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  "Creta mia bella"

di Santa Fizzarotti Selvaggi

 

    Prefazione di A. A. Mola

 

 

Creta mia bella

di Santa Fizzarotti Selvaggi, Schena Editore, Fasano (Brindisi), 2006.

 


                                Foto: una veduta di Creta

 

PREFAZIONE

 

Le tre vie verso la saggezza

 

 

   

Vi sono tre possibili vie per leggere Creta mia bella, inquietante “poemetto”, come, con ammiccante riduttività, l’opus erculeo vien definito dall’Autrice.

La prima è di abbandonarsi alla lettura, avvolgente e possessiva (come ben fa intendere Pietro Magno nella finissima introduzione estetica alla poetica di Santa Fizzarotti Selvaggi), delle 64 strofe, incalzanti, martellanti..., sino a uscirne spossati, cedendo alla forza che le inanella l’una con l’altra con ritmo via via più frenetico, come in una sorta di danza misterica.

Chi segua codesto percorso di lettura si ritroverà più volte scosso, stordito, sulla soglia dello smarrimento dei sensi. Questo, peraltro, è uno degl’intenti dell’Autrice, che nei 512 versi del poemetto mette in gioco la sua finissima cultura, fondendo insieme il culto dell’arte, quale cammino verso la redenzione-liberazione, e il sapere scientifico dello psicanalista, che bene conosce e pratica terapie cui ha dedicato saggi di singolare perspicacia.

Come fosse in agguato, Santa Fizzarotti Selvaggi attende il lettore all’ultimo verso, sapendo di riceverlo profondamente incerto, turbato, insicuro di sé. A quel punto ella esercita il suo Magistero poetico-psicoterapeutico additando l’approdo catartico. Oltre l’invocazione ripetuta tre volte (cifra esoterica): «Dove sei mia Creta» (senza neppure il punto di domanda, tanto l’interrogativo è profondo e rimbombante, e al di là della lugubre constatazione “Mia Creta perduta” (rassegnata ammissione dell’irrimediabile perdita di una parte del “sé”), l’Autrice indica l’approdo della sua stessa esperienza: vincere la morte con la poesia, ritrovando «i fili / spinosi / invisibili / sfuggenti / sottili di una storia / misteriosa d’amore / a me sconosciuta» e il bisogno-volontà di «per sempre gridare ancora».

Già. Gridare. Sommesso, qui e là dai toni persino flebili, che costringono il lettore alla pausa, alla riflessione, il poemetto è poi sequenza di timbri fortissimi, quasi tamburi di misteri eleusini cui vengono ammesse solo divinità femminili, quali l’“arcana cinica / irreale Demetra”, Giunone, Venere, Gea, la tentatrice Calipso e tre dèi di conclamata ambiguità, Diòniso, Marte e il “femmineo Mercurio”: creatura che dalla tradizione romana (non ne usa infatti le denominazioni greche) la poetessa trasferisce al centro del Mediterraneo orientale, sacro al culto solare di Zeus, distillandoli dai suoi lunghi studi sul “medico e la condizione del Transessuale” (Milano, 2000).

Una seconda possibile lettura – che ci sentiamo di consigliare a chi voglia interagire con il processo poetico e maieutico dell’Autrice – consiste nel ribellarsi dalla prima strofa al suo diktat: la «disperata agonia / cosciente del tempo / che implacabile passa...»; e giocare con le evocazioni cui le magiche e ammiccanti cifre di Santa Fizzarotti Selvaggi intenzionalmente rinviano. Ecco allora che accanto alla sua Figura si stagliano quelle degli antichi sempre attuali grandi cantori dell’ineluttabilità della Morte, della vittoria della natura sulle illusioni, dello scacco cui ciascuno è destinato dall’origine. Alla natura, che è gioia e disperazione, dolore e piacere, che forza il verso a divenir “poesia rugosa di strazio” ma sa anche esprimere l’ansia di «godere distesa all’ombra del gelso», ci si sottrae accettando la propria identità, la naturalità dell’io. A quel modo si può vivere il “rito di passaggio” verso “la dimora di Morfeo”, il sonno liberatore, subito vinto dalla poetessa e psicanalista nella notte vissuta “a Creta di roccia”: simbolo, quest’ultimo, di concretezza, certezze e vittoria finale, nel pieno recupero del dominio sulla precarietà e sulla fuggevolezza della vita.

Percorrendo questa via, il lettore sosterà sulle orme che volta a volta vorrà considerare fondamentali e rivelative. È il  caso della pregnante definizione di Dio «artigiano / di bellezza e di gloria», un guizzo creativo, codesto, che da solo apre squarci di riflessione e rinvia al grande Urs von Balthasar ma anche a tante lezioni di papa Benedetto XVI sulla bellezza e sulla gloria quali manifestazioni dell’Onnipotente.

Questa seconda possibile lettura non comporta alcun disconoscimento della compatta coerenza dell’opera e della sua stringata consequenzialità. Tutt’altro. Ne conferma, semmai, la molteplice fruibilità, giacché coinvolge il lettore nel processo immaginifico, anche se l’approdo ultimo sarà quello fissato dall’Artefice originaria dell’opera. Anch’Ella scaturisce dal «maniero di sirene inquietanti», in cerca della sua “anima/infranta”, quale figura del medioevo dei Crociati, la cui traccia qui e là emerge tra i molti riferimenti a un passato tanto più remoto e, si può dire, a-temporale.

Terminato e riposto il volume, la memoria torna però alla chiave di lettura che la stessa Santa Fizzarotti Selvaggi propone nel modo più scoperto: ancora una volta con esoterico ritmo ternario. Anzitutto la dolente dedica «agli anni della giovinezza». A ciglio asciutto lì non si parla di “età perduta”, del proustiano tempo irrecuperabile, del leopardiano vano e straziante volgersi al passato. Le parole scelte sono volutamente scarne: quegli anni, infatti, sono vivi, presenti nella coscienza, incisi nella carne. Rammemorarli e mirarli è tutt’uno con la contemplazione del presente, col vantaggio della maturazione e delle “prove” cui l’Artefice del poemetto accenna nella stringatissima dolente Premessa: «...ho vissuto l’illusione di aver incontrato l’amicizia e la sicurezza degli affetti. Ma tutto è svanito nel nulla...». Squarcio biografico o invenzione che l’Autrice generosamente dona al lettore per sfidarlo alla prova? L’interrogativo rimane aperto per la peculiarità della formazione culturale di Santa Fizzarotti Selvaggi. Certo non è possibile cancellare dalla memoria la seconda parte della medesima Premessa, scandita da note amare e rasserenanti a un sol tempo: «Nel cammino ho esperito invidia, assenze e precarietà, indeterminatezze, inganni, insulti...». Ne è uscita ferita, ma al tempo stesso più forte, capace di “celestiali visioni”. Grazie alla Parola, alla Poesia (in questo caso la maiuscola è d’obbligo) cui l’Artefice eleva un inno di ringraziamento con le due citazioni scelte quali abbrivo del poemetto.

Il triangolo “dedica-citazioni-premessa” (superfluo sottolineare che tale figura viene proposta dall’esperta psicoanalista, che ne conosce il simbolismo e la portata attrattiva di specie) costringe a riaprire il volume e a rituffarsi nella lettura, senza più esitazioni, al ritmo pulsante di un «cuore spezzato / d’amore e sussurri crudeli» che palpita all’unisono con le «vene / calde di sangue / insinuante / fremente e innocente».

Creta mia bella – che è pietra ben levigata – consegna al lettore tre suggestioni ulteriori.

In primo luogo il tempo del concepimento. La notte. Le tenebre, non già la luce, aiutano a vedere l’insondabile. A scavare senza falsi pudori dentro di sé. A leggere negli altri quanto essi hanno sempre cercato di celare. La notte illumina. Sono le ore in cui le energie vengono raccolte: per riposare o per esplodere come non potrebbe mai avvenire nel grigiore della quotidianità.

In secondo luogo l’Artefice del poemetto è sola. La solitudine è condizione diamantina per attingere ed esprimere la Verità, per ergersi a tramite del Bello e della Gloria. Sola su un’isola. Che non è Creta – un luogo fisico, amato ma qui evocato solo per exemplum – ma la sua stessa vita, la summa di emozioni, sentimenti, affetti... Anche questa è una lezione di cocente attualità, in una stagione avvilita da salotti fatuamente ciarlieri. Non si attinge l’assoluto se non a solo. E semmai sola ad solum, capovolgendo la formula dannunziana.

In quella condizione unica, irripetibile, scaturisce la schilleriana e beethoveniana “scintilla dell’Elisio”, la Gioia.

È quanto accade all’Autrice di Creta mia bella. Che vince la naturalità attraverso la cultura e solo da questa, non da “buon selvaggio”, sa riprendere il cammino verso la propria identità: la «nuova alleanza / tra l’uomo e il divino», che costituisce il vero filo conduttore di questa sfrenata danza al centro del Mediterraneo, crogiuolo di civiltà e corruscato spettatore dell’incapacità di vero e sincero e fraterno dialogo tra le genti che da millenni ci si affacciano.

Santa Fizzarotti Selvaggi ci dice però che anche oggi tutto è possibile. Ma – vi insiste – bisogna reimparare a gridare per superare i rumori di una “città” fatta per e di macchine anziché per i discendenti di Adamo ed Eva.

Dopo quest’ultimo esperimento dell’opera, restituito alla libertà e al dominio di sé, il lettore sa che «il tempo è svanito / come nube d’estate»: versi che rimandano all’inarrivabile Ecclesiaste e che anche per lui consummatum est... Ma non invano.

 

ALDO A. MOLA

Contitolare della Cattedra “Théodore Verhaegen”

(Storia delle religioni e della laicità)

Università Libera di Bruxelles

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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