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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria".N.10, anno V, giugno 2008.

    "MEDEA ... UN'IDENTITA' ALTRA"

 

di Santa Fizzarotti Selvaggi

 

 Il testo, che qui pubblichiamo, è stato presentato dall'autrice al primo convegno internazionale della rivista "Frenis Zero" dal titolo "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" (Lecce, 5 aprile 2008). Esso è una rielaborazione dei seguenti testi:

1)  S. Fizzarotti Selvaggi , <<Medea, o il volto  del destino>>, Schena editore, 2007;

2) S. Fizzarotti Selvaggi << Medea, l’incondivisibile solitudine>>,  in "L’eredità della tragedia", a cura di A. Giannakoulas e S. Thanopulos, Borla, 2006 .

Foto: Santa Fizzarotti Selvaggi nel corso del suo intervento alla tavola rotonda "Psicoanalisi, Cinema ed Arte" al convegno "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" (Lecce, 5 aprile 2008).

 

 

 

 


 

<<Dal sommo della gioia risuona il grido del terrore o lo struggente lamento per una perdita irreparabile>>.

        

                   Friedrich Nietzsche

 

 

 

 

         
 

Per Aristotele nella tragedia fondante è il principio dell'unità dell'azione tragica così come avviene nella musica laddove non è possibile mutare il posto delle varie battute musicali senza snaturare il senso e il significato del testo.

   Il " tragico"  ha a che fare con tutto ciò che è " non-io", con l'inconfessabilità del desiderio sentito come pericoloso per l' "io" e pertanto rimosso.  Forcluso. Il " tragico" ha a che fare con tutto ciò che manca: con la morte che la tragedia tenta inutilmente di rappresentare.

    Nel ri-sentire dentro di sé la contrapposizione degli opposti, della vita e della morte, di ciò che è e di ciò che non è, dell'inconciliabilità quale parte fondante la Natura, l'uomo può facilitare la costruzione di uno spazio in cui essere dolorosamente consapevole del suo vero sé, dell'esistenza delle sue inedite zone d'ombra, del dominio di Thanatos.

      Aristotele aveva ben intuito che l'Arte consente di vedere con altri occhi, e pertanto di percepire e profondamente ascoltare, l'emozione che nella rappresentazione può svelare e al medesimo nascondere la sua  sostanza, la sua crudele e terrifica realtà. Nella tragedia il terrore genera nello spettatore un più grande piacere che non in altre rappresentazioni. Si tratta della violenza e del suo godimento estremo.

   Charles R. Beye ha scritto che <<possiamo forse dire che in un certo senso la morte fu la grande scoperta dei greci, così come l'immortalità fu scoperta dal cristianesimo primitivo. >> La rappresentazione tragica, dunque,  pone in scena la morte, questa assoluta Estraneità, in modo che questa possa diventare quasi familiare. In tal senso  consente di cogliere , continua Charles R. Beye,  << di noi stessi un'immagine che non vedremmo mai, ossia l'immagine di uomini che debbono morire>>. Compresi gli eroi.

    La tragedia quale genere letterario, come si sa , nacque intorno al V secolo a.C. dalle due forme più pregnanti di arte: la poesia epica e la musica dionisiaca. Ne scaturì una diversa visione del mondo e della natura dell'animo umano.

   D'altra parte il mito racconta che Dioniso era figlio di Zeus e di Semele fulminata dal dio al momento del parto. Un lutto assoluto, una perdita non sopportabile e inenarrabile. Ed è la musica che traduce  il dolore originario che risiede nell'aver  abitato nella primigenia unità simbiotica: il regno della Madre. La dimora illusoria dell'eternità lacerata dalla realtà del divenire.  E' questo il dolore di ciascun essere umano per una perdita ineludibile e mai consolabile. E' questo sempre tutto ciò che manca. L'indicibilità del tragico.

 

    Secondo alcune fonti il rituale primitivo del ditirambo avveniva di notte: una sorta di liturgia che si svolgeva nel clamore musicale sostenuto dal flauto che eccitava i partecipanti impegnati in una danza in due tempi . Essi apparivano  posseduti da forme primigenie dal tratto ossessivo che esprimevano le forze nella natura nella loro primordialità insieme a suoni e rantoli disarticolati dell'essere umano in preda agli aspetti più oscuri di sé.

  In un verso di  Eschilo così si legge: <<Bisogna regolare il passo sul ditirambo del corteo di Dioniso unendovi le nostre grida>>. Dioniso che nelle Baccanti è : << la forza che attraverso il verde calamo spinge il fiore.>> L'energia vitale che dalle viscere della terra erompe con " necessaria" violenza.

Si tratta di un tempo atemporale dall'uomo rimosso.

  Ed è sempre la musica che dentro gli esseri umani muove le forze più arcaiche e terrifiche. La musica, fatta di pause, di un inizio e di una fine,  disvela  la morte e il dolore del morire.

La musica è l'abissale.  La parola, invece, mostra l'esistenza di un legame con l'esperienza tragica originaria: <<la  parola  è il luogo del conflitto fra ciò che si può con - sapere in ciò che si dice e ciò che necessariamente si dice senza sapere: e il  destino si presenta proprio come quella parte di linguaggio che l'uomo, per la sua duplice moira, non può con-sapere>> .( G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982,p.111). Affiora nella mente e nel cuore  l'immagine di Edipo: la storia di un bambino abbandonato, e poi adottato, alla ricerca della Madre . Fatale diventa la ribellione contro la divinità che in un tempo immemorabile ci ha abbandonati…Di qui anche la necessità della rappresentazione tragica quale atto di rivolta dell'eroe verso quel  Dio che è la rappresentazione proiettiva del Genitore che per farci nascere ci ha condannati alla morte, alla sofferenza, al dolore, al lutto... Nei tragici il con-sapere significa dar  vita alla con-scientia e dunque ad un  "con-sapere con se stessi"…

Così dice Euripide : << Che cosa soffri?  Quale male ti distrugge?- La coscienza, perché io con-so ( con me stesso) di aver compiuto qualcosa di terribile>>. ( Oreste, 395-396) Un antico crimine: reale, immaginario o fantasmatico che sia…Comunque un crimine.


 

 

 

 

 Se il tuo sposo onora un nuovo talamo, con lui non irritarti per questo: Zeus in ciò ti difenderà! Non struggerti troppo nel piangere il tuo sposo.

 

Medea di Euripide, Coro vv.154-157

 

 

 

 

 

L' ineludibilità  della perdita diventa centrale e viene rappresentata dal Coro tragico, cui in origine si riferiva l'intera recita. Il  Coro funzionava da specchio riflettente se pur empatico trovando le " parole" per esprimere il dolore antico dell'umanità, la ferita primigenia e non rimarginabile.

    In Medea di Euripide il Coro  invita Medea a non disperarsi per Giasone perché Zeus  la vendicherà .

 Il Coro aveva  il compito di lenire il dolore e placare la disperazione dell'eroina oltre che di commuovere gli spettatori, così che questi potessero condividere la sua stessa visione e il riscatto dalla stessa in una dimensione trascendente.

    Il Coro in Medea è costituito dalle donne di Corinto ," la schiera delle sorelle",  che empaticamente sentono commozione, pietà e orrore per la sofferenza dell'" infelice e misera" protagonista, comprendendone  i sentimenti ambivalenti  che non appartengono soltanto a Medea , bensì  a tutte le donne, l'altra parte del mondo che il mondo maschile difensivamente ha sempre voluto controllare, possedere  e dominare.

   Medea rivolge spesso il suo pensiero al  passato, a quanto ha dovuto perdere per avere Giasone:  ed è proprio tutto ciò che è perduto a renderla spietata, se pur "misera", finanche dinanzi a se stessa per quanto si  propone di mettere in atto.  Medea, archetipo della rappresentazione del femminile e del materno, è l'infelice in senso assoluto. Ed è per questo che il  Coro la chiama  " talaina " misera. Dalla consonanza dei sentimenti tra Medea e il Coro scaturisce il  pathos che la tragedia di Euripide genera nello spettatore.

Medea , quale identità altra, è una metafora che indica la presenza di tutto ciò che non può essere detto e che pertanto  si trasforma in atto. Qualcosa che è possibile riconoscere in Giasone quando dice : <<Bisognerebbe che gli uomini generassero i figli in qualche altro modo e che non esistesse la razza femminile; così per loro non ci sarebbe alcun male>>. E in Medea quando risponde: <<Più che il senno può la passione, che di gran mali pei mortali è causa>>. 

 

  Edipo trionfa: due donne scelte dallo stesso uomo. Due donne diverse , ciascuna delle quali vede nell'altra il fantasma della propria madre.

Glauce potrebbe essere oggi  il simbolo di tutte le donne di quelle famiglie derivanti da separazioni o divorzi che rispetto ai figli della madre di sangue non avranno mai uno statuto genitoriale. Esse, se pur le migliori donne del mondo,   non avranno mai diritto alla parola perché i figli della madre biologica le diranno comunque e in ogni caso, nel male e nel bene: " Tu non sei mia madre " mentre l' ombra di questa parlerà per bocca dei figli. Questo è un dolore che devono poter sostenere ed elaborare. 

La Glauce di oggi, dunque,  insieme al sentimento di colpa per aver occupato il posto dell'Altra ( in ogni caso il fantasma di sua  Madre), sentirà dentro di sé l'impotenza estrema di non poter mai essere la madre, bensì una matrigna. Percepirà la sensazione di vivere un " legame" nel " non legame", mentre l'amore necessita proprio del sentimento dell'appartenenza totale per alimentarsi di quell'illusione che garantisce  l'incontro della coppia con la realtà del quotidiano. (V. La Flamme e H. David, La femme a-mère: maternité psychique de la marâtre,in  Revue francaise de psychanalyse,Presses universitaires de France, Paris, gennaio- marzo 2002,pp103-117). Un legame che attraverso i figli dell'Altra subirà attacchi molto profondi in misura diversa da ciò che di solito accade in tutte le coppie genitoriali.

Medea finge di accondiscendere a Giasone e  invia i suoi bambini con doni nuziali a Glauce per implorarne la protezione almeno per se stessi. Ma saranno proprio quei doni, imbevuti di veleno e narcisisticamente accolti dalla stessa Glauce, a causare la morte crudele  ed efferata della principessa e di suo padre, oltre che la sofferenza di Giasone. La tragedia ci insegna che sono necessari limiti e confini… E morte Medea riserva anche alle sue creature per "strapparli da mani nemiche… "

 

      Personaggio di straordinaria eterna modernità è Medea che ha odiato Giasone  ( <<Ma quando l'offesa colpisce nel talamo non c'è cuore al mondo che sia più sanguinario>>) , ha invidiato Glauce  (  <<Sei tutto preso dal desiderio della fanciulla  appena sposata, se rimani un po' di tempo lontano da casa>> ), ha “amato” i figli ( <<O mano carissima,o bocca a me carissima, e figura e volto nobile dei miei figli; (…) O dolce contatto, o tenera pelle e dolcissimo respiro dei figli !>>) nonostante l'atto estremo meditato nei suoi propositi (<<ucciderò, infatti, i figli miei: non vi è alcuno che me li strapperà.>>)

 Medea trovava pace soltanto nel crimine: un crimine scaturito dalla perdita di un amore.

Non a caso nel film Medea di Pasolini la protagonista uccide i figli con un coltello a guisa di agnelli e mentre canta li addormenta in braccio chiamandoli : Amore.

E' la morte che rende eterno l'amore. E' il crimine che in Medea trasforma il tormento in pace.   Vita e morte convivono nella dimensione dell'esistenza umana così come là dove c'è l'odio c'è anche l'amore. Non a caso il Coro dice : << Oserai dunque uccidere il tuo seme, o donna?>> e Medea risponde: << E' soprattutto in questo modo che mio marito sarà morso.>>

 In realtà Medea è il simbolo di tutto ciò che << continua a esistere inalterato nel nostro inconscio>>, come ebbe a scrivere S. Freud relativamente al problema di fondo dell'essere umano: la Morte.

  Medea proveniva dalla Colchide , una terra selvaggia, primitiva, misteriosa e   magica…

     Ma in realtà si tratta anche della metafora dell'enigma della femminilità che possiede la capacità di generare la vita e dunque  la morte. La metafora dell’Alterità dentro di noi.

E' in Medea  che incontriamo l'essenza più arcaica del materno, la paura destata nell'Altro dalla capacità generativa della donna ( in origine associata a qualcosa di magico e misterioso) il femminile e il maschile fra loro assolutamente contrapposti laddove l'uno appare improvvisamente e per sempre estraneo all'altro. In molte situazioni contemporanee non sono senza significato gli episodi cruenti ed efferati ai quali impotenti assistiamo…

La luna di miele per Medea che si innamorò al primo sguardo si trasformò in luna di fiele: fra marito e moglie  apparve improvvisamente qualcosa che turba e perturba. Inevitabilmente e per sempre.

Si tratta della inequivocabile diversità e della assoluta identità con il fantasma materno.

Nella rappresentazione tragica le illusioni per Medea crollano definitivamente  per cui la realtà non è più sostenibile. Soltanto un atto estremo può riscattare la dignità di Medea che  sulla scena dell'infanticidio afferma di non voler condividere con Giasone nemmeno il dolore per la morte dei bambini.

   Colui che era tutto diventa  niente, espressione del  vuoto, dell'abisso dell'esistenza: non a caso  il migliore degli uomini risulta per Medea essere il      peggiore. Un antico dolore psichico rimosso inesorabilmente ritorna .

  Giasone diventa soltanto " un padrone del suo corpo" proponendo  una tematica dominante nel Novecento tant'è che Jean Paul Sartre nel testo L'etre e le néant (1943) ha scritto: << il corpo di cui voglio impadronirmi, lo voglio di carne>>. Il corpo come Oggetto, in frantumi per sempre e per tale motivo  mai più ricomposto. Susan Brownmiller  ha così scritto : <<Dalla preistoria ai nostri giorni - è mia convinzione - lo stupro ha svolto una funzione critica. Si tratta né più meno né meno che di un consapevole processo d'intimidazione mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura. >>

 La delusione della protagonista si trova al punto del non - ritorno, dell'irrecuperabile.

  Euripide non a caso  esaspera il contrasto tra Medea e Giasone:un conflitto che Medea interiorizza e fa sì che il figlicidio diventi una fatale  necessità. Un atto consumato nell'" intimità" delle mura domestiche.

Poiché la sottomissione come donna alla quale sente di essere sottoposta Medea è il risultato della violenza di un atto che l'oltraggia nella sua dignità di persona. Una dignità che  nel profondo si riferisce fantasmaticamente al rapporto con la Madre.

E se per un verso attraverso il figlicidio pensa di tutelate i figli da mano nemica e ulteriormente oltraggiosa, per l'altro  intende non solo  punire Giasone per la  sua infedeltà ma anche minare  le fondamenta  dell' esistenza di entrambi. L'interruzione della continuità.

In questo senso il suo agire è anche un soffrire , scrive Vincenzo Di Benedetto .

La lacerazione interna di Medea non ha precedenti in altre tragedie: di qui la commozione mista ad orrore e pietà che l'atto estremo suscita nello spettatore. 

La sua azione non è una vendetta, così come  in genere si ritiene, ma una difesa ritenuta dalla protagonista “necessaria” per sé, per i bambini, per Giasone e  per  Glauce . Per il vincolo coniugale che secondo Medea, in tal modo, viene ristabilito.

E così, infatti, al Coro si rivolge Medea:  <<Amiche, la mia azione è decisa: al più presto uccidere i bambini e partire da questa terra, e non consegnare, indugiando, i miei figli ad un' altra mano più ostile perché li ammazzi. E' assoluta necessità che essi muoiano : e poiché  è necessario, li uccideremo noi che li abbiamo generati. Ma suvvia, armati, mio cuore; Perché indugiamo a compiere questo male terribile e pure ineluttabile? Orsù, o misera mano mia, prendi la spada, prendila, muovi verso la dolorosa meta della vita: non essere vile e non ricordarti dei tuoi figli che ti sono assai cari, che li partoristi, ma solo per questo breve giorno dimenticati dei tuoi figli; e poi piangi. Anche se li ucciderai, nondimeno essi ti sono cari; e una donna sventurata sono io.>> (vv.1236-1250).

 Ed è la " necessità " il punto focale della tragedia: ovvero qualcosa di irriducibile , se pur non condivisile ovviamente, che è insita nell'azione umana. Una sorta di inevitabile " coazione a ripetere" che non ha termine se non con la consapevolezza di tale azione.

 

   Euripide pone in relazione la consapevolezza con il "turbamento estremo"  della sapiente Medea che deve agire : il suo cuore deve armarsi . Più intenso è il " turbamento" e in maggior misura l'uomo può conoscere se stesso nelle sue profondità abissali pregne della sofferenza determinata dalla " necessità" .

Non a caso ella dice << o misera mano mia>>. Il suo cuore diventato difensivamente di pietra è in realtà misero e infelice tant'è che sottolinea: << una donna sventurata sono io.>>  E' l'emozione che determina l'azione.

  Il vero nemico, dunque, per Medea non è più Glauce, né Giasone ma se stessa.

   Il dolore, in realtà, riempie più dell'amore: ed è per questo che  Euripide ci aiuta a comprendere i pezzi della nostra vita, della nostra anima .

Il "tragico" è l'essenza  della Natura nella sua totalità e complessità.

Medea è la metafora della Differenza. La dialettica della diversità deve essere ristabilita tra i popoli e all'interno del maschile e del femminile in un intreccio creativo per tutti se si vuol tendere al superamento di quelle lacerazioni che ancor oggi si nascondono nella nostra realtà.  Sopprimere la Differenza  significa annientare l' Alterità quale parte fondante del Sé. Medea e Giasone  sono infatti la metafora di tale dilaniante contrapposizione.

  Ma è proprio Euripide  che propone un nuovo modello femminile che non subisce l'oltraggio inverecondo e continuo, poiché Medea si trasforma  in una donna capace di cambiare la propria e altrui storia a costo del sacrificio estremo e radicale.

  Egli cambia la nostra ottica nei confronti dei concetti di colpa  e di punizione: dalla rappresentazione dell'azione tragica, infatti, si evince la "natura tragica della vita". E’ la solitudine dell'essere dinanzi a se stessi a dominare sovrana.

 Nel romanzo Medea di Christa Wolf  la protagonista dice: <<In quale luogo io?  E' pensabile un mondo, un tempo, in cui io possa stare bene? Qui non c'è nessuno a cui lo possa chiedere. E questa è la risposta.>>

 

 

 

 

 

 

 

 Bibliografia:

 

1-    N. Abbagnano, Storia della filosofia,  UTET, Torino, 1966.

2 -G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982.

3-B. Gentili, Amore e giustizia nella "Medea" di Euripide, in L' amore in Grecia, a cura di C. Calame, Editori Laterza, Bari ,1983.

4. S. Freud.  Il ritorno del totemismo nei bambini, Opere, Vol. VII, Einaudi Torino.

5.M. Rustin e M.Rustin, Mirror to Nature. Drama, psychoanalysis and society, The Tavistock clinic Serie, London, 2002.

6-. V. La Flamme e H. David, La femme a-mère: maternité psychique de la marâtre,in  Revue francaise de psychanalyse,Presses universitaires de France, Paris, gennaio- marzo 2002.

7-A.J.A Waldock, La produzione di schemi, in La tragedia greca, a cura di C. Rowan Beye, Editori Laterza, Bari 2001.

8- F. Restaino- A. Cavarero, Le filosofie femministe, Pravia scriptorum, Torino 1999, pp196.197

9- V. Di Benedetto, in  Il tragico fra sofferenza e consapevolezza, Euripide, Medea, Rizzoli

10- W. Arrowsmith, La critica della tragedia greca, in La tragedia greca, a cura di C. Rowan Beye, Editori Laterza, Roma, 2001.

         11- R.Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2000.

12-C. Wolf, Medea. Voci , Edizioni e/o, Roma 2001.

 


 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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