In questo
numero monografico di “Frenis Zero” (numero 8, anno IV, giugno
2007) abbiamo cercato di presentare dei testi scritti da
psicoanalisti alle prese con le memorie riguardanti i traumi
collettivi del XX secolo. ‘Mnemosyne’ è il titolo di questo
numero, con un richiamo alla divinità greca il cui nome, che
significa ‘memoria’ ma anche ‘avvedutezza’, rinvia al dono
dell’introspezione che le appartiene. Secondo la ‘Teogonia’ di
Esiodo, questa dea si unisce con Zeus per dare alla luce le Muse:
l’invocazione alle Muse della poesia greca antica ha pertanto non
solo lo scopo, da parte del cantore, di essere soccorso nel suo
compito di ricordare, ma anche di presentificare in maniera
vivente quel ricordo mitologico scacciando le cure e gli affanni
che il presente interpone alla rievocazione di ciò che è
essenziale.
Ma oggi la
nostra civiltà della memoria digitale, quella del mero dato nel
computer con molteplici versioni ridondanti di sé , potrebbe
paralizzare la nostra capacità di vivificare le testimonianze e di
rendere condivisibile una memoria collettiva di un dato evento.
Siamo altresì nell’epoca in cui i testimoni viventi di certi
fatti storici (la shoah, il genocidio armeno) sono sempre più
scarsi, e con loro potrebbe andare irrimediabilmente perduta
quella memoria vivente su fatti storici che tra breve sarà
condannata ad essere detenuta esclusivamente dalla parola scritta
o digitalizzata. Per questo i rischi di una ‘monopolizzazione’
della memoria si fanno sempre più cogenti mano a mano che questa
memoria non è più affidata a persone vive, ma a documenti, a
filmati, a foto. Si arriverà al punto che qualche gruppo economico
tenterà di reclamare i ‘copyrights’ sulla memoria della Shoah?
Intanto si aggiungono le Giornate della Memoria, ultimamente
qualcuno ha proposto di istituirne una per celebrare le vittime
del terrorismo in Italia. Ma, come ha scritto Dan Diner, se ogni
comunità religiosa, politica o etnica rivendicasse una data per
una commemorazione, avremmo un anno fatto solo di giornate della
Memoria, e quindi nessuna giornata dalle memoria. Anche la
globalizzazione ha un ruolo in questo fenomeno paradossale. In
realtà ci sono eventi che vanno (che debbono essere) ricordati da
tutta l’umanità (la Shoah, i gulag ad esempio), mentre ci sono poi
delle memorie locali per cui non si può pretendere che l’Europa e
la Cina debbano condividere le stesse commemorazioni. Ma che senso
ha dire: <<Questa data, questo evento deve essere ricordato>>?
Ossia, quale rapporto c’è tra etica e memoria? Ed ancora: <<E'
sempre bene ricordare, oppure (come nel caso degli archivi segreti
della ex-Stasi tedesca) talora è meglio dimenticare>>? E che
rapporto esiste tra ricordare e dimenticare da un lato, e
dall’altro tra perdonare e riconciliare? Ed ancora: chi deve
sanzionare ciò che si deve ricordare e ciò che no? Lo Stato? Ha
fatto molto dibattere recentemente il ruolo della censura, e
dell’auto-censura, nell’ambito dell’etica pubblica della memoria.
L’episodio dell’auto-censura di Toaff che ha autorizzato il suo
editore a ritirare dal commercio il suo “Pasque di sangue” è
troppo noto come esempio di questa problematicità del dibattito
storico attinente l’etica della memoria.
Avishai
Margalit ha pubblicato in Italia un libro ( “L’etica della
memoria” , Il Mulino, Bologna) in cui egli tenta di dare delle
risposte a tali domande davvero cruciali.
Come
afferma Antonio Alberto Semi, siamo anche nell’epoca storica che
ha raggiunto la consapevolezza, forse mai raggiunta in questo
grado in altre epoche, della
relazione tra 'pensare' e ‘ricordare',
e della diversa portata che il 'ricordare' può avere se da
'ricordare individuale' diventa 'ricordare insieme'. Il 'ricordare
insieme' è un qualcosa di assolutamente particolare: quando ci
troviamo tra parenti ed amici l'aspetto particolare non è solo
scoprire quanto i ricordi personali si siano affievoliti o si
siano diversificati o deformati col tempo, ma anche quanto
ciascuno di noi riesce a ritenere solo certi particolari, e magari
gli altri sono stati trasformati. Ma la cosa più rilevante che
accade nel 'ricordare insieme' consiste nel crearsi di un certo
clima emotivo, di una comunanza affettiva, a volte anche
ambivalente (in quanto magari si ricordano, quando si sta
insieme, anche i rancori passati) che diventa simbolica di una
comunità umana, in quanto si ha il senso di un gruppo che si
costituisce attraverso persone che hanno un itinerario di storie e
vicende diverse nel corso del tempo, ma che riescono lì in quel
momento a riconoscersi, a riunirsi.
Nei saggi di questo numero di
“Frenis Zero” proponiamo la figura dello psicoanalista come
testimone. Testimone deriva dal latino ‘testis’ che è anche
‘superstes’ (superstite), in greco ‘martys’ (martire). La
psicoanalisi ha da sempre dovuto fare i conti con l’epistemologia
della testimonianza del paziente, dell’analizzando, ma forse è da
poco che sta facendo i conti col discorso dell’etica della
testimonianza. Seguendo Edoardo Ferrario nel suo recente libro
“Testimoniare” (Lithos, Roma) all’esser-ci heideggeriano si può
opporre l’ecco-mi di Levinas. “Eccomi” è la risposta rivolta a chi
ci chiama per testimoniare. E quali sono gli psicoanalisti che
hanno risposto con un ‘eccomi’ a “Frenis Zero”?
Janine Altounian discende da una
famiglia sterminata dalle persecuzioni ai danni del popolo armeno.
Nel suo articolo “ Di cosa sono testimonianza le mani dei
sopravvissuti? Dell’annientamento dei viventi, dell’affermazione
della vita” , di cui proponiamo per la prima volta in versione
italiana un estratto, l’autrice si richiama a Walter Benjamin che
compara il narratore ad un artigiano che lavora il suo materiale
dato dalla vita umana, collegando l’anima con la mano. <<L’antica
coordinazione dell’anima, dell’occhio e della mano (‘Hand’) … è
la coordinazione artigianale (‘hanwerklich’)… Ci si può chiedere
se la relazione che lega il narratore al suo materiale – la vita
umana- non sia altro che una relazione artigianale (‘hanwerklich)’),
se il compito del narratore consiste precisamente nel lavorare in
maniera solida…. la materia prima delle esperienze… I proverbi,
si potrebbe dire, sono le rovine che si trovano al posto di
antiche storie…>> (W. Benjamin). Secondo l’Altounian, si potrebbe
ugualmente considerare le attività quotidiane operate dalle mani
dei sopravvissuti come delle reliquie, delle rovine al posto di
storie impossibili da proferire. La psicoanalista francese prende
in esame due sequenze del film “Ararat” di Atom Egoyan per mettere
in rilievo il ruolo fondamentale delle mani materne nella
trasmissione di un’eredità ‘inghiottita’ nel silenzio della
parola. Prendendo come esempio un elemento autobiografico – il
ruolo salvatore per la vita di un suo antenato da parte di un
prodotto “artigianale”- l’autrice cerca di delineare in che modo i
gesti silenziosi e le mani “all’opera” dei sopravvissuti possano
testimoniare al loro figlio ciò che le loro parole non possono
dire. Così la fedeltà dei discendenti a questa memoria gestuale,
che è come una pellicola cinematografica negativa, non ancora
sviluppata (senza parole), sostiene le tracce di impronte
industriose in attesa di un reinserimento nel campo del discorso e
nella storia del mondo.
La versione integrale
francese del suo testo è disponibile sul sito “Thalassa. Portolano
of Psychoanalysis” (all’indirizzo:
http://web.tiscali.it/frenis0/portolano.htm
).
“La shoah e la distruttività umana”
è il titolo di un intervento di Antonio Alberto Semi (tenuto a
Lecce nel 2004) di cui si dà qui un resoconto, autorizzato dallo
stesso relatore. La shoah è da un lato considerata come
conseguenza di una forma particolare di pensiero che, per il fatto
stesso di essere stato concepito da esseri umani, non può essere
del tutto estraneo alla nostra natura umana; ma dall’altra la
shoah, considerata in tutto il suo orrore, trova lo psicoanalista
in difficoltà nel compito di darne un’interpretazione. Tale
compito non è però del tutto impossibile: si può infatti indagare
quello che è il terreno culturale che ha preparato l’orrore. Per
Semi, un pensiero cosciente, invitato dal ritorno del rimosso e
sostenuto da formazioni reattive che trasformano in pensieri
accettabili dei pensieri inaccettabili, può indurre anche degli
ascoltatori, e quindi non solamente i fautori di tale pensiero, ed
anche degli ascoltatori non sospetti (che si collocano cioè su un
piano di valori ‘elevati’) a cercare di scindere il pensiero degli
altri, salvando parti buone al prezzo però di denegare il loro
collegamento con le parti cattive. Il caso di Heidegger, per Semi,
è emblematico a tal riguardo. Rifacendosi, poi, al titolo del suo
intervento, Semi passa ad indagare un quesito fondamentale: esiste
la distruttività oppure essa è l’effetto di processi psichici
prevalentemente inconsci? E se questa domanda riguarda il livello
psicologico individuale, occorrerà poi rispondere alla domanda di
come sia avvenuto il fenomeno sociale del successo di tale
tendenza individuale. In risposta alla prima domanda, Semi indaga
il concetto di purezza così centrale nell’ideologia nazista, ma
alla fine egli ammette la necessità che le proprie ipotesi
esplicative psicoanalitiche non possano pretendere di applicare
alla realtà sociale la psicologia individuale.
Il bisogno di articolare il
pensiero psicoanalitico sul trauma collettivo tra la dimensione
individuale e quella sociale trova nel lavoro di Janine Puget
“Terrore di Stato e Psicoanalisi” un approdo cruciale
nell’interpretazione del fenomeno della violenza sociale e delle
sue rappresentazioni, con particolare riguardo al terrorismo di
Stato che ha funestato in passato l’Argentina. L’autrice riconosce
il carattere paradossale del compito che si è prefissa:
trasmettere qualcosa la cui trasmissione è difficile e talora
impossibile. Ed ammette anche che la teoria psicoanalitica non
riconosce prontamente l’influenza del contesto sociale
sull’apparato mentale e sulla situazione terapeutica. Numerosi
psicoanalisti argentini si sono dedicati a sviluppare concetti
teorici riguardanti gli effetti psicologici della repressione
politica durante la dittatura ed i loro sforzi sono degni di
encomio: essi non hanno dovuto aspettare quarant’anni, come è
stato nel caso del fenomeno nazista, per riflettere sul terrore di
Stato e per trarre da ciò degli utili insegnamenti per il futuro.
Ma il terrore di Stato in quali
forme storicamente accertabili ha perseguitato la psicoanalisi?
Non sempre con un discorso politico ufficiale chiaramente ostile.
Nel caso della Russia post-rivoluzionaria Jean Marti ha indagato
gli sviluppi storici di quel graduale processo di emarginazione
della psicoanalisi che ha visto in Tatiana Rosenthal una delle sue
vittime più drammatiche. La figura della Rosenthal, una delle
prime psicoanaliste russe, amica della Spielrein, rivoluzionaria
della prima ora nel 1905 e poi nel 1917, quindi pionieristica
fondatrice dei primi servizi psicoanalitici per bambini, ed infine
suicida all’età di 36 anni nel 1921, è paradigmatica di una
vicenda umana, ma anche culturale, in cui la psicoanalisi ha
rivestito dapprima un ruolo innovatore nel contesto della
trasformazione comunista delle istituzioni, per poi subire un
lento processo di stigmatizzazione. La psicoanalisi all’inizio si
era rivelata una preziosa alleata del regime bolscevico nella
lotta anti-religiosa, nella teorizzazione di una psicologia
sociale in cui i fattori sociali erano integrati con le dinamiche
individuali, nella sperimentazione di nuove tecniche educative
volte alla costruzione dell’”uomo nuovo”. Ma poi, spesso
all’interno delle stesse associazioni psicoanalitiche, qualcuno ha
pensato a dei ‘correttivi’, finché le contestazioni sono diventate
sempre più aperte e per molti psicoanalisti russi della prima ora
le vie percorribili ben presto si sono ridotte alla fuga (come
per Wulff), al gulag (come per Ermakov) o al silenzio e
all’anonimato professionale.
Si segnala che su Tatiana
Rosenthal è consultabile il sito internet “Tatiana Rosenthal and
Psychoanalysis” all’indirizzo
http://web.tiscali.it/tatianarosenthal
.
Nicole
Janigro nel suo articolo “La difficoltà di dire io. L’esperienza
del diario nel conflitto inter-jugoslavo di fine Novecento”,
incentrato sull’esame di numerosi diari redatti da testimoni dei
conflitti etnici in quell’area geo-politica, esordisce
con l’affermazione che, come <<nella Polonia
invasa dai nazisti, nella Berlino del Terzo Reich, nella Sarajevo
assediata, nella Belgrado sotto le bombe Nato>> (…) <<i diari,
cartacei ieri spesso elettronici oggi, sfidano l’inenarrabile,
sono la forma prescelta per appuntare l’orrore divenuto
quotidianità. I diari raccontano, brulicano di testimonianze
orali, mescolano la mancanza d’acqua e la pozza di sangue
sull’asfalto, provano a regolare quel che usuale non è. Sono un
mezzo per farsi coraggio, per ricordare l’universale comune: per
coloro che verranno, affinché l’umanità non possa più dimenticare,
per comunicare all’Altro come si fa a sopravvivere accanto
all’indicibile. Pagine che si trasformano in ricordi da conservare
per i posteri, diventeranno fonti, interrogheranno la storia
futura, sfideranno i meccanismi della “costruzione della
memoria”>>.
Ma i diari
possono essere anche la traccia di pensieri scritti da
professionisti alle prese coi traumi collettivi della guerra. E’
questo il caso del “Diario di uno psichiatra” di Durtal, in cui
l’autore, chiaramente protetto nella sua identità da uno
pseudonimo, raccoglie i propri pensieri di medico di un manicomio
francese a contatto con le sofferenze umane dovute allo scoppio
della seconda guerra mondiale. Ed ancora la seconda guerra
mondiale fa da sfondo al libro di Imre Hermann “Psicologia
dell’antisemitismo”, di cui abbiamo tradotto in italiano il
capitolo riguardante la lettura psicoanalitica che l’autore fece
di “un mezzo di difesa degli ebrei: l’identificazione col nemico”.
Jacques Hassoun e Claude Rabant, nella loro prefazione al libro di
Hermann, mettono in evidenza come in esso non si parli in alcun
modo del genocidio degli ebrei, ma unicamente dell’
<<antisemitismo ordinario, storicamente ripetitivo, concepito come
scena radicale o esemplare di tutte le follie razziali che
esplodono, per crisi, nelle società occidentali>>.
Infine, ci
piace riproporre in una nuova veste editoriale (ed iconografica)
“Dove si ferma Utz” di Rosalba Carollo. Si tratta di un racconto
inedito , quasi un gioco a scatole cinesi , in cui in un tessuto
rigidamente analitico - una seduta portata ad un ( forse )
immaginario supervisore - prevale l'aspetto narrativo . Il
protagonista-paziente è un grande collezionista armeno - il
protagonista di " Utz " di Bruce Chatwin era ebreo - , che
utilizza la nevrosi per sopravvivere al grande trauma dello
sradicamento . La sua famiglia si è rifugiata negli Stati Uniti ,
ma mentre il padre si tormenta fino a giungere al suicidio , il
paziente sviluppa una forma di nevrosi , il collezionismo coatto
di oggetti preziosi indistruttibili come pietre marmi e metalli ,
metafora di un bisogno di stabilità infranto.
Infine, un’ultima nota di ‘commemorazione’.
Abbiamo voluto, a partire da questo numero, modificare il
sottotitolo di “Frenis Zero” che d’ora in poi sarà “Psicoanalisi
applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed
Arte”, mutuandolo dalla prima rivista di psicoanalisi uscita in
Italia dopo l’ultima guerra. Era diretta da Joachim Flescher e la
copertina del primo numero (luglio-settembre 1945) è riprodotta
nella pagina del sommario all’indirizzo
http://web.tiscali.it/bibliopsi/frenishome.htm
. Per la curiosità di qualcuno questo primo numero conteneva
lavori di Flescher (“Il pessimismo di Freud e l’attuale psicosi
collettiva”), di Perrotti (“Psicoanalisi delle nostre opinioni”),
di Pardi (“Sul comportamento sessuale nei primati sub-umani”), di
Flescher (“La parificazione per analogia”), di Dalma (“Via del
maltempo. Psicodinamismo del matricidio”). Anche questo significa
‘ricordare’ quell’anno, il 1945, in cui la psicoanalisi, come
tanti altri ambiti della cultura italiana, divenne finalmente
incensurabile.
Giuseppe Leo
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