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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Pages: 158
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Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
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Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
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Anno/Year: 2010
Pages: 520
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"Vite soffiate. I vinti della
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Anno/Year: 2008
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
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Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
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Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
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La
“nascita di una madre” è sempre un evento importante e complesso
che segna un’evoluzione irreversibile per la donna, come per la
coppia e la famiglia, attivando un intenso processo di elaborazione
psichica. Il primo periodo della maternità si configura, infatti,
potenzialmente, come una crisi costruttiva che offre spazio e tempo
adatti ad un cambiamento personale della donna, che forgia in questa
fase nuove identità, a partire dalle precedenti (Stern, Stern, 1998).
Ma
cosa accade se il figlio nasce con seri problemi di salute,
“altro” rispetto al bambino desiderato e fantasticato? Come si
organizza l’intera famiglia?
La
letteratura psicologica su questo tema è ormai ampia: conosciamo
la necessità dei genitori di un processo aggiuntivo e talvolta
interminabile di lutto, le dinamiche ambivalenti per il figlio diverso
che ha provocato una ferita narcisistica,
le frequenti crisi della coppia colpita dal trauma (Tesio, 2000;
Zanobini, Manetti, Usai, 2002; Gardou, 2005), ed anche alcune delle
conseguenze possibili per i figli sani, gli “altri fratelli” (Valtolina,
2005; Dondi, 2008); conosciamo infine le difficoltà dei bambini nati
ammalati di costruire un percorso comunque sano di strutturazione del
Sé, proprio perché gli Altri, a cominciare dalla madre, possono dar
vita a processi di mirroring carenti o distorti (Montobbio, 1992;
Sausse, 1996).
Le
famiglie colpite dalla disabilità attraversano delle vere e proprie
fasi di assestamento, come dopo un evento sismico: dopo un primo shock, caratterizzato da un senso di estraneità dalla realtà, si passa spesso
al rifiuto di quella stessa realtà; seguono la rabbia,
la colpa, preferibile all’accettazione di una vita governata
dal caso; la vergogna di fronte al mondo, la paura
dell’ignoto, ma soprattutto del futuro e della morte. Quando infine si giunge
all’accettazione, essa si configura come un equilibrio
precario (Stern, Stern,1998; Clarici, Giuliani, 2005; D’Angiò, Recco,
2006; Bonino, 2006).
Certo
esiste una gamma infinita di famiglie e di disabilità. Tuttavia è
possibile in parte generalizzare, affermando che sempre la nascita di
una madre e di un figlio con problemi di salute di una certa entità
inducono il sistema famiglia a riorganizzarsi intorno a quell’evento
problematico o traumatico. Quella data di nascita è un marcatore
temporale che spezza la vita familiare, e soprattutto della donna,
in un prima e in un poi (Parrello, Caruso, 2002; Parrello,
2006; Parrello, Poggio, 2008b).
Se
nella cosiddetta normalità la donna è inizialmente travolta dalla
sua identità di madre -che
a sua volta è un composito “plurale materno”(Marinopoulos, 2005)-
e stenta a ritrovare le sue altre identità femminili, a maggior
ragione questo accade se il figlio nato è “mancante” per il suo
status di ammalato. Allora la donna si smarrisce, offrendo al partner
e ai figli un’immagine di sé deformata, in cui la femminilità
diventa groviglio di
paura, dolore, tristezza, colpa, incapacità, dovere,
sacrificio di Madre a oltranza senza apparente possibilità di
appagamento ed evoluzione del Sé.
La
donna di prima pare essere per sempre perduta: il desiderio, il
piacere, la seduzione diventano (o si confermano) pericolosi,
richiamando nell’inconscio antiche fantasie infantili che sembravano
archiviate e superate e che invece ritornano in modo “perturbante”
(Vinciguerra, Medicina, 2000). Il matrimonio deve essere reinventato
partendo da nuove basi. Racconta una madre: “Non osiamo più fare
l’amore. Non proviamo più piacere a farlo, pensando che è stata
quella l’origine di tutti i guai che sono venuti poi. Tornano in
mente brutti ricordi, affiorano associazioni negative e niente
funziona più” (Stern, Stern, 1998, tr. it. 2010, p. 183).
E’
evidente che ciascuna donna arriva a questa esperienza con un bagaglio
di risorse diverse, a seconda dell’identità a cui era giunta: la
situazione più rischiosa è quella di colei che affronta la maternità
a partire da un investimento eccessivo, che fa dipendere totalmente il
suo Sé dalla riuscita della nuova impresa, entro la quale dimostrare
la sua perfetta capacità di procreare e curare che non prevede
fallimenti di sorta (Bolen, 1984). Come dire che in qualche modo la
sua femminilità era già sentita come un handicap che attendeva di
essere cancellato o medicato proprio grazie alla maternità.
In
ogni caso, poichè ogni donna è, dopo il parto, fortemente
identificata col figlio grazie al proprio elemento femminile che le
consente una preoccupazione materna primaria, la malattia del neonato
verrà sentita come una vera “mutilazione” del Sé, più che come
una frustrazione (Winnicott, 1971). E’ forse per questo che la
condizione psicologica di queste madri è oggi assimilata al Disturbo
post traumatico da stress (Tesio, Pagani, 2007) e si è diffusa la
convinzione che è
rischioso lasciarle da sole, colludendo con la loro temporanea
incapacità di comunicare, narrarsi (Parrello, Poggio, 2008a),
“potersi dire” (Marinopoulos, 2005).
Cosa
succede intanto al padre? Se il padre ha difficoltà a svolgere la sua
funzione di terzo rispetto a una diade tanto sui generis e vive
uno stato di preoccupazione paterna primaria, come sembra accadere
spesso nelle famiglie attuali, amplificando il proprio elemento
femminile (Korff-Sausse, 2009), è probabile che la creatività di
entrambi i genitori risulti profondamente ferita.
Per
Winnicott (1971) la creatività è la capacità di vivere rilassati
con la sensazione che la vita valga la pena di essere vissuta:
se questa capacità risulta compromessa, passiamo dalla
rilassatezza e dal godimento dell’esistenza all’ipervigilanza
della realtà, al monitoraggio degli stimoli, a cui tendiamo a reagire
in modo ansioso, per far fronte a vere o presunte necessità o per
compiacere gli altri (Amadei, 2005). E’ proprio questo che sembra
accadere nelle famiglie in cui irrompe la disabilità di un figlio:
“confrontati con la violenza rappresentata dalla disabilità, i
genitori non possono distrarsi dalla loro angoscia, che ha più forza
di qualsiasi altra attività o diversivo che si sforzano giornalmente
di intraprendere (...). L’angoscia si alimenta alla fonte della
sofferenza e, sempre ravvivata, non cessa mai; per risvegliarla basta
lo spettacolo apparentemente insignificante di
un bambino che vive, cammina, gioca o balla” (Gardou, 2005,
tr. it. 2006, p. 80). La malattia del neonato fa sentire dunque in
modo amplificato ai genitori l’essenziale labilità della vita: le
necessità di cura appaiono più legate alla sopravvivenza che al
piacere della relazione. E’ vero infatti che è rarissimo che questi
genitori riescano, nella prima fase, a vedere al di là
dell’handicap, a dedicarsi con il figlio ad attività di gioco,
luogo per eccellenza della creatività, divertendosi con lui e con i
suoi fratelli, meno che mai accade che si dedichino
alla cura di sé (Stern, Stern, 1998; Tesio, 2000; Parrello,
Caruso, 2006). Potremmo
riprendere il riferimento che Winnicott (1971) fa all’Amleto di
Shakespeare in Gioco e realtà per descrivere il drammatico
paesaggio interiore dei genitori in questa fase: “essere o non
essere”, nel senso dell’incapacità di scegliere fra una vita
degna di tale nome ed una trascorsa a “prender le armi contro un
mare di problemi”. Spesso i terapeuti che riescono ad incontrare i
genitori in questa fase li descrivono come terrorizzati e confusi, bloccati in un tempo chiuso e vietato, minaccioso, in cui i
progetti e la libertà di scelta si restringono e si colorano di
incertezza (Clarici, Giuliani, 2005, Gardou, 2005).
Tuttavia
è la donna, dalla quale
soprattutto ci si attende che sia sempre e comunque all’altezza del
compito, a rischiare maggiormente di restare intrappolata nel ruolo di
madre sacrificale che trasforma il figlio disabile nel proprio tiranno
amato e odiato, coinvolgendo drammaticamente gli altri figli in questa
vicenda di smarrimento e depressione. Scrive la
madre di un bambino autistico: “Ho l’impressione di
essere stata incarcerata” (Gardou, 2005, tr. it. 2006, p. 85).
Il
padre, se non prova a competere con la donna –come abbiamo visto-
restando invischiato, può anche scegliere delle vie di fuga,
spostando altrove la scena della propria esistenza. A volte la coppia
si mantiene solo per la paura del senso di colpa: “come si fa ad
abbandonare un figlio ed una madre così?” (Tesio, 2000, p. 42).
Ma l’intimità e la sessualità restano il luogo temibile che genera
mostri.
Il
figlio ammalato - la cui posizione è certo molto diversa a seconda
del tipo di handicap, fisico o mentale, lieve, medio o grave - riceve
dalla madre un rispecchiamento frammentato e distorto, anche in
relazione all’identità di genere. Nel caso delle figlie accade
spesso che la bambina disabile introietti un modello femminile di
“totale disponibilità all’altro, di assenza dei propri confini
(..) se l’ablazione
diventa il metro dell’esserci, anche l’identità di genere diventa
rischiosa. Le donne cresciute in questo progetto di solito aspettano
dall’altro, dal partner, la loro definizione e la loro identità”
(Ponzio, 1998, p. 15).
Gli
“altri” figli cominciano da subito ad avere grandi difficoltà a
interrompere l’attenzione vigile dei genitori verso il fratello
ammalato, quella specie di “incanto” che distoglie la madre e il
padre dai loro bisogni: sperimentano di frequente le tipiche
ingiunzioni a essere forti, come piccoli adulti con una maschera di
competenza, a non essere dunque se stessi ma compiacenti, amplificando
il falso Sé, addirittura a volte a non esistere (Valtolina, 2005;
Dondi, 2008). Le loro pulsioni naturali, rabbia, gelosia, rivalità,
sono sovracolpevolizzate e censurate, e amplificano il senso di colpa
per essere nati sani (Gardou, 2005). La loro capacità di
identificarsi con l’altro sembra rivelarsi un’arma a doppio
taglio: mettersi nei panni del fratello ammalato o dei genitori feriti
può diventare insostenibile e indurre meccanismi di difesa anche
molto rigidi; o condurre a professioni di cura. Nella normalità di
solito l’amore fraterno facilita l’elaborazione delle pulsioni
aggressive e il superamento dell’Edipo (Sommantico, Trapanese,
2008): nel caso di un fratello/sorella disabile questo processo si
complica e, anziché, diventare un ausilio allo sviluppo sano, può
diventare un fattore di rischio. Il radicamento orizzontale (Savier,
1990) si fa più difficile, perché passa appunto per il senso di
mutilazione materna e talvolta per l’impossibilità di considerare
davvero orizzontale il rapporto col fratello/sorella ammalato. Infine,
laddove l’arrivo di un nuovo nato stimola la sana curiosità per il
legame coniugale e per il sesso (Sommantico, Trapanese, 2008), la
nascita di un sibling diverso può connotare di un eccesso di fantasie
negative questa sfera.
Non
mancano, tuttavia, situazioni familiari dinamiche, destinate a
modificarsi ed evolversi, essendo la famiglia un sistema aperto (D’Angio,
Recco, 2006; Parrello, 2008): in costante comunicazione da un lato con
le famiglie di origine, dall’altro col contesto socioculturale. E’
nelle famiglie di origine che entrambi i genitori hanno cominciato a
dar vita, ben prima della loro unione,
ai figli mitico, fantasmatico, immaginario, cui ora non
corrisponde il figlio reale (Lamour, Lebovici, 1991); è in quelle
famiglie che hanno immaginato il loro Sé di adulti maschi e femmine,
ora pieni di vergogna e sensi di colpa. Quei fantasmi possono essere
rivisitati e riconosciuti come tali, di solito in terapia, attivando nuove possibilità di pensare,
significare, simbolizzare, ed anche di dire, raccontare. La creatività,
che secondo Winnicott (1971) raramente risulta distrutta, ma nelle
situazioni traumatiche giace nascosta nel fondo del Sé, può
riemergere.
Proverò
a rendere più espliciti alcuni di questi aspetti usando le parole
delle madri e le parole di un figlio sano, “altro” fratello.
Non è semplice raccogliere i racconti di madri di figli
ammalati e disabili soprattutto a poca distanza dal parto. Quando ci
si riesce, le loro narrazioni hanno un protagonista assoluto: il
figlio.
Negli
ultimi anni ho svolto due ricerche con “madri speciali”: una
analizzando il materiale clinico di colloqui
con madri di bambini e adolescenti disabili afferenti ad un
centro di riabilitazione neuropsicomotoria (Parrello, Caruso, 2002;
2006); l’altra raccogliendo in ospedale interviste narrative di
madri di bambini e adolescenti con distrofia muscolare di Duchenne,
trasmessa in linea femminile solo ai figli maschi e attualmente
incurabile (Giacco, Parrello, Politano, Solimene, 2011). In entrambi i
casi colpiscono sia la voce flebile e profondamente dolente delle
madri, che la caduta di creatività del clima familiare: “i Sé di prima quasi non ci sono più, stravolti e schiacciati da
quanto accaduto; il tempo sembra essersi fermato in una sorta di
incantesimo, che attiva un eterno presente di routines sempre uguali a
se stesse; i cambiamenti sono spesso temuti o negati per paura che
producano nuovi mostri; non c'è spazio per rappresentazioni del
proprio Sé futuro” (Parrello, Caruso, 2002, p. 11). Racconta una
madre:
“All’inizio
credi che… che si devono aggiustare le cose, che lui va meglio, ma
poi alla fine, come in questo periodo che è tremendo (..) tu non puoi
badare alle altre cose in casa e non puoi più badare al marito, non
puoi badare all’altro figlio, devi stare sempre accanto a lui, non
ti puoi spostare.. è una
tragedia (piange)…
che altro le posso dire… se stai a tavola, deve mangiare prima lui
poi devo mangiare io… è un calvario” (Intervista 2 Madri
Distrofici).
E
un’altra:
“cerco
di… cioè di fare una vita normale perché so che lui ha bisogno di
questa normalità.
COME
SI IMMAGINA IL FUTURO? Lui? NO LEI (..)LUI VORREBBE ANDARE
ALL’UNIVERSITÀ? Sì, per adesso non ha ancora deciso dove
iscriversi, è un modo per stare con gli altri, per stare impegnato.
(..) A LEI FA PIACERE QUESTA COSA? Sì sì, a me tutto quello
che lui vuole fare non è un problema anzi mi fa piacere, almeno lui
continua nella sua vita a fare quello che desidera, almeno questo …(Intervista
5 Madri Distrofici).
Poco tempo fa mi sono imbattuta in un memoir particolare
e prezioso: è la storia vera di Bob Smith, stimato attore, regista e
critico shakespeariano contemporaneo, che dedica il suo romanzo
autobiografico alla sorella Carolyn, nata con una gravissima disabilità
mentale. In Italia il libro è uscito col titolo Il ragazzo che
amava Shakespeare (Guanda, 2004; TEA, 2005). E l’arte di
Shakespeare è stata la risorsa straordinaria che ha mantenuto viva la
creatività di un ragazzo statunitense degli anni Cinquanta
schiacciato dal peso di una famiglia stravolta dalla nascita di una
bambina ammalata, da cui, divenuto giovane adulto, ha creduto di poter
fuggire.
L’autore,
giunto all’età di cinquantasette anni, mentre offre le sue Letture
di Shakespeare agli anziani dei centri sociali, decide di
ripercorrere la propria storia,
che ruota interamente intorno alla nascita della “sfortunata
sorellina” e di
due genitori che, fin dall’inizio, gli appaiono “piccoli, vecchi e
sperduti”. La “fragile madre” è nervosa e triste e Bob si sente
impotente. Il padre è un bell’uomo, svalutante e assente. La
presentazione della piccola Carolyn, che porta il nome della figlia
desiderata e fantasticata a lungo dalla madre, è affidato alla nonna
materna, che si farà poi carico
di dare a Bob anche una “spiegazione” dell’accaduto (Loncan,
2007):
Avevo tre anni
quando risalimmo Boston Avenue rivestita di ghiaccio per andare a
prendere la mia fragile madre e la mia nuova, sfortunata sorellina.
Attraverso il nevischio che scendeva obliquo vidi il mio esile padre
tenere in equilibrio un ombrello gigantesco sopra l’infermiera che
spingeva fino al bordo del marciapiede la carrozzella su cui c’era
mia madre – la neonata era nascosta, avvolta in una copertina di
lana rosa. Il giovane viso di mia madre era scarno e inespressivo. La
nonna, seria seria, aprì la grossa portiera della macchina e sistemò
la piccola accanto a me, sul sedile imbottito color grigio scuro, e mi
sussurrò: “ecco la tua sorellina, Carolyn Wells Smith”.
Via via che
aumentavano i problemi di mia sorella e i miei genitori ne erano
sempre più preoccupati, l’unica persona che sembrasse rendersi
conto della mia difficile situazione era la nonna materna. “Robert,
la faresti volentieri una passeggiatina sull’East Main? Ti andrebbe
un gelato, o magari un panino con bacon, lattuga e pomodoro?”
Ma a cinque anni
avevo fatto qualcosa che secondo la nonna andava corretto, perciò lei
e la sorella di mia madre, Claire, un giorno mi presero da parte.
Eravamo sulla soglia della dispensa della nonna, e lei era appollaiata
su una sedia da cucina dipinta di bianco. Allungando la mano verso il
ripiano più alto della dispensa tirò giù una vecchia borsa (..). E
ne estrasse un oggetto avvolto in carta ingiallita. Mentre Claire
l’aiutava a scendere dalla sedia, la nonna tolse la carta e ne
emerse una grossa candela votiva grottescamente distorta.
Venimmo inondati da
una miriade di granelli di polvere che facevano capriole nell’aria,
illuminati dal sole. (..)La nonna mi passò la grossa candela
usata.“Guardala molto attentamente” mi disse in tono garbato,
mentre la mia zia “nubile” continuava ad allargare e
stringere gli occhi come faceva sempre per far capire la serietà di
un discorso.
“L’ho accesa ed
è rimasta accesa per tutto il tempo che hai impiegato tu a venire al
mondo” proseguì la nonna a bassa voce. “Ti ci son voluti due
giorni e due notti! Tua madre soffriva moltissimo e non c’era verso
di farti nascere. Eri troppo grosso, pesavi troppo. Tua madre soffriva
e tu niente, non nascevi, le facevi solo male. Quando poi è arrivato
anche per Carolyn il momento di nascere, lei non riusciva a farlo
perché tu avevi rovinato la mamma… là sotto”.
La mia mente di
bambino di cinque anni cercò di soffermarsi su quel concetto. (..) Allora là sotto è tutto rovinato!... Il nonno diceva:
“Non dategli altra torta, lo rovinate”. Lo rovinate! Rovinavano
me?Là sotto? Là sotto? “Carolyn non riusciva a nascere perché io
sono rovinato. “Ma io non sono rovinato! Non faccio mai niente di
male, io! Aiuto sempre. Mi comporto bene in chiesa, gioco solo un
po’ con la gente inginocchiata. Non mi lasciano fare pipì finché
la messa non è finita. Devo “tenerla" finché non mi fa male là
sotto! Piango insieme alla mamma quando lei piange per Carolyn e perché
papà è nell’esercito. Lei dice che lui mica ci era costretto, ad
andare, però non sopportava tutti quei pianti.
Naturalmente
pensavo che l’accusa della nonna fosse vera, che in qualche modo io,
per mia scelta, per egoismo, non avessi voluto nascere, e quindi
avessi rovinato la mia sorellina. Per molti anni sentii versioni
disorientanti di quel che era successo a Carolyn.
(..) avrebbe smesso
di piangere? E avrebbe smesso anche la mamma? E la gente avrebbe
smesso di dirmi di fare il bravo, specialmente adesso che dovevo
essere “un maschietto e anche una femminuccia”? e papà sarebbe
tornato a casa?
Quando avevo
quattro anni mio padre era entrato nell’esercito
– “per essere un uomo”, diceva mia madre. Secondo lei lui
l’aveva abbandonata, e probabilmente in effetti per un po’ di
tempo lo fece. Se ne andò perché tutti quanti piangevano in
continuazione.
In tutti i momenti
peggiori in cui mia madre stava male e mio padre era in guerra (..)
sognavo che lui tornasse a casa e ci rendesse la vita vivibile, che
potessimo ridere di nuovo, e magari divertirci. Volevo andare al mare
con mio padre.
Avrei voluto essere
esattamente l’uomo che credevo fosse mio padre.
Il messaggio era
chiaro però: per ottenere l’approvazione di mio padre avrei dovuto
diventare bravissimo nel dare a intendere che non avevo bisogno di
niente.
A un certo punto la
mamma cominciò a fare discorsi da grandi con me. Nel suo terribile
bisogno di sfogarsi, raramente notava quanti anni avessi o non avessi.
(..)
Si mise a far
pulizia in modo maniacale. Continuamente, con un accanimento
patologico, sfregava ogni oggetto della casa, anche più volte al
giorno. Aveva la sensazione di aver fatto qualcosa che avesse
distrutto il cervello e il corpo di mia sorella e avesse fatto andar
via mio padre. Secondo lei, era tutta colpa sua. Io invece pensavo che
la colpa fosse soltanto mia. Passavamo un sacco di tempo a sentirci
colpevoli, e lavavamo le cose.. Per mantenere l’illusione di avere
il controllo della situazione, lei puliva tutto il giorno, e anche di
notte. (..) Provavo per lei una autentica venerazione. Avrei fatto di
tutto per alleviare il suo pianto e la sua profonda tristezza.
Circondato da donne sole, sofferenti, che indirizzavano tutta
la loro frustrazione verso la mia vocazione (al sacerdozio), e
in assenza di un padre yankee in grado di bloccarle, stavo ormai
andando in quella direzione. La mamma, la nonna e la zia Claire
avevano cominciato a conficcare chiodi dorati nella bara
dell’immagine mascolina di me stesso.
Ma il padre di Bob
tornerà: nonostante sia molto svalutante con il
figlio -ritenuto non abbastanza mascolino perché irretito
dalla madre affinché la sostenga emotivamente ed assuma il ruolo di
caregiver della sorella- il
padre riuscirà in qualche modo a far da argine al dilagare di quel
femminile troppo dolorante e colpevolizzante. Non abbandonerà mai
Carolyn, neanche dopo la sua istituzionalizzazione a diciotto anni; e
non abbandonerà neanche la moglie, pur ritagliandosi dei
sistematici misteriosi martedì altrove. Di fatto alimenterà
nel figlio il desiderio di cercare risorse per sé fuori dalla
famiglia:
La verità è che
di me non si curava nessuno. I miei genitori sembravano sopraffatti,
in tutt’altre faccende affaccendati, e paradossalmente speranzosi
che trovassi un modo per scappare da loro, e da Carolyn.
I litigi erano
schermaglie di una guerra lunga una vita
provocata dalla vergogna. I miei genitori non facevano troppe
domande sul significato delle cose.
Qualche strana inarrestabile ricetta a base di fato, natura,
Dio, peccato, castigo e ‘semplice malasorte’, così diceva mia
madre, colpiva l’esistenza di tutti. La sfortuna, non era altro che
questo, sfortuna. Una vita difficile era qualcosa che ‘si affrontava
alla meno peggio’.
A diciassette anni Bob
Smith, adolescente solo e tormentato,
si imbatte in Shakespeare: prima attraverso i
testi della biblioteca comunale, poi nelle rappresentazioni del
teatro della sua città, laboratorio di magia in cui comincia a
fare il servo di scena aiutando gli attori a indossare i costumi.
Ho una sorella
malata. La cambio in continuazione. Molto in fretta, perché si
spazientisce. Credo di poter fare il servo di scena.
E’ affascinato da un
mondo nel quale la parola ha un potere straordinario, riuscendo
finalmente a significare il mondo interno:
Credo che più
confusi si è dentro, più si ha bisogno di credere in qualcosa fuori.
Avevo un disperato bisogno di appoggiarmi a qualcosa che fosse più
grande di me, ed era chiaro che William Shakespeare capiva com’era
soffrire senza neppure sapere perché.
In casa nostra
vigeva la regola del silenzio. Come molta gente, evitavamo di parlare
delle cose di cui più si sarebbe dovuto parlare. Shakespeare diventò
così il mio linguaggio segreto, una lingua antica, remota, in
caratteri cuneiformi che, in un certo senso, mi rendeva più visibile
a me stesso.
Mi era stato
consentito di accedere alla magia, ero stato invitato a scoprire
l’altro lato delle parole.
Vedevo la mia vita,
la mia sorella indifesa, il mio papà arrabbiato, la mia mamma ferita
che si ripiegava su se stessa sotto il peso della sventura.
Amleto mi faceva
compagnia, quanto ai sensi di colpa.
Osservare troppo può
rendere passivi e spaventati. Ne sa qualcosa Amleto!
Si chiedeva se la
vita valesse la pena di essere così
faticosamente vissuta. A quel tempo, un paio di mesi prima del mio
diciassettesimo compleanno, il problema di Amleto era una cosa che
m’interessava in modo patologico.
(Sulla scena) mentre
Bolingbroke scherniva Riccardo, l’aver visto per anni mia sorella
derisa dalla gente scatenava in me un pianto dirotto: la mia
solitudine si fondeva con quella del povero, triste Riccardo di
Bordeaux. (..) e ogni volta quella sofferenza mi faceva male e nel
contempo mi guariva.
La mamma (..) a un
certo punto aveva cominciato a esaminare la propria tristezza. Come
un’eroina shakespeariana aveva cominciato a studiare se stessa.
Finalmente anche la
fragile madre trova la forza per vedere l’altro figlio e sostenerlo
come sa:
Questi sono gli
anni migliori della tua vita, e si è giovani una volta sola,
ricordatelo!
Tuttavia Bob fatica
ancora a godere della sua nuova vita:
Ogni volta che
passavo dei momenti piacevoli di qualsiasi tipo pensavo sempre a
Carolyn, e quel pensiero si portava via tutta la piacevolezza della
situazione.
Come Lady Macbeth,
mi portavo addosso i sensi di colpa da quando avevo sei anni.
Mia sorella era
pura, io ero umano, maschio e cattivo.
Il rapporto fraterno
non adeguatamente mediato dagli adulti sembra ancora schiacciare Bob.
Anche la sua iniziale curiosità per il sesso, sanamente attivata
dall’arrivo della sorellina, è gestita in modo inadeguato dalla
madre e dalla nonna: incapaci di reggere alle domande del bambino,
restituiscono un’immagine della sessualità densa di misteri e
colpe, spesso spostate sugli uomini.
Da anni (mia
madre) aveva preso l’abitudine di parlarmi degli uomini come se
non fossi stato un uomo anch’io: ‘sai come sono gli uomini’diceva
con un gran sospiro, come se fossimo stati entrambi degli emarginati
delusi(..) Tuo padre (..) si è preso i martedì! E c’è di mezzo
una donna, so che è una.. Ah, gli uomini!’ concludeva con un
sorrisetto sarcasticamente idiota.‘Non riescono a farne a meno, non
riescono a vivere senza’.
Ma a volte neanche il
padre lo aiuta a venir fuori da quel labirinto femminile: un giorno
irrompe nella stanza del figlio e scopre che si sta masturbando.
Come al solito, non
mi guardò. ‘Potrei raccontare quel che hai fatto, sai. Potrei dirlo
a tua madre. Ti immagini cosa penserebbe, se lo facessi?. Come un
fratello maggiore geloso in vena di tormenti, minacciò tutto allegro:
‘Potrei farlo, e magari lo farò, e allora chissà cosa penserà di
te”. Poi finalmente mi guardò e sorrise. Era bello, mio padre, con
quei capelli neri e quegli occhi scuri come quelli di sua madre.
‘Proprio così, ti disprezzerà, e tu non avrai un amico al
mondo!”. Affondai le unghie nel palmo della mano per cercare di non
piangere, di non comportarmi da femminuccia. Naturalmente lui aveva
ragione, non avrei avuto un amico al mondo. Non avere un amico al
mondo, tranne mia sorella, fu la caratteristica della mia infanzia.
Eppure Bob ce la farà,
anche se l’istituzionalizzazione di Carolyn sarà un nuovo trauma
per lui, lacerante al punto da impedirgli di andarla a trovare per
quarant’anni. Il libro si chiude proprio con la scena del loro
ritrovarsi toccante e tardivo.
Bob Smith sostiene di
aver usato Shakespeare come “un’armatura”, forse, diremmo noi,
come un’autoterapia, che gli ha
consentito di riappropriarsi della bellezza della vita , rendendola di
nuovo degna di essere vissuta. Le eroine shakespeariane
gli hanno permesso di fare i conti con le donne dolenti e
smarrite della sua famiglia, che –possiamo immaginare- erano donne
che avevano investito la propria femminilità quasi totalmente nella
maternità. Quanto a Carolyn, con lei
Bob è stato costretto ad una intimità forzata fin da piccolo,
dovendola cambiare, pulire, accudire come non dovrebbe fare un
bambino.
L’atmosfera era
impregnata di un malessere inquinato mentre Carolyn ed io ce ne
stavamo seduti per terra davanti alla porta della camera da letto dei
miei genitori.
“Mi occorre un
po’ di the per le mie pillole” sussurrava mia madre,
oppure”Potresti prepararmi un po’ di minestra? Non riesco quasi a
vedere, tanto mi fa male la testa”, ed io sapevo che era proprio così.
(..)”Sei proprio un bravo bambino.. posso sempre contare su di te.
Senti puzza? Oddio no, un’altra volta! Sei proprio un bravo bambino.
Non so cosa farei senza di te. Non dimenticarti di pulirla bene…”.
Si potrebbero scrivere sulla mia lapide queste parole: ‘NON
DIMENTICARTI DI PULIRLA BENE’.
Per riemergere da
questo mondo femminile malato Bob deve riuscire a comprendere che le
mutilazioni e le menomazioni non impediscono alla nonna, alla zia,
alla madre e persino alla sorella di vivere in autonomia:
Lei adesso era una
persona a sé stante. Non era più la persona che noi avevamo bisogno
che fosse. Lo capivo dal suo volto, dal suo corpo, dalle persone che
le stavano intorno: mia sorella aveva una vita sua, una vita reale,
una vita bella e piena.
Si stemperano così
gli echi delle colpe. Anche la vita di Bob può rifluire.
Note
dell'Autrice:
“non potersi dire” è un segnale
di allarme, un segno di malessere, un dato clinico (..). La nostra
pratica ci pone di fronte ogni giorno madri che soffrono nella più
grande solitudine. E questo non perché siano sole, ma perché
nella società attuale (..) la loro sofferenza non può
esprimersi. Tutti devono offrire prestazioni, mostrarsi
all’altezza, a cominciare dalle madri che devono dimostrarsi
capaci indipendentemente dalle circostanze, di risollevarsi
indenni da questo passaggio da donna a madre (Marinopoulos, 2005,
tr. it. 2008, p.21).
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