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Chronos. Tempo, Mito, Storia

 

    "MEDEA, L'INCONDIVISIBILE SOLITUDINE".

 

  di Santa Fizzarotti Selvaggi 

 

 

Il presente saggio, la cui pubblicazione su "Frenis Zero" è stata possibile per gentile concessione delle Edizioni Borla, è tratto dal libro di Giannakoulas A. & Thanopulos S. (a cura di), "L'eredità della tragedia", Borla, Roma, 2006, euro 22,00 (ISBN 88-263-1580-9).

 

          Santa Fizzarotti Selvaggi è psicologo-psicoterapeuta con formazione psicoanalitica, scrittrice, critico d'arte. Vive a Carbonara di Bari.                    

 

 

 

Devi considerare che i poeti danno soddisfazione e gratificazione proprio a quella parte che con grande sforzo noi cerchiamo di contenere nei momenti di lutto familiare e che di per sé non vorrebbe altro che pianti e lamenti, di cui desidera saziarsi, essendo per natura attratta da essi.

                                              

              Platone

                                     

 

        

 

 

    Premessa: l'irrapresentabilità della morte.

           

Dal sommo della gioia risuona il grido del terrore o lo struggente lamento per una perdita irreparabile.

        

                   Friedrich Nietzsche

 

 

 

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   Il " tragico"  ha a che fare con tutto ciò che è non-Io, con l'inconfessabilità del desiderio sentito come pericoloso per l' Io e pertanto rimosso o perfino forcluso. Il " tragico" ha a che fare con tutto ciò che manca: con la morte che la tragedia tenta invano di rappresentare.

    Secondo   Charles R. Beye  " possiamo forse dire che in un certo senso la morte fu la grande scoperta dei greci, così come l'immortalità fu scoperta dal cristianesimo primitivo. " La rappresentazione tragica, dunque,  pone in scena la morte, questa assoluta Estraneità, in modo che questa possa diventare quasi familiare. In tal senso  consente di cogliere , continua Charles R. Beye,  " di noi stessi un'immagine che non vedremmo mai, ossia l'immagine di uomini che debbono morire".

Foto: "Medea contemplating slaying her children" di Franz Stuck

    Come è ben noto nella  tragedia confluiscono due  forme  di arte: la poesia epica e la musica dionisiaca.

 

   Il mito racconta che Dioniso era figlio di Zeus e di Semele

 

 fulminata dal dio al momento del parto. Di questa perdita

 

 intollerabile e inenarrabile è la musica che traduce  il dolore.

 

 Dolore originario di essere traumaticamente privati della

 

 primigenia unità simbiotica che costituisce il regno della Madre.

 

 Il ditirambo dionisiaco porta nella tragedia come dote il dolore di

 

 ogni essere umano per la lacerazione della dimora illusoria

 

 nell'eternità in cui ha originariamente alloggiato. La perduta madre degli inizi è sempre ciò che manca e costituisce l'indicibilità del tragico.

 

 

    Secondo alcune fonti il rituale primitivo del ditirambo avveniva di notte: una sorta di liturgia che si svolgeva nel clamore musicale sostenuto dal flauto, che eccitava i partecipanti impegnati in una danza in due tempi . Essi apparivano  posseduti da forme primigenie,  dai tratti ossessivi, che esprimevano le forze nella natura nella loro primordialità insieme a suoni e rantoli disarticolati dell'essere umano in preda agli aspetti più oscuri di sé.

E' l'elemento "musicale", dionisiaco, che dà un'oscura forma all'irrapresentabile nella poesia tragica. La musica è abissale: muove negli esseri umani le forze più arcaiche e terrifiche, disvela la morte e il dolore del morire.  


 

Il Coro tra empatia e holding: riflessioni

 

 Se il tuo sposo onora un nuovo talamo, con lui non irritarti per questo: Zeus in ciò ti difenderà! Non struggerti troppo nel piangere il tuo sposo.

 

Medea di Euripide, Coro vv.154-157

 

 

 

    

 Il  Coro tragico funziona da specchio riflettente, se pur empatico, trovando le " parole" per esprimere il dolore antico dell'umanità, la ferita primigenia e non rimarginabile.

Nel Coro è riposta la  fiducia di un contenimento dell'angoscia, di un lenimento del dolore.

   Foto: "Medea about to Kill her Children" di E. Delacroix

    In Medea di Euripide il Coro  invita Medea a non disperarsi per Giasone perché Zeus " la vendicherà ristabilendo la norma di  dìke" (1). Il Coro aveva  il compito di  placare la disperazione dell'eroina e di commuovere gli spettatori, così che questi potessero entrare in contatto con la sua  visione . In tal modo gli spettatori venivano preparati al riscatto finale della protagonista in una dimensione trascendente.

  Spesso nel dialogo tra il personaggio tragico e il Coro vengono rappresentate le varie parti della psiche umana. In questo senso il Coro assume una funzione di holding.

  Il Coro in Medea è costituito dalle donne di Corinto ," la schiera delle sorelle",  che empaticamente sentono commozione, pietà e orrore per la sofferenza dell'" infelice e misera" protagonista, comprendendone  i sentimenti ambivalenti,  che non appartengono soltanto a Medea , bensì  a tutte le donne, l'altra parte del mondo che il mondo maschile difensivamente ha sempre voluto controllare, possedere  e dominare.

   Medea rivolge spesso il suo pensiero al  passato, a quanto ha dovuto perdere per avere Giasone:  ed è proprio tutto ciò che è perduto a renderla spietata, se pur "misera", finanche dinanzi a se stessa per quanto si  propone di mettere in atto.  Medea, archetipo della rappresentazione di certi aspetti laceranti del femminile e del materno, è l'infelice in senso assoluto.  Dalla consonanza dei sentimenti tra Medea e il Coro scaturisce il  pathos che la tragedia di Euripide genera nello spettatore.

 E' nella percezione partecipe del pathos, mediante l'empatia che si stabilisce tra il pubblico e i protagonisti attraverso la parola del Coro, che consiste la " terapeuticità" della rappresentazione tragica. Non già la " purificazione dalle emozioni" bensì la " purificazione delle emozioni", come scrive Aristotele.

Medea si costituisce come metafora che indica la presenza di tutto ciò che non può essere detto e che pertanto  si trasforma in atto. Qualcosa di questo è possibile intuire nelle parole di  Giasone quando dice : Bisognerebbe che gli uomini generassero i figli in qualche altro modo e che non esistesse la razza femminile; così per loro non ci sarebbe alcun male. E in Medea quando risponde: Più che il senno può la passione, che di gran mali pei mortali è causa. 

 

 

Medea, Giasone, Glauce

l'ineludibile destino 

 

non già perché io voglia lasciare ai miei nemici i miei figli in una terra

ostile, esposti all'insulto, ma perché intendo uccidere con l'inganno al figlia del re. Manderò, infatti, proprio loro con nelle mani i doni, un fine peplo e un diadema d'oro. Quando  lei, prendendo l'ornamento, l'indosserà sul corpo, miseramente perirà, lei e chiunque altro tocchi la fanciulla. Con tali veleni ungerò i doni. Ora , però, voglio porre fine a questo discorso; mi è venuto da piangere per l'entità dell'azione che devo compiere; ucciderò, infatti i figli miei: non vi è alcuno che me li strapperà . ( Medea,  vv. 780-793)

 

 

Con la sua Medea Euripide  ha consegnato all'umanità  una delle più emozionanti opere di tutti i tempi.

    Essa parla della sofferenza di una donna, la cui personalità viene dall'autore analizzata  con un'empatia  assai rara. 

La tragedia  si svolge nella città di Corinto, dove Giasone e Medea, con i loro figli, si erano rifugiati dopo che la protagonista, alla quale erano attribuite qualità magiche, aveva  provocato  la morte di Pelia, re della Tessaglia, zio e nemico di Giasone.

Il mito racconta che fu la figlia di Eeta, re della Colchide e figlio del Sole, la maga dalle chiome brune, a permettere a Giasone la conquista del vello d'oro. In cambio delle sue magiche arti utilizzate a suo favore Medea chiese a Giasone, di cui si era subito innamorata,  di sposarla e di condurla in Grecia con sé.

La tragedia si avvale di un allestimento scenico essenziale  in cui domina la facciata esterna della casa in cui vive Medea mentre è all'interno delle mura domestiche che ha luogo l'azione tragica dell'uccisione dei figli.

 L'interno rappresenta l'intimità più profonda dell'essere femminile della protagonista, offesa e oltraggiata dal ripudio di Giasone, che stava per convolarsi a nozze con Glauce, la figlia di Creonte, sovrano di Corinto. Giasone è un uomo i cui figli avevano, a causa di un matrimonio " misto", bisogno di essere elevati di rango.  Egli dice, in effetti,   rivolgendosi a Medea: inoltre volevo allevare i miei figli in modo degno della mia stirpe e, generati dei fratelli ai figli avuti da te, porli nella stessa condizione, cosicché, riunita la famiglia, potessimo essere felici. Ma tu che bisogno hai di altri figli? Per me, invece, è opportuno aiutare i figli che ho con quelli che nasceranno. Ho preso forse una decisione sbagliata? Neppure tu lo diresti, se non ti pungesse il pensiero del letto. (vv.559-569)

 

Il ripudio di Giasone riapre in modo irreversibile la ferita narcisistica di Medea, ormai consapevole di una frattura non ricomponibile  se non con un atto estremo in grado di riparare il suo Sé danneggiato. Ella, donna "altra" venuta dall'Oriente,  da un "altrove"  mai del tutto riconoscibile,  non può rassegnarsi e accettare la perdita. Per Giasone aveva annientato se stessa essendo stata la sua dipendenza da lui  assoluta,  le restava altra scelta rendere visibile e tangibile la sua sofferenza attraverso l'agire. Un acting out radicale e definitivo.

Medea non può lasciare i suoi figli nelle mani di Glauce, la "matrigna". Glauce con la sua presenza evoca uno scenario incestuoso, edipico. Due donne sono implicate in una relazione triangolare, scelte dallo stesso uomo che non possono condividere.

Glauce rappresenta per Medea un lontano, e persecutorio, fantasma materno (2).  La morte orrenda e devastante giungerà a  Glauce attraverso i doni nuziali consegnati dai figli di Medea.  Tale  terrifica morte che disfa il corpo di Glauce chiarisce la scelta del veleno che Medea  usa come strumento di devastazione della nuova sposa di Giasone: " La sua rivale è costretta  a vivere  nella realtà fisica il  tipo di tortura che Medea ha sperimentato psicologicamente  - la distruzione  della sua identità dovuta al tradimento di Giasone - E' come se lei dicesse a Giasone ' E adesso ama questa donna, se puoi! ' " (3).

 

         Nel rileggere la tragedia di Euripide ho pensato  che Glauce, anche se periferica rispetto agli altri protagonisti, è una figura pregnante nel nostro mondo di oggi, mondo di altrettanta, seppur negata, tragicità. 

 

La presenza di Glauce nelle famiglie ricostituite, in seguito alle separazioni e ai divorzi, si avvicina nel mondo occidentale quasi al 50%. Ma la Glauce contemporanea rispetto ai figli della madre di sangue non avrà mai uno statuto genitoriale. Essa, seppur la migliore donna del mondo,   non avrà mai diritto alla parola, perché i figli della madre biologica le diranno comunque, nel male e nel bene: " Tu non sei mia madre ", mentre l' ombra di questa parlerà per bocca loro. Si tratta di un dolore che, insieme al senso di colpa di aver occupato il posto dell'Altra,  Glauce contemporanea deve essere in grado di sostenere, di una perdita che deve poter elaborare.

  Glauce di oggi deve vivere  nella consapevolezza di "non essere la Madre", che soltanto sull'unico piano che può esserle proprio: quella  della creatività. Non le resta, infatti, che cercare di costruire una  maternità psichica,  trovando dentro di sé le condizioni che determinano il processo creativo. (4)  Ma la condizione di Glauce è sempre  difficile, poiché soffre di solitudine e  trova nel marito  " il solo pilastro sul quale ella si appoggerà per discutere con lui la sua insoddisfazione; un pilastro che molte volte avrà bisogno di un muro di sostegno". (5)

 Medea proietta in Glauce la sua stessa efferatezza che immagina sarà agita sui suoi figli. Dopo l'orrida morte di Glauce e Creonte, ella teme  le  mani vendicative e nemiche  dei Corinzi :  stringe al petto gli amati figli, ma percepisce dentro di sé l'inconciliabile e non rinunzia  alla sua  risoluzione ritenuta " necessaria". Una "necessità" di origine pulsionale alla quale  non ci si può sottrarre.

Foto: un affresco pompeiano che ritrae Medea

Il dado è tratto: " Ucciderò, infatti, i miei figli, non vi è alcuno che me li strapperà. " ( v.791)

   I figli di Medea rimarranno sempre e soltanto della madre.  Nessuno potrà toccarli e violarli.  Giasone, accorso per salvare i bambini dalle vendette dei Corinzi, apprende la notizia del delitto di Medea. E, mentre tenta di abbattere la porta della casa, in alto, sul carro del Sole, gli appare Medea che porta via con sé i cadaveri dei bambini . Giasone  dice: " O miei figli diletti" e Medea risponde: " Alla madre, a te no". Giasone : " Per questo li hai uccisi?" Medea : " Per nuocere a te". Giasone:" Ahimè, desidero la cara bocca dei figli -o me infelice- da baciare". Medea: " ora li invochi, ora li vuoi abbracciare. Ma un tempo li respingevi". Giasone: " Concedimi, per gli dèi, di toccare il tenero corpo dei figli miei." Medea prima di andar via sul carro alato risponde: " Non è possibile; invano sono state gettate le tue parole ". ( vv.1397 -1404)

E' la madre che si prende cura del corpo dei figli, che lo accudisce, che lo tocca e lo accarezza.

  Nel dialogo tra Medea e Giasone il conflitto tra due mondi fra loro contrapposti  appare in tutta la sua tragicità.

Medea resa " civile" da  Giasone, non aveva mai rappresentato per lui la parte femminile  ritrovata di sé, era rimasta una "estranea" e "diversa",  uno strumento per raggiungere i suoi scopi, qualcuno da dominare ed asservire, appunto come era uso comportarsi con le donne dei barbari,  coloro che " balbettavano" poiché non conoscevano la lingua greca. Con le donne in genere…

 

 

      Non c'é pace per Medea se non nel crimine.

 

Per me è finita e, perduta ogni gioia di vivere, o amiche, desidero morire. Infatti colui che per me era tutto, il mio sposo, -ben me ne rendo conto - è risultato il peggiore degli uomini.

 

   Noi donne siamo la specie più sventurata; per prima cosa dobbiamo, con gran dispendio di beni, comprarci uno sposo e prenderci un padrone del nostro corpo; questo è un male ancor più doloroso dell'altro.

 

                                                 Medea , Euripide

 

   

    

 Medea ha trovato pace soltanto nel crimine: un crimine scaturito dalla perdita di un amore.  Si tratta di un amore unico e impossibile: la Madre onnipotente e arcaica.

La Madre alla quale i figli appartengono nell'eternità. Non a caso nel film Medea di Pasolini la protagonista uccide i figli con un coltello a guisa di agnelli dopo averli addormentati fra le braccia mentre li chiama : Amore.

E' la morte che rende eterno l'amore. E' il crimine che in Medea trasforma il tormento in pace.  

 L'eroina di Euripide è il simbolo di tutto ciò che " continua a esistere inalterato nel nostro inconscio", come ebbe a scrivere S. Freud relativamente al problema di fondo dell'essere umano: la Morte.

    A.J.A. Waldock, riferendosi a Kitto e alle sue  riflessioni su Medea, si chiede  se " non potrebbe  l'intera esistenza di Medea essere un ' errore' - un errore, per così dire, del cosmo stesso?" La sua sofferenza è  la sofferenza di noi tutti. E Waldock aggiunge, dopo aver ricordato che Medea aveva persino oltraggiato il Sole che era giunto in suo aiuto: "E' come se il dramma dichiarasse: ' Ecco come è l'universo. Vedete quanta irrazionalità sta nel suo fondo, che mostruoso paradosso è questo universo?' E da questa fuggevole rivelazione noi otteniamo una specie di catarsi ". (6)

  Medea è la metafora dell'enigma della femminilità che possiede la capacità di generare la vita e  la morte. 

Nella sua figura incontriamo l'essenza più arcaica del materno, la paura destata  dalla capacità generativa della donna ( in origine associata a qualcosa di magico e misterioso).

  Giasone è " un padrone del suo corpo". Il corpo come oggetto, in frantumi per sempre e per tale motivo  mai più ricomposto. Susan Brownmiller  ha così affermato : "Dalla preistoria ai nostri giorni - è mia convinzione - lo stupro ha svolto una funzione critica. Si tratta né più meno né meno che di un consapevole processo d'intimidazione mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura. " (7) Non a caso Euripide accentua il contrasto tra Medea e Giasone. E' un conflitto che Medea interiorizza di modo che l'infanticidio diventi  fatale  necessità. Un atto consumato nell'" intimità" delle mura domestiche e ciò perché la sua sottomissione di donna è per

Medea  il risultato della violenza di un atto che l'oltraggia nella sua dignità di persona. Attraverso l'infanticidio  intende non solo  punire Giasone per la  sua infedeltà, ma anche minare  le fondamenta  dell' esistenza di entrambi.

In questo senso il suo agire è anche un soffrire , scrive Vincenzo Di Benedetto . (8)

La lacerazione interna di Medea non ha precedenti in altre tragedie: di qui la commozione mista ad orrore e pietà che l'atto estremo suscita nello spettatore. 

La sua azione non è una vendetta, così come  in genere si ritiene, ma  "necessità".Ecco come si rivolge Medea al  Coro :  Amiche, la mia azione è decisa: al più presto uccidere i bambini e partire da questa terra, e non consegnare, indugiando, i miei figli ad un' altra mano più ostile perché li ammazzi. E' assoluta necessità che essi muoiano : e poiché  è necessario, li uccideremo noi che li abbiamo generati. Ma suvvia, armati, mio cuore; Perché indugiamo a compiere questo male terribile e pure ineluttabile? Orsù, o misera mano mia, prendi la spada, prendila, muovi verso la dolorosa meta  della vita: non essere vile e non ricordarti dei tuoi figli che ti sono assai cari, che li partoristi, ma solo per questo breve giorno dimenticati dei tuoi figli; e poi piangi. Anche se li ucciderai, nondimeno essi ti sono cari; e una donna sventurata sono io.(vv.1236-1250).

 E' proprio la " necessità " il punto focale della tragedia:  qualcosa di irriducibile che è insito nell'azione umana. Una sorta di  coazione a ripetere che non ha termine se non con la consapevolezza dell' azione cui dà origine tale azione. La " necessità " ( ananke) è   " prima di tutto la morte; ma anche la vecchiaia, il sonno, i rovesci di fortuna e la danza della vita; è quindi anche la sofferenza non meno che il piacere, giacché, se dobbiamo danzare e dormire, noi soffriamo anche, invecchiamo e moriamo.  (9)

 Nell'opera  di Euripide affiora prepotente la conflittualità non  ricomponibile che abita l'essere umano. La necessità lacera il soggetto oscillante tra la consapevolezza delle conseguenze irreparabili dell'atto che sta per compiere e il "turbamento estremo" che deve essere agito. Pietrificando difensivamente il suo cuore per compiere il suo atto crudele, Medea non manca di sottolineare "una donna sventurata sono io". Il vero nemico per Medea non è Glauce, né Giasone, ma se stessa.

  "Medea e Giasone" di John William Waterhouse

 

 

 

 

E' la consapevolezza della sua lacerazione che fa apparire a tratti Medea esitante e smarrita. Un frammento di un dipinto rinvenuto ad Ercolano (Napoli) la rappresenta in atteggiamento assai incerto ma al medesimo tempo deciso.

In questo contesto di estrema tensione l'infanticidio assume significato di sacrificio. Nell'uccisione che avviene tra le mura domestiche, le grida dei figli (vv. 1270A) sono  suono di agnelli innocenti,  che l'atto della madre rende sacri. La violenza  nella sua forza distruttiva protegge e riscatta. René Girard riferendosi a Hubert e Mauss scrive che :" E' criminale uccidere la vittima perché essa è sacra…ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse". (10) E' la morte che  consente alla madre di avere per sempre con sé i suoi figli. E' la morte che rendendoli sacri  li tutela da ulteriori vendette  e oltraggi.

   Euripide cambia la nostra ottica nei confronti dei concetti di colpa  e di punizione, facendo sparire il confine tra innocenza e colpevolezza. In queste condizioni è la solitudine della protagonista a dominare la scena.

 Nel romanzo Medea di Christa Wolf  la protagonista dice: " In quale luogo io?  E' pensabile un mondo, un tempo, in cui io possa stare bene? Qui non c'è nessuno a cui lo possa chiedere. E questa è la risposta." (11)

 

 

    

 

Note

 

 

1. B. Gentili, Amore e giustizia nella "Medea" di Euripide, in L' amore in Grecia, a cura di C. Calame, Editori Laterza, Bari , 1983, p 155

2. Il Coro recita: "Che brama tu hai dell'orribile giaciglio?" (v. 151).

3.M. Rustin e M.Rustin, Mirror to Nature. Drama, psychoanalysis and society, The Tavistock clinic Serie, London, 2002, p 36

 

4. V. La Flamme e H. David, La femme a-mère: maternité psychique de la marâtre,in  Revue francaise de psychanalyse,Presses universitaires de France, Paris, gennaio- marzo 2002,pp103-117

5. V. La Flamme e H. David, op. cit.

6. A.J.A Waldock, La produzione di schemi, in La tragedia greca, a cura di C. Rowan Beye, Editori Laterza, Bari 2001, pp.9-11

7.  F. Restaino- A. Cavarero, Le filosofie femministe, Pravia scriptorum, Torino 1999, pp196.197

8. V. Di Benedetto, in  Il tragico fra sofferenza e consapevolezza, Euripide, Medea, Rizzoli

9. W. Arrowsmith, La critica della tragedia greca, in La tragedia greca, a cura di C. Rowan Beye, Editori Laterza, Roma, 2001, p. 155

         10.  R.Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2000, p.13

11. C. Wolf, Medea. Voci , Edizioni e/o, Roma 2001, p.224

 


 

 

Riferimenti bibliografici

N. Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. I, Utet- Torino 1966

G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982

 S. Andreani e B. Traversetti ( a cura di) I miti degli dei e degli eroi, Gherardo Casini editori, Roma 1976

Aristotele, Poetica, ( a cura di A. Barabino), Mondadori, Milano 1999

W. Arrowsmith, La critica della tragedia greca, in La tragedia greca, a cura di C. Rowan Beye, Editori Laterza, Roma, 2001

V. Di Benedetto, in  Il tragico fra sofferenza e consapevolezza, Euripide, Medea, Rizzoli

V. Di Benedetto, Euripide: Teatro e Società, Einaudi, Torino 1992

U. Eco, Le guerre sante passione e ragione,  in La Repubblica, 8 ottobre 2001

S. Freud, Al di là del principio del piacere ,Opere, Vol. IX, Einaudi, Torino 1987

S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, Opere, Vol. XI,  Einaudi Torino 1987 

S. Freud.  Il ritorno del totemismo nei bambini, Opere, Vol. VII, Einaudi Torino 

S. Freud, Personaggi psicopatici in scena, Opere ,Vol. V, Einaudi Torino

B. Gentili, Amore e giustizia nella "Medea" di Euripide, in L' amore in Grecia, a cura di C. Calame, Editori Laterza, Bari  1983

R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2000

A. Gouldner, Il sistema agonistico greco : modelli culturali, in C. Rowan Beye, La tragedia greca, Editori Laterza, Bari 2001

M. Hernández, La Tragedia e la Conquista. La prospettiva tragica nel Nuovo Mondo, in La prova del Fuoco, a cura di F. Pinto Minerva e S. Fizzarotti Selvaggi, Schena , Fasano- Brindisi 2001, pp.146-147

V. La Flamme e H. David, La femme a-mère: maternité psychique de la marâtre,in  Revue francaise de psychanalyse,Presses universitaires de France, Paris, gennaio- marzo 2002

E. Lemoine- Luccioni, L'identificazione sessuale, in La mascherata, a cura di N. Bassanese e G. Buzzatti, Savelli Editore, Perugia 1980

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F. Restaino- A. Cavarero, Le filosofie femministe, Pravia scriptorum, Torino 1999

M. Rustin e M.Rustin, Mirror to Nature. Drama, psychoanalysis and society, The Tavistock clinic Serie, London, 2002

A.J.A Waldock, La produzione di schemi, in La tragedia greca, a cura di C. Rowan Beye, Editori Laterza, Bari 2001

C. Wolf, Cassandra, Edizioni e/o, Roma 2000

C. Wolf, Medea. Voci , Edizioni e/o, Roma 2001

 

 

 

 

 
 
 
 
 

 

 

 

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