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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Direttore Editoriale: Nicole Janigro

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Marina Breccia (Pisa), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Massimo Maisetti (Milano), Livia Marigonda (Venezia), Predrag Matvejevic' (Zagabria), Franca Mazzei (Milano), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 14, anno VII, giugno 2010

"Cinema, autentica passion...!"

 

   

LA SCIENZA SMARRITA NELLO SPAZIO DELLA MATERNITA' INTERIORE

 

  di Barbara Massimilla

 

   

 

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Eidos. Cinema e Psyche" ( www.eidoscinema.it ) della cui redazione fa parte l'autrice di questo testo, che si ringrazia sentitamente per averlo messo a disposizione di Frenis Zero.

Barbara Massimilla è medico psichiatra, dottore di ricerca in Scienze delle Relazioni Umane, membro ordinario dell'A.I.P.A. ( Associazione Italiana di Psicologia Analitica ) e della I.A.A.P. ( International Association for Analytical Psychology ). Ha collaborato dal 1980 al 1997 presso il Day Hospital Psichiatrico dell'Università "La Sapienza" di Roma, sperimentando il trattamento integrato nella cura della schizofrenia. Fa anche parte della redazione della Rivista di Psicologia Analitica.


 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

Francesca Comencini regista dello Spazio Bianco, presentato in concorso alla 66ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia 2009, con sensibilità tutta femminile affronta nel suo film la complessa condizione del diventare madre. Già nella sua precedente opera, A casa nostra, era rappresentata una nascita traumatica, quella di una bambina che viene al mondo mentre la propria madre muore. La nascita sospesa sul crinale tra la vita e la morte è un tema caro alla Comencini. Lo Spazio Bianco, quanto il libro omonimo di Valeria Parrella da cui è tratto, è un’articolata riflessione sull’esperienza psichica di Maria che lotta internamente affinché la sua bambina prematura possa vivere. Lo sguardo della madre riflette i misteriosi percorsi dell’attesa, rende con intensità l’inquietudine e i sentimenti d’impotenza; nel frattempo sugli schermi collegati all’incubatrice, pulsano punti luminosi a segnalare i parametri vitali della figlia. Il volto di Maria, la protagonista, come quello di una naufraga, emerge e scompare fra i tubi. La sua minuscola Irene è racchiusa come in una navicella spaziale, e la sua sorte è affidata agli strumenti della Scienza medica.

Paradossalmente la Scienza nelle nascite premature non ha il potere di garantire un esito di vita, può solo tentare di risolvere le complicazioni che sopraggiungono, per tutto il resto bisogna attendere. L’ambiente asettico dell’Ospedale fa da algida cornice al processo trasformativo che attraversa il mondo affettivo della protagonista. La Scienza si ferma, offre esigue speranze e i suoi tempi sono sospesi, surreali. Sarà invece la madre, prendendo coscienza della propria storia nel travagliato raggiungimento di un Sé femminile - e sviluppando nell’attesa un desiderio profondo di maternità messo a confronto con i propri nuclei conflittuali - colei che scaverà in sé uno spazio nuovo per nutrire la vita. Sorelle di viaggio nel suo percorso interiore saranno le altre madri di bimbi prematuri. Il testo letterario, la sceneggiatura e le immagini sono un esempio interessante di come la visione del film s’intrecci felicemente alla lettura del romanzo. La regista ha affermato che è stata una sua scelta quella di narrare il qui e ora della storia e di lasciare intuire la genesi delle condizioni che avrebbero predeterminato l’evento di una nascita prematura. Vorrei riprendere quel filo che dal film al libro descrive le origini psicologiche dell’assenza di un grembo mentale che possa aiutare la crescita di una maternità interiore.

Nell’esistenza femminile la maternità rappresenta la possibilità naturale di compiere un passaggio maturativo, varcare la soglia dell’essere figlia e diventare madre, la messa in opera di una trasformazione che arricchisce il processo personale d’individuazione della donna. L’estensione, tuttavia, del registro femminile da uno statuto interiore filiale ad uno statuto materno comporta una serie di complessi sconvolgimenti psicologici che possono in alcuni casi riattivare in modo imprevisto dinamiche di ogni genere, dai fenomeni narcisistici, al riemergere di identificazioni arcaiche, al riaccendersi di intense conflittualità edipiche. Per simili fattori di rischio la maternità costituisce un evento che costringe ad una riorganizzazione profonda dell’identità. Il lavoro psichico che accompagnerebbe tutte le fasi procreative, dal progetto di avere un figlio alla gestazione sino al parto, necessita di un ascolto interiore sia da parte della futura madre, sia da parte del contesto familiare e sociale di appartenenza. Il ruolo pubblico e competitivo  che la donna ha raggiunto nelle società contemporanee e la progressiva destrutturazione della famiglia allargata - là dove in genere esisteva un apporto affettivo e  solidarietà alla gravidanza da parte del clan femminile -  hanno contribuito a limitare l’atteggiamento mentale predisposto all’accoglienza e all’ascolto che consentiva alla donna di poter affidare i desideri più intimi, le sue paure e fantasie, non solo a se stessa ma anche a degli interlocutori partecipi.

Pur essendo un’esperienza individuale, la maternità necessita dunque di condivisione, con il proprio partner ma anche con la società - poiché mettere al mondo un figlio non è solo un fatto personale, ma anche comunitario - e con un fronte solidale di donne, una sponda accogliente di figure femminili che aiutino la donna a far levitare un movimento affettivo verso il proprio grembo e il futuro bebé. Tuttavia la predisposizione naturale a costruire gradualmente una immagine interna del proprio modo di diventare madre, può essere ostacolata da vari fattori principalmente connessi alla propria storia infantile e alle dinamiche di identificazione con la figura materna. Per la donna il vivere con passione e affetto l’esperienza sensoriale della gestazione è correlato direttamente con l’introiezione di una figura materna positiva, che la futura madre sin dalla propria infanzia ha interiorizzato come un modello valido di riferimento. Dal punto di vista della trasmissione tra le generazioni, ereditare dall’asse materno di discendenza un modello sufficientemente adeguato in cui coesistono senza conflittualità patologiche codice materno e codice femminile, costituisce per il processo di formazione del Sé femminile una premessa fondamentale allo sviluppo della maternalità. (MASSIMILLA B. Quaderni di Psicoterapia Infantile N.59, “Desideri di maternità” a cura di N.Neri e C.Rogora, Borla, 2009).

La Maternità interiore è un luogo della mente, uno spazio “utero di lana”, “un luogo-tempo i cui confini si confondono con quelli delle aree più antiche che hanno a che vedere, nella realtà e nella fantasia, con l’immagine e il ricordo dei propri genitori”, con l’intrecciarsi dell’eredità psichica e dei destini individuali. ( MONTI F. Un tempo per la maternità interiore a cura di G. Ferrara Mori, Borla, Roma, 2008, p.141).

Nei casi di alterata trasmissione, lo spazio interiore della maternità perde i colori della vita, si impoverisce di oggetti, si riduce a delle pareti nude, mentre all’interno di questo spazio si aggirano fantasmi che soffocano la maturazione del Sé femminile rendendo inerti le sue potenzialità. Non ci si riferisce ovviamente alla quota fisiologica d’ambivalenza e persecutorietà che accompagna alcune fasi della gestazione e del parto, bensì all’esplosione di vissuti patologici di scissione e di fantasmi di morte che invadono la psiche. Nella mente femminile lo spazio per sentirsi e pensarsi madre è sequestrato dalla vita psichica dell’altro, è questa che detta legge e governa, che procura un dolore psichico impensabile e indicibile o scissioni radicali, per le quali tutto ciò che dà turbamento viene tagliato fuori dalla pensabilità. Conseguenze drammatiche di queste patologie dell’eredità psichica sono spesso le minacce d’aborto e i parti prematuri, in quanto espressione biologica diretta di contenuti conflittuali che non possono essere accolti dalla mente.

Lo spazio bianco è dunque metafora della camera vuota della mente, ciò che resta scarnificato e sullo sfondo in seguito al disinvestimento della propria realtà oggettuale femminile. Per il codice biologico della maternità è l’utero che espelle precocemente la vita dovendo affidare il bambino alla scatola bianca dell’incubatrice…

La Maria del libro e del film è una donna sola di quarantadue anni, dopo una breve relazione d’amore, mette al mondo una bambina al sesto mese di gravidanza. Educatrice territoriale, la protagonista insegna, con passione ed umanità agli adulti italiani e stranieri, che studiano per conseguire il diploma di scuola media. La cornice è quella di una Napoli attuale, un luogo bello e dannato, oggetto da diversi anni dell’attenzione della cronaca, dei media e dell’arte per vicende di ogni genere. Città in qualche modo materna per la sua vicinanza al mare, ma anche teatro di guerra, luogo immerso in una provincia dove si consumano lotte fratricide. Proprio la lotta per la sopravvivenza e l’amore per la giustizia sociale avevano spinto il padre di Maria, operaio alla Cirio, a diventare  punta di diamante delle rivendicazioni sindacali. La figlia eredita dal padre la passione per l’etica e attraverso gli studi cerca un’emancipazione e sviluppa il diritto di difendersi con l’intelletto dalle incongruenze di una realtà sociale contorta e malata: “Crescere figlia di un operaio negli anni Settanta, e poi proprio per questo studiare, intestardirsi sui libri, diventare la generazione dello scarto intellettuale, erano cose che davano una certa arroganza. Perché a vedermi da fuori io lo sentivo, di essere la prima persona della famiglia che non avrebbe avuto le braccia corrose dal succo di pomodoro” (p.57). Eppure i pesanti sforzi della famiglia si erano rivelati “una protezione quasi nulla di fronte ai casi della vita”. Crescere all’ombra di un’ideologia, seguendo come esempio il rigore della figura paterna sembra essere l’unico garante identitario per la donna. La propria madre, non era in grado di offrire la giusta attenzione e un adeguato riconoscimento ai suoi vissuti emotivi.

La parte femminile di Maria sembra essersi auto-generata, da sempre sola, è lei che provvede a se stessa. Questo vuoto di rapporto col materno la porterà a non sviluppare alcune funzioni del Sé femminile che sono fondamentali nella cornice della maternità interiore, come ad esempio quello di tollerare l’attesa: “Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere è stata la più grande incapacità della mia vita”. Anche la gravidanza è vissuta in solitudine, senza un uomo accanto. Dopo il parto prematuro finisce nel reparto di terapia intensiva neonatale a condividere le angosce dell’attesa con un gruppo di donne che si trovano nella sua stessa situazione. Il brano riportato descrive in profondità le difficoltà identitarie e le ambivalenze verso il materno che evidenziano la genesi di un vissuto depressivo nei confronti della maternità:

“Avevo sedici anni quando mi ero impiegata nello sforzo più capillare della mia esistenza: rimuovere la corona di spine. Era stata un’eredità di mia madre: lei era una suora in borghese. Si nascondeva da mio padre, che le rideva addosso e si era fatto il segno della croce solo il giorno del matrimonio, e si nascondeva da se stessa, per stare al passo con i tempi. Aveva sepolto nel comodino e in sé ‘L’imitazione di Cristo’, alla cui lettura era stata condannata dalla zia che l’aveva cresciuta. (…) In mia madre c’era un vago compiacimento per qualunque rinuncia, una sottile perversione nel non andare al cinema, nel rarefare le cene tra parenti, nel perdere di vista le amiche. Non aveva mai lavorato, altrimenti la casa sarebbe andata in rovina, ed io sarei stata tirata su da chi sa chi. Quando si truccava proclamava a gran voce oltre la porta del bagno che lo faceva controvoglia, e i soldi dei vestiti che non aveva mai comprato per sé erano andati ad arricchire l’altare di famiglia. (…) Gli ultimi tempi prima che mia madre morisse, quando andavo a trovare una vedova stanca il cui mondo era precipitato nel televisore, mi sedevo a tavola con lei e la osservavo mentre mi guardava. Sul fondo, dietro i vetri della cucina, oltre lei che scolava la pasta, si stagliava ancora la ciminiera delle conserviere, al cui posto ora c’erano un bingo e un supermercato discount, e mi chiedevo chi di noi due avesse rinunciato di più.”  

I sentimenti di precarietà interiore e il dolore psichico provato per il parto prematuro fanno maturare nella protagonista sofferte riflessioni sul femminile e il materno: “…Sentivo che l’errore c’era comunque: a sposarsi e a restare soli, a fidanzarsi e ad amare, a innamorarsi e a sostenersi, a sfidarsi, a vincere e a perdere, a proteggere e a farsi proteggere. E io non sarei mai stata pronta a difendere nessuna di queste cose” (p.89). Una sintesi che descrive con efficacia la paralisi dell’impossibilità di investire su un oggetto d’amore perché nella relazione psichica con la propria madre non si è mai veramente realizzato uno spazio di distinzione. La versione cinematografica del libro dona allo spettatore un volto indimenticabile di questa donna (l’attrice Margherita Buy) quando avvolta dalla luce bianca e azzurra del cielo e del mare scruta immobile le ombre delle immagini ecografiche della sua gravidanza. Come accennavo sopra, Maria ha uno sguardo sospeso, velato di stupore e paura: sfiora i contorni del piccolo essere racchiuso nel guscio dell’incubatrice, ne misura l’improbabile esistenza attraverso le onde delle funzioni vitali e il pulsare del cuore sul monitor. Saranno il gruppo solidale delle madri, unite dallo stesso destino, l’affetto sincero degli amici, l’umanità e la gratitudine dei suoi allievi a riscaldare quello sguardo - a permetterle di costruire nella sua interiorità quel grembo psichico che fa crescere in lei la capacità di diventare una buona madre in grado di riaccogliere dentro di sé la figlia fino al momento della nascita dall’incubatrice. Il viaggio psichico di Maria nel campo della maternità è dunque un viaggio che si nutre di contatti visivi, è con gli occhi che la donna impara a conoscere ed accettare la propria bambina e ad amarla, a condividere, attraverso uno sguardo interiore e gli scambi emotivi con gli altri la sua vicenda umana. Alla fine del libro come del film, lo spazio bianco non ha più il significato di un vuoto privo d’immagini e pensieri ma diventa uno spazio reale simile all’albedo alchemica, la possibilità di far nascere e di donare forme infinite alla vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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