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INVITO AL MANICOMIO

di Irene Lizza

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 Veduta del 1877 del  Manicomio di Imola.

 

Da Irene Lizza "Invito al manicomio", Macchia, Roma, 1952.

 

Mi sono proposta di fare opera obbiettiva, senza mai perdere di vista lo scopo che è solo quello di riuscire a smuovere e a ottenere di svecchiare i regolamenti manicomiali che ancora vigono su leggi da Medio Evo.

Chi esce dal Manicomio ha il certificato penale sporco, e le leggi sono ancora quelle del 1904. Il manicomio, per quanto bello possa sembrare di fuori e nelle sue attrezzature cliniche e chirurgiche, è tutt'ora una morta gora dove migliaia di dannati affogano nella dimenticanza e dove le loro grida non sono udite e le loro ribellioni sono frenate dalle camicie di forza o dalle stringhe dei letti. Gli infermieri sono ramazzati negli strati sociali più bassi e non viene richiesto loro che di essere in buona salute e di robuste membra. E' una schiera di rozzi uomini e donne dal camice bianco, le cui mani han conosciuto il badile, e che credono che le chiavi che loro tintinnano alla cintura siano un attributo di potere e di autorità. E ciò accresce le sofferenze senza fine degli infelici rinchiusi in un doppio girone, come neanche Dante ha saputo immaginare: il male che stritola loro la testa e i sensi e le porte serrate.

IRENE LIZZA

 

CAPITOLO PRIMO.
 

<<Il tassì si fermò. Mi fecero scendere ed entrare di corsa in una larga portineria dalle pareti gialle, macchiate di umidità, dove mi fermarono e diedero in fretta le mie generalità. Subito dopo due enormi uomini mi afferrarono per le braccia e mi portarono di peso, attraverso un tristissimo cortile, fino ad un cancello che fu dischiuso avaramente e serrato dietro di me.

Una coppia di grasse infermiere mi prese in mezzo e mi ingiunse di spogliarmi. Ero all'Ospedale Civile, reparto Astanteria dei pazzi, centro di raccolta e di osservazione dei candidati al manicomio.

Portavo una sciarpetta fermata con una spilla; mi cominciarono a tremare le mani e, nell'affrettarmi, non riuscivo ad aprire la piccola molla. Dovevo spogliarmi in presenza loro e delle ricoverate, non ebbi modo di indugiare: mi strapparono gli abiti di dosso, non badando a che cosa si lacerasse: capo per capo, tutto mi fu tolto e buttato su di un tavolo. 

Una terza infermiera elencava ogni cosa su di un gran registro; ogni cosa, compreso le scarpe, le calze e quanto avevo nella borsetta, osservando ogni oggetto con commenti peregrini. Ero nuda. Continuavo a tremare, non di orgasmo soltanto, ma anche di vergogna.

Scrutandomi la pelle e indagando tra i capelli, un'infermiera osservò con evidente compiacimento che ero pulita. Mi diedero delle pianelle che puzzavano di creolina e mi spinsero nel bagno dove mi aspettava una densissima nuvola di vapore che offuscava l'ambiente e la vasca d'acqua caldissima, sul bordo della quale era un pezzo di sapone nero.

La nettezza della mia pelle e il fatto di non avere insetti non mi risparmiarono da una densa saponata sul capo dal cui impeto tentai invano di difendermi strizzando forte gli occhi. Ripetuti rovescioni d'acqua mozzafiato: evidentemente avevano, più che un fine igienico, la funzione di calmante preventivo pel caso di una mia eventuale ribellione. 

Io ero, purtroppo, assai più che calma, al punto che ero finita lì affetta dalla morbosa calma tipica della depressione nervosa.

Mi rizzarono alfine in piedi e il bagno finì.

Un ruvido pettine fitto tuffato in una densa soluzione disinfettante, mi appiccicò i capelli sulla cuticagna. Mi fu infilato un ruvido camicione spaccato di dietro, senza neppure il bottone dell'unico e vedovo occhiello alla collottola. Ogni volta che dovevo scendere dal letto, non potevo evitare l'esibizione involontaria del dorso.

Fui stesa nel letto n° 7. Avevo le spalle gelate. In tutto quel tempo le infermiere non avevano scambiato che qualche parola tra loro, ignorandomi come persona e manipolandomi come un oggetto. Da parte mia non ero stata capace di aprir bocca dall'istante del mio ingresso.

 

*

La corsia, stretta, con una trentina di letti di ferro addossati alle pareti, aveva tre grandi tavoli rettangolari nel mezzo, sui quali si svolgeva tutto quanto era attinente a quel genere approssimativo di vita; non c'era altro, all'infuori delle <<comode>> o seggette a foggia di poltrona, in ferro smaltato di bianco, poste tra un letto e l'altro, e qualche sedia; non un armadio, non un tavolino da notte, non uno specchio; non un quadretto né un vaso di fiori, nulla; soltanto, dalla parete di fondo, pendeva l'agonia di un bruno Cristo in Croce. Ai ferri dei letti, celate dalle coperte: le <<manette>> e le <<gambette>> per legare i polsi e le caviglie delle donne furiose o delle povere illuse di poter compiere una qualsiasi reazione. 

Tenute a dovere per le braccia del nerboruto personale, inizialmente quasi tutte le internate si dibattono mugghiando, urlando, come animali che recalcitrino all'ingresso del mattatoio; finiscono poi, con la bava alla bocca, assicurate a far corpo unico con il letto, ansimanti, gli occhi strabuzzati o chiusi.  

L'infermiera che mi aveva rastrellato i capelli, grata forse che io non ero di quelle <<che fanno tribolare>>, mi portò un bicchiere di latte freddo. Il recipiente di alluminio puzzava di rancido; ma bevvi con gratitudine; la gola mi si disserrò, ma le mani non smisero di tremare e fecero così traboccare parecchio latte sul camicione. Imparai ben presto che il <<latte bianco>> era prezioso perché di solito veniva distribuito un insipido e lungo caffellatte. Qualcuno cominciava ad avere pietà di me, della mia faccia pallida di ragazza smarrita in mezzo a visi precocemente senili, tormentati dal male, erosi, cincischiati ed inieme nodosi come torcioni strizzati.

Più tardi, mentre ad occhi chiusi tentavo di <<non vedere>> quanto sentivo di intravvedere, una vecchia ubriaca fradicia fu proiettata più che sospinta verso il letto accanto al mio. I suoi capelli grigi erano un impenetrabile casco di lana infeltrita. Fu impossibile penetrarlo col pettine, impossibile epurarlo del brulichio immondo che evadeva sui cenci, dei quali tre infermiere fecero un cumulo di brandelli in terra. Il logoro corpo completamente nudo, rossastro, flaccido, deturpato dalla ramaglia delle vene varicose, si contorceva nei conati del vomito; e il vomito eruppe sul piancito e sul tavolo, sopra uno dei tavoli dove si faceva tutto: dal posarvi pettini e bacinelle di disinfettanti al pane e ai piatti. Tuttavia la vecchia, sia pur conciata com'era, trovò il modo di ingiuriare le infermiere che le rispondevano a tono e ridevano a crepapelle: era per esse un diversivo allegro che rompeva la cupa monotonia dell'ambiente. Il fetore di quel corpo striato di vomiticcio di vino, schiumante, inacidito, mi arrivava a zaffate corrosive. Trascinata dalle infermiere, l'ubbriaca saltabeccava riluttante verso il bagno: nel dimenarsi a destra e a sinistra i seni cascanti e gialli e le natiche flosce ondeggiavano come ghirbe sciacque a dorso di ciuco. 

Dopo poco la trassero fuori dal bagno, rapata, lustra, congestionata; la legarono sul letto con <<manette>> e <<gambette>> e le praticarono una buona iniezione di sonnifero. Dopo dieci minuti, sia pure col respiro affannoso degli addormentati per forza, russava della grossa.

Le ore passarono così fra alternative di grida e di silenzi, finché vidi scurire pian piano la cieca parete giallognola di fronte al mio letto e il lucore della finestra alle mie spalle si spense nella sera. E con la sera arrivò il medico.

*

L'aver trascorsi molti anni nella cura di ogni sorta di pazzi non aveva giovato all'espressione del volto ampio, piatto, con orecchie a ciabatta, bocca larga, irta di residuati dentoni gialli. La divisa degli ospiti dell'astanteria gli si sarebbe adattata a pennello. Mi accorsi in seguito che aveva il cuore grande come una casa, sia pure affogato nella nevrastenia. Non gli era sopravanzato fra migliaia di individui squilibrati, un pizzico di pazienza; ed era rude e gridava per dissimulare talvolta la pena che gli facevamo quando non ci poteva evitare di spedirci al manicomio.

Mi squadrò: il medico che mi aveva dichiarata idonea alla Astanteria (definendomi <<pericolosa a sé e agli altri>>) aveva scritto sui miei <<benserviti>> che ero <<allucinata>>, che <<sentivo le voci>>, in ciò confortato dalla diagnosi di un collega che mi dichiarava <<deficiente dalla nascita>>.

Non potevo, dunque, illudermi.

Il Dottore, comunque, mi chiese nome e cognome, quanti anni avessi, in che giorno, anno e mese fossi nata e vivessimo, il che valse a far segnare sulla mia <<posizione>> che ero <<lucida, orientata nel tempo e nello spazio>>.

<<Tu senti delle voci, vero?>>.

<<No, Dottore, non sento nessuna voce>>.

<<Allora, com'è che sei andata all'estero e poi non sapevi come ritornare?>>

<<Le assicuro che non sono mai uscita dall'Italia>>.

<<Ora, dici così. Ma tu senti <<le voci>> che ti danno comandi, e tu vai dove ti dicono di andare...>>.

<<No, Dottore, non ho mai sentito voci; non sono mai andata in nessun posto che non ricordi esattamente...>>

Parlavo, sì, cercavo di dire <<quanto era vero>>. Ma, naturalmente, il medico dava più credito a ciò che, per sciagura mia, stava scritto sulle carte che aveva dinanzi.

<<Allora, che cos'hai?>>.

Mi era impossibile definire alcun che:

<<Sto male, Dottore, qui, nella testa...>>.

Lo sforzo, il turbamento, la consapevolezza dell'impotenza, avevano ormai distrutto in me la facoltà di spiegarmi oltre. Non avevo più che un enorme gomitolo di ferro spinato compresso nell'angustia del cranio, lì lì per scoppiare. 

Sapevo che il tacere equivaleva ad una condanna; ma parlare mi era impossibile. Per salvarmi avrei dovuto, al contrario, raccontare la mia battaglia di ogni giorno contro la forma depressiva che man mano mi aveva portato a ricercare una forma di suicidio, avrei dovuto narrare il lungo vagare per trovare il coraggio d'uccidermi. Il gomitolo di ferro spinato urgeva dall'interno della fronte, mi dilaniava con gli aculei le meningi, mi inibiva la formulazione di una sola parola; le idee si accavallavano e mancava in me la forza per esprimerle. Dopo mesi di inutili sforzi, era arrivata la depressione che mi aveva impossibilitata a lavorare e, priva di danaro, priva di assistenza, non potendo più affrontare la vita, solo rifugio mi parve la morte.

Alcuni giorni prima di essere interrogata dal Dottore dell'Astanteria, avevo preso il trenino per E., per le montagne che conosco, sulle quali mi figuravo che avrei facilmente trovato il modo di lasciarmi morire. 

Era un vago pensiero il mio, e andai vagando per ore ed ore, verso l'alto, nella solitudine; mentre l'istinto di conservazione lottava per risospingermi verso la cittadina di E.. Esso ebbe, infine, il sopravvento. Mi sentivo malissimo. Ero stremata dalla lotta interiore e dal digiuno. Quando, tornata giù, le gambe mi portarono in una farmacia per chiedere, mi pare, un calmante, non fui in grado di domandarlo; mi lasciai andare su uno sgabello, appoggiai la fronte sul refrigerio del balcone, senza proferire parola. Era un atteggiamento preoccupante e, per giunta, m'ero imbattuta in una farmacista esageratamente apprensiva la quale cominciò subito a chiamare gente, come se la bottega andasse a fuoco.

Qualunque cosa si fosse fatto pro o contro di me, non avrei potuto muovere un dito; ma la farmacista tanto urlò che due carabinieri arrivarono in pochi minuti, mi condussero via e, issatami su di una carrozzella, mi accompagnarono a C., in una stamberga sotterranea, dov'erano un pancaccio, un bugliolo. Più tardi mi portarono una pagnotta.

Avevano ragione: io ero muta, ed essi avevano fatto bene a mettere una muta sotto custodia. Chi diceva loro che io non ero una delinquente simulatrice, che fingevo uno smarrimento mentale per nascondere le generalità? Finchè non avessero saputo qualcosa di me, non avevano altro luogo, si vede, dove meglio rinchiudermi, per mia e loro tranquillità.

Rimasi lì dentro tutta la notte, sola, ranicchiata sul pancaccio, mentre mi sfioravano e mi urtavano le scorribande degli enormi ratti delle cantine, dagli occhi feroci. Ogni donna avrebbe urlato per lo spavento, il ribrezzo, il raccapriccio; io non venni neppure meno: ero annientata già, non mi importava dove fossi e ciò che avrebbero fatto di me; mi bastava di non essere lasciata sola sui ciottoli, sola alle prese con la vita che persisteva. Pensavo così perché non sapevo né potevo immaginare ciò che mi sarebbe sopravvenuto. Fui tenuta rinchiusa lì dentro (non rammento bene) per due giorni, ma sono certa che mi passarono una ciotola di minestra, che mangiai. Devo anche aver dormito qualche ora.

Di lì fui condotta nella locale sede della <<Protezione della giovane>>; un paradiso in confronto della guardina. Le suore mi posero in una stanzetta dov'era un duro divanetto rococò rivestito diligentemente di stoffa a fiorami. Dalla finestra si vedeva un vasto cortile quadrato sorriso di piccole dalie rosse. Venne la Superiora e mi interrogò con molta pazienza. io la guardavo, capivo e tacevo.

Dopo reiterati tentativi perchè io parlassi, la scoraggiata suora se ne andò molto turbata. E me lo spiego: debbo dire anche che l'unica cosa cui riuscissi a pensare era che quel mio silenzio mi potesse aiutare a prolungare il mio soggiorno lì dentro. Vana speranza!

Mi ero quasi appisolata sul divanetto rococò; ma mi dovetti subito sollevare. Le suore introducevano una fila di ragazze loro ospiti perchè potessero rendersi conto della loro fortuna e ne ringraziassero Dio. Le fanciulle mi guardarono con facce curiose; qualcuna ostentava uno smorfioso spavento, altre ridevano e ve ne erano di quelle che manifestavano unicamente la meraviglia di essere al cospetto d'un <<fenomeno>> da baraccone. Terminò anche quella funzione spettacolare e fui lasciata sola fino a quando mi portarono una fitta minestra di riso in una grossa ciotola da caffellatte. Mi commossi perchè vaporava come roba cotta sulla legna e quest'odore rustico mi dava la nostalgia delle mie passate gite in campagna.

Più tardi mi rifecero il letto con buone lenzuola pulite. Dopo il pancaccio di legno insozzato dai ratti, non mi pareva vero di allungarmi su quella freschezza candida. Oltre la sottile parete sentii che qualcuno andava a letto per vegliare, forse, da vicino sulle incognite della mia nottata. Io ero tranquillissima: altro non potevo desiderare che star cheta immota in silenzio.

Purtroppo quel soggiorno pacifico quasi irreale, fra suorette caute, stoffe a fiorami, annosa mobilia tarlata e un tantino ammuffita, ornata di mazzetti di dalie e di ricorrenti Gesù dal cuore fiammeggiante, fu troncato bruscamente il giorno dopo. Ebbero l'idea di mettermi davanti un foglio di carta e di ordinarmi di scrivere il mio nome, le mie generalità e la mia provenienza. Obbedii e stupii che né io né altri ci avessimo pensato prima. Un gran fruscio di gonne involò il fatale biglietto e in men che non si dica un agente di pubblica sicurezza in borghese venne a prelevarmi. Dopo una breve corsa a piedi, mi spinse in uno scompartimento ferroviario di terza classe. Ero muta spaventata, smunta; ma avevo vent'anni, un corpo svelto sulle gambe, vestito d'abiti leggeri. Il mio male non si vedeva, non poteva offendere nessuno e neppure l'agente il quale, appena fummo soli nella carrozza, tentò di allungare le mani. Non so dove trovai la forza del mio disgusto, ma feci un tale salto e lo guardai con tali occhi che nonostante il mutismo che avrebbe potuto incoraggiarlo, si ritirò e non mi degnò più della sua attenzione preferendo prendere aria dal finestrino fino al nostro arrivo a M..

Ero di nuovo a M. e in quale compagnia! di nuovo a M. donde ero evasa per evadere dalla vita. Lo sgherro mi accompagnò alla Questura centrale, mi consegnò al commissario di servizio e sparì.

Non so quante ore stetti su di una panca in quel grande stanzone. Accanto a me, gomito a gomito, dei <<fermati>> o degli arrestati si susseguivano di quando in quando; poveracci allampanati, mal vestiti, barbuti, maleodoranti, laceri, smunti di fame e di paura. Io mi tiravo in là il più possibile cercando di occupare il minor posto possibile. Dopo ricerche lunghissime, riuscirono a scovare una persona che mi conosceva e le ordinarono di venire alla mia presenza per l'identificazione. La persona mi sbirciò, a malapena mi riconobbe e, infine dichiarò che, comunque, non poteva dare asilo ad una pazza, né essere a ciò tenuta.

<<Pazza?, chiese il commissario, è qui da ore e ore e non ha dato nessun segno di pazzia. Ha piuttosto bisogno di una buona assistenza...>>.

La sua perorazione cadde nel vuoto; l'onesto funzionario concluse:

<<Allora non rimane che il manicomio. Firmi qui>>.

Un grande modulo passò dalle sue mani a quelle di chi mi respingeva. Esso fu letto, studiato, compilato riletto e sottoscritto.

Il percorso dalla questura all'Astanteria dei pazzi, compresa la brevissima sosta nell'ambulatorio di un medico di via Agnello specializzato nel compilare dichiarazioni di <<pericolosità a sé e agli altri>> (formalità di questura), non durò più di un quarto d'ora.

Era questo che avrei dovuto raccontare al Dottor V.. Niente altro che questo, per dimostrargli che ero in me e per smentire quanto si era scritto sul mio conto. Poiché, invece, come ho detto, non riuscii a rispondere, l'esame fu brevissimo. La diagnosi stesa dal medico abitante vicino alla questura di <<ebefrenia catatonica>> fu più tardi confermata nella sinistra <<demenza precoce>>.

Il Dottor V. chiuse la mia <<posizione>>  dalla copertina rosa, mi piantò lì, continuò il giro della corsia e uscì dalla porta dond'era entrato.

 

 

 

NOTE di Giuseppe Leo:

 

Irene Lizza fu ricoverata nell'ottobre del 1931 nell'Ospedale Psichiatrico di Mombello, in Provincia di Milano. Il 29 settembre 1936 (in realtà il primo ottobre) viene dimessa "per questura" con diagnosi di "demenza precoce" (pare che nella cartella clinica un medico però  avesse formulato la diagnosi più verosimile di "psicosi maniaco-depressiva"). La dimissione "per questura" si poteva verificare quando, a fronte della guarigione clinica del paziente, nessuno fosse stato disposto a prendersi cura e ad accogliere il dimesso, <<assumendosi  la responsabilità del (...) mantenimento e del (...) procedere sociale>>. Irene tentò di essere accolta a casa dai suoi familiari, ma questi la respinsero all'istante. <<I miei non mi vollero. Dapprima non volevano nemmeno aprire la porta, ma alle mie insistenze, si decisero titubanti a farlo. Mi buttarono in faccia come prima accoglienza: "Torna da dove sei scappata">>. Allora decise di stabilirsi a Roma, dove visse per sedici anni (anni duri, quelli della guerra), e tra infiniti stenti si rifece una vita, ed una famiglia. Nel 1952, però, quando oramai il manicomio con i suoi drammatici ricordi sembrava essere un capitolo definitivamente chiuso dell'autobiografia, ed Irene stava per pubblicare il suo "Invito al manicomio",  le giunge una richiesta, o meglio un'ingiunzione, dal Comune di Roma di sottoporsi ad una visita medica, per disposizione del Manicomio di Mombello, <<ai fini del Controllo Sanitario sugli ammalati dimessi>>. Questa ingiunzione apre ferite psicologiche immaginabili in Irene che così scrive: <<Dunque, io che mi ero illusa di essere ormai rientrata nel novero delle persone normali, mi accorgo invece che la società ufficiale, il Comune di Roma, quelli che "contano" insomma e che pesano sul calibro sociale di un individuo, mi considerano, né più né meno di una "demente precoce" provvisoriamente in vacanza>>.  Irene, sostenuta dal marito,  inizia quindi una dura battaglia legale contro la direzione dell'O.P. di Mombello, ma al contempo, <<stanca e avvelenata fin in fondo all'anima>>, decide di abbandonare Roma. Il suo libro si conclude con una data ed un luogo: Collalbo, 27 luglio 1952. Irene si è trasferita sulle Dolomiti. Riportiamo le ultime righe del suo libro.

<<Son qui, sulle Dolomiti. Mi sto rifacendo l'anima nel silenzio, sto ore e ore distesa tra questi  boschi di pini, larici, abeti, faggi, con la testa appoggiata sul terreno soffice di muschi. Seguo il volo armonioso delle grandi lente poiane, delle grandi lente farfalle, riinserendomi gradatamente nel ritmo delle leggi di natura. La natura che non ha fretta, che fa tutto secondo un ritmo supernamente prestabilito, che segue l'armonia dell'ordine divino, il quale giunge sempre perfettamente a compiere i suoi cicli arcani.

Anch'io non ho più fretta, ormai. Attenderò, senza volerci pensare più che il ciclo della mia terribile vicenda si concluda, secondo giustizia. E Dio voglia che la mia storia stabilisca un punto e che a nessun'altra creatura al mondo, in questo mondo che si vanta di essere civile, possa avvenire più di cadere nei tragici gironi di Malebolge che mi hanno derubato tutta la prima parte - se non la migliore - della mia giovinezza, della mia anima e del mio corpo.>>

Collalbo, 27 luglio 1952

                                             Irene Lizza

 

Sull'Ospedale Psichiatrico di Mombello:

Villa Crivelli
La Villa, risalente al 14° secolo, è la più celebre di Limbiate. S’impone allo sguardo di chi percorre la Comasina e sorge sul ciglio collinare delle Groane allungandosi/allargandosi verso la valle del Seveso.  I Crivelli, a metà del '700, ebbero il gusto di mutare il palazzo-fortezza dai Pusterla-Arcornati in una squisita villa che Napoleone preferì a quella Reale di Monza, come sede della sua corte, durante la campagna d'Italia. Allora, la Villa fu spogliata del bastione che la recingeva, alleggerita con ornamenti e linee disposte su quattro piani. La forma è quella a U, con le ali congiunte da un leggero porticato, che racchiude un cortile interno. La facciata guarda a levante ornata da due torri appena sporgenti sul tetto. Tale prospetto elegante sembra abbassarsi sino ai piedi della collina, per via delle terrazze degradanti, che conducono al vasto parco-giardino rivolto alla Comasina. Attualmente è la sede dell’istituto tecnico di agraria.

 

Ospedale Psichiatrico di Mombello
Nel 1863 la Deputazione Provinciale di Milano acquistò la Villa Crivelli e le terre lungo il dorsale della collina per destinarle a succursale dell’istituto milanese come ospedale degli alienati mentali. Verso gli anni Ottanta vennero costruiti i padiglioni destinati a ospitare i malati che pian piano aumentarono. Infatti nel 1911 l’ampliamento edilizio toccò il suo culmine, con la costruzione dei “Padiglioni aperti” sul versante della collina che guarda Limbiate e che arriverà a ospitare nel corso del Novecento, circa tremila malati.
Ora nell’edificio risiedono solo i malati gravi, attualmente circa 300, mentre ad altri viene dato un alloggio adeguato alle loro esigenze ed altri ancora vengono trasferiti in ospizi.

 

L’ex manicomio di Mombello sarà il «gioiello» dell’eredità

Un’area di 700 mila metri quadrati. La settecentesca Villa Crivelli ospitò anche Napoleone

LIMBIATE - Nell'Ottocento era conosciuta come la villa di Napoleone, perché lì fissò la residenza l'imperatore francese durante la campagna d'Italia. Un secolo più tardi, la settecentesca Villa Pusterla-Crivelli e il suo grande parco vennero trasformati nell'ospedale psichiatrico Giuseppe Antonini, noto a tutti come il «manicomio di Mombello». Oggi, che la struttura sanitaria è stata di fatto smantellata e i padiglioni costruiti negli anni sono stati quasi tutti abbandonati a se stessi, l'intera proprietà rappresenta il lascito più consistente di Palazzo Isimbardi alla neonata Provincia di Monza e Brianza.
Quando la giunta Penati metterà mano alla divisione dei beni, i 700 mila metri quadrati della collina di Limbiate coi suoi «gioielli» saranno sicuramente il primo argomento all'ordine del giorno per valore economico e importanza storico-architettonica.
Costruita nel 1754 dall'architetto Francesco Croce sui resti di edifici che risalivano addirittura al Medioevo, Villa Pusterla-Crivelli ospitò nelle sue stanze il re delle Due Sicilie, Ferdinando IV, oltre a Napoleone. Nella tenuta di Mombello risiedevano la madre dell'imperatore, Maria Nunziata, e le tre sorelle Carlotta, Elisa e Paolina. E, sempre qui, il 14 giugno 1797 Paolina sposò il generale Leclerc. Dai fasti della Repubblica Cisalpina, in pochi decenni l'intera struttura fu trasformata in casa di cura per malati di mente.
Per 130 anni, Villa Crivelli fu così un ospedale psichiatrico, che intorno al 1960 arrivò ad avere più di 3000 pazienti, attirandosi l'appellativo di «colosso dei manicomi italiani». Con la legge Basaglia, l'intera struttura venne poi lentamente abbandonata. Dal degrado si sono salvati Villa Crivelli, attuale sede dell'Istituto tecnico agrario, le palazzine che ospitano l'Istituto commerciale per periti aziendali e il «Corberi», una casa d'accoglienza per malati psichici gravi. Gli altri edifici non godono invece di buona salute.
Proprio per valorizzare un patrimonio lasciato a se stesso, un anno fa il Comune di Limbiate ha ottenuto di poter recuperare tre edifici per realizzare un centro anziani, una scuola di formazione per medici e infermieri e uno spazio per le associazioni.

(Fonte: corriere della sera)

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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