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FRENIS  zero 

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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"Mnemosyne": psicoanalisti e memoria dei traumi collettivi

     EDITORIALE

 

di Giuseppe Leo

 

   
                                           

 

                                             

 

In questo numero monografico di “Frenis Zero” (numero 8, anno IV, giugno 2007) abbiamo cercato di presentare dei testi scritti da psicoanalisti alle prese con le  memorie  riguardanti i traumi collettivi del XX secolo.  ‘Mnemosyne’ è il titolo di questo numero, con un richiamo alla divinità greca il cui nome, che significa ‘memoria’ ma anche ‘avvedutezza’, rinvia al dono dell’introspezione che le appartiene. Secondo la ‘Teogonia’ di Esiodo, questa dea  si unisce con Zeus per dare alla luce le Muse: l’invocazione alle Muse della poesia greca antica ha pertanto non solo lo scopo, da parte del cantore, di essere soccorso nel suo compito di ricordare, ma anche di presentificare in maniera vivente quel ricordo mitologico scacciando le cure e gli affanni che il presente interpone alla rievocazione di ciò che è essenziale.

Ma oggi la nostra civiltà della memoria digitale, quella del mero dato nel computer con molteplici versioni ridondanti di sé ,  potrebbe paralizzare la nostra capacità di vivificare le testimonianze e di rendere condivisibile  una memoria collettiva di un dato evento.  Siamo altresì nell’epoca in cui i testimoni viventi di certi fatti storici (la shoah, il genocidio armeno) sono sempre più scarsi, e con loro potrebbe andare irrimediabilmente perduta quella memoria vivente su fatti storici che tra breve sarà condannata ad essere detenuta esclusivamente dalla parola scritta o digitalizzata. Per questo i rischi  di una ‘monopolizzazione’ della memoria si fanno sempre più cogenti mano a mano che questa memoria non è più affidata a persone vive, ma a documenti, a filmati, a foto. Si arriverà al punto che qualche gruppo economico tenterà di  reclamare i ‘copyrights’ sulla memoria della  Shoah?  Intanto si aggiungono le Giornate della Memoria, ultimamente qualcuno  ha proposto di istituirne una per celebrare le vittime del terrorismo in Italia. Ma, come ha scritto Dan Diner, se ogni comunità religiosa, politica o etnica rivendicasse una data per una commemorazione, avremmo un anno fatto solo di giornate della Memoria, e quindi nessuna giornata dalle memoria. Anche la globalizzazione ha un ruolo in questo fenomeno paradossale. In realtà ci sono eventi che vanno (che debbono essere) ricordati da tutta l’umanità (la Shoah, i gulag ad esempio), mentre ci sono poi delle memorie locali per cui non si può pretendere che l’Europa e la Cina debbano condividere le stesse commemorazioni. Ma che senso ha dire: <<Questa data, questo evento deve essere ricordato>>? Ossia, quale rapporto c’è tra etica e memoria? Ed ancora: <<E' sempre bene ricordare, oppure (come nel caso degli archivi segreti della ex-Stasi tedesca) talora è meglio dimenticare>>? E che rapporto esiste tra ricordare e dimenticare da un lato, e dall’altro tra perdonare e riconciliare? Ed ancora: chi deve sanzionare ciò che si deve ricordare e ciò che no? Lo Stato? Ha fatto molto dibattere recentemente il ruolo della censura, e dell’auto-censura, nell’ambito dell’etica pubblica della memoria. L’episodio dell’auto-censura di Toaff che ha autorizzato il suo editore a ritirare dal commercio il suo “Pasque di sangue” è troppo noto come esempio di questa problematicità del dibattito storico attinente l’etica della memoria.

Avishai Margalit ha pubblicato in Italia un libro ( “L’etica della memoria” , Il Mulino, Bologna) in cui egli tenta di dare delle risposte a tali  domande davvero cruciali.

Come afferma Antonio Alberto Semi, siamo anche nell’epoca storica che ha raggiunto la consapevolezza, forse mai raggiunta in questo grado in altre epoche, della relazione tra 'pensare' e ‘ricordare', e della diversa portata che il 'ricordare' può avere se da 'ricordare individuale' diventa 'ricordare insieme'. Il 'ricordare insieme' è un qualcosa di assolutamente particolare: quando ci troviamo tra parenti ed amici l'aspetto particolare non è solo scoprire quanto i ricordi personali si siano affievoliti o si siano diversificati o deformati col tempo, ma anche quanto ciascuno di noi riesce a ritenere solo certi particolari, e magari gli altri sono stati trasformati. Ma la cosa più rilevante che accade nel 'ricordare insieme' consiste nel crearsi di un certo clima emotivo, di una comunanza affettiva, a volte anche ambivalente (in quanto magari  si ricordano, quando si sta insieme, anche i rancori passati) che diventa simbolica di una comunità umana, in quanto si ha il senso di un gruppo  che si costituisce attraverso persone che hanno un itinerario di storie e vicende diverse nel corso del tempo, ma  che riescono lì in quel momento a riconoscersi, a riunirsi.

Nei saggi di questo numero di “Frenis Zero” proponiamo la figura dello psicoanalista come testimone. Testimone deriva dal latino ‘testis’ che è anche ‘superstes’ (superstite), in greco ‘martys’ (martire). La psicoanalisi ha da sempre dovuto fare i conti con l’epistemologia della testimonianza del paziente, dell’analizzando, ma forse è da poco che sta facendo i conti col discorso dell’etica della testimonianza.  Seguendo Edoardo Ferrario nel suo recente libro “Testimoniare” (Lithos, Roma) all’esser-ci heideggeriano si può  opporre l’ecco-mi di Levinas. “Eccomi” è la risposta rivolta a chi ci chiama per testimoniare. E quali sono gli psicoanalisti che hanno risposto con un ‘eccomi’ a “Frenis Zero”?

Janine Altounian discende da una famiglia sterminata dalle persecuzioni ai danni del popolo armeno. Nel suo articolo “ Di cosa sono testimonianza le mani dei sopravvissuti? Dell’annientamento dei viventi, dell’affermazione della vita” , di cui proponiamo per la prima volta in versione italiana un estratto, l’autrice si richiama a Walter Benjamin che  compara il narratore ad un artigiano che lavora il suo materiale dato dalla vita umana, collegando l’anima con la mano. <<L’antica coordinazione  dell’anima, dell’occhio e della mano (‘Hand’) … è la coordinazione artigianale (‘hanwerklich’)… Ci si può chiedere se la relazione che lega il narratore al suo materiale – la vita umana- non sia altro che una relazione artigianale (‘hanwerklich)’), se il compito del narratore consiste precisamente nel lavorare in maniera solida…. la materia prima  delle esperienze… I proverbi, si potrebbe dire, sono le rovine che si trovano al posto di antiche storie…>> (W. Benjamin). Secondo l’Altounian, si potrebbe ugualmente considerare le attività quotidiane operate dalle mani dei sopravvissuti come delle reliquie, delle rovine al posto di storie impossibili da proferire. La psicoanalista francese prende in esame due sequenze del film “Ararat” di Atom Egoyan per mettere in rilievo il ruolo fondamentale delle mani materne nella trasmissione di un’eredità ‘inghiottita’ nel silenzio della parola. Prendendo come esempio un elemento autobiografico – il ruolo salvatore  per la vita di un suo antenato da parte di un prodotto “artigianale”- l’autrice cerca di delineare in che modo i gesti silenziosi e le mani “all’opera” dei sopravvissuti possano testimoniare al loro figlio ciò che le loro parole non possono dire. Così la fedeltà dei discendenti a questa memoria gestuale, che è come  una pellicola cinematografica negativa, non ancora sviluppata (senza parole), sostiene le tracce di impronte industriose in attesa di un reinserimento nel campo del discorso e nella storia del mondo.

La versione integrale francese del suo testo è disponibile sul sito “Thalassa. Portolano of Psychoanalysis” (all’indirizzo: http://web.tiscali.it/frenis0/portolano.htm ).

“La shoah e la distruttività umana” è il titolo di un intervento di Antonio Alberto Semi (tenuto a Lecce nel 2004) di cui si dà qui un resoconto, autorizzato dallo stesso relatore. La shoah è da un lato considerata come conseguenza di una forma particolare di pensiero che, per il fatto stesso di essere stato concepito da esseri umani, non può essere del tutto estraneo alla nostra natura umana; ma dall’altra la shoah, considerata in tutto il suo orrore, trova lo psicoanalista in difficoltà nel compito di darne un’interpretazione. Tale compito non è però del tutto impossibile: si può infatti indagare quello che è il terreno culturale che ha preparato l’orrore. Per Semi, un pensiero cosciente, invitato dal ritorno del rimosso e sostenuto da formazioni reattive che trasformano in pensieri accettabili dei pensieri inaccettabili, può indurre anche degli ascoltatori, e quindi non solamente i fautori di tale pensiero, ed anche degli ascoltatori non sospetti (che si collocano cioè su un piano di valori ‘elevati’) a cercare di scindere il pensiero degli altri, salvando parti buone al prezzo però di denegare il loro collegamento con le parti cattive. Il caso di Heidegger, per Semi, è emblematico a tal riguardo. Rifacendosi, poi, al titolo del suo intervento, Semi passa ad indagare un quesito fondamentale: esiste la distruttività oppure essa è l’effetto di processi psichici prevalentemente inconsci? E se questa domanda riguarda il livello psicologico individuale, occorrerà poi rispondere alla domanda di come sia avvenuto il fenomeno sociale del successo di tale tendenza individuale. In risposta alla prima domanda, Semi indaga il concetto di purezza così centrale nell’ideologia nazista, ma alla fine egli ammette la necessità che le proprie ipotesi esplicative psicoanalitiche non possano pretendere di applicare alla realtà sociale la psicologia individuale.

Il bisogno di articolare il pensiero psicoanalitico sul trauma collettivo tra la dimensione individuale e quella sociale trova nel lavoro di Janine Puget “Terrore di Stato e Psicoanalisi” un approdo cruciale nell’interpretazione del fenomeno della violenza sociale e delle sue rappresentazioni, con particolare riguardo al terrorismo di Stato che ha funestato in passato l’Argentina. L’autrice riconosce il carattere paradossale del compito che si è prefissa: trasmettere qualcosa la cui trasmissione è difficile e talora impossibile. Ed ammette anche che la teoria psicoanalitica non riconosce prontamente l’influenza del contesto sociale sull’apparato mentale e sulla situazione terapeutica. Numerosi psicoanalisti argentini si sono dedicati a sviluppare concetti teorici riguardanti gli effetti psicologici della repressione politica durante la dittatura ed i loro sforzi sono degni di encomio: essi non hanno dovuto aspettare quarant’anni, come è stato nel caso del fenomeno nazista, per riflettere sul terrore di Stato e per trarre da ciò degli utili insegnamenti per il futuro.

Ma il terrore di Stato in quali forme storicamente accertabili ha perseguitato la psicoanalisi? Non sempre con un discorso politico ufficiale chiaramente ostile. Nel caso della Russia post-rivoluzionaria Jean Marti ha indagato gli sviluppi storici di quel graduale processo di emarginazione della psicoanalisi che ha visto in Tatiana Rosenthal una delle sue vittime più drammatiche. La figura della Rosenthal, una delle prime psicoanaliste russe, amica della Spielrein, rivoluzionaria della prima ora nel 1905 e poi nel 1917, quindi pionieristica fondatrice dei primi servizi psicoanalitici per bambini, ed infine suicida all’età di 36 anni nel 1921, è paradigmatica di una vicenda umana, ma anche culturale, in cui la psicoanalisi ha rivestito dapprima un ruolo innovatore nel contesto della trasformazione comunista delle istituzioni, per poi subire un lento processo di stigmatizzazione. La psicoanalisi all’inizio si era rivelata una preziosa alleata del regime bolscevico nella lotta anti-religiosa, nella teorizzazione di una psicologia sociale in cui i fattori sociali erano integrati con le dinamiche individuali, nella sperimentazione di nuove tecniche educative volte alla costruzione dell’”uomo nuovo”. Ma poi, spesso all’interno delle stesse associazioni psicoanalitiche, qualcuno ha pensato a dei ‘correttivi’, finché le contestazioni sono diventate sempre più aperte e per molti psicoanalisti russi della prima ora le vie  percorribili ben presto si sono ridotte alla fuga (come per Wulff), al gulag (come per Ermakov) o al silenzio e all’anonimato professionale.

Si segnala che su Tatiana Rosenthal è consultabile il sito internet “Tatiana Rosenthal and Psychoanalysis” all’indirizzo http://web.tiscali.it/tatianarosenthal  .

Nicole Janigro nel suo articolo “La difficoltà di dire io. L’esperienza del diario nel conflitto inter-jugoslavo di fine Novecento”, incentrato sull’esame di numerosi diari redatti da testimoni dei conflitti etnici in quell’area geo-politica, esordisce con l’affermazione che, come <<nella Polonia invasa dai nazisti, nella Berlino del Terzo Reich, nella Sarajevo assediata, nella Belgrado sotto le bombe Nato>> (…) <<i diari, cartacei ieri spesso elettronici oggi, sfidano l’inenarrabile, sono la forma prescelta per appuntare l’orrore divenuto quotidianità. I diari raccontano, brulicano di testimonianze orali, mescolano la mancanza d’acqua e la pozza di sangue sull’asfalto, provano a regolare quel che usuale non è. Sono un mezzo per farsi coraggio, per ricordare l’universale comune: per coloro che verranno, affinché l’umanità non possa più dimenticare, per comunicare all’Altro come si fa a sopravvivere accanto all’indicibile. Pagine che si trasformano in ricordi da conservare per i posteri, diventeranno fonti, interrogheranno la storia futura, sfideranno i meccanismi della “costruzione della memoria”>>.

Ma i diari possono essere anche la traccia di pensieri scritti da professionisti alle prese coi traumi collettivi della guerra. E’ questo il caso del “Diario di uno psichiatra” di Durtal, in cui l’autore, chiaramente protetto nella sua identità da uno pseudonimo, raccoglie i propri pensieri di medico di un manicomio francese a contatto con le sofferenze umane dovute allo scoppio della seconda guerra mondiale. Ed ancora la seconda guerra mondiale fa da sfondo al libro di Imre Hermann “Psicologia dell’antisemitismo”, di cui abbiamo tradotto in italiano il capitolo riguardante la lettura psicoanalitica che l’autore fece di “un mezzo di difesa degli ebrei: l’identificazione col nemico”. Jacques Hassoun e Claude Rabant, nella loro prefazione al libro di Hermann, mettono in evidenza come in esso non si parli in alcun modo del genocidio degli ebrei, ma unicamente dell’ <<antisemitismo ordinario, storicamente ripetitivo, concepito come scena radicale o esemplare di tutte le follie razziali che esplodono, per crisi, nelle società occidentali>>.

Infine, ci piace riproporre in una nuova veste editoriale (ed iconografica) “Dove si ferma Utz” di Rosalba Carollo. Si tratta di un racconto inedito , quasi un gioco a scatole cinesi , in cui  in un tessuto rigidamente analitico - una seduta portata ad un ( forse ) immaginario supervisore - prevale l'aspetto narrativo . Il protagonista-paziente è un grande collezionista armeno - il protagonista di " Utz " di Bruce Chatwin era ebreo - , che utilizza la nevrosi per sopravvivere al grande trauma dello sradicamento . La sua famiglia si è rifugiata negli Stati Uniti , ma mentre il padre si tormenta fino a giungere al suicidio , il paziente sviluppa una forma di nevrosi , il collezionismo coatto di oggetti preziosi indistruttibili come pietre marmi e metalli , metafora di un bisogno di stabilità infranto.

 

Infine, un’ultima nota di ‘commemorazione’. Abbiamo voluto, a partire da questo numero, modificare il sottotitolo di “Frenis Zero” che d’ora in poi sarà “Psicoanalisi applicata alla Medicina,  Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte”, mutuandolo dalla prima rivista di psicoanalisi uscita in Italia dopo l’ultima guerra. Era diretta da Joachim Flescher e la copertina del primo numero (luglio-settembre 1945) è riprodotta nella pagina del sommario all’indirizzo http://web.tiscali.it/bibliopsi/frenishome.htm . Per la curiosità di qualcuno questo primo numero conteneva lavori di Flescher (“Il pessimismo di Freud e l’attuale psicosi collettiva”), di Perrotti (“Psicoanalisi delle nostre opinioni”), di Pardi (“Sul comportamento sessuale nei primati sub-umani”), di Flescher (“La parificazione per analogia”), di Dalma (“Via del maltempo. Psicodinamismo del matricidio”). Anche questo significa ‘ricordare’ quell’anno, il 1945, in cui la psicoanalisi, come tanti altri ambiti della cultura italiana, divenne finalmente incensurabile.

 

Giuseppe Leo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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