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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Frenis Zero  Publisher

     "Spazio Rosenthal. Tra psicoanalisi e femminile". Numero 17, anno IX, 2012. 

 

 "LO SPAZIO BIANCO DELLA MATERNITA'"

di Barbara Massimilla

 

 

 

Questo testo è stato originariamente pubblicato nei QUADERNI DI PSICOTERAPIA INFANTILE  n. 59 “Desideri di maternità” a cura di Nadia Neri e Chiara Rogora, febbraio 2010.
 Si ringrazia l'autrice e l'editore Borla  per l'autorizzazione concessa a Frenis Zero alla pubblicazione.

Barbara Massimilla è dottore di ricerca in Scienze delle Relazioni Umane, membro ordinario dell'A.I.P.A. ( Associazione Italiana di Psicologia Analitica ) e della I.A.A.P. ( International Association for Analytical Psychology ). Ha collaborato dal 1980 al 1997 presso il Day Hospital Psichiatrico dell'Università "La Sapienza" di Roma, sperimentando il trattamento integrato nella cura della schizofrenia. Fa anche parte della redazione della Rivista di Psicologia Analitica.


 



 


Foto: P. Picasso, "Madre e figlio".


 

 

 

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

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Author:Lou Andreas Salomé

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"Psicologia   dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

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Anno/Year: 2010

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

Prezzo/Price: € 18,00

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

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Publisher: Schena Editore

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Nell’esistenza femminile la maternità rappresenta la possibilità naturale di compiere un passaggio maturativo, varcare la soglia dell’essere figlia e diventare madre, la messa in opera di una trasformazione che arricchisce il processo personale d’individuazione della donna. L’estensione, tuttavia, del registro femminile da uno statuto interiore filiale ad uno statuto materno comporta una serie di complessi sconvolgimenti psicologici che possono in alcuni casi riattivare in modo imprevisto dinamiche di ogni genere, dai fenomeni narcisistici, al riemergere di identificazioni arcaiche, al riaccendersi di intense conflittualità edipiche. Per simili fattori di rischio la maternità costituisce un evento che costringe ad una riorganizzazione profonda dell’identità. Il lavoro psichico che accompagnerebbe tutte le fasi procreative, dal progetto di avere un figlio alla gestazione sino al parto, necessita di un ascolto interiore sia da parte della futura madre, sia da parte del contesto familiare e sociale di appartenenza. Il ruolo pubblico e competitivo  che la donna ha raggiunto nelle società contemporanee e la progressiva destrutturazione della famiglia allargata - là dove in genere esisteva un apporto affettivo e  solidarietà alla gravidanza da parte del clan femminile -  hanno contribuito a limitare l’atteggiamento mentale predisposto all’accoglienza e all’ascolto che consentiva alla donna di poter affidare i desideri più intimi, le sue paure e fantasie, non solo a se stessa ma anche a degli interlocutori partecipi.

Pur essendo un’esperienza individuale, la maternità necessita dunque di condivisione, con il proprio partner ma anche con la società - poiché mettere al mondo un figlio non è solo un fatto personale, ma anche comunitario - e con un fronte solidale di donne, una sponda accogliente di figure femminili che aiutino la donna a far levitare un movimento affettivo verso il proprio grembo e il futuro bebé. Tuttavia la predisposizione naturale a costruire gradualmente una immagine interna del proprio modo di diventare madre, può essere ostacolata da vari fattori principalmente connessi alla propria storia infantile e alle dinamiche di identificazione con la figura materna. Per la donna il vivere con passione e affetto l’esperienza sensoriale della gestazione è correlato direttamente con l’introiezione di una figura materna positiva, che la futura madre sin dalla propria infanzia ha interiorizzato come un modello valido di riferimento. “L’identificazione con un’immagine materna positiva è una necessità per la donna, un bisogno intenso di ritrovare se stessa figlia in rapporto con un oggetto materno contenente. Questo movimento psichico a ritroso verso vissuti infantili, a un livello profondo della mente della donna incinta riattiva l’immagine della bambina che è stata. In tal modo comincia ad avvicinarsi mentalmente al feto-bebè ancora prima di crearsi un’immagine fantasmatica del suo bambino”1.  Il bimbo diventa pensabile in relazione al SÈ infantile della futura madre, “cosicchè il feto diventa già luogo di trasmissione psichica, oggetto di immedesimazione, di ritorno al passato ancora prima di essere vissuto come un oggetto distinto da lei”2

Dal punto di vista della trasmissione tra le generazioni, ereditare dall’asse materno di discendenza un modello sufficientemente adeguato in cui coesistono senza conflittualità patologiche codice materno e codice femminile, costituisce per il processo di formazione del SÈ femminile una premessa fondamentale allo sviluppo della maternalità3.  

  La trasmissione intergenerazionale del materno è stata sempre rappresentata dalla cultura, dai miti e dalle leggende fin dai primordi dell’umanità. In molte opere pittoriche dell’iconografia classica emerge l’importanza del contatto tra madre e figlia durante la gestazione e l’evento della nascita. Ad esempio nei due quadri raffiguranti il gruppo familiare di Sant’Anna, Maria e il Bambino, di Leonardo da Vinci, viene magnificamente descritto in immagini, il percorso maturativo che consente alla donna di avere fiducia in se stessa come madre. Maria, protetta dall’ombra di Sant’Anna, rappresenta simbolicamente l’esito positivo dell’introiezione di una madre buona.

In tempi più recenti la rivisitazione del quadro del Pontormo, da parte del video-artista Bill Viola, ripropone in un video di dieci minuti, l’incontro emozionante tra Maria e Elisabetta, entrambe incinte. L’artista contemporaneo in seguito ad un episodio visto in strada, di due donne a Long Beach, di cui una incinta, che d’improvviso si abbracciavano con affetto, “converte una sua intima, personale, irrappresentabile sensazione facendo appello a quella memoria collettiva, che riconduce a ricordare la Visitazione di Maria ed Elisabetta come immagine emblematica dell’incontro4

In questo caso, come nelle opere di Leonardo, il linguaggio metaforico dell’artista è facilitato dalla potenza espressiva delle immagini: coglie e descrive il valore del contatto emozionale con l’altro e il significato profondo della condivisione di sentimenti umani fondamentali nello spazio dell’incontro femminile.

Nella maternità l’allusione a uno spazio mentale specifico che accoglie la propria e l’altrui esistenza costituisce in sostanza la metafora centrale da cui può snodarsi il discorso sullo sviluppo dell’identità femminile. La Maternità interiore è infatti principalmente un luogo della mente, quello in cui si riversano “le fantasie, le emozioni, i desideri, i sogni. è   la residenza di legami, di affetti, di relazioni nuove. è il contenitore di quel bambino fantasmatizzato interno che diventerà il bambino reale esterno”5.   Maternità interiore come uno spazio “utero di lana”, “un luogo-tempo i cui confini si confondono con quelli delle aree più antiche che hanno a che vedere, nella realtà e nella fantasia, con l’immagine e il ricordo dei propri genitori”, con l’intrecciarsi dell’eredità psichica e dei destini individuali6

La questione da affrontare è: in che modo può formarsi questo spazio interiore della maternità se un mandato inconscio transgenerazionale predestina la donna ad essere portatrice di vissuti patologici, di segreti e fatti vergognosi che i suoi predecessori, in particolare la propria madre non hanno psichicamente metabolizzato e risolto? L’infant observation e i trattamenti psicoanalitici sulle donne in gravidanza offrono una vasta e preziosa esperienza clinica di riflessione sul campo.

Nei casi di alterata trasmissione, lo spazio interiore della maternità perde i colori della vita, si impoverisce di oggetti, si riduce a delle pareti nude, mentre all’interno di questo spazio si aggirano fantasmi che soffocano la maturazione del SÈ femminile rendendo inerti le sue potenzialità. Non ci si riferisce ovviamente alla quota fisiologica di ambivalenza e persecutorietà che accompagna alcune fasi della gestazione e del parto, bensì all’esplosione di vissuti patologici di scissione e di fantasmi di morte che invadono la psiche. Nella mente femminile lo spazio per sentirsi e pensarsi madre è sequestrato dalla vita psichica dell’altro. è questa che detta legge e governa, che procura un dolore psichico impensabile e indicibile o scissioni radicali, per le quali tutto ciò che dà turbamento viene tagliato fuori dalla pensabilità. Conseguenze drammatiche di queste patologie dell’eredità psichica sono spesso le minacce d’aborto e i parti prematuri, in quanto espressione biologica diretta di contenuti conflittuali che non possono essere accolti dalla mente.

Lo spazio bianco è dunque metafora della camera vuota della mente, ciò che resta scarnificato e sullo sfondo in seguito al disinvestimento della propria realtà oggettuale femminile. Per il codice biologico della maternità è l’utero che non può sin dall’inizio trattenere la vita o quello che la espelle precocemente dovendo affidare il bambino alla scatola bianca dell’incubatrice.

L’analisi dovrebbe tentare di riparare nello spazio protetto del transfert quel difetto di metabolizzazione, quella lacuna psichica nell’area materna, restituendo una nuova verità che aiuti la donna a non vivere soltanto nel passato, ma a metterlo in relazione attiva con la sua soggettività e con il suo futuro. Nell’accogliere queste pazienti la dimensione dell’ascolto analitico è il filo percettivo che ridisegna i confini di una realtà psichica spodestata dall’invasione inconscia dell’altro e aiuta a mantenerne in vita le funzioni vitali e la sua stessa sopravvivenza.

Attraverso la storia di una paziente da me curata ed alcuni spunti che hanno ispirato queste mie riflessioni, narrati in un libro da cui è stato tratto un film, proverò a dar forma allo spazio bianco che insidiosamente si sostituisce alla costruzione del luogo-utero di lana che nutre la maternità.

Se il caso clinico riportato pone l’accento sulla figura femminile della figlia, la citazione dei brani del bel libro di Valeria Parrella “Lo spazio bianco” vuole invece offrire un breve flash sull’esperienza psichica di una madre che lotta affinché la sua bambina prematura possa vivere. Ci terrei ad evidenziare tramite questo doppio sguardo come entrambe le posizioni di madre e di figlia siano profondamente interconnesse e come l’una si rifletta nell’altra in quanto anelli di una catena infinita. Il filo che le unisce, quello della trasmissione psichica, non ha mai un’origine unica e definita, poiché le origini hanno sempre un’origine e la loro ricerca è veramente interminabile. Per tale motivo nel discorso della transgenerazionalità, non ha senso parlare di determinismo causalistico, né di colpevolezza o innocentizzazione, quello che accade riguarda piuttosto il crearsi di configurazioni relazionali ad incastro che si snodano l’una nell’altra. Seguendo il pensiero junghiano, una figlia per diventare madre deve aver metabolizzato e trasformato l’immagine archetipica della Grande Madre, che influenza sempre sia il suo mondo interno, sia la sua realtà - tenendo presente che l’immagine archetipica affonda le sue radici non solo nell’inconscio personale e nella storia soggettiva ma anche nell’inconscio collettivo. Sarà importante il modo in cui nell’asse di discendenza femminile si declina la possibilità per la donna di digerire le proprie immagini archetipiche e quindi dar forma eventualmente al materiale psichico non rappresentato e vissuto come irrappresentabile, al fine di completare una visione interiore di sé stessa che comprenda l’essere figlia, donna e madre.

 

 

 

COME UNA STATUINA DI GESSO

 

Aveva quasi quattro anni ed era appena giunta dal paese nella casa nuova di città . Una bimba graziosa vestita a festa per l’occasione. Scese col padre in strada, perchè lui voleva conoscere i dintorni della periferia urbana in cui erano andati ad abitare. Le strisce pedonali dovettero sembrarle molto divertenti quando saltando su un solo piedino cercò di ripetere il gioco della campana. Il padre era chinato a bere da una fontanella e non si accorse di nulla, mentre una moto investì Maria, trascinandola per metri e metri lungo l’asfalto. Maria ricorda ancora l’impatto violento, il dolore nel ventre, l’abito bianco macchiato di sangue. Seguì un lungo periodo di ospedalizzazione che Maria rammenta ancora oggi con piacere perchè nell’ospedale dei bambini si poteva giocare e tutti erano attenti e gentili.

Da adulta l’invio in analisi fu consigliato dalla ginecologa presso la quale Maria era in cura, a parte le problematiche specifiche, la sensibilità della collega aveva colto nella paziente un dolore psichico che solo un trattamento psicologico avrebbe potuto lenire.

Quando aprii la porta, vidi con stupore una donna d’aspetto ancora giovane con il capo fasciato ed una benda su un occhio, provai sgomento e quasi l’istinto di abbracciarla per proteggerla dall’agente sconosciuto che le aveva provocato un danno simile. La feci accomodare nello studio, lei entrò timidamente con andatura barcollante. Quel suo modo di presentarsi mi sembrò all’istante una richiesta d’asilo, forse la ricerca di un luogo dove poteva tornare a scorrere più  fluentemente la vita… Il racconto che mi fece dell’incidente infantile amplificò le mie sensazioni ed era in stretta connessione con la sofferenza fisica che portava al nostro primo incontro d’analisi.

Ebbi la fantasia di una reduce di guerra, di una combattente che ritornava finalmente a casa, per poter avere cure adeguate, per reclamare il diritto di una convalescenza serena. Molti mesi prima di iniziare l’analisi, nella sua testa si era rotto un aneurisma adiacente i vasi che irrorano l’occhio. I disturbi sempre più gravi della visione l’avevano condotta ad effettuare molteplici indagini e ad intraprendere un pellegrinaggio alla ricerca di un esperto che se la sentisse di affrontare un intervento chirurgico così delicato. Infine un’eminenza in campo neurologico aveva sfidato la sorte operandola nonostante l’alto rischio di sopravvivenza. Mi sono chiesta tante volte nel corso dell’analisi perchè Maria si rivolse a me in quelle condizioni così drammatiche, avrebbe potuto attendere che le sue condizioni di salute migliorassero, ma a parte l’approdare in un luogo protetto, credo che il suo stato volesse veramente denunciare in primis l’urgenza di evocare nell’altro un coinvolgimento emotivo, l’esigenza profonda di una relazione nell’ambito della quale l’analista potesse soccorrerla e prendersi cura di lei.

Un doppio trauma unifica due epoche lontane della vita di Maria: l’infanzia e l’età matura sono interconnesse dal filo del trauma non solo per l’episodio dell’incidente e per quello della rottura dell’aneurisma, ma anche per un esteso spazio temporale che in modo continuativo presentava tracce sparse di una matrice traumatica, accumulando in sé i segni di un’identità femminile ferita sin dalle origini.

Il primo frammento onirico narrato in analisi è la ricostruzione di un sogno che Maria fece da bambina intorno ai cinque anni, poco dopo l’episodio dell’incidente stradale:

 

“All’improvviso cercavo mia madre, non so per quale motivo, e la chiamavo. Ero in casa. Udivo la sua voce ma non il rumore dei suoi passi. Infine la trovavo: era ferma, in piedi, al centro di una stanza e mi rispondeva con un’afflizione che non potevo capire; intanto i suoi occhi mi lanciavano espressioni d’affetto ma erano cupi e tristi, come preoccupati. Le sue gambe erano immerse in una piccola vasca, quasi il contenitore usato per un pediluvio. E mentre io le parlavo la sua figura matronale iniziava a rimpicciolirsi finché non assumeva le dimensioni di un nano minuto, inoltre l’acqua del contenitore si solidificava in tutto altro materiale e lei non poteva più muoversi poiché intrappolata in una vasca di cemento, le cui dimensioni risultavano ora assai più considerevoli che al primo sguardo. Io sgomenta e inorridita dalla nuova visione, prima urlavo cercando di attirare l’attenzione di qualcuno che potesse intervenire e aiutarmi a liberare l’infelice prigioniera, che sembrava aver perso ogni espressione umana. Era solo un feticcio oramai, un richiamo di estrema sofferenza per me. Allora non mi perdevo d’animo e mi davo da fare per strappare le sue gambe da quel cemento prima che si irrigidissero del tutto. Non vi riuscivo e nel mio disperato sgomento lei era sempre lì, piccola, quasi una minuta creatura senza più espressione, una statuina di gesso… fredda e inanimata”.

 

La letteratura psicoanalitica insegna come le prime battute e il primo sogno di un’analisi siano fondamentali e come in nuce possano rivelare quei contenuti preziosi che non sono al momento utilizzabili, nè interpretabili, ma che si svilupperanno in un linguaggio condivisibile successivamente nel corso del trattamento. L’Inconscio può rivelarsi “come se fosse nella sua natura di aprirsi solo per richiudersi” immediatamente dopo; mentre il “commento après coup può al contrario utilizzare in pieno tale ricchezza”7.  Il sogno infantile di Maria racchiude la genesi delle problematiche psichiche che plasmeranno le sue esperienze di vita e il formarsi dell’identità femminile, e soltanto in una fase avanzata dell’analisi sarà possibile penetrarlo in tutta la sua potenza simbolica.

 Pensai alla rappresentazione infantile della madre che la paziente poteva aver introiettato in seguito al grave episodio di realtà: l’immagine dell’impotenza materna di fronte alla bambina colpita dalla violenza del trauma dell’incidente stradale, consumato sotto gli occhi distratti del padre. Su un piano più profondo dalla scena del sogno emerge il crollo di un ideale femminile, la crisi e il fallimento della maternità. La paziente vede la madre trasfigurarsi nella minuta creatura inanimata.  Si assottiglia sino a spengersi, l’imago stessa della maternità. La madre del sogno ridiventa piccola, l’affettività materna prende forma nell’acqua che progressivamente solidifica, contenuta in una bacinella-utero, sino a congelarsi in una vasca ed assumere la soffocante consistenza del cemento. Per Maria bambina, naufraga la possibilità di avere un appoggio valido allo sviluppo del sè femminile, la madre interna è ridotta ad un feticcio inumano, ad una statuina di gesso. A nulla valgono i suoi sforzi di strappare la madre a quella morte psichica. Per un effetto di circolarità, la madre ridotta a statuina congelata ricorda anche i feti, i bambini mai nati. Si tratta di un rovesciamento di valore dell’oggetto, una specie di cambiamento istantaneo dell’immagine, come se l’immagine fosse capovolta dal “movimento di una bascula che fa letteralmente girare gli estremi su se stessi”8 L’oggetto similmente rappresentato è sempre un oggetto parziale ed obbedisce in modo elettivo a leggi narcisistiche.

Le immagini del sogno descrivevano questa dinamica di interversione, Maria da figlia si trasformava in madre, e sua madre invece acquisiva le dimensioni di un feto. Una sorta di giravolta psichica, a testimonianza di come l’inconscio infantile fosse attratto dall’orbita della seduzione narcisistica materna e di come la bambina stessa fosse diventata un feticcio materno.

Certe madri hanno bisogno, per supportare il proprio ideale narcisistico, di eleggere in seno alla loro progenie un oggetto, un figlio, che servirà loro da feticcio. Questo bambino all’interno di una famiglia, si fa carico, a propria insaputa, di rappresentare e di incarnare, nel bene e nel male, la posizione psichica materna. “E’un figurante in quanto configura questo ideale, ed è predestinato  non avendo scelto egli stesso questo ruolo che tuttavia assume con una sorta di passione”9

L’oggetto-feticcio ha la duplice proprietà di essere nello stesso tempo vivo e inanimato. La funzione segreta di questa designazione consiste nella portata antidepressiva “di cui questo oggetto-feticcio è intimamente caricato nell’economia psichica della madre: esso ha come funzione (vitale, in realtà) di impedire alla madre di deprimersi, e quindi di morire”10

Nella storia di Maria, la fredda, bianca e gessosa, inconsistenza del materno, generano un vuoto depressivo che la paziente colmerà cementando segretamente ancor di più il patto narcisistico con la madre, presa da una sorta d’inflazione narcisistica che la porta ad immolare se stessa sull’altare materno. Dai racconti della sua infanzia sembrava una bambina perfetta, buona e sensibile, nei suoi comportamenti non appariva alcuna  polarità conflittuale, quella che solitamente contempla sia il desiderio di autonomia sia quello di appartenenza fusionale.

In una fase avanzata dell’analisi, compresi che Maria aveva inconsciamente aderito alla richiesta della madre di essere sostenuta nell’impresa di arginare la violenza del coniuge, con il fine malsano inconscio di non deprimersi e di non recidere il rapporto con lui. Maria, come nel sogno, aveva lottato per disincastrarla dall’impotenza e dalla depressione, ma per questa dedizione aveva pagato un prezzo molto alto a livello psichico e somatico.  

Alle conseguenze fisiche dell’incidente si aggiungeranno nel tempo altri fastidiosi disturbi alla circolazione linfatica ed epilessia, che indurranno nella paziente una costante preoccupazione per il proprio stato di salute e contribuiranno ad incrinare anche l’immagine estetica del proprio femminile.

 La sequela di danni organici, subiti da Maria, poteva essere letta come diretta conseguenza di un ripiegamento massiccio degli investimenti libidici - i quali -  trovando occlusa la via per raggiungere l’oggetto, si riversavano pesantemente sul corpo e sull’immagine corporea. Sappiamo da Freud come psicosomatosi ed “ipocondria (siano) frutto di una proiezione intra-corporea: una proiezione nel senso di un rifiuto, che non oltrepassa mai i limiti corporei e ricade all’interno del corpo stesso”11 Il rifiuto consiste nell’essersi costituito un involucro psichico molto spesso, nel quale appunto ci si chiude dentro, proprio a garanzia che il patto narcisistico originario continui a perpetuarsi e  che tutti i conflitti transgenerazionali siano messi a tacere, come un tentativo disperato di soluzione.

Nel corso dell’analisi emerse un ulteriore elemento che aveva favorito l’identificazione adesiva con la madre: i genitori emigrarono per alcuni anni all’estero quando i figli erano piccolissimi. Cresciuti dunque dai nonni, Maria e i suoi fratelli si erano adattati all’allontanamento precoce dalla madre e dal padre. La paziente ricorda di essersi compenetrata nel ruolo protettivo e di essere stata molto affettuosa verso i fratelli, sempre responsabile e seria negli impegni familiari come nello studio. La descrizione paterna corrisponde a quella di un uomo duro, inaffidabile, con tratti caratteriali, incapace di instaurare un contatto emotivo con i figli, spesso violento. La madre, al rientro dall’estero, aveva di certo dovuto supportare il nucleo familiare sobbarcandosi d’oneri e fatiche  fin quando, con i figli ormai adulti, decise di recidere il legame coniugale che tanto aveva afflitto la sua esistenza. Si evince come il ruolo protettivo della figlia fu necessario all’economia psichica della madre per riuscire ad affrontare lunghi anni di umiliazioni e difficoltà di ogni genere. Mi colpiva di converso la solitudine nella quale Maria era cresciuta da adolescente e non faticavo ad immaginarla come un’eterna bambina e nel contempo madre della propria madre.

La tendenza di Maria di offrire sostegno incondizionato all’altro e di aderire ai suoi bisogni, era riemersa anche con il proprio marito, dal quale dopo anni di matrimonio si era separata poco tempo prima che esplodesse l’aneurisma. L’aveva mantenuto agli studi fino oltre la laurea, e si era silenziosamente rassegnata nell’accettare passivamente il suo  ruolo di eterno adolescente.

Questa funzione materna che inconsciamente aveva adottato sin da bambina nei confronti dell’altro da sé, contrasta su un piano di realtà con la possibilità di generare e di diventare madre.

Mi colpiva che nel narrare in analisi le sue esperienze di molteplici interruzioni di gravidanza, emergeva come allora non riuscisse a rappresentarsi il bambino che si formava al suo interno. Il concepimento biologico non coincideva con quello mentale. La gravidanza è assimilabile ad un evento meccanico, ad un vuoto di immagini, a dei pensieri bianchi12… 

A Maria accadde di rimanere incinta per la prima volta quando si separò dalla madre e andò a vivere da sola. Decise di interrompere volontariamente la gravidanza, poiché non era convinta del rapporto col partner, e visse il fatto in modo liberatorio.

Dopo il matrimonio, a ventitrè anni, un’altra interruzione questa volta spontanea al sesto mese di attesa: “Durante quella gravidanza - racconta in una fase avanzata dell’analisi -  è come se la pancia non l’avessi mai avuta… al posto della pancia avevo una rientranza. Caddi dalle scale, ma non andai dal medico, ero in realtà un’immatura, il matrimonio era stato solo un modo per fuggire da un contesto difficile. Era un maschio. Ricordo che fui assistita da un’ostetrica cattolica che senza riguardo mi disse che il feto era morto strozzato, mi fece partorire per togliere dal mio corpo un corpo morto, un parto secco, disumano. Fu lei a dargli un nome e ad avvolgerlo in un lenzuolo, non volli sapere nulla, pensai a come possano essere sottili le modalità psichiche e fisiche di perpetrare violenza sulla donna”.

Due anni dopo avvenne una nuova gravidanza, ma per timore che le ricapitasse un’esperienza simile alla precedente, Maria la interruppe volontariamente. E infine, tre anni prima che nascesse suo figlio, accadde il quarto episodio di gravidanza non a termine, e l’aborto fu spontaneo: “Iniziai a sentire dolori strani, seguirono ad una telefonata di lavoro che riguardava la mia assunzione definitiva, ma rifiutai proprio per il mio stato di gravidanza. Persi il bambino in seguito al distacco del sacco. In tutti i casi,  i medici non mi seguivano, in verità io non mi facevo seguire da loro per un mio atteggiamento di rifiuto e per la mia ingenuità. In tutte queste gravidanze non coinvolsi mai mia madre…”. E aggiunge un commento après coup: “Da bambina avevo il terrore della maternità, perchè un figlio costituisce un impegno per la vita e non un’esperienza passeggera. Eppure le volte che accettavo la gravidanza ero certa di desiderare veramente un figlio. Rivisitando oggi in analisi il problema posso dire con certezza che desideravo qualche altra cosa, ma non sapevo cosa, né come realizzarla. Qualcosa d’indistinto che non riuscivo a decodificare. Soltanto quando ottenni un posto di lavoro definitivo, in seguito al cambiamento di vita e di città, iniziò per me un nuovo ciclo dell’esistenza, finalmente mi liberai di quel pensiero fisso del figlio…”.

In un ambiente distante dalla madre e dalla terra d’origine, Maria scoprì di avere desideri propri, non legati all’assunzione di responsabilità verso l’altro. Crebbe un rifiorire della sua persona e di progetti che le appartenevano. In questa realtà nuova, Maria rimase incinta e il suo bambino riuscì a nascere dal momento che l’evento nascita si era slegato dal rapporto interno con la propria madre. Partner fondamentale della gestazione fu un ginecologo che si fece carico di tutte le eventuali complicanze ed anche degli aspetti psicologici di una paziente ritenuta a rischio per i pregressi episodi abortivi. La buona scelta del medico dunque coincideva con un passaggio trasformativo durante il quale la paziente compiva il tentativo di recidere il cordone che la legava alla famiglia d’origine, e in particolare di rompere il patto narcisistico con la madre, che tanto aveva svuotato e devitalizzato la sua esistenza femminile. La figura di questo dottore è l’equivalente di un’immagine paterna solida ed affidabile, come se il bambino venisse al mondo grazie all’esistenza di un buon padre, il quale metaforicamente è l’elemento forte che feconda la coppia madre-bambino; una madre in grado di iniziare ad avere uno spazio interiore per la maternità perchè disponibile a farsi proteggere in modo adeguato, affinché il progetto di una vita si realizzi. In seguito alla nascita del figlio, Maria cominciò ad interrogarsi sul futuro, gli affetti, il legame di coppia, e ad intraprendere un processo individuativo che la porterà gradualmente a maturare la scelta di una separazione dal coniuge. In modo silente sul piano intrapsichico continuava a lavorare una progressiva distinzione dalla figura materna e in parallelo la costruzione del proprio sé femminile. Tuttavia il punto emblematico nel mio ascolto analitico restava il grave episodio vascolare, l’incidente somatico che la condusse da me in analisi. La crescita psicologica che Maria aveva naturalmente intrapreso dopo la nascita del figlio, subiva con la rottura dell’aneurisma una brusca battuta d’arresto, evidentemente un elemento persecutorio inscritto nel soma resisteva all’elaborazione e sembrava sbarrare le potenzialità di un’esistenza non lacerata da traumi fortemente coinvolgenti il corpo.

Ricostruii che sulla stessa linea della persecutorietà erano avvenute le minacce d’aborto e le interruzioni volontarie di gravidanza, espressioni tangibili di nuclei conflittuali che non potevano essere accolti, né integrati ed elaborati dalla mente.

La possibilità di mettere al mondo un figlio e di vivere la fase naturale di simbiosi madre-bambino “può istaurarsi solo  in un rapporto all’interno del quale il livello di persecuzione sia di grado zero e poiché il parto e la nascita sono vissuti in realtà come l’apice della persecuzione, esiste una necessità primaria di deflessione della persecuzione all’esterno del rapporto madre-bambino, pena l’impossibilità dell’instaurarsi della simbiosi primaria”13  Nel caso di Maria i nuclei di persecutorietà erano stati molto resistenti e si erano placati nel momento in cui in seguito alla separazione dalla madre era riuscita a rifondare la propria vita in un luogo nuovo. Con la presenza chiave del buon padre-ginecologo aveva avuto modo di partorire a termine il suo bambino e di poter instaurare con lui una relazione affettiva. Il tema persecutorio sul piano somatico, era riemerso con violenza nell’episodio vascolare, questa volta mettendo a rischio non più la sua capacità di procreare ma la sua stessa vita. Dall’emergenza e la gravità del trauma nasceva dunque la richiesta d’analisi.

Nella relazione transferale si era attivato fin dall’inizio della cura un’atmosfera materna, condita dalle parole lievi della paziente, da un lessico poetico, dai toni morbidi della voce.

Scoprii che il dono naturale per la scrittura, esercitato nel tempo, le aveva offerto uno spazio di libertà, un’apertura segreta alla psiche. Lo scrivere pensieri era un sostegno per le sue angosce, consentendole di affidarsi alla fantasia per  ammorbidire l’impatto con un clima familiare difficile e per compensare parzialmente il sacrificio di parti di sé che il rapporto narcisistico con la madre aveva indotto.

L’atmosfera materna che si respirava in analisi favoriva la costruzione di una relazione vitale che mirava ad arginare le tensioni per salvaguardare una sorta di serenità narcisistica di cui la paziente aveva assoluto bisogno. Percepivo tra noi una sorta d’ammirazione reciproca, di relazione di unisono14,  come se lo spazio bianco si rianimasse e potesse metaforicamente avvicinarsi alla luce bianca dell’alba. Le ambivalenze e le forze aggressive, che sempre sottendono le relazioni, si neutralizzavano per creare quel contenitore non persecutorio che avrebbe permesso solo in una fase successiva di poterle riaccogliere nella terapia. Infatti l’esplorazione della sessualità e dei desideri in una fase conseguente dell’analisi, fecero esplodere dei temi persecutori ma questa volta non più attraverso il linguaggio d’organo bensì solo sul piano psichico. Mi parve un momento fondamentale dell’analisi poiché il corpo non era più il depositario principe della persecutorietà. Venne così alla superficie il segreto che aveva custodito gelosamente dentro di sé, e che era stato a mio avviso la causa fondamentale dei vissuti persecutori somatici: quello di essere stata oggetto fin dall’infanzia delle attenzioni incestuose del padre. Pur non essendosi mai consumato l’incesto, Maria aveva combattuto da sola, sotto lo sguardo inerte della madre, per difendersi dagli attacchi perversi del padre. La seduzione materna l’aveva neutralizzata e coinvolta in uno stato di collusione, rassegnato e passivo, ed aveva anche mutilato quello spazio di fiducia verso l’essenza materna del femminile. Alla luce di quella terribile scoperta, quel fiume sotterraneo fatto di rabbia e solitudine, finalmente poteva uscire in analisi e trovare quelle parole dette, pronunciate, e condivise che avevano il sapore di una riconquista potendo riaprire uno spazio mentale alla speranza e alla vita.

 

 

 

L’UTERO COME UNA SCATOLA BIANCA

 

Definirei coraggioso il libro della scrittrice napoletana Valeria Parrella: “Lo spazio bianco”15,  che narra le vicissitudini di Maria una donna di quarantadue anni che mette al mondo una bambina al sesto mese di gravidanza. Educatrice territoriale, la protagonista insegna, con passione ed umanità agli adulti italiani e stranieri, che studiano per conseguire il diploma di scuola media. La cornice del libro come dell’omonimo film di Francesca Comencini16  è quello di una Napoli attuale, un luogo bello e dannato, oggetto da diversi anni dell’attenzione della cronaca, dei media e dell’arte per vicende di ogni genere. Città in qualche modo materna per la sua vicinanza al mare, ma anche teatro di guerra, luogo immerso in una provincia dove si consumano lotte fratricide. Proprio la lotta per la sopravvivenza e l’amore per la giustizia sociale avevano spinto il padre di Maria, operaio alla Cirio, a diventare  punta di diamante delle rivendicazioni sindacali. La figlia eredita dal padre la passione per l’etica e attraverso gli studi cerca un’emancipazione e sviluppa il diritto di difendersi con l’intelletto dalle incongruenze di una realtà sociale contorta e malata: “Crescere figlia di un operaio negli anni Settanta, e poi proprio per questo studiare, intestardirsi sui libri, diventare la generazione dello scarto intellettuale, erano cose che davano una certa arroganza. Perchè a vedermi da fuori io lo sentivo, di essere la prima persona della famiglia che non avrebbe avuto le braccia corrose dal succo di pomodoro” (p.57). Eppure i pesanti sforzi della famiglia si erano rivelati “una protezione quasi nulla di fronte ai casi della vita”. Dono, peso, arroganza e possibilità, sono gli ingredienti che alimentano la crescita di Maria. Crescere all’ombra di un’ideologia, seguendo come esempio il rigore della figura paterna sembra essere l’unico garante identitario per la donna. La propria madre, non era in grado di offrire la giusta attenzione e un adeguato riconoscimento ai suoi vissuti emotivi.

“Quando ero piccola e ricevevo regali, le nonne, le zie, anche mia madre, dicevano che io ‘non davo soddisfazione’. La verità era l’opposto: io sentivo un’emozione profonda perchè qualcuno che non ero io stessa pensava a me, e proteggevo questa emozione” (p.78). 

La parte femminile di Maria sembra essersi auto-generata, da sempre sola. è lei che provvede a se stessa. Questo vuoto di rapporto col materno la porterà a non sviluppare alcune funzioni del SÈ femminile che sono fondamentali nella cornice della maternità interiore, come ad esempio quello di tollerare l’attesa: “Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere. è stata la più grande incapacità della mia vita”.

Anche la gravidanza è vissuta in solitudine, senza un uomo accanto. Dopo il parto prematuro finisce nel reparto di terapia intensiva neonatale a condividere le angosce dell’attesa con un gruppo di donne che si trovano nella sua stessa situazione. Il brano riportato descrive in profondità le difficoltà identitarie e le ambivalenze verso il materno che evidenziano la genesi di un vissuto depressivo nei confronti della maternità:

“Avevo sedici anni quando mi ero impiegata nello sforzo più capillare della mia esistenza: rimuovere la corona di spine. Era stata un’eredità di mia madre: lei era una suora in borghese. Si nascondeva da mio padre, che le rideva addosso e si era fatto il segno della croce solo il giorno del matrimonio, e si nascondeva da se stessa, per stare al passo con i tempi. Aveva sepolto nel comodino e in sè ‘L’imitazione di Cristo’, alla cui lettura era stata condannata dalla zia che l’aveva cresciuta. (…) In mia madre c’era un vago compiacimento per qualunque rinuncia, una sottile perversione nel non andare al cinema, nel rarefare le cene tra parenti, nel perdere di vista le amiche. Non aveva mai lavorato, altrimenti la casa sarebbe andata in rovina, ed io sarei stata tirata su da chi sa chi. Quando si truccava proclamava a gran voce oltre la porta del bagno che lo faceva controvoglia, e i soldi dei vestiti che non aveva mai comprato per sé erano andati ad arricchire l’altare di famiglia. (…) Gli ultimi tempi prima che mia madre morisse, quando andavo a trovare una vedova stanca il cui mondo era precipitato nel televisore, mi sedevo a tavola con lei e la osservavo mentre mi guardava. Sul fondo, dietro i vetri della cucina, oltre lei che scolava la pasta, si stagliava ancora la ciminiera delle conserviere, al cui posto ora c’erano un bingo e un supermercato discount, e mi chiedevo chi di noi due avesse rinunciato di più .”  

I sentimenti di precarietà interiore e il dolore psichico provato per il parto prematuro fanno maturare nella protagonista sofferte riflessioni sul femminile e il materno: “…Sentivo che l’errore c’era comunque: a sposarsi e a restare soli, a fidanzarsi e ad amare, a innamorarsi e a sostenersi, a sfidarsi, a vincere e a perdere, a proteggere e a farsi proteggere. E io non sarei mai stata pronta a difendere nessuna di queste cose” (p.89). Una sintesi che descrive con efficacia la paralisi dell’impossibilità di investire su un oggetto d’amore perchè nella relazione psichica con la propria madre non si è mai veramente realizzato uno spazio di distinzione. La versione cinematografica del libro dona allo spettatore un volto indimenticabile di questa donna quando avvolta dalla luce bianca e azzurra del cielo e del mare scruta immobile le ombre delle immagini ecografiche della sua gravidanza. Lo  stesso sguardo sospeso, velato di stupore e paura, sfiora i contorni del piccolo essere racchiuso nel guscio bianco dell’incubatrice, ne misura l’improbabile esistenza attraverso le onde delle funzioni vitali e il pulsare del cuore sul monitor. Sarà il gruppo solidale delle madri, unite dallo stesso destino, l’affetto sincero degli amici, l’umanità e la gratitudine dei suoi allievi a riscaldare quello sguardo - a permetterle di costruire nella sua interiorità quel grembo psichico che fa crescere in lei la capacità  di diventare una buona madre in grado di riaccogliere dentro di sé la figlia fino al momento della nascita dall’incubatrice. Il viaggio psichico di Maria nel campo della maternità è un viaggio che si nutre di contatti visivi, Ë con gli occhi che la donna impara a conoscere ed accettare la propria bambina e ad amarla, a condividere, attraverso uno sguardo interiore e gli scambi emotivi con gli altri la sua vicenda umana. Alla fine del libro come del film, lo spazio bianco non ha più il significato di un vuoto privo d’immagini e pensieri ma diventa uno spazio reale simile all’albedo alchemica, la possibilità di far nascere e di donare forme infinite alla vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'Autrice:

        1 ROOT FORTINI L. (2008), L’ascolto delle future madri. In Un tempo per la maternità interiore a cura di G. Ferrara Mori, Borla, Roma, 2008,             p.70.

         2  Ibidem.

        3 RACAMIER P.C., TACCANI S. (1986), Il lavoro incerto, ovvero la psicodinamica del processo di crisi, Edizioni del Cerro, Pisa,  pp. 51-52.  

4         ALBRIGO L. (2008) La scatola nera dell’analista: unimagine. In Umwelt. Il divenire della rappresentazione a cura di S. Carta, Rivista di Psicologia Analitica, RPA Ed., Roma 2008, p.252.

5         FERRARA MORI G. (2006), “L’esperienza interiore della maternità”. In LA SALA G.B., IORI V., MONTI F., FAGANDINI P. (a cura di), La “normale” complessità del venire al mondo, Angelo Guerrini e Associati, Milano, p.116.

6         MONTI F. (2008), La “maternalità”: crisi latente e disagio. In Un tempo per la maternità interiore a cura di G. Ferrara Mori, Borla, Roma, 2008, p.141.  

         7   GREEN A. (1973), La Psicosi Bianca, Borla, Roma (1992), p.14.

8         RACAMIER P.-C. (1992), Il Genio delle Origini, Raffaello Cortina Ed., Milano 1993, p. 190.

9         Ibidem, p.177.

10      Ibidem, p.178.

11      Ibidem, p.187.

12      GREEN A. (1973), La Psicosi Bianca, Borla, Roma (1992), p. 316.

      13  FORNARI F. (1981), Il codice vivente. Femminilità e maternit‡à nei sogni delle madri in gravidanza, Bollati Boringhieri, Torino, p. 272.

14      RACAMIER P.-C. (1992), Il Genio delle Origini, Raffaello Cortina Ed., Milano 1993, p. 41.

15      PARRELLA V., Lo spazio bianco, Einaudi, Torino 2008.

16      Il film  Lo spazio bianco della regista Francesca Comencini presentato in concorso alla 66ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia 2009.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
   

 

 

 

 

   

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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