel paziente] 'ha scatenato' le reazioni senso-motorie e le fantasie (inconscie) dell'analista nella situazione analitica ed alla fine hanno permesso all'analista ... di riflettere su queste reazioni controtransferali>>. (2002, p. 25)

Tutto quello che abbiamo detto finora porta alla conclusione che le esperienze precoci non sono direttamente accessibili all'interpretazione, ossia che non sono immagazzinate come rappresentazioni di oggetti assenti nella memoria esplicita, bensì sono, in realtà, agite  (enacted  ) nella relazione con l'analista. Esse emergono nel contesto dell'interazione fisica con l'analista, ossia  nella presenza dell'analista1. Inoltre, la modificazione di tali modelli di attaccamento patologici di 'essere-con-l'altro' può avvenire anche senza il loro passaggio attraverso la consapevolezza del paziente.

La scoperta di ciò che è chiamata 'conoscenza relazionale implicita' aggiunge un altro strato alla svolta relazionale in psicoanalisi, in questo caso una svolta verso ciò che potrebbe essere chiamato il regno esperenziale della relazione terapeutica. Stern chiarisce ciò nel modo seguente:

<<Nelle terapie basate sulla parola il lavoro di interpretare, di creare significati e di narrativizzare può essere considerato come un veicolo appropriato, quasi non specifico, per mezzo del quale il paziente ed il terapeuta 'fanno qualcosa insieme'. E' il fare insieme che arricchisce l'esperienza e porta cambiamento nei modi-di-essere-con-gli-altri attraverso il processo implicito che abbiamo discusso>>. (2004, p. 227, il corsivo è mio)

Anche se il lavoro interpretativo può portare a cambiamenti, questi si possono raggiungere solo se l'implicito fare-qualcosa-insieme e la conoscenza relazionale implicita, che è stata modificata, dànno forma e suggellano il flusso della comprensione esplicita. Questa svolta esperenziale a cui mi riferisco deriva da studi dei microprocessi di regolazione e di auto-regolazione nella diade madre-bambino e dalla loro applicazione all'interazione  nella relazione terapeutica, in cui questi microprocessi sono anche in gioco (Beebe e Lachmann, 2002). D'altra parte, la ricerca sui processi di apprendimento in generale e sulla situazione terapeutica ha dimostrato l'importanza di un'atmosfera di contatto emotivo tra terapeuta e paziente. Tali studi suggeriscono l'immagine di un analista che è spontaneo, coinvolto e, soprattutto, emotivamente attento alle sottili modulazioni affettive ed ai dettagli del comportamento non-verbale del paziente. Infine, l'analista dovrebbe essere capace di interpretare attraverso delle metafore ricche di 'nuances' emotive (Levin, 2002; Modell, 2003; Stern, 2004).

 

Emozione e motivazione: La riformulazione del concetto di pulsioni

 

Il concetto di pulsioni ora appare datato in psicoanalisi. Solms e Turnbull suggeriscono che

<<Esso ha avuto l'effetto infausto di far divorziare la comprensione psicoanalitica della mente umana dalla conoscenza derivata dagli altri animali. Noi umani non siamo esenti da forze biologiche evolutive che hanno modellato le altre creature. E' quindi difficile farsi un quadro accurato di come l'apparato mentale veramente funzioni senza utilizzare un concetto almeno somigliante alla definizione di 'pulsione' di Freud>> (2002, p.117, il corsivo è mio)

come

<<... un rappresentante psichico degli stimoli originantesi dall'interno dell'organismo e che raggiungono la mente, in quanto misura della richiesta fatta sulla mente in conseguenza della sua connessione col corpo>> (Freud, 1915, p. 122)

Mitchell ha sviluppato un argomento brillante al fine di eliminare il concetto di pulsione dalla teoria psicoanalitica, sebbene egli ammetta delle riserve. Ipotizzando che lo stabilirsi della matrice relazionale sia innato, la questione è se '[sia ] significativo parlare di una pulsione innata verso la relazione' (1988 p. 62). Egli stesso risponde alla questione dicendo che,

<<Sebbene non ho alcuna forte obiezione nei confronti di un tale concetto, non sono sicuro che esso ci porti lontano. O si rappresenta una 'pulsione' relazionale in termini estremamente estesi, come 'attaccamento', ricerca dell'oggetto, legame, che aggiungono poco sulla strada della specificità, oppure si fa collassare la complessità delle relazioni sociali ed interpersonali riducendola a ciò che si presume sia più basilare .... . La seconda riduzione mi sembra spesso arbitraria e perde qualcosa della ricchezza delle molte forme di connessione all'interno dell'arazzo relazionale... Inoltre, non appena si stabilisce una motivazione come innata,  ironicamente ci si preclude qualcosa della ricerca analitica e quindi si perde l'opportunità di approfondire una valutazione delle sue origini e risonanze all'interno della particolare matrice relazionale di quell'individuo>> (p. 62, il corsivo è mio)

Allo stesso modo, come nel modello fondamentale delle pulsioni, in cui l'oggetto è esterno alla meta di queste pulsioni, dopo aver inteso l'argomentazione di Mitchell, è plausibile ipotizzare che, per il modello relazionale, le pulsioni sono considerate esterne alla mente. Dietro questa idea sembra esserci una concezione che separa troppo la mente dal cervello, essendo ciò equivalente alla dicotomia tra costituzione ed ambiente che è stata prevalente per decenni in psichiatria ed anche in psicoanalisi. Senza andare nei dettagli su questa affascinante controversia, evidenzierò solo che, se la psicoanalisi deve 'servire da tutor abile e orientato nella realtà per una comprensione sofisticata della mente-cervello' (Kandel, 1999, p. 520), è necessario adottare una posizione epistemologica integrata che consideri la mente ed il cervello come due facce della stessa moneta, anche quando la loro esplorazione richiede differenti metodologie, soggettive nel primo caso, ed oggettive nel secondo. Ciò implica l'adozione di una soluzione duale del problema mente-cervello: monismo ontologico da una parte (mente e cervello sono la stessa cosa), dualismo epistemologico dall'altra ( la conoscenza di entrambi è di natura differente e non riducibile l'una all'altro). Questa irriducibilità, comunque, non impedisce che entrambi siano, almeno, compatibili l'una con l'altro. La moderna biologia ha modificato l'inevitabile carattere che è stato attribuito alla costituzione genetica. Sebbene i processi mentali riflettano operazioni cerebrali, ed i geni - e le proteine che essi producono - siano importanti fattori determinanti dei 'patterns' di interconnessione tra neuroni e loro funzionamento, i geni difettosi non spiegano da soli le variazioni in una specifica malattia mentale. I fattori ambientali contribuiscono anch'essi a questa variazione, poiché cambiamenti nell'espressione genica hanno portato mediante l'apprendimento a cambiamenti nelle connessioni neuronali. Si può concludere, quindi, che la psicoterapia produca persistenti cambiamenti nel comportamento per mezzo dell'apprendimento, promuovendo cambiamenti nell'espressione dei geni, cambiando la forza delle connessioni sinaptiche ed inducendo modificazioni strutturali che alterano il 'pattern' anatomico di interconnessione tra i neuroni (Kandel, 1998). A questo modo, in base in particolare a studi genetico-epidemiologici sulla depressione (Andreasen, 1997; Caspi et al., 2003; Kendler et al., 2003), l'ipotesi psicoanalitica afferma che non è l'evento stressogeno in sé a scatenare l'espressione di un gene, ma piuttosto è il modo in cui l'individuo interpreta questo evento, attraverso la mediazione di processi rappresentazionali e intrapsichici che sono fondamentalmente inconsci (Fonagy, 2003a, 2003b).

Nel caso delle neuroscienze, la forza motivazionale che corrisponde alla definizione freudiana di pulsione, prima citata, è l'emozione. Le azioni intenzionali sono in ultima analisi motivate da compiti biologici di soddisfacimento di bisogni nel mondo esterno. Da un punto di vista biologico, la funzione della coscienza risiede precisamente nel mettere in relazione l'informazione sull'attuale stato del sé con le circostanze dell'ambiente, essendo questo il luogo in cui gli oggetti sono ciò che soddisferà i nostri bisogni. Questa informazione è, quindi, intrinsecamente valutativa, poiché ci dice come noi ci sentiamo in relazione alle cose del nostro ambiente. Questo perché la coscienza è prima di tutto una coscienza emozionale. L'emozione è una percezione dello stato del soggetto. Ma noi non sentiamo solo le nostre emozioni, le esprimiamo anche. Così come l'emozione è una modalità di percezione che è diretta verso l'interno, essa è anche una forma di scarica motoria. Le emozioni ci portano a 'fare qualcosa'. Internamente, le emozioni producono delle scariche umorali e differenti cambiamenti interni; esternamente, le emozioni si manifestano attraverso delle modifiche dell'espressione facciale, dei gesti, attraverso tremori muscolari, pianto, riso, e tutte quelle azioni che chiamiamo, appunto, espressive, dirette cioè verso gli altri nel contesto della matrice relazionale.

Il fatto che, nonostante le differenze individuali e culturali, ci siano certi eventi che  permettono a noi tutti di sentire allo stesso modo è di grande importanza per la comprensione della nostra storia biologica. Ad esempio, ci sono dei segnali naturali per segnalare il pericolo, che può essere rappresentato dall'assenza di familiarità, da cambiamenti bruschi della stimolazione sensoriale, dall'avvicinarsi di qualcosa o di qualcuno in modo rapido o inaspettato, dall'altitudine, dall'essere lasciato da solo:  tutto ciò  è capace di indurre una risposta emotiva di paura nella grande maggioranza degli esseri umani. Esse sono situazioni con un significato universale. I neurobiologi chiamano queste risposte emozionali universali col nome di emozioni basilari, che consistono di connessioni fisse tra certe situazioni che sono rilevanti per la sopravvivenza e la risposta soggettiva che queste elicitano. Le emozioni basilari sono organizzate in sistemi motivazionali sotto forma di un sistema ipotetico ed omogeneo di neuroni responsabili degli stati motivazionali. Esistono, quindi, complesse strutture anatomico-funzionali con una ben definita base neurochimica che sono alla base di specifici stati affettivi e comportamentali. Ogni sistema si basa su un bisogno innato e riconoscibile, e si è sviluppato lungo l'intera storia evolutiva dato che ha un valore di sopravvivenza.

C'è certamente accordo tra i neurobiologi circa i sistemi motivazionali basilari. Ad esempio, Panksepp (1988) ne descrive quattro: esplorazione e ricerca, rabbia, paura, e panico o stress legato alla separazione. La sessualità è considerata un sottosistema dell'esplorazione ed il sistema del panico è correlato al comportamento sociale collegato all'attaccamento ed all'affiliazione, essendo questi responsabili del comportamento del prendersi cura e delle risposte alla perdita e di lutto. Da un punto di vista clinico, comunque, la materia sembrerebbe più complessa, ed è qui che la psicoanalisi può dare un significativo contributo. Ad esempio, Rizzuto ed altri hanno recentemente presentato una nuova e più comprensiva teoria dell'aggressività

<<... come capacità della mente di portare a termine ogni attività psichica o fisica diretta a superare un qualsiasi ostacolo che interferisca con il completamento di un'azione intenzionale interna o esterna. La motivazione dell'attività aggressiva consiste nel superamento di un ostacolo allo scopo di completare l'azione e di raggiungere la meta progettata. I sentimenti sperimentati nello sforzo di cercare di superare l'ostacolo sono dipendenti dalle risorse motivazionali correlate alla specifica azione intenzionale e allo/agli ostacolo(i) che interferisce (o interferiscono) col raggiungimento dello scopo>> (2004, pag.6, il corsivo è mio)

Lichtenberg (1988, 1989) ha suggerito più di un decennio fa che la psicoanalisi è una teoria della motivazione strutturata. Avendo integrato le teorie psicoanalitiche con le scoperte provenienti dagli studi sulla relazione precoce madre-bebé, egli ha descritto cinque sistemi motivazionali:  regolazione dei bisogni fisiologici, attaccamento ed affiliazione, esplorazione, avversione come risultato di antagonismo o ritiro, e infine piacere sensuale e sessuale.  Tali sistemi motivazionali sono organizzati e stabilizzati in una tensione dialettica e reciproca che è sottoposta ad un costante riaggiustamento gerarchico a seconda della fase dello sviluppo e delle circostanze ambientali. Essi sono costituenti determinanti degli aspetti dell'esperienza che si svolgono momento per momento, e sono costantemente in uno stato di flusso, essendo ogni sistema dominante in uno specifico momento dell'esperienza mentre gli altri sono in uno stato latente oppure meno attivo. Durante l'infanzia, tali sistemi si sviluppano attraverso l'interazione coi genitori e con coloro che si occupano del bambino. Le mete adattative che sottostanno ai sistemi motivazionali possono servire in sequenza come assi centrali attorno ai quali si organizzano i cambiamenti strutturali. In modo analogo, nello scambio terapeutico, la predominanza di un sistema motivazionale è influenzata dal contesto intersoggettivo che è spesso imprevedibile (Lichtenberg, 1998).

Utilizzando il concetto di relazionalità umana radicale come punto di partenza, Stern (2004) ipotizza come primario il desiderio di intersoggettività, un sistema motivazionale innato che è essenziale per la sopravvivenza della specie. Parlando a partire da una prospettiva che integra il modello relazionale con il concetto di sistemi motivazionali, egli afferma che 'il desiderio di intersoggettività è una delle più grandi motivazioni che fanno progredire una psicoterapia. I pazienti vogliono essere conosciuti e vogliono condividere quello che loro sembrano essere per gli altri' (pag. 97, corsivo in originale). Analogamente, Fonagy (2003b) fornisce delle evidenze circa l'esistenza di un 'meccanismo interpersonale innato' che si sviluppa come conseguenza della relazione d'attaccamento. Esso implica la capacità di mentalizzare, ossia, in altre parole, di interpretare il comportamento degli altri in termini di stati mentali, desideri, intenzioni e credenze. Quando l'individuo sente di avere uno stato di attaccamento sicuro, i geni responsabili della struttura neuronale della mentalizzazione, che è probabilmente localizzata nella corteccia prefrontale mediale e a livello del solco temporoparietale, entrano in gioco (Gallagher et al., 2000; Zimmer, 2003).

Tutto ciò è coerente con le scoperte della ricerca empirica sull'affettività. Ekman (1992) ritiene che la rabbia, la paura, la tristezza, la gioia, la noia e la sorpresa siano processi affettivi fondamentali con una base filogenetica che rende gli esseri umani capaci di gestire compiti eterogenei nel loro ambiente. Krause (1990) ha aggiunto il disprezzo alla lista delle emozioni basilari. Gli affetti basilari sono caratterizzati da una configurazione situazionale che elicita una specifica emozione ed una specifica espressione facciale. Queste ultime comunicano un desiderio al soggetto interagente il quale è anch'esso specifico. Differenti studi su condizioni psicopatologiche specifiche e su differenti situazioni terapeutiche hanno reso possibile descrivere le interazioni di espressioni facciali positive o jatrogeniche tra paziente ed analista. Benecke e Krause (2005) suggeriscono che i processi generali nel lavoro terapeutico produttivo devono essere modificati in dipendenza dello specifico disturbo e della corrispondente offerta di una relazione dalla parte del paziente. Tali studi inaugurano una promettente linea di sviluppo riguardo alle tecniche psicoanalitiche adattative (Benecke et al., 2005).

In questo modo, le scoperte delle scienze neurocognitive e della ricerca madre-bambino forniscono un cambiamento dal modello pulsionale freudiano a quello motivazionale multiplo, in cui le sensazioni e gli affetti sono visti come appetizioni - come desideri che il soggetto può esprimere in relazione all'oggetto. Tali sistemi motivazionali sono dinamici, cioè gerarchici ma anche conflittuali.

 
Conclusioni: le sfide attuali

La possibilità di adottare una tecnica psicoanalitica che possa essere adattata ad ogni paziente è una vecchia idea in psicoanalisi (si veda Thomä e Kächele, 1987). Non è stato possibile mettere ciò in pratica poiché era prevalso in psicoanalisi il principio di omogeneità, secondo cui l'unità della psiche emerge da un principio globale organizzatore che è lo stesso per tutti i componenti, essendo la mente qualcosa che evolve come una totalità, in modo tale che ad ogni stadio dello sviluppo tutti gli elementi lavorano secondo le stesse leggi. Solo ora, dopo il cambiamento paradigmatico che ho descritto, siamo in una posizione idonea a considerare una tale possibilità. A questo riguardo, Gabbard e Westen (2003) suggeriscono che le teorie dell'azione terapeutica basate su un singolo meccanismo, indipendentemente dalla loro complessità, è improbabile che risultino utili. Ciò è dovuto alla varietà degli obiettivi del cambiamento ed alla varietà dei metodi utili per il cambiamento nel senso di quegli obiettivi come anche alla varietà delle tecniche finalizzate nel modificare differenti tipologie di processi consci ed inconsci. Perciò, siamo invitati a rimandare la questione tecnica se tali tecniche siano psicoanalitiche 'concentrandoci piuttosto sulla questione se esse siano terapeutiche' (Gabbard e Westen, 2003, pag. 826, corsivo nell'originale). Nella stessa direzione, Bleichmar (1997, 2004) propone l'adozione di una concezione modulare della psicoanalisi guidata dall'idea che la mente sia costituita dall'articolazione di moduli o sistemi che obbediscono a differenti regole, che evolvono in parallelo ed in maniera asincrona, che, collegati attraverso complesse relazioni, producono e sono sottoposti a trasformazioni, e che richiedono multiple modalità di intervento allo scopo di essere modificati.

Mantenendosi in tema di scoperte interdisciplinari, Bleichmar suggerisce come sia possibile sviluppare una tecnica con specifici e flessibili interventi terapeutici nelle loro molteplici forme e , insieme al ruolo fondamentale del rendere conscio l'inconscio, enfatizza l'importanza della memoria procedurale, della ristrutturazione cognitiva, del cambiamento in azione e dell'esposizione a nuove esperienze. Ciò vuol dire una terapia specifica per ogni caso, guidata dalle seguenti questioni: quale tipo di interventi per quale sottotipo di quadro psicopatologico, per quale tipo di struttura di personalità, per quale stadio nella vita del paziente, per quali condizioni di trattamento?

Sono certo che lo sviluppo di nuove tecniche di trattamento psicoanalitico basate su questo paradigma emergente sarà uno sforzo collettivo a cui molti parteciperanno. Ciò non dipenderà, come è stato fatto finora, dalle capacità di illuminazione e di creatività di pochi clinici autorevoli, ed è essenziale che esso sia convalidato dalla ricerca empirica sul processo e sugli esiti terapeutici. In questo modo, la psicoanalisi non solo sopravviverà come forza intellettuale nel XXI secolo, ma farà anche fronte a questa sfida di partecipare attivamente al compito di tentare di comprendere la mente insieme alle discipline della biologia e della psicologia. Ciò può solo determinare un rinascimento della psicoanalisi che sarà di beneficio per quegli individui, i nostri pazienti, che necessitano di noi per alleviare la loro sofferenza.

 

Note:

(1) E' questo il caso del 'complesso della madre morta' (A. Green, 1986), la cui natura procedurale è stata discussa da Stern (1995) e da Leuzinger-Bohleber e Pfeifer (2002).

 

 

 

 

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