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PERCHE'
?...
Primo
maggio del '54. Mi accingo, oggi, a scrivere queste pagine di
<<vita vissuta>>: esse richiamano impressioni e ricordi,
episodi sovente tragici, e , a volte - grazie a Dio - comici, i
quali - anche dopo parecchi anni - mi balzano dalla memoria vivi e
freschi come di ieri. Non <<romanzo>> e neppure <<storia
romanzata>>, dunque, abbellita ad arte dalla fantasia e dal
sentimento. No! <<semplicità e verità>>: è questo il
motto che mi prefiggo, come programma, sin da questa prima pagina;
dolente solo che la mia penna sia troppo impari al soggetto e
all'ambiente che vorrei ritrarre, sia pure di scorcio e a pennellate
rapide ma colorite. D'altronde, è tale e tanto il <<pathos
drammatico>> che emana dai personaggi di questa dura vicenda e
dalle peculiari situazioni in cui essi si muovono e vivono, che
nessuna fantasia di romanziere, anche la più accesa e fervida,
riuscirebbe mai a neppure intravvedere. Tanto meno poi a rendere con
la dovuta e plastica evidenza della realtà.
Perchè
questo libro? ... Esso ha un duplice scopo:
portare
un raggio di fede e di speranza a chi vede forse dinanzi a sé, come
io lo vedevo, il buio completo e non sa rassegnarsi (e come sarebbe
mai <<umanamente>> possibile?!...) a dare un addio
assoluto alla vita e alle sue più intime gioie, per ridursi a
essere, per anni e anni - sino all'ultimo giorno, forse - un
simulacro d'uomo, un cencio inutile a sé e agli altri: peggio
ancora, un <<animale da cortile>>. E' la frase che
ho colta sulle labbra di qualche disgraziato che non aveva ancora
smarrito il senso della dolorosa realtà;
richiamare
l'attenzione degli psichiatri, e di chi è preposto alla direzione
delle Case di Cura, su questo fatto semplicissimo, che splende, per
me, di luce meridiana: <<Nei Manicomi (in tutti, io credo) vi
sono inconvenienti che si possono "eliminare"?... "si
devono eliminare". Ve ne sono altri che si possono
"attenuare"?... "si devono attenuare". Ve n'è
altri, invece, che non si possono né eliminare né attenuare,
poichè aderenti purtroppo alla natura stessa delle cose; legati,
indissolubilmente, all'ambiente?... "si compensino con altre
provvidenze" che li rendano più tollerabili; mettendo il
malato, per quanto è possibile, nelle condizioni più atte a trarre
vantaggio dal suo ricovero in Ospedale, e non sia lasciato (com'è
ora, in molti casi) "nelle migliori condizioni per
peggiorare". Parlo "per esperienza personale", non
per "sentito dire": nel corso del lavoro avremo agio di
chiarire meglio questo concetto importantissimo; direi quasi
"fondamentale". Tacere per "opportunismo", o
-peggio ancora - per "coniglismo", sarebbe grave
colpa.
Lo
so: c'è qualche libro, già, su questo argomento, scritto con
lodevoli intenzioni, con eleganza di stile e con rara sensibilità:
mi riferisco, in modo speciale, a <<Fra
malati di mente>> di Rosario Ruggeri e <<Io e
i pazzi>> di Enzo Girone. Ma (oltre la impossibilità
morale di poter denunciare, a viso aperto, inconvenienti, deficienze
e lacune dell'organizzazione ospitaliera, di cui egli è parte
integrante, se non addirittura <<succube>>) il medico,
specie di un grande ospedale, ha, ordinariamente, contatti assai
brevi e saltuari, quasi fugaci, con gli ammalati: è ben lontano,
quindi, dal poter studiare a fondo l'animo e la complessa e mutevole
psicologia di essi.
Le
stesse <<cartelle cliniche>> ( e più volte ho avuto
occasione di averle sott'occhio, sia pure brevemente e di
sotterfugio) sono spesso compilate e aggiornate quasi per formalità
di legge, in base a rilievi superficiali e informazioni schematiche
e scheletriche, fornite da infermieri spesso (non sempre) dotati di
buona volontà, di molto buon senso e di ottimo cuore; ma,
d'ordinario, di cultura limitatissima; scelti, generalmente, tra i
lavoratori dei campi e delle officine; qualche volta ex caprai,
magari, i quali hanno sì frequentato un rapido corso per
infermieri; ma sono, praticamente, al di sotto - molto al di sotto -
della loro mansione, ch'è pure <<missione>>
nobile e delicata. Non così il malato, invece, il quale sia stato
anni e anni a continuo contatto d'infermi di diverso carattere,
cultura e condizione sociale; affetti da disturbi nervosi o mentali
disparatissimi; di diversissima fisionomia morale; che è
passato, forse, per cinque o sei ospedali e per vari reparti del
medesimo ospedale, e ininterrottamente, giorno e notte, ha veduto
con i suoi occhi e ha udito con le sue orecchie, chiudendosi nella
mente e nel cuore impressioni e ricordi che resteranno
incancellabili nelle pieghe più riposte della sua anima. D'altra
parte, io penso ( e credo non a torto) che il medico psichiatra,
anche il più abile e intelligente, anche specializzato, ha dinanzi
a sé un campo bellissimo, professionalmente, ma anche vastissimo;
troppo esteso, cioé, in superficie, perché egli possa penetrarlo e
sondarlo in profondità. Il malato, invece - specie l'introspettivo
- se è dotato di una certa dose di spirito di osservazione e sa
esprimere, almeno discretamente, il proprio pensiero e ha avuto la
percezione più o meno esatta dei fenomeni psichici che si sono
succeduti in lui, e dei fatti svoltisi attorno a lui, in
<<determinati casi>> e limitatamente alla propria
situazione, può avere acquisito una conoscenza e un'esperienza
preziosa che il medico stesso non sempre può vantare. Per questo,
anche se il mio povero <<io>> non mi fa velo - spero che
le mie modeste pagine, scritte col cuore (niente
<<retorica>>, quindi; niente
<<letteratura>>) abbiano a fornire, agli stessi
scienziati, almeno <<qualche spunto>> come materiale
d'indagine e di studio, a vantaggio di migliaia e migliaia di
infelici che attendono ansiosi un lembo di azzurro nella foschia
densa che li avvolge: per risuscitare alla vita, all'aria, al sole,
alle gioie della famiglia e del lavoro, e riprendere il loro posto
di battaglia tra gli uomini loro fratelli. Un
ultimo rilievo: per quanto riguarda le persone delle quali, mio
malgrado, non potrò dire tutto il bene che vorrei,
<<tacerò o falserò il nome>>: ciò per un senso
di riserbo e di delicatezza facile a comprendersi. Se sapessi, di
certezza assoluta, che il mio libro può recare danno, materiale o
morale, anche a un solo individuo, preferirei buttar la penna nel
cestino e continuare a ruminare ancora entro di me, come ho fatto
sino a oggi, ciò che ho in animo di scrivere. PARTE
PRIMA A
BELLOSGUARDO Ero
insegnante in una città delle Marche: quattro classi di
francese, assai numerose. In seconda media, cinquantasette allievi.
Tanto che, un bel giorno, visto il pericolo che aumentassero ancora,
affrontai, su per le scale, il Direttore. E gli dissi: -
Se lei accetta ancora un allievo per la seconda, una delle due: o
sdoppia la classe, o provvede a sostituirmi. -
Sissignore! - mi rispose seccato e un tantino ironico. - Terrò
conto del suo <<ultimatum>>. - E fu di parola. *** Mesi
di lavoro, per me intensi e febbrili, quelli dal settembre '39 al
maggio '40. Mi pareva, nonostante i miei 58 anni prossimi a suonare,
di essere ringiovanito. Bicicletta, caccia, bocce, tamburello,
cerchietti: piccole marce al passo di parata, smentendo, così, per
mio conto, la famosa frase: <<Il passo romano non è fatto per
i panciuti>>. Lo studio, poi, era per me una gioia intima e
viva; la fatica dell'insegnare un divertimento; l'attendere alle mie
pubblicazioni, una delizia. Camminavo svelto e leggero; sorridevo
alla vita e ci scherzavo su, come un ragazzo di vent'anni. Ma,
un brutto giorno, quasi all'improvviso, ecco una diminuzione
considerevole delle facoltà mnemoniche; un certo torpore e
sopore nell'inventiva; una stanchezza fisica e mentale addirittura
sconcertante. E anche il mio carattere, d'ordinario gaio e faceto,
subì una scossa profonda. M'irritavo per un nonnulla; cercavo la
solitudine. E anche questa mi era di peso, poichè mi
permetteva di concentrarmi in me stesso; mi costringeva, quasi, a
una <<introspezione>> che acuiva il mio stato morboso.
Non tolleravo assolutamente i rumori della strada. Una notte, che un
gruppo di individui, forse alticci, s'era fermato a cantare a
squarciagola all'angolo della via, mi aggrappai irosamente
all'apparecchio e tempestai di telefonate la Questura e la Caserma
dei Carabinieri, finchè non mandarono degli agenti a far cessare il
baccano. Il giorno dopo, il Maresciallo (bontà sua!) mi chiamò,
per dirmi che aveva elevato parecchie contravvenzioni per <<schiamazzi
notturni>>. Aveva tuttavia commesso una grave imprudenza:
quella di far noto, ai colpevoli, il mio nome. Me ne potevano
derivare rappresaglie. Nessuno, però, si fece vivo e fu fortuna,
per lui e per me. Ricordo, tra l'altro, che a volte, i miei nervi
erano tesi sino allo spasimo: sembrava mi si dovessero spezzare;
tanto che non sopportavo più neppure il <<tic-tac>>
dell'orologio da tasca sotto un secondo guanciale. Non ne feci
motto, però, a nessuno. Lo credevo un fenomeno passeggero, dovuto
soprattutto al <<surmenage>> mentale. Le vacanze,
prossime ormai, avrebbero rimediato a tutto. Ma,
ai primi di giugno, ecco, inatteso, un gravissimo dispiacere: fu il
colpo di grazia; quello che mi diede il tracollo. Trasferito
a Roma, il fatale 10 giugno 1940 intesi dalla Radio, alla stazione
di Fabriano, il discorso del Duce, che suonava la <<diana>>
di guerra. Mi fermai a Gualdo, presso amici di famiglia, che furono
tanto buoni e comprensivi con me. Speravo di ritemprarmi alquanto
nella quiete di quelle colline ridenti, prima di raggiungere la mia
nuova sede. E invece!... il giorno mi trascorreva lento e pesante;
la notte, un tormento. Al buio non riuscivo a chiuder occhio: la
fantasia, eccitata, lavorava più intensa che mai; non mi dava
tregua un istante. la luce, poi, mi urtava egualmente; tanto da
costringermi a fasciare la lampadina con l'asciugamano. Se mi
appisolavo, sognavo incubi spaventosi, terrificanti: balzavo allora
a sedere di soprassalto, stringendo denti e pugni; fremendo di odio
e di livore contro tutti e contro nessuno. Il mattino, con le sue
prime luci, mi portava una calma relativa. Vagavo, senza scopo nè
meta, tutto il giorno, per la collina; scendevo la valletta tra il
verde bruciato dei colli, in cerca di qualche raro zampillo di acqua
sorgiva: mi distraevo un po'. Ma ecco che l'imbrunire riconduce
l'ansia e il terrore della notte. C'è forse da stupire se, in
quelle condizioni dolorosissime, nella confusione e nel
disorientamento quasi totale della mia psiche, mi balzò innanzi
più volte l'idea di sottrarmi a quelle sofferenze indicibili, in
modo violento, coi soliti <<barbiturici>>? ... Ma buon
per me, che - in quei giorni di lotta angosciosa - mi aggrappai
tenacemente alla Fede. E, grazie a Dio, superai la pericolosa
suggestione. Una
mattina, ruppi ogni indugio: ringraziai dell'ospitalità generosa e
fraterna e presi il treno per Roma. La mia nuova dimora era alle
porte della città eterna: in condizioni normali, ne sarei stato
felice. Ora, invece, mi ci sentii subito a disagio, terribilmente.
Trovavo tutto brutto, pesante, insopportabile. Chiesi, allora, di
passare qualche tempo con i miei, che abitavano in luogo
incantevole, sulle pendici di Monteverde. Chissà!... il tepore
degli affetti familiari avrebbe disciolto, forse, quella fascia di
ghiaccio che mi si stringeva, ogni giorno di più, intorno al cuore.
Il quale, a volte, sembrava quasi si fosse fermato d'improvviso e
non battesse più; incapace, a un tratto, di ogni sentimento buono,
di ogni affetto gentile. Come di diventa insensibili ed egoisti,
talora, quando si soffre!... Pochi
giorni dopo, tornavo - umiliato e depresso più che mai - al mio
nuovo Collegio. Qui, il mio stato, in breve, si aggravò
sensibilmente. Mi afferrò tutto, un orgasmo, un senso di ansia
indicibile (la diagnosi sarà poi, infatti, di <<esaurimento
nervoso ansio >>): non potevo star fermo nè seduto cinque
minuti. La forte eccitazione nervosa mi dava una sete
insopportabile; tanto che ero costretto a passeggiare portando di
continuo, sotto il braccio, un <<thermos>> di
acqua diaccia. Ogni due minuti me lo portavo alle labbra,
avidamente; ma più bevevo, e più l'arsura cresceva, tormentosa,
inesorabile. Non mi era possibile tollerare la compagnia di quei di
casa e li sfuggivo selvaggiamente: soprattutto perchè la mia
anormale situazione, di cui ero ben conscio, mi umiliava dinanzi a
loro, profondamente. Una sola eccezione facevo: per l'infermiere,
che avrei voluto sempre al mio fianco; la sua presenza mi dava un
senso di fiducia e di difesa: di calma insperata.
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Foto:
Cristoforo Calabrese, "Delyrium" , penna a china su carta,
1986. |
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Cristoforo Calabrese, "Studio
arcaico", carboncino e pastelli, 2002 |
Ed
ecco il sintomo più grave: la <<sitofobia>>. Quando
tutti erano usciti di refettorio, mi mettevo a tavola. ma, impugnato
il cucchiaio, rimanevo lì, inerte, completamente abulico, mezz'ora,
un'ora, un'ora e mezzo anche, incapace d'inghiottire una sola
cucchiaiata. Eppure avevo appetito; di più, avevo fame. ma la
ripugnanza che provavo per il cibo, per qualunque cibo, era più
forte di me; invincibile. poi, a un tratto - sotto l'incitamento e
il rimprovero dell'infermiere - mi decidevo. E, allora, ingoiavo
tutto in due minuti, in fretta e furia; con lo scopo, preciso e
deciso, di abbreviare, più che fosse possibile, quel tormento.
Venne il medico di casa. Mi ordinò soporiferi e calmanti:
iniezioni, soprattutto, rare e costose. Poi, una notte,
all'improvviso, la prima <<allucinazione uditiva>>. |
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Qualche
volta, dopo tanto tergiversare, riuscivo a decidermi. Scendevo,
allora, di letto ed uscivo in corridoio, in camicia. E stavo lì,
mezz'ora, un'ora, immobile come una statua, senza batter palpebra,
lo sguardo dilatato e fisso nel vuoto, in attesa non sapevo neppur
io di che cosa, né di chi. Supplicavo io stesso il Direttore,
insistentemente, quasi piangendo, che mi facesse ricoverare. Sapevo,
sentivo benissimo, che non era più possibile, per me, la vita di
comunità. Ero di grave peso a gli altri; avrei forse intralciato la
loro attività di ogni giorno, di ogni ora. Meglio, dunque, tagliar
corto e andarsene al proprio destino.
Una
sera (16 agosto) chiesi all'infermiere due pastiglie di soporifero,
anziché una, come di consueto. Appena un'ora dopo, gliene richiesi
altre due: volevo dormire, a ogni costo. Non ebbe il coraggio di
negarmele. Poi, salito in camera, la solita iniezione: ce n'era
d'avanzo per ammazzare un bue. Verso le undici, undici e mezzo, mi
destai con uno scossone formidabile. Balzai di letto e mi vestii a
metà deciso a passeggiare sul terrazzo, lì vicino. Scendere, no:
avevo paura dei cani. ma appena fuori, nello stretto corridoio, mi
assalì un forte senso di vertigine. Barcollai. Sentii di battere il
capo e le spalle contro una porta, che si aperse di scatto.
Percepii, confusamente, il tonfo sordo del mio corpo sul pavimento;
poi... più nulla. Quando rinvenni, verso le quattro, mi trovai nel
mio letto, vegliato dal solito infermiere. Le prime luci dell'alba
si facevano strada, lentamente, tra le imposte socchiuse. Verso le
dieci, venne, ancora una volta, il dottor C. Mi interrogò. A un
tratto, ebbe una idea geniale: suggestionarmi; <<ipnotizzarmi>>.
Mi
gettò dunque, energicamente, riverso sul letto; poi si curvò su di
me in modo da impedirmi qualsiasi movimento, e mi sbarrò gli occhi
negli occhi, radunando nei suoi il massimo di potenziale psichico
che gli fu possibile. Ma sì! ci voleva ben altro, per
impressionarmi!... In altre circostanze, ci avrei riso su. Ora,
invece, non riuscii neppure a sorridere. ma nemmeno mi adirai:
sentii, tuttavia, sorgere in me un impeto di disgusto irrefrenabile,
di avversione così forte e profonda che, anche oggi - ripensandoci
- suscita in me un'eco acuta e dolorosa.
Partito
il medico, l'infermiere mi rase la barba, pazientemente: con la
<<gilette>>, però. Da ciò compresi che si erano
decisi, finalmente.
Alle
quindici, infatti, un taxi di piazza è alla porta. L'infermiere e
un amico m'invitano a seguirli: non mi faccio pregare affatto. Mi
avvio all'auto con passo franco e salgo deciso. Il motore tossì,
rullò, rombò. E partimmo.
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