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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Frenis Zero  Publisher

     "Spazio Rosenthal. Tra psicoanalisi e femminile". Numero 17, anno IX, 2012. 

 

 "Donne sMARRITE: LE VICENDE DEL FEMMINILE

NELLE FAMIGLIE CON FIGLI DISABILI"

di Santa Parrello

 

 

 

Questo testo è stato presentato al seminario internazionale "La trasmissione del femminile" (Napoli, 25 marzo 2011). Si ringrazia l'autrice  per l'autorizzazione concessa a Frenis Zero alla pubblicazione.

Santa Parrello è Ricercatore Confermato di Psicologia dello Sviluppo all'Università degli Studi di Napoli “Federico II”.


 



 

Foto: P. Picasso, "Madre e bambino", 1921-1922

 


 

 

Abstract

 

Il primo periodo di una maternità è per la donna, potenzialmente, una crisi costruttiva che offre spazio e tempo per l’elaborazione di nuove identità, a partire dalle precedenti. Ma cosa accade se il figlio nasce con seri problemi di salute, “altro” rispetto al bambino desiderato e fantasticato? Come si organizza l’intera famiglia? E’ certamente la donna, dalla quale ci si attende che sia sempre e comunque all’altezza del compito, a rischiare maggiormente di smarrirsi e restare intrappolata nel ruolo di madre sacrificale che trasforma il figlio disabile nel proprio tiranno amato e odiato, coinvolgendo drammaticamente gli altri figli. Fortemente identificata col nuovo nato, ella sentirà quella nascita come una vera “mutilazione” del Sé, dunque come un trauma, soprattutto se aveva investito la propria femminilità quasi totalmente nella maternità.

In questa situazione accade che  il padre non sia in grado di svolgere la sua funzione di terzo: potrà allora o fuggire o vivere uno stato di preoccupazione paterna primaria, come succede spesso nelle famiglie attuali, amplificando il proprio elemento femminile. In tal modo la creatività di entrambi i genitori risulterà profondamente ferita: il clima familiare si caratterizzerà per una impossibilità di vivere con rilassatezza e per la prevalenza di una ansiosa ipervigilanza. I fratelli hanno grandi difficoltà a interrompere questo“incanto” dei genitori. La loro capacità femminile di identificarsi sembra rivelarsi un’arma a doppio taglio: mettersi nei panni della madre e del padre feriti o del fratello ammalato può divenire insopportabile e indurre meccanismi di difesa anche molto rigidi. Tuttavia la famiglia è un sistema aperto e dinamico: la circolazione di un femminile sano può essere riattivata in molti modi. Anche attraverso le opere di Shakespeare.

 

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

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Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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La “nascita di una madre” è sempre un evento importante e complesso che segna un’evoluzione irreversibile per la donna, come per la coppia e la famiglia, attivando un intenso processo di elaborazione psichica. Il primo periodo della maternità si configura, infatti, potenzialmente, come una crisi costruttiva che offre spazio e tempo adatti ad un cambiamento personale della donna, che forgia in questa fase nuove identità, a partire dalle precedenti (Stern, Stern, 1998).

Ma cosa accade se il figlio nasce con seri problemi di salute, “altro” rispetto al bambino desiderato e fantasticato? Come si organizza l’intera famiglia?

La letteratura psicologica su questo tema è ormai ampia: conosciamo  la necessità dei genitori di un processo aggiuntivo e talvolta interminabile di lutto, le dinamiche ambivalenti per il figlio diverso che ha provocato una ferita narcisistica[1], le frequenti crisi della coppia colpita dal trauma (Tesio, 2000; Zanobini, Manetti, Usai, 2002; Gardou, 2005), ed anche alcune delle conseguenze possibili per i figli sani, gli “altri fratelli” (Valtolina, 2005; Dondi, 2008); conosciamo infine le difficoltà dei bambini nati ammalati di costruire un percorso comunque sano di strutturazione del Sé, proprio perché gli Altri, a cominciare dalla madre, possono dar vita a processi di mirroring carenti o distorti (Montobbio, 1992; Sausse, 1996).

Le famiglie colpite dalla disabilità attraversano delle vere e proprie fasi di assestamento, come dopo un evento sismico: dopo un primo shock, caratterizzato da un senso di estraneità dalla realtà, si passa spesso al rifiuto di quella stessa realtà; seguono la rabbia, la colpa, preferibile all’accettazione di una vita governata dal caso; la vergogna di fronte al mondo, la paura dell’ignoto, ma soprattutto del futuro e della morte[2]. Quando infine si giunge all’accettazione, essa si configura come un equilibrio precario (Stern, Stern,1998; Clarici, Giuliani, 2005; D’Angiò, Recco, 2006; Bonino, 2006).

Certo esiste una gamma infinita di famiglie e di disabilità. Tuttavia è possibile in parte generalizzare, affermando che sempre la nascita di una madre e di un figlio con problemi di salute di una certa entità inducono il sistema famiglia a riorganizzarsi intorno a quell’evento problematico o traumatico. Quella data di nascita è un marcatore temporale che spezza la vita familiare, e soprattutto della donna,  in un prima e in un poi (Parrello, Caruso, 2002; Parrello, 2006; Parrello, Poggio, 2008b).

Se nella cosiddetta normalità la donna è inizialmente travolta dalla sua identità di madre  -che a sua volta è un composito “plurale materno”(Marinopoulos, 2005)- e stenta a ritrovare le sue altre identità femminili, a maggior ragione questo accade se il figlio nato è “mancante” per il suo status di ammalato. Allora la donna si smarrisce, offrendo al partner e ai figli un’immagine di sé deformata, in cui la femminilità diventa groviglio  di  paura, dolore, tristezza, colpa, incapacità, dovere, sacrificio di Madre a oltranza senza apparente possibilità di appagamento ed evoluzione del Sé.

La donna di prima pare essere per sempre perduta: il desiderio, il piacere, la seduzione diventano (o si confermano) pericolosi, richiamando nell’inconscio antiche fantasie infantili che sembravano archiviate e superate e che invece ritornano in modo “perturbante” (Vinciguerra, Medicina, 2000). Il matrimonio deve essere reinventato partendo da nuove basi. Racconta una madre: “Non osiamo più fare l’amore. Non proviamo più piacere a farlo, pensando che è stata quella l’origine di tutti i guai che sono venuti poi. Tornano in mente brutti ricordi, affiorano associazioni negative e niente funziona più” (Stern, Stern, 1998, tr. it. 2010, p. 183).

E’ evidente che ciascuna donna arriva a questa esperienza con un bagaglio di risorse diverse, a seconda dell’identità a cui era giunta: la situazione più rischiosa è quella di colei che affronta la maternità a partire da un investimento eccessivo, che fa dipendere totalmente il suo Sé dalla riuscita della nuova impresa, entro la quale dimostrare la sua perfetta capacità di procreare e curare che non prevede fallimenti di sorta (Bolen, 1984). Come dire che in qualche modo la sua femminilità era già sentita come un handicap che attendeva di essere cancellato o medicato proprio grazie alla maternità.

In ogni caso, poichè ogni donna è, dopo il parto, fortemente identificata col figlio grazie al proprio elemento femminile che le consente una preoccupazione materna primaria, la malattia del neonato verrà sentita come una vera “mutilazione” del Sé, più che come una frustrazione (Winnicott, 1971). E’ forse per questo che la condizione psicologica di queste madri è oggi assimilata al Disturbo post traumatico da stress (Tesio, Pagani, 2007) e si è diffusa la convinzione che  è rischioso lasciarle da sole, colludendo con la loro temporanea incapacità di comunicare, narrarsi (Parrello, Poggio, 2008a), “potersi dire” (Marinopoulos, 2005) [3].

Cosa succede intanto al padre? Se il padre ha difficoltà a svolgere la sua funzione di terzo rispetto a una diade tanto sui generis e vive uno stato di preoccupazione paterna primaria, come sembra accadere spesso nelle famiglie attuali, amplificando il proprio elemento femminile (Korff-Sausse, 2009), è probabile che la creatività di entrambi i genitori risulti profondamente ferita.

Per Winnicott (1971) la creatività è la capacità di vivere rilassati con la sensazione che la vita valga la pena di essere vissuta:  se questa capacità risulta compromessa, passiamo dalla rilassatezza e dal godimento dell’esistenza all’ipervigilanza della realtà, al monitoraggio degli stimoli, a cui tendiamo a reagire in modo ansioso, per far fronte a vere o presunte necessità o per compiacere gli altri (Amadei, 2005). E’ proprio questo che sembra accadere nelle famiglie in cui irrompe la disabilità di un figlio: “confrontati con la violenza rappresentata dalla disabilità, i genitori non possono distrarsi dalla loro angoscia, che ha più forza di qualsiasi altra attività o diversivo che si sforzano giornalmente di intraprendere (...). L’angoscia si alimenta alla fonte della sofferenza e, sempre ravvivata, non cessa mai; per risvegliarla basta lo spettacolo apparentemente insignificante di  un bambino che vive, cammina, gioca o balla” (Gardou, 2005, tr. it. 2006, p. 80). La malattia del neonato fa sentire dunque in modo amplificato ai genitori l’essenziale labilità della vita: le necessità di cura appaiono più legate alla sopravvivenza che al piacere della relazione. E’ vero infatti che è rarissimo che questi genitori riescano, nella prima fase, a vedere al di là dell’handicap, a dedicarsi con il figlio ad attività di gioco, luogo per eccellenza della creatività, divertendosi con lui e con i suoi fratelli, meno che mai accade che si dedichino  alla cura di sé (Stern, Stern, 1998; Tesio, 2000; Parrello, Caruso, 2006).  Potremmo riprendere il riferimento che Winnicott (1971) fa all’Amleto di Shakespeare in Gioco e realtà per descrivere il drammatico paesaggio interiore dei genitori in questa fase: “essere o non essere”, nel senso dell’incapacità di scegliere fra una vita degna di tale nome ed una trascorsa a “prender le armi contro un mare di problemi”. Spesso i terapeuti che riescono ad incontrare i genitori in questa fase li descrivono come terrorizzati e confusi,  bloccati in un tempo chiuso e vietato, minaccioso, in cui i progetti e la libertà di scelta si restringono e si colorano di incertezza (Clarici, Giuliani, 2005, Gardou, 2005).

Tuttavia è  la donna, dalla quale soprattutto ci si attende che sia sempre e comunque all’altezza del compito, a rischiare maggiormente di restare intrappolata nel ruolo di madre sacrificale che trasforma il figlio disabile nel proprio tiranno amato e odiato, coinvolgendo drammaticamente gli altri figli in questa vicenda di smarrimento e depressione. Scrive la  madre di un bambino autistico: “Ho l’impressione di essere stata incarcerata” (Gardou, 2005, tr. it. 2006, p. 85).

Il padre, se non prova a competere con la donna –come abbiamo visto- restando invischiato, può anche scegliere delle vie di fuga, spostando altrove la scena della propria esistenza. A volte la coppia si mantiene solo per la paura del senso di colpa: “come si fa ad abbandonare un figlio ed una madre così?” (Tesio, 2000, p. 42). Ma l’intimità e la sessualità restano il luogo temibile che genera mostri.

Il figlio ammalato - la cui posizione è certo molto diversa a seconda del tipo di handicap, fisico o mentale, lieve, medio o grave - riceve dalla madre un rispecchiamento frammentato e distorto, anche in relazione all’identità di genere. Nel caso delle figlie accade spesso che la bambina disabile introietti un modello femminile di “totale disponibilità all’altro, di assenza dei propri confini (..)  se l’ablazione diventa il metro dell’esserci, anche l’identità di genere diventa rischiosa. Le donne cresciute in questo progetto di solito aspettano dall’altro, dal partner, la loro definizione e la loro identità” (Ponzio, 1998, p. 15).

Gli “altri” figli cominciano da subito ad avere grandi difficoltà a interrompere l’attenzione vigile dei genitori verso il fratello ammalato, quella specie di “incanto” che distoglie la madre e il padre dai loro bisogni: sperimentano di frequente le tipiche ingiunzioni a essere forti, come piccoli adulti con una maschera di competenza, a non essere dunque se stessi ma compiacenti, amplificando il falso Sé, addirittura a volte a non esistere (Valtolina, 2005; Dondi, 2008). Le loro pulsioni naturali, rabbia, gelosia, rivalità, sono sovracolpevolizzate e censurate, e amplificano il senso di colpa per essere nati sani (Gardou, 2005). La loro capacità di  identificarsi con l’altro sembra rivelarsi un’arma a doppio taglio: mettersi nei panni del fratello ammalato o dei genitori feriti può diventare insostenibile e indurre meccanismi di difesa anche molto rigidi; o condurre a professioni di cura. Nella normalità di solito l’amore fraterno facilita l’elaborazione delle pulsioni aggressive e il superamento dell’Edipo (Sommantico, Trapanese, 2008): nel caso di un fratello/sorella disabile questo processo si complica e, anziché, diventare un ausilio allo sviluppo sano, può diventare un fattore di rischio. Il radicamento orizzontale (Savier, 1990) si fa più difficile, perché passa appunto per il senso di mutilazione materna e talvolta per l’impossibilità di considerare davvero orizzontale il rapporto col fratello/sorella ammalato. Infine, laddove l’arrivo di un nuovo nato stimola la sana curiosità per il legame coniugale e per il sesso (Sommantico, Trapanese, 2008), la nascita di un sibling diverso può connotare di un eccesso di fantasie negative questa sfera.

Non mancano, tuttavia, situazioni familiari dinamiche, destinate a modificarsi ed evolversi, essendo la famiglia un sistema aperto (D’Angio, Recco, 2006; Parrello, 2008): in costante comunicazione da un lato con le famiglie di origine, dall’altro col contesto socioculturale. E’ nelle famiglie di origine che entrambi i genitori hanno cominciato a dar vita, ben prima della loro unione,  ai figli mitico, fantasmatico, immaginario, cui ora non corrisponde il figlio reale (Lamour, Lebovici, 1991); è in quelle famiglie che hanno immaginato il loro Sé di adulti maschi e femmine, ora pieni di vergogna e sensi di colpa. Quei fantasmi possono essere rivisitati e riconosciuti come tali, di solito  in terapia, attivando nuove possibilità di pensare, significare, simbolizzare, ed anche di dire, raccontare. La creatività, che secondo Winnicott (1971) raramente risulta distrutta, ma nelle situazioni traumatiche giace nascosta nel fondo del Sé, può riemergere.

 

Proverò a rendere più espliciti alcuni di questi aspetti usando le parole delle madri e le parole di un figlio sano, “altro” fratello. 

 

     Non è semplice raccogliere i racconti di madri di figli ammalati e disabili soprattutto a poca distanza dal parto. Quando ci si riesce, le loro narrazioni hanno un protagonista assoluto: il figlio.

Negli ultimi anni ho svolto due ricerche con “madri speciali”: una analizzando il materiale clinico di colloqui  con madri di bambini e adolescenti disabili afferenti ad un centro di riabilitazione neuropsicomotoria (Parrello, Caruso, 2002; 2006); l’altra raccogliendo in ospedale interviste narrative di madri di bambini e adolescenti con distrofia muscolare di Duchenne, trasmessa in linea femminile solo ai figli maschi e attualmente incurabile (Giacco, Parrello, Politano, Solimene, 2011). In entrambi i casi colpiscono sia la voce flebile e profondamente dolente delle madri, che la caduta di creatività del clima familiare: “i Sé di prima quasi non ci sono più, stravolti e schiacciati da quanto accaduto; il tempo sembra essersi fermato in una sorta di incantesimo, che attiva un eterno presente di routines sempre uguali a se stesse; i cambiamenti sono spesso temuti o negati per paura che producano nuovi mostri; non c'è spazio per rappresentazioni del proprio Sé futuro” (Parrello, Caruso, 2002, p. 11). Racconta una madre:

 

“All’inizio credi che… che si devono aggiustare le cose, che lui va meglio, ma poi alla fine, come in questo periodo che è tremendo (..) tu non puoi badare alle altre cose in casa e non puoi più badare al marito, non puoi badare all’altro figlio, devi stare sempre accanto a lui, non ti puoi spostare..  è una tragedia (piange)… che altro le posso dire… se stai a tavola, deve mangiare prima lui poi devo mangiare io… è un calvario” (Intervista 2 Madri Distrofici).

 

E un’altra:

 

“cerco di… cioè di fare una vita normale perché so che lui ha bisogno di questa normalità.

COME SI IMMAGINA IL FUTURO? Lui? NO LEI (..)LUI VORREBBE ANDARE  ALL’UNIVERSITÀ? Sì, per adesso non ha ancora deciso dove iscriversi, è un modo per stare con gli altri, per stare impegnato.  (..) A LEI FA PIACERE QUESTA COSA? Sì sì, a me tutto quello che lui vuole fare non è un problema anzi mi fa piacere, almeno lui continua nella sua vita a fare quello che desidera, almeno questo …(Intervista 5 Madri Distrofici).

 

     Poco tempo fa mi sono imbattuta in un memoir particolare e prezioso: è la storia vera di Bob Smith, stimato attore, regista e critico shakespeariano contemporaneo, che dedica il suo romanzo autobiografico alla sorella Carolyn, nata con una gravissima disabilità mentale. In Italia il libro è uscito col titolo Il ragazzo che amava Shakespeare (Guanda, 2004; TEA, 2005). E l’arte di Shakespeare è stata la risorsa straordinaria che ha mantenuto viva la creatività di un ragazzo statunitense degli anni Cinquanta schiacciato dal peso di una famiglia stravolta dalla nascita di una bambina ammalata, da cui, divenuto giovane adulto, ha creduto di poter fuggire.

L’autore, giunto all’età di cinquantasette anni, mentre offre le sue Letture di Shakespeare agli anziani dei centri sociali, decide di  ripercorrere la propria storia,  che ruota interamente intorno alla nascita della “sfortunata  sorellina”  e di due genitori che, fin dall’inizio, gli appaiono “piccoli, vecchi e sperduti”. La “fragile madre” è nervosa e triste e Bob si sente impotente. Il padre è un bell’uomo, svalutante e assente. La presentazione della piccola Carolyn, che porta il nome della figlia desiderata e fantasticata a lungo dalla madre, è affidato alla nonna materna, che si farà poi  carico di dare a Bob anche una “spiegazione” dell’accaduto (Loncan, 2007):

 

Avevo tre anni quando risalimmo Boston Avenue rivestita di ghiaccio per andare a prendere la mia fragile madre e la mia nuova, sfortunata sorellina. Attraverso il nevischio che scendeva obliquo vidi il mio esile padre tenere in equilibrio un ombrello gigantesco sopra l’infermiera che spingeva fino al bordo del marciapiede la carrozzella su cui c’era mia madre – la neonata era nascosta, avvolta in una copertina di lana rosa. Il giovane viso di mia madre era scarno e inespressivo. La nonna, seria seria, aprì la grossa portiera della macchina e sistemò la piccola accanto a me, sul sedile imbottito color grigio scuro, e mi sussurrò: “ecco la tua sorellina, Carolyn Wells Smith”.

 

Via via che aumentavano i problemi di mia sorella e i miei genitori ne erano sempre più preoccupati, l’unica persona che sembrasse rendersi conto della mia difficile situazione era la nonna materna. “Robert, la faresti volentieri una passeggiatina sull’East Main? Ti andrebbe un gelato, o magari un panino con bacon, lattuga e pomodoro?”

Ma a cinque anni avevo fatto qualcosa che secondo la nonna andava corretto, perciò lei e la sorella di mia madre, Claire, un giorno mi presero da parte. Eravamo sulla soglia della dispensa della nonna, e lei era appollaiata su una sedia da cucina dipinta di bianco. Allungando la mano verso il ripiano più alto della dispensa tirò giù una vecchia borsa (..). E ne estrasse un oggetto avvolto in carta ingiallita. Mentre Claire l’aiutava a scendere dalla sedia, la nonna tolse la carta e ne emerse una grossa candela votiva grottescamente distorta.

Venimmo inondati da una miriade di granelli di polvere che facevano capriole nell’aria, illuminati dal sole. (..)La nonna mi passò la grossa candela usata.“Guardala molto attentamente” mi disse in tono garbato,  mentre la mia zia “nubile” continuava ad allargare e stringere gli occhi come faceva sempre per far capire la serietà di un discorso.

“L’ho accesa ed è rimasta accesa per tutto il tempo che hai impiegato tu a venire al mondo” proseguì la nonna a bassa voce. “Ti ci son voluti due giorni e due notti! Tua madre soffriva moltissimo e non c’era verso di farti nascere. Eri troppo grosso, pesavi troppo. Tua madre soffriva e tu niente, non nascevi, le facevi solo male. Quando poi è arrivato anche per Carolyn il momento di nascere, lei non riusciva a farlo perché tu avevi rovinato la mamma… là sotto”.

La mia mente di bambino di cinque anni cercò di soffermarsi su quel concetto. (..)  Allora là sotto è tutto rovinato!... Il nonno diceva: “Non dategli altra torta, lo rovinate”. Lo rovinate! Rovinavano me?Là sotto? Là sotto? “Carolyn non riusciva a nascere perché io sono rovinato. “Ma io non sono rovinato! Non faccio mai niente di male, io! Aiuto sempre. Mi comporto bene in chiesa, gioco solo un po’ con la gente inginocchiata. Non mi lasciano fare pipì finché la messa non è finita. Devo “tenerla" finché non mi fa male là sotto! Piango insieme alla mamma quando lei piange per Carolyn e perché papà è nell’esercito. Lei dice che lui mica ci era costretto, ad andare, però non sopportava tutti quei pianti.

Naturalmente pensavo che l’accusa della nonna fosse vera, che in qualche modo io, per mia scelta, per egoismo, non avessi voluto nascere, e quindi avessi rovinato la mia sorellina. Per molti anni sentii versioni disorientanti di quel che era successo a Carolyn.

(..) avrebbe smesso di piangere? E avrebbe smesso anche la mamma? E la gente avrebbe smesso di dirmi di fare il bravo, specialmente adesso che dovevo essere “un maschietto e anche una femminuccia”? e papà sarebbe tornato a casa?

Quando avevo quattro anni mio padre era entrato nell’esercito  – “per essere un uomo”, diceva mia madre. Secondo lei lui l’aveva abbandonata, e probabilmente in effetti per un po’ di tempo lo fece. Se ne andò perché tutti quanti piangevano in continuazione.

 

In tutti i momenti peggiori in cui mia madre stava male e mio padre era in guerra (..) sognavo che lui tornasse a casa e ci rendesse la vita vivibile, che potessimo ridere di nuovo, e magari divertirci. Volevo andare al mare con mio padre.

 

Avrei voluto essere esattamente l’uomo che credevo fosse mio padre.

Il messaggio era chiaro però: per ottenere l’approvazione di mio padre avrei dovuto diventare bravissimo nel dare a intendere che non avevo bisogno di niente.

 

A un certo punto la mamma cominciò a fare discorsi da grandi con me. Nel suo terribile bisogno di sfogarsi, raramente notava quanti anni avessi o non avessi. (..)

Si mise a far pulizia in modo maniacale. Continuamente, con un accanimento patologico, sfregava ogni oggetto della casa, anche più volte al giorno. Aveva la sensazione di aver fatto qualcosa che avesse distrutto il cervello e il corpo di mia sorella e avesse fatto andar via mio padre. Secondo lei, era tutta colpa sua. Io invece pensavo che la colpa fosse soltanto mia. Passavamo un sacco di tempo a sentirci colpevoli, e lavavamo le cose.. Per mantenere l’illusione di avere il controllo della situazione, lei puliva tutto il giorno, e anche di notte. (..) Provavo per lei una autentica venerazione. Avrei fatto di tutto per alleviare il suo pianto e la sua profonda tristezza.

 

 Circondato da donne sole, sofferenti, che indirizzavano tutta la loro frustrazione verso la mia vocazione (al sacerdozio), e in assenza di un padre yankee in grado di bloccarle, stavo ormai andando in quella direzione. La mamma, la nonna e la zia Claire avevano cominciato a conficcare chiodi dorati nella bara dell’immagine mascolina di me stesso.

 

Ma il padre di Bob tornerà: nonostante sia molto svalutante con il  figlio -ritenuto non abbastanza mascolino perché irretito dalla madre affinché la sostenga emotivamente ed assuma il ruolo di caregiver della sorella-  il padre riuscirà in qualche modo a far da argine al dilagare di quel femminile troppo dolorante e colpevolizzante. Non abbandonerà mai Carolyn, neanche dopo la sua istituzionalizzazione a diciotto anni; e non abbandonerà neanche la moglie, pur ritagliandosi dei  sistematici misteriosi martedì altrove. Di fatto alimenterà nel figlio il desiderio di cercare risorse per sé fuori dalla famiglia:

 

La verità è che di me non si curava nessuno. I miei genitori sembravano sopraffatti, in tutt’altre faccende affaccendati, e paradossalmente speranzosi che trovassi un modo per scappare da loro, e da Carolyn.

 

I litigi erano schermaglie di una guerra lunga una vita  provocata dalla vergogna. I miei genitori non facevano troppe domande sul significato delle cose.  Qualche strana inarrestabile ricetta a base di fato, natura, Dio, peccato, castigo e ‘semplice malasorte’, così diceva mia madre, colpiva l’esistenza di tutti. La sfortuna, non era altro che questo, sfortuna. Una vita difficile era qualcosa che ‘si affrontava alla meno peggio’.

 

A diciassette anni Bob Smith, adolescente solo e tormentato,  si imbatte in Shakespeare: prima attraverso i  testi della biblioteca comunale, poi nelle rappresentazioni del teatro della sua città, laboratorio di magia in cui comincia a fare il servo di scena aiutando gli attori a indossare i costumi.

 

Ho una sorella malata. La cambio in continuazione. Molto in fretta, perché si spazientisce. Credo di poter fare il servo di scena.

 

E’ affascinato da un mondo nel quale la parola ha un potere straordinario, riuscendo finalmente a significare il mondo interno:

 

Credo che più confusi si è dentro, più si ha bisogno di credere in qualcosa fuori. Avevo un disperato bisogno di appoggiarmi a qualcosa che fosse più grande di me, ed era chiaro che William Shakespeare capiva com’era soffrire senza neppure sapere perché.

In casa nostra vigeva la regola del silenzio. Come molta gente, evitavamo di parlare delle cose di cui più si sarebbe dovuto parlare. Shakespeare diventò così il mio linguaggio segreto, una lingua antica, remota, in caratteri cuneiformi che, in un certo senso, mi rendeva più visibile a me stesso.

 

Mi era stato consentito di accedere alla magia, ero stato invitato a scoprire l’altro lato delle parole.

 

Vedevo la mia vita, la mia sorella indifesa, il mio papà arrabbiato, la mia mamma ferita che si ripiegava su se stessa sotto il peso della sventura.

 

Amleto mi faceva compagnia, quanto ai sensi di colpa.

 

Osservare troppo può rendere passivi e spaventati. Ne sa qualcosa Amleto!

 

Si chiedeva se la vita valesse la pena di essere  così faticosamente vissuta. A quel tempo, un paio di mesi prima del mio diciassettesimo compleanno, il problema di Amleto era una cosa che m’interessava in modo patologico.

 

(Sulla scena) mentre Bolingbroke scherniva Riccardo, l’aver visto per anni mia sorella derisa dalla gente scatenava in me un pianto dirotto: la mia solitudine si fondeva con quella del povero, triste Riccardo di Bordeaux. (..) e ogni volta quella sofferenza mi faceva male e nel contempo mi guariva.

 

La mamma (..) a un certo punto aveva cominciato a esaminare la propria tristezza. Come un’eroina shakespeariana aveva cominciato a studiare se stessa.

 

Finalmente anche la fragile madre trova la forza per vedere l’altro figlio e sostenerlo come sa:

 

Questi sono gli anni migliori della tua vita, e si è giovani una volta sola, ricordatelo!

 

Tuttavia Bob fatica ancora a godere della sua nuova vita:

 

Ogni volta che passavo dei momenti piacevoli di qualsiasi tipo pensavo sempre a Carolyn, e quel pensiero si portava via tutta la piacevolezza della situazione.

 

Come Lady Macbeth, mi portavo addosso i sensi di colpa da quando avevo sei anni.

 

Mia sorella era pura, io ero umano, maschio e cattivo.

 

Il rapporto fraterno non adeguatamente mediato dagli adulti sembra ancora schiacciare Bob. Anche la sua iniziale curiosità per il sesso, sanamente attivata dall’arrivo della sorellina, è gestita in modo inadeguato dalla madre e dalla nonna: incapaci di reggere alle domande del bambino, restituiscono un’immagine della sessualità densa di misteri e colpe, spesso spostate sugli uomini.

 

Da anni (mia madre) aveva preso l’abitudine di parlarmi degli uomini come se non fossi stato un uomo anch’io: ‘sai come sono gli uomini’diceva con un gran sospiro, come se fossimo stati entrambi degli emarginati delusi(..) Tuo padre (..) si è preso i martedì! E c’è di mezzo una donna, so che è una.. Ah, gli uomini!’ concludeva con un sorrisetto sarcasticamente idiota.‘Non riescono a farne a meno, non riescono a vivere senza’.

 

Ma a volte neanche il padre lo aiuta a venir fuori da quel labirinto femminile: un giorno irrompe nella stanza del figlio e scopre che si sta masturbando.

 

Come al solito, non mi guardò. ‘Potrei raccontare quel che hai fatto, sai. Potrei dirlo a tua madre. Ti immagini cosa penserebbe, se lo facessi?. Come un fratello maggiore geloso in vena di tormenti, minacciò tutto allegro: ‘Potrei farlo, e magari lo farò, e allora chissà cosa penserà di te”. Poi finalmente mi guardò e sorrise. Era bello, mio padre, con quei capelli neri e quegli occhi scuri come quelli di sua madre. ‘Proprio così, ti disprezzerà, e tu non avrai un amico al mondo!”. Affondai le unghie nel palmo della mano per cercare di non piangere, di non comportarmi da femminuccia. Naturalmente lui aveva ragione, non avrei avuto un amico al mondo. Non avere un amico al mondo, tranne mia sorella, fu la caratteristica della mia infanzia.

 

Eppure Bob ce la farà, anche se l’istituzionalizzazione di Carolyn sarà un nuovo trauma per lui, lacerante al punto da impedirgli di andarla a trovare per quarant’anni. Il libro si chiude proprio con la scena del loro ritrovarsi toccante e tardivo. 

Bob Smith sostiene di aver usato Shakespeare come “un’armatura”, forse, diremmo noi, come un’autoterapia, che gli  ha consentito di riappropriarsi della bellezza della vita , rendendola di nuovo degna di essere vissuta. Le eroine shakespeariane  gli hanno permesso di fare i conti con le donne dolenti e smarrite della sua famiglia, che –possiamo immaginare- erano donne che avevano investito la propria femminilità quasi totalmente nella maternità. Quanto a Carolyn, con lei  Bob è stato costretto ad una intimità forzata fin da piccolo, dovendola cambiare, pulire, accudire come non dovrebbe fare un bambino.

 

L’atmosfera era impregnata di un malessere inquinato mentre Carolyn ed io ce ne stavamo seduti per terra davanti alla porta della camera da letto dei miei genitori.

“Mi occorre un po’ di the per le mie pillole” sussurrava mia madre, oppure”Potresti prepararmi un po’ di minestra? Non riesco quasi a vedere, tanto mi fa male la testa”, ed io sapevo che era proprio così. (..)”Sei proprio un bravo bambino.. posso sempre contare su di te. Senti puzza? Oddio no, un’altra volta! Sei proprio un bravo bambino. Non so cosa farei senza di te. Non dimenticarti di pulirla bene…”. Si potrebbero scrivere sulla mia lapide queste parole: ‘NON DIMENTICARTI DI PULIRLA BENE’.

 

Per riemergere da questo mondo femminile malato Bob deve riuscire a comprendere che le mutilazioni e le menomazioni non impediscono alla nonna, alla zia, alla madre e persino alla sorella di vivere in autonomia:

 

Lei adesso era una persona a sé stante. Non era più la persona che noi avevamo bisogno che fosse. Lo capivo dal suo volto, dal suo corpo, dalle persone che le stavano intorno: mia sorella aveva una vita sua, una vita reale, una vita bella e piena.

 

Si stemperano così gli echi delle colpe. Anche la vita di Bob può rifluire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Note dell'Autrice:

 

 


[1] Diversi autori ipotizzano che “le ‘normali’ tendenze figlicide, presenti con la nascita di un bambino ‘normale’, si intensifichino a dismisura nel caso della nascita di un bambino disabile” (Tesio, 2000, p. 23).

[2] La rabbia, libera e fluttuante o rivolta verso il figlio, i medici, il partner, è di solito negata perché si teme possa danneggiare l’amore; la colpa per aver in qualche modo causato la disabilità se da un lato consente di dare senso alla realtà, illudendo di controllarla, è anche colpa per non essere stati all’altezza delle richieste dei propri oggetti interni; la vergogna è dolore per la propria incapacità ad avvicinare il Sé attuale e il Sé ideale; la paura deriva dal trovarsi di fronte all’ignoto ma anche di fronte al limite.

[3] “non potersi dire” è un segnale di allarme, un segno di malessere, un dato clinico (..). La nostra pratica ci pone di fronte ogni giorno madri che soffrono nella più grande solitudine. E questo non perché siano sole, ma perché nella società attuale (..) la loro sofferenza non può esprimersi. Tutti devono offrire prestazioni, mostrarsi all’altezza, a cominciare dalle madri che devono dimostrarsi capaci indipendentemente dalle circostanze, di risollevarsi indenni da questo passaggio da donna a madre (Marinopoulos, 2005, tr. it. 2008, p.21).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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