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Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana: Psicoanalisi e neuroscienze
Anno/Year: 2014
Pagine/Pages: 300
ISBN:978-88-97479-06-2
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Vera
Schmidt, "Scritti su psicoanalisi infantile ed
educazione"
Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di: Alberto Angelini
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Afterword by/post-fazione di: Rita Corsa
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2014
Pagine/Pages: 248
ISBN:978-88-97479-05-5
Prezzo/Price: € 29,00
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Resnik,
S. et al. (a cura di Monica Ferri), "L'ascolto dei
sensi e dei luoghi nella relazione terapeutica"
Writings by:A.
Ambrosini, A. Bimbi, M. Ferri, G.
Gabbriellini, A. Luperini, S. Resnik,
S. Rodighiero, R. Tancredi, A. Taquini Resnik,
G. Trippi
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della Psicoanalisi
Anno/Year: 2013
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Silvio
G. Cusin, "Sessualità e conoscenza"
A cura di/Edited by: A. Cusin & G. Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 476
ISBN: 978-88-97479-03-1
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione", a cura
di G. Leo e G. Riefolo (Editors)
A cura di/Edited by: G. Leo & G. Riefolo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 426
ISBN: 978-88-903710-9-7
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AA.VV.,
"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Cordoglio e pregiudizio
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 136
ISBN: 978-88-903710-7-3
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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
Anno/Year: 2012
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AA.VV., Psychoanalysis
and its Borders, a cura di
G. Leo (Editor)
Writings by: J. Altounian, P.
Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 348
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A.
Cusin e G. Leo
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2011
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ISBN: 978-88-903710-4-2
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"The Voyage Out" by Virginia
Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
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Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
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Anno/Year: 2010
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"Vite soffiate. I vinti della
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Anno/Year: 2011
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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L'intervento
che propongo riguarda un caso clinico trattato in chiave dinamica
socio-costruttivista. Vi parlerò di I.,
giovane uomo di origine africana giunto in un servizio di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati con una sintomatologia
ansioso-depressiva.
Ritengo
però immediatamente opportuno definire la cornice concettuale entro
cui l’intervento clinico è stato ed è tuttora espresso.
Avete
poc’anzi sentito che il caso riguarderà uno straniero: ebbene, a
mio avviso, la "stranierità"
è considerata puramente come una condizione di stato e non di tratto,
che qualifica una forma di relazione basata su alcune differenze, o
meglio sull'alterità, un’alterità che si riscontra nello scambio
con qualsiasi Altro, indipendentemente dai confini territoriali di
provenienza. Tale condizione non è costante o immanente, ma è
situata e contingente, poiché la "stranierità"
si rivela proprio in rapporto ad un'alterità prima di tutto
linguistica e/o (forse) culturale.
Questa
visione è connessa al paradigma postmoderno che si costruisce intorno
all'idea della contingenza dei contesti: i fenomeni sono ancorati a
questi ultimi e specificati da essi, in essi, perciò nulla è
conoscibile allo stato puro, ma solo come prodotto della costruzione
della realtà. La conoscenza, in chiave semiotica socio-costruttivista,
è quindi un'interpretazione del mondo, non il mondo in sé, poiché i
fenomeni sono sempre situati, locali, contingenti, mai totali e
generali. Essi non sono in quanto sono, ma sono in base ad un processo
sociale di significazione tramite cui si dà senso alle esperienze.
Dunque, il senso non è negli eventi ma nel modo con cui ogni soggetto
lo genera.
Il
contesto qui trattato è anche e soprattutto un contesto mentale
locale e situato, in continuo movimento e dentro la situazione, e
l’emersione dallo scontato conduce alla costante messa in
discussione dell'esperienza di scambio clinico e proprio questo
favorisce lo sviluppo, operando la traduzione da fenomeno a processo.
L'attenzione ai processi definisce l' inconscio (in senso matte
blanchiano) come uno sviluppo di semiotizzazione affettiva, per cui la
mente si vincola e viene vincolata al contesto proprio in base alla
presenza dell'altro e all'emergenza del discorso.
Perciò,
così come la "stranierità" si traduce da fenomeno a
processo, lo stesso sarà per la narrazione degli eventi in seduta e
lo stesso ancora vale per il concetto di resilienza.
A
mio avviso, essa infatti non è una capacità, un a priori, una
condizione primaria che permette al soggetto di fronteggiare
situazioni critiche ritornando a sé. Sicuramente, gli assetti
personologici e le esperienze precedenti sono fattori determinanti per
la resilienza, ma credo che essa non sia in quanto tale, quanto
piuttosto un processo continuo e dinamico e, poiché dinamico, legato
al tempo e alle esperienze.
L'approccio
dinamico socio-costruttivista è un approccio negoziale e
co-costruttivo: dunque, contempla un'idea di Persona dotata di
agentività e distante dall'ottica della perdita, del deficit, della
carenza. In tale ottica, il clinico accede alla Persona attraverso e
nella relazione nella sua totalità, nel suo essere Persona e non
esclusivamente nelle accezioni di stato. La posizione del clinico è
di estraneità, è di rinuncia al possesso assoluto di sé e
dell'altro nelle categorie e ciò equivale ad intercettare le modalità
del significare distinguendole dai contenuti della narrazione, de-ontologizzando.
La
relazione clinica è il luogo mentale ove i significati possono
trasformarsi proprio sulla base della presenza delle alterità, della
co-costruzione tra alterità: pertanto, il cambiamento di posizione
delle persone equivale ad un cambiamento nella significazione che
favorisce il processo di resilienza, anzi equivale al processo di
resilienza. La resilienza non è solo un risultato, è un processo
continuo in continua trasformazione. È lo sviluppo e la posizione
dello sviluppare pensiero, slegandolo dall’incalzare degli agiti e
sintonizzandolo sul dare parola alle emozioni e ai comportamenti.
Ed
ora veniamo al caso in questione.
La
storia di I. non è una storia di guerra e di persecuzioni politiche,
di carcerazioni e di torture. Eppure la sua storia ha delle
connotazioni fortemente traumatiche.
I.
viene dalla Guinea Bissau. Giunge in Italia circa 3 anni fa partendo
dalla Libia, dove lavora come muratore prima che la guerra travolga il
Paese. Prima ancora, trascorre un anno in Mali, dove ripara dopo la
fuga dal suo Paese, per via di minacce di morte da parte del padre
della sua fidanzata e per via delle umiliazioni e dello sfruttamento
di alcuni parenti.
I.
è figlio unico. Sua madre muore per malattia un anno prima della sua
fuga. Il padre invece non c’è più da quando I. è un bambino e la
sua morte è un accadimento oscuro: pare sia stato ucciso per essere
privato dei beni, alcuni dei quali in società con il padre della
fidanzata, allora intimo amico del padre di I..
A
causa delle minacce di morte, dell’assenza di riferimenti affettivi,
della preoccupazione nei confronti della fidanzata, anch’ella
osteggiata nella relazione con I., questi decide di lasciare il Paese
e di tentare di creare le condizioni per un futuro più roseo e
normale in luogo altrove in cui accogliere il suo amore.
Le
realtà che incontra strada facendo si rivelano invece faticose e
pericolose e, giunto in Italia via mare, I. è visibilmente provato e
spossato. Viene inserito in un centro di accoglienza nel Sud Italia.
Poco dopo l’inserimento, viene raggiunto da una notizia nefasta: la
sua fidanzata e sua madre sono morte in un incidente stradale, mentre
si recavano in aeroporto. La sua fidanzata stava partendo per
ricongiungersi con lui e finalmente iniziare una nuova vita insieme,
senza ostacoli e lontano dalle pressioni e dalle minacce di morte.
La
già evidente condizione di precarietà psicofisica di I. si acuisce
fino a raggiungere uno stato di profonda depressione, con inappetenza,
isolamento, umore depresso, mutismo, pianto, sentimenti di colpa,
spossatezza, insonnia, apatia, anedonia, disistima, trascuratezza
nell’igiene personale e degli spazi, emicrania, ideazioni suicidarie.
Nonostante
la terapia psicofarmacologica di tipo antidepressivo, non appaiono
significativi sviluppi sul piano del benessere e l’équipe del
centro di accoglienza avanza richiesta per l’inserimento in un
Progetto del Servizio di Protezione per richiedenti asilo e rifugiati,
ove possa essere accompagnato e seguito in maniera più adeguata e
peculiare.
Quando
lo incontro la prima volta, trovo un giovane molto magro, stretto
nelle spalle, chiuso posturalmente, con lo sguardo rivolto verso il
basso e l’espressione facciale cadente, stanchissima, spenta. Parla
italiano in modo insufficiente: non conosce lingue coloniali e parla
una lingua orale per cui risulta difficile reperire un mediatore
linguistico. Nella relazione, I. si dimostra immediatamente adesivo e
si connota come vittima sfortunata degli eventi che narra, nonostante
la povertà di vocabolario in lingua italiana.
Il
tema della morte è molto presente e nei colloqui riguarda un
desiderio di lasciarsi andare, di abbandonarsi agli eventi, di
privarsi di tutto, anche del cibo. Alla disponibilità rispetto alle
attività formative e ricreative proposte dal Progetto, fa seguito uno
scivolamento verso il basso del tono dell’umore fino all’immobilità
e ad un quadro caratterizzato dal senso di debolezza e di svuotamento,
dal rifiuto relazionale, dal senso di colpa, da un abbassamento
dell’autostima, da una totale assenza di programmazione e da
anedonia. A ciò si accostano stati somatici riguardanti spossatezza
fisica, ipersonnia e insonnia alternate, letargia.
Nelle
sedute, risponde a malapena a delle domande, a degli stimoli con dei
cenni del capo o con tirati sì e no, come se facesse degli sforzi
sovrumani a reagire.
Una
pianificazione congiunta di interventi tra psicologa e operatori del
servizio permette un lento viraggio della situazione, passando ad un
graduale coinvolgimento in attività ricreative, formative,
scolastiche, al fine di configurare una struttura di sostegno che
funga da cuscinetto per la condizione di annientamento di I..
In
quest’ottica, si instaura una stretta collaborazione con la
psichiatra del CSM di riferimento, con la quale si stabiliscono
interventi in continuità e condivisi.
Nei
quattro mesi successivi, sembra descriversi un andamento tra uno
sforzo di organizzazione e una fatica nel sostenere e mantenere
costanza rispetto alle attività intraprese. Nelle sedute spesso
appare spento, paralizzato e dice di essere impossibilitato a parlare,
ad esprimersi: si sente morto e descrive la sua condizione come una
sospensione, una sorta di dannazione che lo tiene in vita pur essendo morto
dentro. Ripercorre continuamente l’evento della morte della
fidanzata: è tutto dentro a questa condizione, a tal punto da perdere
i confini del senso di realtà.
Il
suo vocabolario linguistico italiano si arricchisce velocemente, ma lo
studio della lingua appare estenuante: il soggetto avvisa difficoltà
nel mantenimento dell’attenzione e della concentrazione, lamenta
pensieri con forma di reviviscenza legati alla fidanzata deceduta. A
volte racconta di sentirsi in colpa per essere in vita, altre si
chiude in una fantasia di relazione con lei per cui nulla è
interrotto e lui è ancora implicato in una storia d’amore.
Quest’aspetto sembra evidente anche nel rifugiarsi nella visione
continua di film d’amore e "telenovelas" di cui sembra
necessitare, come se lo spazio della sopravvivenza fosse dato
dall’aggrapparsi al sogno, perdendo il confine della realtà e anche
il senso del tempo.
I.
è immobile: a volte non si presenta alle sedute, altre volte sembra
assente pur essendoci, altre dichiara di non voler parlare, ma di
fatto non lascia la stanza e nel frattempo si stupisce del fatto che
io sia lì, a disposizione e che non riempia mai il suo spazio con
altri pazienti, con altre sedute. Nel suo vuoto, insisto con la mia
presenza affinché pian piano I. possa percepire che è possibile
costruire nella relazione uno spazio di libertà in cui lui possa
viversi senza sentirsi colpevole o cattivo, dipendente o annichilito.
Io lo aspetto, mantenendo interventi supportivi.
Pian
piano, l’atteggiamento adesivo o di isolamento lascia il posto a
momenti di apertura alla conflittualità che sembrano produrre una
dichiarazione di identità, avviando una relazione paritaria
scoraggiante la dipendenza. Attraverso lo specchiamento e l’alterità,
I. inizia a confrontarsi, dichiarare, preferire, decidere, opporsi,
riflettere e raccontarsi in forme che segnano uno slancio verso il
cambiamento e verso un lavoro di tipo espressivo. Ad esempio, un
giorno in seduta racconta di sentirsi vivo e lo dice dopo aver tradito
l’isolamento per andare a fare una passeggiata con delle persone
appena conosciute. L’incapacità di dire di no all’invito, data
dal senso del dovere, è diventata la possibilità di uscire dalla
condizione di solitudine, di tristezza e di senso di morte. Sperimenta
così una sensazione di benessere e di compagnia, la sospensione dei
suoi pensieri sulla fidanzata, la curiosità per quelle persone.
La
relazione con I. si sviluppa mediante uno scambio in cui il paziente
prende consapevolezza dei suoi sentimenti, dei suoi comportamenti e
comincia lentamente a darvi parola, fino al punto in cui riesce a
ripercorrere la sua storia passata e a narrare il significato dei suoi
vissuti anche attraverso l’uso della metafora, che diventa un canale
comunicativo importante e che stabilisce la capacità di allegorizzare
e trasformare stati d’animo in immagini, in simboli, in nuovi segni.
Volta
per volta, I. dà voce al suo passato, al suo modo di vivere in
relazione con la fidanzata e con la madre, figure portanti della sua
vita. Gli interventi mirano ad umanizzare tali oggetti, ricostruendo
ricordi di vita quotidiana, eventi importanti dal valore negativo e
positivo, al fine di relativizzare il vissuto nel tempo, decostruendo
quel senso di continua presenza che caratterizza le esperienze
traumatiche.
Dico
trauma perché la perdita della sua fidanzata e le precedenti perdite
(madre, terra, lingua, vissuti) non appare relegabile nel tempo ad un
lutto: piuttosto si configura una forma traumatica caratterizzata
dalla presentificazione degli oggetti, degli eventi, più in generale
delle esperienze, dall’assenza di "infuturazione", dalle
reviviscenze, dalla tensione generalizzata o specifica, dalle
difficoltà mnestiche ed attentive, e soprattutto da un blocco della
spazio-temporalità del soggetto.
Se
il tempo è un organizzatore delle esperienze poiché la memoria è
ricostruttiva, nel processo traumatico esso non è scandito ma
condensato e ingloba in sé il criterio dello spazio. Così tutto è
continuamente presente in una forma magmatica e saturante che veicola
la sintomatologia fin qui nota e la reificazione continua delle
esperienze vissute.
Dunque,
a mio avviso, il trauma potrebbe essere inteso come un processo di
gravitazione di elementi che assumono una configurazione
cristallizzata e continuamente autoreplicantesi in un moto circolare
che attrae, assorbe e satura tutti i segni convergenti e massimizza e
irradia i significati traumatici su tutta la realtà.
È
l’uso del dispositivo clinico dell'estraneità a consentirmi di
relativizzare la dimensione traumatica di I. e di integrarla in una
visione complessiva e complessa, permettendomi di tollerare la sua
narrazione catastrofica, di metabolizzarla per restituire una funzione
di mentalizzazione e quindi di rappresentazione della sua mente e non
di rappresentazione di lui.
La
forma relazionale e di scambio discorsivo favoriscono la rottura della
circolarità della significazione traumatica, la sospensione
dell'agito, il riconoscimento delle differenze e dei movimenti,
accedendo ad un pensiero nella relazione e sulla relazione.
In
quest’ottica si inscrive la mia relazione col paziente e in
quest’ottica è possibile distinguere la sintomatologia depressiva e
post-traumatica dal suo assetto di personalità depressivo,
caratterizzato dall’idea della perdita e dalla dicotomia
cattiveria/bontà e solitudine/relazionalità.
La
cornice della co-costruzione consente col tempo di sganciare il
soggetto dalla dipendenza altrui, dalla necessità di esistere solo
attraverso l’altrui nutrimento affettivo, dalla paura di essere
inadeguato e aggressivo. La conflittualità che si esprime in alcune
sedute è l’emersione del sentimento della rabbia con cui I. fa i
conti pian piano, esplorandola come emozione, senza negarla o
condannarla moralmente.
Ciò
favorisce il processo di resilienza, il riconoscimento delle
rispettive alterità, la possibilità di individuazione senza il
terrore dello svuotamento e della separazione.
In
tal modo, I. inizia a riflettere sulle esperienze drammatiche e
spiacevoli della propria vita, sul senso di umiliazione con cui è
cresciuto, sull’idea dello sfruttamento e del soggiogamento a cui si
è sentito costretto dalle persone e dagli eventi, sulla vergogna di
non essere capace, di sentirsi debole. Risignificare gli eventi
permette di ritrovarsi nel qui ed ora della relazione, nel presente
della sua esperienza migratoria in cui tutto è nuovo e sconosciuto,
estraneo e da abitare fisicamente e psicologicamente.
Si
intravede una forma di processo secondario che discrimina e crea
mondo, distingue le esperienze secondo categorie spazio-temporali, le
ri-significa, storicizzando gli accadimenti.
Su
mio invito, inizia ad occuparsi del giardino della casa in cui vive
con l’intento di ritrovare un’agentività, di occuparsi, di
esprimere un saper fare in un ambito a lui caro: la natura e la cura
delle piante.
Si
abbassano i livelli di ansia, I. organizza il tempo, scandendolo tra
gli impegni domestici e la frequenza del corso di alfabetizzazione,
che si rivela fallimentare per la vergogna e l’ansia di giungervi
analfabeta e di non avere alcun metodo didattico a cui ancorarsi. Le
sue assenze scolastiche non gli permettono di accedere alle prove
finali e di conseguire un certificato ma, nelle sedute, uso questa
difficoltà come un’occasione per riflettere col paziente sulla
situazione e decostruire quell’aspettativa di punizione che questi
si aspetta per non aver mantenuto il suo proposito. Dunque, le sue
fantasie non trovano riscontro: piuttosto nel percorso psicologico si
esplorano i significati e i modi con cui I. interpreta le situazioni.
Pare infatti che cerchi l’espediente per espiare un fantasma di
colpa che si sente addosso continuamente e lo fa sentire sbagliato e,
proprio per disconfermare questa dinamica di pensiero, l’intervento
clinico esprime un’interferenza a questa credenza, connotando me
come presenza non giudicante, come interlocutore paritario, in una
distanza che permette di riflettere insieme e insieme cooperare ad un
cambiamento di significazione.
Le
esperienze nuove fanno ancora paura e agiscono sul livello di
autostima di I. che scende fino a sentirsi un “poverino”
difettoso e senza speranza, rappresentandosi come una vittima arenata
ed impossibilitata allo sviluppo, come un bambino rifugiato nella
fantasia e nelle regressioni. Decostruendo i significati attribuiti
alla sua posizione, I. costruisce dall’altra parte una base fatta di
consapevolezze, senso di realtà e capacità introspettiva e critica
tali da organizzare nuovamente tempo, azioni e mente, dimostrando che
il suo atteggiamento “pacifico” non è più sintomo di passività
ma di scelta ragionata.
Comincia
a dipendere meno, a vivere indipendentemente dalla presenza
dell’altro, a riscoprire curiosità e piacere per le esperienze, a
progettare e attuare esperienze lavorative, a decidere, a confrontarsi
su posizioni differenti con me e gli altri operatori, ad avanzare
richieste senza il timore di disturbare.
Il
quadro sintomatologico va scemando, tanto da non ritenere più
opportuna l’assunzione della psicofarmacoterapia. In questo
passaggio, I. si separa dal farmaco a cui aveva attribuito
precedentemente la responsabilità del suo benessere e lo fa
concertando la sua esigenza di non assumerlo con il percorso tenuto
con me e con la psichiatra del CSM. Lentamente, I. chiama le emozioni
con il loro nome, distingue il passato dal suo presente, inizia a
progettare il suo stare in Italia e ad immaginare il suo futuro, a
prendere consapevolezza dei suoi modi disfunzionali e a maturare nello
scambio con me delle visioni alternative, assumendo in sé ed
integrando punti di vista differenti, la sua stessa alterità.
Col
tempo, le figure della madre e della fidanzata diventano dei
soggetti-guida, trasformandoli misticamente in presenze-simboli-guida,
in punti di riferimento per la mente, e conservando l’idealizzazione
nell’ambito degli insegnamenti che dal rapporto con loro son
derivati.
È
qui che I. riferisce di sentirsi tutto e intero, di piacersi così
com’è, di sapere che cadrà ancora e molte volte ma che ora quando
cade, resta a terra il tempo necessario per riprendere le forze e
rialzarsi, proprio come gli diceva la madre nei momenti critici.
Su
questa scia, assume che discutere e litigare sono un modo per
conoscere l’altro e non per perderlo o distruggerlo e afferma la sua
identità ristrutturata quando spiega che “nessuno
può educare un bambino a modo suo perché lui deve vivere per come è”.
Col
tempo, l’abitare se stesso corrisponde a rimettere in discussione il
suo essere straniero e a percepire che qualunque estraneo o straniero
è solo una persona non conosciuta e da conoscere, a cui chiedere, da
cui ascoltare storie ed esperienze, a cui raccontare le proprie:
“Prima
ero chiuso col mio dolore. Non ero pronto. Quando è morta la mia
fidanzata, mi sono ammalato e non parlavo più. Ora ho capito che
bisogna far uscire le cose dal cuore. Voglio vivere, anche se non farò
magari le cose di prima. Voglio ridere. Anche il corpo vuole… quando
tu e le altre persone mi parlate,
mi fate sentire dove io non ho mai pensato di essere. Ora so che le
persone ci sono. Ma so che anch’io ci sono. Prima pensavo che non
c’ero. Anche ora ho tanti pensieri tristi ma penso sempre che poi
passano”.
I.
assume la responsabilità su se stesso, sospendendo e decostruendo
quel senso fatalistico e fallimentare che spesso ha dato alla
“profezia che si autoavvera”, rappresentandosi come attore delle
sue esperienze, rompendo il ciclo tragico del sentirsi vittima e
promuovendo una sorta di emancipazione e di rivalsa dalle perdite e
dalle umiliazioni: questa è per me la resilienza di I..
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