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Anno/Year: 2010
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"Vite soffiate. I vinti della
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-0-4
Anno/Year: 2008
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
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ISBN: 978-88-340155-7-5
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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
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Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
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Nell’esistenza femminile la maternità rappresenta la
possibilità naturale di compiere un passaggio maturativo, varcare la
soglia dell’essere figlia e diventare madre, la messa in opera di
una trasformazione che arricchisce il processo personale
d’individuazione della donna. L’estensione, tuttavia, del registro
femminile da uno statuto interiore filiale ad uno statuto materno
comporta una serie di complessi sconvolgimenti psicologici che possono
in alcuni casi riattivare in modo imprevisto dinamiche di ogni genere,
dai fenomeni narcisistici, al riemergere di identificazioni arcaiche,
al riaccendersi di intense conflittualità edipiche. Per simili
fattori di rischio la maternità costituisce un evento che costringe
ad una riorganizzazione profonda dell’identità. Il lavoro psichico
che accompagnerebbe tutte le fasi procreative, dal progetto di avere
un figlio alla gestazione sino al parto, necessita di un ascolto
interiore sia da parte della futura madre, sia da parte del contesto
familiare e sociale di appartenenza. Il ruolo pubblico e competitivo
che la donna ha raggiunto nelle società contemporanee e la
progressiva destrutturazione della famiglia allargata - là dove in
genere esisteva un apporto affettivo e
solidarietà alla gravidanza da parte del clan femminile -
hanno contribuito a limitare l’atteggiamento mentale
predisposto all’accoglienza e all’ascolto che consentiva alla
donna di poter affidare i desideri più intimi, le sue paure e
fantasie, non solo a se stessa ma anche a degli interlocutori
partecipi.
Pur essendo un’esperienza individuale, la maternità
necessita dunque di condivisione, con il proprio partner ma anche con
la società - poiché mettere al mondo un figlio non è solo un fatto
personale, ma anche comunitario - e con un fronte solidale di donne,
una sponda accogliente di figure femminili che aiutino la donna a far
levitare un movimento affettivo verso il proprio grembo e il futuro
bebé. Tuttavia la predisposizione naturale a costruire gradualmente
una immagine interna del proprio modo di diventare madre, può essere
ostacolata da vari fattori principalmente connessi alla propria storia
infantile e alle dinamiche di identificazione con la figura materna.
Per la donna il vivere con passione e affetto l’esperienza
sensoriale della gestazione è correlato direttamente con
l’introiezione di una figura materna positiva, che la futura madre
sin dalla propria infanzia ha interiorizzato come un modello valido di
riferimento. “L’identificazione con un’immagine materna positiva
è una necessità per la donna, un bisogno intenso di ritrovare se
stessa figlia in rapporto con un oggetto materno contenente. Questo
movimento psichico a ritroso verso vissuti infantili, a un livello
profondo della mente della donna incinta riattiva l’immagine della
bambina che è stata. In tal modo comincia ad avvicinarsi mentalmente
al feto-bebè ancora prima di crearsi un’immagine fantasmatica del
suo bambino”1. Il bimbo
diventa pensabile in relazione al SÈ infantile della futura madre,
“cosicchè il feto diventa già luogo di trasmissione psichica,
oggetto di immedesimazione, di ritorno al passato ancora prima di
essere vissuto come un oggetto distinto da lei”2.
Dal punto di vista della trasmissione tra le generazioni,
ereditare dall’asse materno di discendenza un modello
sufficientemente adeguato in cui coesistono senza conflittualità
patologiche codice materno e codice femminile, costituisce per il
processo di formazione del SÈ femminile una premessa fondamentale
allo sviluppo della maternalità3.
La trasmissione intergenerazionale del materno è stata
sempre rappresentata dalla cultura, dai miti e dalle leggende fin dai
primordi dell’umanità. In molte opere pittoriche dell’iconografia
classica emerge l’importanza del contatto tra madre e figlia durante
la gestazione e l’evento della nascita. Ad esempio nei due quadri
raffiguranti il gruppo familiare di Sant’Anna, Maria e il Bambino,
di Leonardo da Vinci, viene magnificamente descritto in immagini, il
percorso maturativo che consente alla donna di avere fiducia in se
stessa come madre. Maria, protetta dall’ombra di Sant’Anna,
rappresenta simbolicamente l’esito positivo dell’introiezione di
una madre buona.
In tempi più recenti la rivisitazione del quadro del
Pontormo, da parte del video-artista Bill Viola, ripropone in un video
di dieci minuti, l’incontro emozionante tra Maria e Elisabetta,
entrambe incinte. L’artista contemporaneo in seguito ad un episodio
visto in strada, di due donne a Long Beach, di cui una incinta, che
d’improvviso si abbracciavano con affetto, “converte una sua
intima, personale, irrappresentabile sensazione facendo appello a
quella memoria collettiva, che riconduce a ricordare la Visitazione
di Maria ed Elisabetta come immagine emblematica dell’incontro”4.
In questo caso, come nelle opere di Leonardo, il linguaggio
metaforico dell’artista è facilitato dalla potenza espressiva delle
immagini: coglie e descrive il valore del contatto emozionale con
l’altro e il significato profondo della condivisione di sentimenti
umani fondamentali nello spazio dell’incontro femminile.
Nella maternità l’allusione a uno spazio mentale
specifico che accoglie la propria e l’altrui esistenza costituisce
in sostanza la metafora centrale da cui può snodarsi il discorso
sullo sviluppo dell’identità femminile. La Maternità interiore
è infatti principalmente un luogo della mente, quello in cui
si riversano “le fantasie, le emozioni, i desideri, i sogni. è
la
residenza di legami, di affetti, di relazioni nuove. è
il contenitore
di quel bambino fantasmatizzato interno che diventerà il bambino
reale esterno”5. Maternità interiore come uno spazio “utero di
lana”, “un luogo-tempo i cui confini si confondono con quelli
delle aree più antiche che hanno a che vedere, nella realtà e nella
fantasia, con l’immagine e il ricordo dei propri genitori”, con
l’intrecciarsi dell’eredità psichica e dei destini individuali6.
La questione da affrontare è: in che modo può formarsi
questo spazio interiore della maternità se un mandato
inconscio transgenerazionale predestina la donna ad essere portatrice
di vissuti patologici, di segreti e fatti vergognosi che i suoi
predecessori, in particolare la propria madre non hanno psichicamente
metabolizzato e risolto? L’infant observation e i trattamenti
psicoanalitici sulle donne in gravidanza offrono una vasta e preziosa
esperienza clinica di riflessione sul campo.
Nei casi di alterata trasmissione, lo spazio interiore
della maternità perde i colori della vita, si impoverisce di oggetti,
si riduce a delle pareti nude, mentre all’interno di questo spazio
si aggirano fantasmi che soffocano la maturazione del SÈ femminile
rendendo inerti le sue potenzialità. Non ci si riferisce ovviamente
alla quota fisiologica di ambivalenza e persecutorietà che accompagna
alcune fasi della gestazione e del parto, bensì all’esplosione di
vissuti patologici di scissione e di fantasmi di morte che invadono la
psiche. Nella mente femminile lo spazio per sentirsi e pensarsi madre
è sequestrato dalla vita psichica dell’altro. è
questa che detta
legge e governa, che procura un dolore psichico impensabile e
indicibile o scissioni radicali, per le quali tutto ciò che dà
turbamento viene tagliato fuori dalla pensabilità. Conseguenze
drammatiche di queste patologie dell’eredità psichica sono spesso
le minacce d’aborto e i parti prematuri, in quanto espressione
biologica diretta di contenuti conflittuali che non possono essere
accolti dalla mente.
Lo spazio bianco è dunque metafora della camera vuota
della mente, ciò che resta scarnificato e sullo sfondo in seguito al
disinvestimento della propria realtà oggettuale femminile. Per il
codice biologico della maternità è l’utero che non può sin
dall’inizio trattenere la vita o quello che la espelle precocemente
dovendo affidare il bambino alla scatola bianca dell’incubatrice.
L’analisi dovrebbe tentare di riparare nello spazio
protetto del transfert quel difetto di metabolizzazione, quella lacuna
psichica nell’area materna, restituendo una nuova verità che aiuti
la donna a non vivere soltanto nel passato, ma a metterlo in relazione
attiva con la sua soggettività e con il suo futuro. Nell’accogliere
queste pazienti la dimensione dell’ascolto analitico è il filo
percettivo che ridisegna i confini di una realtà psichica spodestata
dall’invasione inconscia dell’altro e aiuta a mantenerne in vita
le funzioni vitali e la sua stessa sopravvivenza.
Attraverso la storia di una paziente da me curata ed alcuni
spunti che hanno ispirato queste mie riflessioni, narrati in un libro
da cui è stato tratto un film, proverò a dar forma allo spazio
bianco che insidiosamente si sostituisce alla costruzione del luogo-utero
di lana che nutre la maternità.
Se il caso clinico riportato pone l’accento sulla figura
femminile della figlia, la citazione dei brani del bel libro di
Valeria Parrella “Lo spazio bianco” vuole invece offrire un breve
flash sull’esperienza psichica di una madre che lotta affinché la
sua bambina prematura possa vivere. Ci terrei ad evidenziare tramite
questo doppio sguardo come entrambe le posizioni di madre e di figlia
siano profondamente interconnesse e come l’una si rifletta
nell’altra in quanto anelli di una catena infinita. Il filo che le
unisce, quello della trasmissione psichica, non ha mai un’origine
unica e definita, poiché le origini hanno sempre un’origine e la
loro ricerca è veramente interminabile. Per tale motivo nel discorso
della transgenerazionalità, non ha senso parlare di determinismo
causalistico, né di colpevolezza o innocentizzazione, quello che
accade riguarda piuttosto il crearsi di configurazioni relazionali ad
incastro che si snodano l’una nell’altra. Seguendo il pensiero
junghiano, una figlia per diventare madre deve aver metabolizzato e
trasformato l’immagine archetipica della Grande Madre, che influenza
sempre sia il suo mondo interno, sia la sua realtà - tenendo presente
che l’immagine archetipica affonda le sue radici non solo
nell’inconscio personale e nella storia soggettiva ma anche
nell’inconscio collettivo. Sarà importante il modo in cui
nell’asse di discendenza femminile si declina la possibilità per la
donna di digerire le proprie immagini archetipiche e quindi dar forma
eventualmente al materiale psichico non rappresentato e vissuto come
irrappresentabile, al fine di completare una visione interiore di sé
stessa che comprenda l’essere figlia, donna e madre.
COME
UNA STATUINA DI GESSO
Aveva
quasi quattro anni ed era appena giunta dal paese nella casa nuova di
città . Una bimba graziosa vestita a festa per l’occasione. Scese
col padre in strada, perchè lui voleva conoscere i dintorni della
periferia urbana in cui erano andati ad abitare. Le strisce pedonali
dovettero sembrarle molto divertenti quando saltando su un solo
piedino cercò di ripetere il gioco della campana. Il padre era
chinato a bere da una fontanella e non si accorse di nulla, mentre una
moto investì Maria, trascinandola per metri e metri lungo
l’asfalto. Maria ricorda ancora l’impatto violento, il dolore nel
ventre, l’abito bianco macchiato di sangue. Seguì un lungo periodo
di ospedalizzazione che Maria rammenta ancora oggi con piacere perchè
nell’ospedale dei bambini si poteva giocare e tutti erano attenti e
gentili.
Da adulta
l’invio in analisi fu consigliato dalla ginecologa presso la quale
Maria era in cura, a parte le problematiche specifiche, la sensibilità
della collega aveva colto nella paziente un dolore psichico che solo
un trattamento psicologico avrebbe potuto lenire.
Quando
aprii la porta, vidi con stupore una donna d’aspetto ancora giovane
con il capo fasciato ed una benda su un occhio, provai sgomento e
quasi l’istinto di abbracciarla per proteggerla dall’agente
sconosciuto che le aveva provocato un danno simile. La feci accomodare
nello studio, lei entrò timidamente con andatura barcollante. Quel
suo modo di presentarsi mi sembrò all’istante una richiesta
d’asilo, forse la ricerca di un luogo dove poteva tornare a
scorrere più fluentemente la vita… Il racconto che mi fece
dell’incidente infantile amplificò le mie sensazioni ed era in
stretta connessione con la sofferenza fisica che portava al nostro
primo incontro d’analisi.
Ebbi la
fantasia di una reduce di guerra, di una combattente che ritornava
finalmente a casa, per poter avere cure adeguate, per reclamare il
diritto di una convalescenza serena. Molti mesi prima di iniziare
l’analisi, nella sua testa si era rotto un aneurisma adiacente i
vasi che irrorano l’occhio. I disturbi sempre più gravi della
visione l’avevano condotta ad effettuare molteplici indagini e ad
intraprendere un pellegrinaggio alla ricerca di un esperto che se la
sentisse di affrontare un intervento chirurgico così delicato. Infine
un’eminenza in campo neurologico aveva sfidato la sorte operandola
nonostante l’alto rischio di sopravvivenza. Mi sono chiesta tante
volte nel corso dell’analisi perchè Maria si rivolse a me in quelle
condizioni così drammatiche, avrebbe potuto attendere che le sue
condizioni di salute migliorassero, ma a parte l’approdare in un
luogo protetto, credo che il suo stato volesse veramente denunciare in
primis l’urgenza di evocare nell’altro un coinvolgimento emotivo,
l’esigenza profonda di una relazione nell’ambito della quale
l’analista potesse soccorrerla e prendersi cura di lei.
Un doppio
trauma unifica due epoche lontane della vita di Maria: l’infanzia e
l’età matura sono interconnesse dal filo del trauma non solo per
l’episodio dell’incidente e per quello della rottura
dell’aneurisma, ma anche per un esteso spazio temporale che in modo
continuativo presentava tracce sparse di una matrice traumatica,
accumulando in sé i segni di un’identità femminile ferita sin
dalle origini.
Il primo
frammento onirico narrato in analisi è la ricostruzione di un sogno
che Maria fece da bambina intorno ai cinque anni, poco dopo
l’episodio dell’incidente stradale:
“All’improvviso
cercavo mia madre, non so per quale motivo, e la chiamavo. Ero in
casa. Udivo la sua voce ma non il rumore dei suoi passi. Infine la
trovavo: era ferma, in piedi, al centro di una stanza e mi rispondeva
con un’afflizione che non potevo capire; intanto i suoi occhi mi
lanciavano espressioni d’affetto ma erano cupi e tristi, come
preoccupati. Le sue gambe erano immerse in una piccola vasca, quasi il
contenitore usato per un pediluvio. E mentre io le parlavo la sua
figura matronale iniziava a rimpicciolirsi finché non assumeva le
dimensioni di un nano minuto, inoltre l’acqua del contenitore si
solidificava in tutto altro materiale e lei non poteva più muoversi
poiché intrappolata in una vasca di cemento, le cui dimensioni
risultavano ora assai più considerevoli che al primo sguardo. Io
sgomenta e inorridita dalla nuova visione, prima urlavo cercando di
attirare l’attenzione di qualcuno che potesse intervenire e aiutarmi
a liberare l’infelice prigioniera, che sembrava aver perso ogni
espressione umana. Era solo un feticcio oramai, un richiamo di estrema
sofferenza per me. Allora non mi perdevo d’animo e mi davo da fare
per strappare le sue gambe da quel cemento prima che si irrigidissero
del tutto. Non vi riuscivo e nel mio disperato sgomento lei era sempre
lì, piccola, quasi una minuta creatura senza più espressione, una
statuina di gesso… fredda e inanimata”.
La
letteratura psicoanalitica insegna come le prime battute e il primo
sogno di un’analisi siano fondamentali e come in nuce possano
rivelare quei contenuti preziosi che non sono al momento utilizzabili,
nè interpretabili, ma che si svilupperanno in un linguaggio
condivisibile successivamente nel corso del trattamento. L’Inconscio
può rivelarsi “come se fosse nella sua natura di aprirsi solo per
richiudersi” immediatamente dopo; mentre il “commento après
coup può al contrario utilizzare in pieno tale ricchezza”7.
Il sogno infantile di Maria racchiude la genesi delle
problematiche psichiche che plasmeranno le sue esperienze di vita e il
formarsi dell’identità femminile, e soltanto in una fase avanzata
dell’analisi sarà possibile penetrarlo in tutta la sua potenza
simbolica.
Pensai alla
rappresentazione infantile della madre che la paziente poteva aver
introiettato in seguito al grave episodio di realtà: l’immagine
dell’impotenza materna di fronte alla bambina colpita dalla violenza
del trauma dell’incidente stradale, consumato sotto gli occhi
distratti del padre. Su un piano più profondo dalla scena del sogno
emerge il crollo di un ideale femminile, la crisi e il fallimento
della maternità. La paziente vede la madre trasfigurarsi nella minuta
creatura inanimata. Si assottiglia sino a spengersi, l’imago stessa della
maternità. La madre del sogno ridiventa piccola,
l’affettività materna prende forma nell’acqua che
progressivamente solidifica, contenuta in una bacinella-utero, sino a
congelarsi in una vasca ed assumere la soffocante consistenza del
cemento. Per Maria bambina, naufraga la possibilità di avere un
appoggio valido allo sviluppo del sè femminile, la madre interna è
ridotta ad un feticcio inumano, ad una statuina di gesso.
A nulla valgono i suoi sforzi di strappare la madre a quella morte
psichica. Per un effetto di circolarità, la madre ridotta a
statuina congelata ricorda anche i feti, i bambini mai nati. Si tratta
di un rovesciamento di valore dell’oggetto, una specie di
cambiamento istantaneo dell’immagine, come se l’immagine fosse
capovolta dal “movimento di una bascula che fa letteralmente girare
gli estremi su se stessi”8. L’oggetto similmente rappresentato è sempre un oggetto
parziale ed obbedisce in modo elettivo a leggi narcisistiche.
Le
immagini del sogno descrivevano questa dinamica di interversione,
Maria da figlia si trasformava in madre, e sua madre invece acquisiva
le dimensioni di un feto. Una sorta di giravolta psichica, a
testimonianza di come l’inconscio infantile fosse attratto
dall’orbita della seduzione narcisistica materna e di come la
bambina stessa fosse diventata un feticcio materno.
Certe
madri hanno bisogno, per supportare il proprio ideale narcisistico, di
eleggere in seno alla loro progenie un oggetto, un figlio, che servirà
loro da feticcio. Questo bambino all’interno di una famiglia, si fa
carico, a propria insaputa, di rappresentare e di incarnare, nel bene
e nel male, la posizione psichica materna. “E’un figurante
in quanto configura questo ideale, ed è predestinato
non avendo scelto egli stesso questo ruolo che tuttavia assume
con una sorta di passione”9.
L’oggetto-feticcio
ha la duplice proprietà di essere nello stesso tempo vivo e
inanimato. La funzione segreta di questa designazione consiste
nella portata antidepressiva “di cui questo oggetto-feticcio
è intimamente caricato nell’economia psichica della madre: esso ha
come funzione (vitale, in realtà) di impedire alla madre di
deprimersi, e quindi di morire”10.
Nella
storia di Maria, la fredda, bianca e gessosa, inconsistenza del
materno, generano un vuoto depressivo che la paziente colmerà
cementando segretamente ancor di più il patto narcisistico con la
madre, presa da una sorta d’inflazione narcisistica che la porta ad
immolare se stessa sull’altare materno. Dai racconti della
sua infanzia sembrava una bambina perfetta, buona e sensibile, nei
suoi comportamenti non appariva alcuna
polarità conflittuale, quella che solitamente contempla sia il
desiderio di autonomia sia quello di appartenenza fusionale.
In una
fase avanzata dell’analisi, compresi che Maria aveva inconsciamente
aderito alla richiesta della madre di essere sostenuta nell’impresa
di arginare la violenza del coniuge, con il fine malsano inconscio di
non deprimersi e di non recidere il rapporto con lui. Maria, come nel
sogno, aveva lottato per disincastrarla dall’impotenza e dalla
depressione, ma per questa dedizione aveva pagato un prezzo molto alto
a livello psichico e somatico.
Alle
conseguenze fisiche dell’incidente si aggiungeranno nel tempo altri
fastidiosi disturbi alla circolazione linfatica ed epilessia, che
indurranno nella paziente una costante preoccupazione per il proprio
stato di salute e contribuiranno ad incrinare anche l’immagine
estetica del proprio femminile.
La sequela di danni
organici, subiti da Maria, poteva essere letta come diretta
conseguenza di un ripiegamento massiccio degli investimenti libidici -
i quali - trovando
occlusa la via per raggiungere l’oggetto, si riversavano
pesantemente sul corpo e sull’immagine corporea. Sappiamo da Freud
come psicosomatosi ed “ipocondria (siano) frutto di una proiezione
intra-corporea: una proiezione nel senso di un rifiuto, che non
oltrepassa mai i limiti corporei e ricade all’interno del corpo
stesso”11. Il
rifiuto consiste nell’essersi costituito un involucro psichico molto
spesso, nel quale appunto ci si chiude dentro, proprio a garanzia che
il patto narcisistico originario continui a perpetuarsi e
che tutti i conflitti transgenerazionali siano messi a tacere,
come un tentativo disperato di soluzione.
Nel corso
dell’analisi emerse un ulteriore elemento che aveva favorito
l’identificazione adesiva con la madre: i genitori emigrarono per
alcuni anni all’estero quando i figli erano piccolissimi. Cresciuti
dunque dai nonni, Maria e i suoi fratelli si erano adattati
all’allontanamento precoce dalla madre e dal padre. La paziente
ricorda di essersi compenetrata nel ruolo protettivo e di essere stata
molto affettuosa verso i fratelli, sempre responsabile e seria negli
impegni familiari come nello studio. La descrizione paterna
corrisponde a quella di un uomo duro, inaffidabile, con tratti
caratteriali, incapace di instaurare un contatto emotivo con i figli,
spesso violento. La madre, al rientro dall’estero, aveva di certo
dovuto supportare il nucleo familiare sobbarcandosi d’oneri e
fatiche fin quando, con i figli ormai adulti, decise di recidere il
legame coniugale che tanto aveva afflitto la sua esistenza. Si evince
come il ruolo protettivo della figlia fu necessario all’economia
psichica della madre per riuscire ad affrontare lunghi anni di
umiliazioni e difficoltà di ogni genere. Mi colpiva di converso la
solitudine nella quale Maria era cresciuta da adolescente e non
faticavo ad immaginarla come un’eterna bambina e nel contempo madre
della propria madre.
La
tendenza di Maria di offrire sostegno incondizionato all’altro e di
aderire ai suoi bisogni, era riemersa anche con il proprio marito, dal
quale dopo anni di matrimonio si era separata poco tempo prima che
esplodesse l’aneurisma. L’aveva mantenuto agli studi fino oltre la
laurea, e si era silenziosamente rassegnata nell’accettare
passivamente il suo ruolo
di eterno adolescente.
Questa funzione
materna che inconsciamente aveva adottato sin da bambina nei
confronti dell’altro da sé, contrasta su un piano di realtà con la
possibilità di generare e di diventare madre.
Mi
colpiva che nel narrare in analisi le sue esperienze di molteplici
interruzioni di gravidanza, emergeva come allora non riuscisse a
rappresentarsi il bambino che si formava al suo interno. Il
concepimento biologico non coincideva con quello mentale. La
gravidanza è assimilabile ad un evento meccanico, ad un vuoto di
immagini, a dei pensieri bianchi12…
A Maria
accadde di rimanere incinta per la prima volta quando si separò dalla
madre e andò a vivere da sola. Decise di interrompere volontariamente
la gravidanza, poiché non era convinta del rapporto col partner, e
visse il fatto in modo liberatorio.
Dopo il
matrimonio, a ventitrè anni, un’altra interruzione questa volta
spontanea al sesto mese di attesa: “Durante quella gravidanza -
racconta in una fase avanzata dell’analisi -
è come se la pancia non l’avessi mai avuta… al posto della
pancia avevo una rientranza. Caddi dalle scale, ma non andai dal
medico, ero in realtà un’immatura, il matrimonio era stato solo un
modo per fuggire da un contesto difficile. Era un maschio. Ricordo che
fui assistita da un’ostetrica cattolica che senza riguardo mi disse
che il feto era morto strozzato, mi fece partorire per togliere dal
mio corpo un corpo morto, un parto secco, disumano. Fu lei a dargli un
nome e ad avvolgerlo in un lenzuolo, non volli sapere nulla, pensai a
come possano essere sottili le modalità psichiche e fisiche di
perpetrare violenza sulla donna”.
Due anni
dopo avvenne una nuova gravidanza, ma per timore che le ricapitasse
un’esperienza simile alla precedente, Maria la interruppe
volontariamente. E infine, tre anni prima che nascesse suo figlio,
accadde il quarto episodio di gravidanza non a termine, e l’aborto
fu spontaneo: “Iniziai a sentire dolori strani, seguirono ad una
telefonata di lavoro che riguardava la mia assunzione definitiva,
ma rifiutai proprio per il mio stato di gravidanza. Persi il bambino
in seguito al distacco del sacco. In tutti i casi,
i medici non mi seguivano, in verità io non mi facevo seguire
da loro per un mio atteggiamento di rifiuto e per la mia ingenuità.
In tutte queste gravidanze non coinvolsi mai mia madre…”. E
aggiunge un commento après coup: “Da bambina avevo il
terrore della maternità, perchè un figlio costituisce un impegno per
la vita e non un’esperienza passeggera. Eppure le volte che
accettavo la gravidanza ero certa di desiderare veramente un figlio.
Rivisitando oggi in analisi il problema posso dire con certezza che
desideravo qualche altra cosa, ma non sapevo cosa, né come
realizzarla. Qualcosa d’indistinto che non riuscivo a decodificare.
Soltanto quando ottenni un posto di lavoro definitivo, in seguito al
cambiamento di vita e di città, iniziò per me un nuovo ciclo
dell’esistenza, finalmente mi liberai di quel pensiero fisso del
figlio…”.
In un
ambiente distante dalla madre e dalla terra d’origine, Maria scoprì
di avere desideri propri, non legati all’assunzione di responsabilità
verso l’altro. Crebbe un rifiorire della sua persona e di progetti
che le appartenevano. In questa realtà nuova, Maria rimase incinta e
il suo bambino riuscì a nascere dal momento che l’evento nascita si
era slegato dal rapporto interno con la propria madre. Partner
fondamentale della gestazione fu un ginecologo che si fece carico di
tutte le eventuali complicanze ed anche degli aspetti psicologici di
una paziente ritenuta a rischio per i pregressi episodi abortivi. La
buona scelta del medico dunque coincideva con un passaggio
trasformativo durante il quale la paziente compiva il tentativo di
recidere il cordone che la legava alla famiglia d’origine, e in
particolare di rompere il patto narcisistico con la madre, che tanto
aveva svuotato e devitalizzato la sua esistenza femminile. La figura
di questo dottore è l’equivalente di un’immagine paterna solida
ed affidabile, come se il bambino venisse al mondo grazie
all’esistenza di un buon padre, il quale metaforicamente è
l’elemento forte che feconda la coppia madre-bambino; una madre in
grado di iniziare ad avere uno spazio interiore per la maternità
perchè disponibile a farsi proteggere in modo adeguato, affinché il
progetto di una vita si realizzi. In seguito alla nascita del figlio,
Maria cominciò ad interrogarsi sul futuro, gli affetti, il legame di
coppia, e ad intraprendere un processo individuativo che la porterà
gradualmente a maturare la scelta di una separazione dal coniuge. In
modo silente sul piano intrapsichico continuava a lavorare una
progressiva distinzione dalla figura materna e in parallelo la
costruzione del proprio sé femminile. Tuttavia il punto emblematico
nel mio ascolto analitico restava il grave episodio vascolare,
l’incidente somatico che la condusse da me in analisi. La crescita
psicologica che Maria aveva naturalmente intrapreso dopo la nascita
del figlio, subiva con la rottura dell’aneurisma una brusca battuta
d’arresto, evidentemente un elemento persecutorio inscritto nel soma
resisteva all’elaborazione e sembrava sbarrare le potenzialità di
un’esistenza non lacerata da traumi fortemente coinvolgenti il
corpo.
Ricostruii
che sulla stessa linea della persecutorietà erano avvenute le minacce
d’aborto e le interruzioni volontarie di gravidanza, espressioni
tangibili di nuclei conflittuali che non potevano essere accolti, né
integrati ed elaborati dalla mente.
La
possibilità di mettere al mondo un figlio e di vivere la fase
naturale di simbiosi madre-bambino “può istaurarsi solo
in un rapporto all’interno del quale il livello di
persecuzione sia di grado zero e poiché il parto e la nascita sono
vissuti in realtà come l’apice della persecuzione, esiste una
necessità primaria di deflessione della persecuzione all’esterno
del rapporto madre-bambino, pena l’impossibilità dell’instaurarsi
della simbiosi primaria”13.
Nel caso di Maria i nuclei di persecutorietà erano stati molto
resistenti e si erano placati nel momento in cui in seguito alla
separazione dalla madre era riuscita a rifondare la propria vita in un
luogo nuovo. Con la
presenza chiave del buon padre-ginecologo aveva avuto modo di
partorire a termine il suo bambino e di poter instaurare con lui una
relazione affettiva. Il tema persecutorio sul piano somatico, era
riemerso con violenza nell’episodio vascolare, questa volta mettendo
a rischio non più la sua capacità di procreare ma la sua stessa
vita. Dall’emergenza e la gravità del trauma nasceva dunque la
richiesta d’analisi.
Nella
relazione transferale si era attivato fin dall’inizio della cura
un’atmosfera materna, condita dalle parole lievi della paziente, da
un lessico poetico, dai toni morbidi della voce.
Scoprii
che il dono naturale per la scrittura, esercitato nel tempo, le aveva
offerto uno spazio di libertà, un’apertura segreta alla psiche. Lo
scrivere pensieri era un sostegno per le sue angosce, consentendole di
affidarsi alla fantasia per ammorbidire
l’impatto con un clima familiare difficile e per compensare
parzialmente il sacrificio di parti di sé che il rapporto
narcisistico con la madre aveva indotto.
L’atmosfera
materna che si respirava in analisi favoriva la costruzione di una
relazione vitale che mirava ad arginare le tensioni per salvaguardare
una sorta di serenità narcisistica di cui la paziente aveva
assoluto bisogno. Percepivo tra noi una sorta d’ammirazione
reciproca, di relazione di unisono14, come
se lo spazio bianco si rianimasse e potesse metaforicamente
avvicinarsi alla luce bianca dell’alba. Le ambivalenze e le forze
aggressive, che sempre sottendono le relazioni, si neutralizzavano per
creare quel contenitore non persecutorio che avrebbe permesso solo in
una fase successiva di poterle riaccogliere nella terapia. Infatti
l’esplorazione della sessualità e dei desideri in una fase
conseguente dell’analisi, fecero esplodere dei temi persecutori ma
questa volta non più attraverso il linguaggio d’organo bensì solo
sul piano psichico. Mi parve un momento fondamentale dell’analisi
poiché il corpo non era più il depositario principe della
persecutorietà. Venne così alla superficie il segreto che aveva
custodito gelosamente dentro di sé, e che era stato a mio avviso la
causa fondamentale dei vissuti persecutori somatici: quello di essere
stata oggetto fin dall’infanzia delle attenzioni incestuose del
padre. Pur non essendosi mai consumato l’incesto, Maria aveva
combattuto da sola, sotto lo sguardo inerte della madre, per
difendersi dagli attacchi perversi del padre. La seduzione materna
l’aveva neutralizzata e coinvolta in uno stato di collusione,
rassegnato e passivo, ed aveva anche mutilato quello spazio di fiducia
verso l’essenza materna del femminile. Alla luce di quella terribile
scoperta, quel fiume sotterraneo fatto di rabbia e solitudine,
finalmente poteva uscire in analisi e trovare quelle parole dette,
pronunciate, e condivise che avevano il sapore di una riconquista
potendo riaprire uno spazio mentale alla speranza e alla vita.
L’UTERO
COME UNA SCATOLA BIANCA
Definirei
coraggioso il libro della scrittrice napoletana Valeria Parrella:
“Lo spazio bianco”15, che narra le vicissitudini
di Maria una donna di quarantadue anni che mette al mondo una bambina
al sesto mese di gravidanza. Educatrice territoriale, la protagonista
insegna, con passione ed umanità agli adulti italiani e stranieri,
che studiano per conseguire il diploma di scuola media. La cornice del
libro come dell’omonimo film di Francesca Comencini16,
è quello di una Napoli attuale, un luogo bello e dannato,
oggetto da diversi anni dell’attenzione della cronaca, dei media e
dell’arte per vicende di ogni genere. Città in qualche modo materna
per la sua vicinanza al mare, ma anche teatro di guerra, luogo immerso
in una provincia dove si consumano lotte fratricide. Proprio la lotta
per la sopravvivenza e l’amore per la giustizia sociale avevano
spinto il padre di Maria, operaio alla Cirio, a diventare
punta di diamante delle rivendicazioni sindacali. La figlia
eredita dal padre la passione per l’etica e attraverso gli studi
cerca un’emancipazione e sviluppa il diritto di difendersi con
l’intelletto dalle incongruenze di una realtà sociale contorta e
malata: “Crescere figlia di un operaio negli anni Settanta, e poi
proprio per questo studiare, intestardirsi sui libri, diventare la
generazione dello scarto intellettuale, erano cose che davano una
certa arroganza. Perchè a vedermi da fuori io lo sentivo, di essere
la prima persona della famiglia che non avrebbe avuto le braccia
corrose dal succo di pomodoro” (p.57). Eppure i pesanti sforzi della
famiglia si erano rivelati “una protezione quasi nulla di fronte ai
casi della vita”. Dono, peso, arroganza e possibilità, sono
gli ingredienti che alimentano la crescita di Maria. Crescere
all’ombra di un’ideologia, seguendo come esempio il rigore della
figura paterna sembra essere l’unico garante identitario per la
donna. La propria madre, non era in grado di offrire la giusta
attenzione e un adeguato riconoscimento ai suoi vissuti emotivi.
“Quando
ero piccola e ricevevo regali, le nonne, le zie, anche mia madre,
dicevano che io ‘non davo soddisfazione’. La verità era
l’opposto: io sentivo un’emozione profonda perchè qualcuno che
non ero io stessa pensava a me, e proteggevo questa emozione” (p.78).
La parte
femminile di Maria sembra essersi auto-generata, da sempre sola.
è lei che provvede a se stessa. Questo vuoto di rapporto col materno
la porterà a non sviluppare alcune funzioni del SÈ femminile che
sono fondamentali nella cornice della maternità interiore, come ad
esempio quello di tollerare l’attesa: “Non sono buona ad
aspettare. Aspettare senza sapere. è
stata la più grande incapacità
della mia vita”.
Anche la
gravidanza è vissuta in solitudine, senza un uomo accanto. Dopo il
parto prematuro finisce nel reparto di terapia intensiva neonatale a
condividere le angosce dell’attesa con un gruppo di donne che si
trovano nella sua stessa situazione. Il brano riportato descrive in
profondità le difficoltà identitarie e le ambivalenze verso il
materno che evidenziano la genesi di un vissuto depressivo nei
confronti della maternità:
“Avevo
sedici anni quando mi ero impiegata nello sforzo più capillare della
mia esistenza: rimuovere la corona di spine. Era stata un’eredità
di mia madre: lei era una suora in borghese. Si nascondeva da mio
padre, che le rideva addosso e si era fatto il segno della croce solo
il giorno del matrimonio, e si nascondeva da se stessa, per stare al
passo con i tempi. Aveva sepolto nel comodino e in sè
‘L’imitazione di Cristo’, alla cui lettura era stata condannata
dalla zia che l’aveva cresciuta. (…) In mia madre c’era un vago
compiacimento per qualunque rinuncia, una sottile perversione nel non
andare al cinema, nel rarefare le cene tra parenti, nel perdere di
vista le amiche. Non aveva mai lavorato, altrimenti la casa sarebbe
andata in rovina, ed io sarei stata tirata su da chi sa chi. Quando si
truccava proclamava a gran voce oltre la porta del bagno che lo faceva
controvoglia, e i soldi dei vestiti che non aveva mai comprato per sé
erano andati ad arricchire l’altare di famiglia. (…) Gli ultimi
tempi prima che mia madre morisse, quando andavo a trovare una vedova
stanca il cui mondo era precipitato nel televisore, mi sedevo a tavola
con lei e la osservavo mentre mi guardava. Sul fondo, dietro i vetri
della cucina, oltre lei che scolava la pasta, si stagliava ancora la
ciminiera delle conserviere, al cui posto ora c’erano un bingo e un
supermercato discount, e mi chiedevo chi di noi due avesse rinunciato
di più .”
I
sentimenti di precarietà interiore e il dolore psichico provato per
il parto prematuro fanno maturare nella protagonista sofferte
riflessioni sul femminile e il materno: “…Sentivo che
l’errore c’era comunque: a sposarsi e a restare soli, a fidanzarsi
e ad amare, a innamorarsi e a sostenersi, a sfidarsi, a vincere e a
perdere, a proteggere e a farsi proteggere. E io non sarei mai stata
pronta a difendere nessuna di queste cose” (p.89). Una sintesi
che descrive con efficacia la paralisi dell’impossibilità di
investire su un oggetto d’amore perchè nella relazione psichica con
la propria madre non si è mai veramente realizzato uno spazio di
distinzione. La versione cinematografica del libro dona allo
spettatore un volto indimenticabile di questa donna quando avvolta
dalla luce bianca e azzurra del cielo e del mare scruta immobile le
ombre delle immagini ecografiche della sua gravidanza. Lo
stesso sguardo sospeso, velato di stupore e paura, sfiora i
contorni del piccolo essere racchiuso nel guscio bianco
dell’incubatrice, ne misura l’improbabile esistenza attraverso le
onde delle funzioni vitali e il pulsare del cuore sul monitor. Sarà
il gruppo solidale delle madri, unite dallo stesso destino,
l’affetto sincero degli amici, l’umanità e la gratitudine dei
suoi allievi a riscaldare quello sguardo - a permetterle di costruire
nella sua interiorità quel grembo psichico che fa crescere in
lei la capacità di
diventare una buona madre in grado di riaccogliere dentro di sé
la figlia fino al momento della nascita dall’incubatrice. Il
viaggio psichico di Maria nel campo della maternità è un viaggio che
si nutre di contatti visivi, Ë con gli occhi che la donna
impara a conoscere ed accettare la propria bambina e ad amarla, a
condividere, attraverso uno sguardo interiore e gli scambi emotivi con
gli altri la sua vicenda umana. Alla fine del libro come del film, lo
spazio bianco non ha più il significato di un vuoto privo
d’immagini e pensieri ma diventa uno spazio reale simile all’albedo
alchemica, la possibilità di far nascere e di donare forme
infinite alla vita.
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