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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

 

          

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CINQUE ANNI IN  MANICOMIO

di Amilcare Marescalchi.

Click to enlarge  Veduta del 1876  del Nuovo Manicomio di Siena.

Da "Cinque anni in manicomio. Ricordi autobiografici" di Amilcare Marescalchi, La Navicella. Roma, 1955.

 

PERCHE'  ?...

 

Primo maggio del '54. Mi accingo, oggi, a scrivere queste pagine di <<vita vissuta>>: esse richiamano impressioni e ricordi, episodi sovente tragici, e , a volte - grazie a Dio - comici, i quali - anche dopo parecchi anni - mi balzano dalla memoria vivi e freschi come di ieri. Non <<romanzo>> e neppure <<storia romanzata>>, dunque, abbellita ad arte dalla fantasia e dal sentimento. No! <<semplicità e verità>>: è questo il motto che mi prefiggo, come programma, sin da questa prima pagina; dolente solo che la mia penna sia troppo impari al soggetto e all'ambiente che vorrei ritrarre, sia pure di scorcio e a pennellate rapide ma colorite. D'altronde, è tale e tanto il <<pathos drammatico>> che emana dai personaggi di questa dura vicenda e dalle peculiari situazioni in cui essi si muovono e vivono, che nessuna fantasia di romanziere, anche la più accesa e fervida, riuscirebbe mai a neppure intravvedere. Tanto meno poi a rendere con la dovuta e plastica evidenza della realtà. 

Perchè questo libro? ... Esso ha un duplice scopo:

portare un raggio di fede e di speranza a chi vede forse dinanzi a sé, come io lo vedevo, il buio completo e non sa rassegnarsi (e come sarebbe mai <<umanamente>> possibile?!...) a dare un addio assoluto alla vita e alle sue più intime gioie, per ridursi a essere, per anni e anni - sino all'ultimo giorno, forse - un simulacro d'uomo, un cencio inutile a sé e agli altri: peggio ancora, un <<animale da cortile>>. E'  la frase che ho colta sulle labbra di qualche disgraziato che non aveva ancora smarrito il senso della dolorosa realtà;

richiamare l'attenzione degli psichiatri, e di chi è preposto alla direzione delle Case di Cura, su questo fatto semplicissimo, che splende, per me, di luce meridiana: <<Nei Manicomi (in tutti, io credo) vi sono inconvenienti che si possono "eliminare"?... "si devono eliminare". Ve ne sono altri che si possono "attenuare"?... "si devono attenuare". Ve n'è altri, invece, che non si possono né eliminare né attenuare, poichè aderenti purtroppo alla natura stessa delle cose; legati, indissolubilmente, all'ambiente?... "si compensino con altre provvidenze" che li rendano più tollerabili; mettendo il malato, per quanto è possibile, nelle condizioni più atte a trarre vantaggio dal suo ricovero in Ospedale, e non sia lasciato (com'è ora, in molti casi) "nelle migliori condizioni per peggiorare". Parlo "per esperienza personale", non per "sentito dire": nel corso del lavoro avremo agio di chiarire meglio questo concetto importantissimo; direi quasi "fondamentale". Tacere per "opportunismo", o -peggio ancora - per "coniglismo", sarebbe grave colpa. 

Lo so: c'è qualche libro, già, su questo argomento, scritto con lodevoli intenzioni, con eleganza di stile e con rara sensibilità: mi riferisco, in modo speciale, a <<Fra malati di mente>>  di Rosario Ruggeri e <<Io e i pazzi>> di Enzo Girone. Ma (oltre la impossibilità morale di poter denunciare, a viso aperto, inconvenienti, deficienze e lacune dell'organizzazione ospitaliera, di cui egli è parte integrante, se non addirittura <<succube>>) il medico, specie di un grande ospedale, ha, ordinariamente, contatti assai brevi e saltuari, quasi fugaci, con gli ammalati: è ben lontano, quindi, dal poter studiare a fondo l'animo e la complessa e mutevole psicologia di essi. 

Le stesse <<cartelle cliniche>> ( e più volte ho avuto occasione di averle sott'occhio, sia pure brevemente e di sotterfugio) sono spesso compilate e aggiornate quasi per formalità di legge, in base a rilievi superficiali e informazioni schematiche e scheletriche, fornite da infermieri spesso (non sempre) dotati di buona volontà, di molto buon senso e di ottimo cuore; ma, d'ordinario, di cultura limitatissima; scelti, generalmente, tra i lavoratori dei campi e delle officine; qualche volta ex caprai, magari, i quali hanno sì frequentato un rapido corso per infermieri; ma sono, praticamente, al di sotto - molto al di sotto - della loro mansione, ch'è pure <<missione>>  nobile e delicata. Non così il malato, invece, il quale sia stato anni e anni a continuo contatto d'infermi di diverso carattere, cultura e condizione sociale; affetti da disturbi nervosi o mentali disparatissimi; di diversissima fisionomia morale; che è  passato, forse, per cinque o sei ospedali e per vari reparti del medesimo ospedale, e ininterrottamente, giorno e notte, ha veduto con i suoi occhi e ha udito con le sue orecchie, chiudendosi nella mente e nel cuore impressioni e ricordi che resteranno incancellabili nelle pieghe più riposte della sua anima. 

D'altra parte, io penso ( e credo non a torto) che il medico psichiatra, anche il più abile e intelligente, anche specializzato, ha dinanzi a sé un campo bellissimo, professionalmente, ma anche vastissimo; troppo esteso, cioé, in superficie, perché egli possa penetrarlo e sondarlo in profondità. Il malato, invece - specie l'introspettivo - se è dotato di una certa dose di spirito di osservazione e sa esprimere, almeno discretamente, il proprio pensiero e ha avuto la percezione più o meno esatta dei fenomeni psichici che si sono succeduti in lui, e dei fatti svoltisi attorno a lui, in <<determinati casi>> e limitatamente alla propria situazione, può avere acquisito una conoscenza e un'esperienza preziosa che il medico stesso non sempre può vantare. Per questo, anche se il mio povero <<io>> non mi fa velo - spero che le mie modeste pagine, scritte col cuore (niente <<retorica>>, quindi; niente <<letteratura>>) abbiano a fornire, agli stessi scienziati, almeno <<qualche spunto>> come materiale d'indagine e di studio, a vantaggio di migliaia e migliaia di infelici che attendono ansiosi un lembo di azzurro nella foschia densa che li avvolge: per risuscitare alla vita, all'aria, al sole, alle gioie della famiglia e del lavoro, e riprendere il loro posto di battaglia tra gli uomini loro fratelli.

Un ultimo rilievo: per quanto riguarda le persone delle quali, mio malgrado, non potrò dire tutto il bene che vorrei, <<tacerò  o falserò il nome>>: ciò per un senso di riserbo e di delicatezza facile a comprendersi. Se sapessi, di certezza assoluta, che il mio libro può recare danno, materiale o morale, anche a un solo individuo, preferirei buttar la penna nel cestino e continuare a ruminare ancora entro di me, come ho fatto sino a oggi, ciò che ho in animo di scrivere.

 

PARTE PRIMA

A BELLOSGUARDO

 

Ero insegnante in una città delle Marche: quattro classi di francese, assai numerose. In seconda media, cinquantasette allievi. Tanto che, un bel giorno, visto il pericolo che aumentassero ancora, affrontai, su per le scale, il Direttore. E gli dissi:

- Se lei accetta ancora un allievo per la seconda, una delle due: o sdoppia la classe, o provvede a sostituirmi.

- Sissignore! - mi rispose seccato e un tantino ironico. - Terrò conto del suo <<ultimatum>>. - E fu di parola.

***

Mesi di lavoro, per me intensi e febbrili, quelli dal settembre '39 al maggio '40. Mi pareva, nonostante i miei 58 anni prossimi a suonare, di essere ringiovanito. Bicicletta, caccia, bocce, tamburello, cerchietti: piccole marce al passo di parata, smentendo, così, per mio conto, la famosa frase: <<Il passo romano non è fatto per i panciuti>>. Lo studio, poi, era per me una gioia intima e viva; la fatica dell'insegnare un divertimento; l'attendere alle mie pubblicazioni, una delizia. Camminavo svelto e leggero; sorridevo alla vita e ci scherzavo su, come un ragazzo di vent'anni.

Ma, un brutto giorno, quasi all'improvviso, ecco una diminuzione considerevole delle facoltà mnemoniche; un certo torpore  e sopore nell'inventiva; una stanchezza fisica e mentale addirittura sconcertante. E anche il mio carattere, d'ordinario gaio e faceto, subì una scossa profonda. M'irritavo per un nonnulla; cercavo la solitudine. E anche  questa mi era di peso, poichè mi permetteva di concentrarmi in me stesso; mi costringeva, quasi, a una <<introspezione>> che acuiva il mio stato morboso. Non tolleravo assolutamente i rumori della strada. Una notte, che un gruppo di individui, forse alticci, s'era fermato a cantare a squarciagola all'angolo della via, mi aggrappai irosamente all'apparecchio e tempestai di telefonate la Questura e la Caserma dei Carabinieri, finchè non mandarono degli agenti a far cessare il baccano. Il giorno dopo, il Maresciallo (bontà sua!) mi chiamò, per dirmi che aveva elevato parecchie contravvenzioni per <<schiamazzi notturni>>. Aveva tuttavia commesso una grave imprudenza: quella di far noto, ai colpevoli, il mio nome. Me ne potevano derivare rappresaglie. Nessuno, però, si fece vivo e fu fortuna, per lui e per me. Ricordo, tra l'altro, che a volte, i miei nervi erano tesi sino allo spasimo: sembrava mi si dovessero spezzare; tanto che non sopportavo più neppure il <<tic-tac>> dell'orologio da tasca sotto un secondo guanciale. Non ne feci motto, però, a nessuno. Lo credevo un fenomeno passeggero, dovuto soprattutto al <<surmenage>> mentale. Le vacanze, prossime ormai, avrebbero rimediato a tutto.

Ma, ai primi di giugno, ecco, inatteso, un gravissimo dispiacere: fu il colpo di grazia; quello che mi diede il tracollo.

Trasferito a Roma, il fatale 10 giugno 1940 intesi dalla Radio, alla stazione di Fabriano, il discorso del Duce, che suonava la <<diana>> di guerra. Mi fermai a Gualdo, presso amici di famiglia, che furono tanto buoni e comprensivi con me. Speravo di ritemprarmi alquanto nella quiete di quelle colline ridenti, prima di raggiungere la mia nuova sede. E invece!... il giorno mi trascorreva lento e pesante; la notte, un tormento. Al buio non riuscivo a chiuder occhio: la fantasia, eccitata, lavorava più intensa che mai; non mi dava tregua un istante. la luce, poi, mi urtava egualmente; tanto da costringermi a fasciare la lampadina con l'asciugamano. Se mi appisolavo, sognavo incubi spaventosi, terrificanti: balzavo allora a sedere di soprassalto, stringendo denti e pugni; fremendo di odio e di livore contro tutti e contro nessuno. Il mattino, con le sue prime luci, mi portava una calma relativa. Vagavo, senza scopo nè meta, tutto il giorno, per la collina; scendevo la valletta tra il verde bruciato dei colli, in cerca di qualche raro zampillo di acqua sorgiva: mi distraevo un po'. Ma ecco che l'imbrunire riconduce l'ansia e il terrore della notte. C'è forse da stupire se, in quelle condizioni dolorosissime, nella confusione e nel disorientamento quasi totale della mia psiche, mi balzò innanzi più volte l'idea di sottrarmi a quelle sofferenze indicibili, in modo violento, coi soliti <<barbiturici>>? ... Ma buon per me, che - in quei giorni di lotta angosciosa - mi aggrappai tenacemente  alla Fede. E, grazie a Dio, superai la pericolosa suggestione.

Una mattina, ruppi ogni indugio: ringraziai dell'ospitalità generosa e fraterna e presi il treno per Roma. La mia nuova dimora era alle porte della città eterna: in condizioni normali, ne sarei stato felice. Ora, invece, mi ci sentii subito a disagio, terribilmente. Trovavo tutto brutto, pesante, insopportabile. Chiesi, allora, di passare qualche tempo con i miei, che abitavano in luogo incantevole, sulle pendici di Monteverde. Chissà!... il tepore degli affetti familiari avrebbe disciolto, forse, quella fascia di ghiaccio che mi si stringeva, ogni giorno di più, intorno al cuore. Il quale, a volte, sembrava quasi si fosse fermato d'improvviso e non battesse più; incapace, a un tratto, di ogni sentimento buono, di ogni affetto gentile. Come di diventa insensibili ed egoisti, talora, quando si soffre!...

Pochi giorni dopo, tornavo - umiliato e depresso più che mai - al mio nuovo Collegio. Qui, il mio stato, in breve, si aggravò sensibilmente. Mi afferrò tutto, un orgasmo, un senso di ansia indicibile (la diagnosi sarà poi, infatti, di <<esaurimento nervoso ansio >>): non potevo star fermo nè seduto cinque minuti. La forte eccitazione nervosa mi dava una sete insopportabile; tanto che ero costretto a passeggiare portando di continuo, sotto il braccio, un <<thermos>> di acqua diaccia. Ogni due minuti me lo portavo alle labbra, avidamente; ma più bevevo, e più l'arsura cresceva, tormentosa, inesorabile. Non mi era possibile tollerare la compagnia di quei di casa e li sfuggivo selvaggiamente: soprattutto perchè la mia anormale situazione, di cui ero ben conscio, mi umiliava dinanzi a loro, profondamente. Una sola eccezione facevo: per l'infermiere, che avrei voluto sempre al mio fianco; la sua presenza mi dava un senso di fiducia e di difesa: di calma insperata.

 
Foto: Cristoforo Calabrese, "Delyrium" , penna a china su carta, 1986.
studio arcaico,2002(carboncino e pastelli su cartoncino) studio arcaico,2002(carboncino e pastelli su cartoncino)
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Cristoforo Calabrese, "Studio arcaico", carboncino e pastelli, 2002

Ed ecco il sintomo più grave: la <<sitofobia>>. Quando tutti erano usciti di refettorio, mi mettevo a tavola. ma, impugnato il cucchiaio, rimanevo lì, inerte, completamente abulico, mezz'ora, un'ora, un'ora e mezzo anche, incapace d'inghiottire una sola cucchiaiata. Eppure avevo appetito; di più, avevo fame. ma la ripugnanza che provavo per il cibo, per qualunque cibo, era più forte di me; invincibile. poi, a un tratto - sotto l'incitamento e il rimprovero dell'infermiere - mi decidevo. E, allora, ingoiavo tutto in due minuti, in fretta e furia; con lo scopo, preciso e deciso, di abbreviare, più che fosse possibile, quel tormento. Venne il medico di casa. Mi ordinò soporiferi e calmanti: iniezioni, soprattutto, rare e costose. Poi, una notte, all'improvviso, la prima <<allucinazione uditiva>>. 

 

Foto: Cristoforo Calabrese, "Caput", penna a china su carta, 1985.

 

Completamente sveglio, nella semioscurità, una voce di timbro metallico, mai udita, squillò alta, in quel silenzio di tomba, scandendo mirabilmente: <<Va dove il Signore ti chiama! per purificarti, per santificarti>>. 

 

studio arcaico,2002(carboncino e pastelli su cartoncino)Il Manicomio <<mezzo di purificazione, di santificazione>>? Ve l'immaginate, voi?... Io con l'ascetica ci ho sempre avuto un fatto personale; un'insanabile <<incompatibilità di carattere>>. Eppure non esito un solo istante a sconsigliarvi, e nel modo più assoluto, un metodo di purificazione e di santificazione così strambo e originale. Credetelo, è <<controproducente>>. 

 

Una preoccupazione ben strana mi prese di quei giorni, specie in letto: il timore di perdere il moccichino, di rimanerne senza e di trovarmi, così, in un banalissimo imbarazzo. Ogni tanto, mi destavo di soprassalto e frugavo ansioso sotto il cuscino, per assicurarmi che il fazzoletto c'era ancora: sino a tre ne racimolai, una sera. Al mattino, poi - col sole alto in camera - non sapevo mai decidermi ad alzarmi. Infilavo i calzoni a metà e stavo  così, a lungo a lungo, incerto se indossarli del tutto o no. Poi me li toglievo di scatto e m'infilavo di colpo sotto le coltri; per ricominciare, cinque minuti dopo, la stessa scena. 

 

 

A Volterra, tre anni dopo, rimasi ostinatamente in  letto un paio di mesi: nè ragionamenti, nè minacce, nè carezze, nè <<prese in giro>> degl'infermieri e degli amici riuscivano a scuotere la mia apatia. Pensavo tra me: <<Se mi alzo, come faccio a mettermi le scarpe?... e se riesco a metterle, come faccio ad allacciarle?...>>. Questo, questo solo, il meschino quesito. Ma assillante per me, insolubile. Eppure capivo benissimo di essere <<ridicolo>>. E ciò mi avviliva ancora di più. che strazio!... Ma restiamo a Roma. 

 

 
Qualche volta, dopo tanto tergiversare, riuscivo a decidermi. Scendevo, allora, di letto ed uscivo in corridoio, in camicia. E stavo lì, mezz'ora, un'ora, immobile come una statua, senza batter palpebra, lo sguardo dilatato e fisso nel vuoto, in attesa non sapevo neppur io di che cosa, né di chi. Supplicavo io stesso il Direttore, insistentemente, quasi piangendo, che mi facesse ricoverare. Sapevo, sentivo benissimo, che non era più possibile, per me, la vita di comunità. Ero di grave peso a gli altri; avrei forse intralciato la loro attività di ogni giorno, di ogni ora. Meglio, dunque, tagliar corto e andarsene al proprio destino.

Una sera (16 agosto) chiesi all'infermiere due pastiglie di soporifero, anziché una, come di consueto. Appena un'ora dopo, gliene richiesi altre due: volevo dormire, a ogni costo. Non ebbe il coraggio di negarmele. Poi, salito in camera, la solita iniezione: ce n'era d'avanzo per ammazzare un bue. Verso le undici, undici e mezzo, mi destai con uno scossone formidabile. Balzai di letto e mi vestii a metà deciso a passeggiare sul terrazzo, lì vicino. Scendere, no: avevo paura dei cani. ma appena fuori, nello stretto corridoio, mi assalì un forte senso di vertigine. Barcollai. Sentii di battere il capo e le spalle contro una porta, che si aperse di scatto. Percepii, confusamente, il tonfo sordo del mio corpo sul pavimento; poi... più nulla. Quando rinvenni, verso le quattro, mi trovai nel mio letto, vegliato dal solito infermiere. Le prime luci dell'alba si facevano strada, lentamente, tra le imposte socchiuse. Verso le dieci, venne, ancora una volta, il dottor C. Mi interrogò. A un tratto, ebbe una idea geniale: suggestionarmi; <<ipnotizzarmi>>. 

Mi gettò dunque, energicamente, riverso sul letto; poi si curvò su di me in modo da impedirmi qualsiasi movimento, e mi sbarrò gli occhi negli occhi, radunando nei suoi il massimo di potenziale psichico che gli fu possibile. Ma sì! ci voleva ben altro, per impressionarmi!... In altre circostanze, ci avrei riso su. Ora, invece, non riuscii neppure a sorridere. ma nemmeno mi adirai: sentii, tuttavia, sorgere in me un impeto di disgusto irrefrenabile, di avversione così forte e profonda che, anche oggi - ripensandoci - suscita in me un'eco acuta e dolorosa.

Partito il medico, l'infermiere mi rase la barba, pazientemente: con la <<gilette>>, però. Da ciò compresi che si erano decisi, finalmente.

Alle quindici, infatti, un taxi di piazza è alla porta. L'infermiere e un amico m'invitano a seguirli: non mi faccio pregare affatto. Mi avvio all'auto con passo franco e salgo deciso. Il motore tossì, rullò, rombò. E partimmo. 

 

I disegni di Cristoforo Calabrese , che si ringrazia per la gentile concessione delle immagini, sono visitabili al suo sito personale HOME PAGE DEL SITO PERSONALE DI CRISTOFORO CALABRESE   oppure 

 SITO WEB DI C. CALABRESE

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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