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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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     "LA PERDITA" 

 

 

 

   di Barbara Massimilla

 

 


Questo testo è l'introduzione, scritta dalla curatrice, del libro "La perdita. Lutti e trasformazioni" (Vivarium, 2011) ( www.vivarium.net )che, grazie alla gentilissima autorizzazione della curatrice, abbiamo il piacere  di ripubblicare sulla rivista di psicoanalisi Frenis Zero. La foto di copertina è una riproduzione di un fotogramma di un video di Bill Viola. 

Martedì 17 maggio il libro sarà presentato presso il "Museo Nuovo Macro" a Roma (Via Nizza angolo via Cagliari, alle ore 19.30). Relatori: Antonella Anedda (poetessa e scrittrice), Stefano Carta (psicanalista AIPA), Cristina Comencini (regista cinematografica), Ludovico Pratesi (critico d'arte)

 La perdita. Lutti e trasformazioni

 

a cura di Barbara Massimilla

 

Biblioteca di Vivarium, Milano 2011

ISBN 978-88-95601-12-0

pp. 248, € 20,00.

Barbara Massimilla è psicologo analista (A.I.P.A.). Ha pubblicato numerosi articoli su riviste di psicoterapia e psicoanalisi interessandosi in particolare al tema delle psicosi e delle relazioni tra parole e immagini. Redattrice della Rivista di Psicologia Analitica per la quale ha recentemente curato L’anima dei luoghi (2009). Coautrice del libro Psicosi e psiconauti (2009), a cura di A. Malinconico, Ed. Magi. Redattrice e curatrice della rivista Eidos – Cinema, psyche e arti visive, che ha fondato con un gruppo di psicoanalisti junghiani e freudiani ed esperti di cinema. 

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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EDIZIONI FRENIS ZERO

 "Psicologia dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

Prezzo/Price: € 18,00

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OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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Chi avrebbe infatti creduto che lui, Tommasino Unzio, da qualche tempo in qua, nella crescente e  sempre più profonda sua melanconia, si fosse preso d’una tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza saper perché, in attesa del deperimento e della morte? Quanto più labili e tenui e quasi inconsistenti le forme di vita, tanto più lo intenerivano, fino alle lagrime talvolta. Oh! In quanti modi si nasceva, e per una volta sola, e in quella data forma, unica, perché mai due forme non erano uguali, e così per poco tempo, per un giorno solo talvolta, e in un piccolissimo spazio, avendo tutt’intorno, ignoto, l’enorme mondo, la vacuità enorme e impenetrabile del mistero dell’esistenza. Formichetta, si nasceva, e moscerino, e filo d’erba. Una formichetta, nel mondo! Nel mondo, un moscerino, un filo d’erba. Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!”

 

Canta l’Epistola,   L. Pirandello

 

 

Nel lutto interiorizzato, quasi non ci sono segni.

E’ il compimento dell’interiorità assoluta. Eppure,

tutte le società sagge hanno prescritto e codificato l’esteriorizzazione

del lutto.

Malessere della nostra, per via del fatto che essa nega il lutto.

 

Dove lei non è,   R. Barthes

 

 

 

 

La perdita, perdersi, perdere. Dimensione fisica e psichica sono ineluttabilmente intrecciate nella realtà della perdita che non dà scampo all’essere. Dalla culla alla tomba, ci confrontiamo dolorosamente con tutto ciò che non ritornerà. A Palermo, in un luogo incredibile che è la cripta dei Cappuccini, un popolo di scheletri ‘vive’ nei cunicoli sotterranei, ci si sente osservati dalle loro presenze, mentre si vaga e ci si domanda increduli come il culto dei morti possa aver sconfinato  nella surrealtà. La morte si è fermata e non è passata oltre, non si è dissolta nell’invisibilità dell’oblio, né è stata archiviata nelle maglie della memoria. In una nicchia, nella sezione delle morti premature, c’è il corpo di Rosalia, aveva due anni nei primi del novecento, quando la sua vita finì.

La cosa stupefacente è che Rosalia, immagino attraverso una procedura di imbalsamazione, è rimasta com’era: congelata in un delirio di vita, intatta e bella, a ricordare come sarebbe stata da viva. Un’immagine diversa della morte, che rappresenta l’insopprimibile inquietudine che l’uomo prova nei confronti della perdita e il disperato tentativo di remare contro corrente e di fermare ciò che non è più. Quando l’essere cessa di esistere e la vita viene tolta, si è avvolti da un doppio mistero, quello della vita che appare e scompare. La vita, espressione di un’energia attiva rispetto al fluire dell’essere, volge naturalmente a una fine. La morte – ricorda

Jung – non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e sconosciuto processo vitale. Ma quello della morte è solo un aspetto della perdita. In tutte le età della vita ci confrontiamo con l’esperienza della perdita, questa transizione complessa dipende dalle modificazioni che la psiche individuale può accettare di compiere e dal suo potenziale di trasformazione. Anche se è un “paragone imperfetto”, l’allegoria del corso quotidiano del sole, citata da Jung, descrive dallo zenit all’estinzione il viaggio del sole che “ritira i suoi raggi per illuminare se stesso, dopo aver diffuso la sua luce sul mondo”, il sole dopo aver illuminato la terra tiene per sé i suoi raggi (1). Lo “scopo naturale” della vita sarebbe dunque quello di “acquisire” attraverso la perdita una nuova dimensione, o meglio, attraverso l’elaborazione e la significazione della perdita. Nessuna età della vita può essere trascinata nella successiva, ciascuna deve perdere qualcosa che non potrà più appartenerle.  Ogni età troverà nel suo svolgersi elementi unici e nuovi, ma si dovrà mantenere ben ferma la memoria del passato, come flusso vitale continuo e indivisibile, viaggio attraverso il quale si dipana un’intera esistenza. Diversamente  la curva della vita psichica sembra resistere ad adattarsi a questa legge naturale – mentre nel restare immobili con lo sguardo, fissati indietro, ci si pietrifica (2).

In “Primordi e sviluppo del lutto originario”, P.-C. Racamier  descrive il lutto originario come processo e attraversamento, sempre all’opera nelle diverse età della vita. Il lutto originario inizia quando il bambino appunto “volgerà le spalle” alla madre ed accetterà di perderla, avviando così la perdita dell’illusione di onnipotenza e appartenenza totale all’unità duale con la madre (3). Tale iniziazione al lutto, nell’arco dell’esistenza, rifornirebbe la psiche di capacità specifiche essenziali al confronto con la realtà della perdita. Nel mito è Atropo, colei che ha il compito di tagliare il filo con la vita; l’immagine allegorica delle forbici evoca “un gesto originario”, che ha la proprietà di aprire e chiudere la vita: la fine e l’origine coincidono in un unico gesto e “i due fantasmi inversi e interconnessi di auto-generazione e di dis-generazione” sembrano unirsi.

Perdita, trasformazione e generatività  sono intrecciate nell’esperienza del vivere e, in quanto forme di esistenza, non cessano mai di interagire nella psiche.

L’intento di questo libro è di vagare idealmente sull’invisibile bordo di un centro, per acquisire visuali più ampie, su un tema che non può essere ridotto alle sole conoscenze psicoanalitiche. La sua lettura offre un mosaico di esperienze intorno a un discorso così universale ed è proprio la valorizzazione dell’esperienza il motore centrale delle riflessioni sul tema.

Il comune denominatore di una panoramica così eterogenea è, dunque, rappresentato dall’esperienza da cui origina ogni singola voce: toccanti testimonianze che nascono dalla vita di ciascun autore e si pongono come fondamento essenziale e necessario per radicare in profondità una riflessione. Storie drammatiche, legate a traumi personali che l’elaborazione, la condivisione e il linguaggio poetico hanno potuto lenire e infine trasformare... Per questo sono infinitamente grata agli Autori che mi hanno permesso di condividere aspetti così privati della loro soggettività.

Esplorare aree complesse della realtà interna, decostruire aspetti difensivi, svelare emozioni e affetti: queste sono le caratteristiche di un viaggio autoanalitico e riflessivo.  L’effetto unificante del tema ha consentito un’articolazione tra linguaggi di autori di differenti appartenenze, sulla base di un “sentire originario” comune. Ciò che sarebbe potuto apparire un punto di disunione, ha invece attivato un’energia aggregante. In più punti del discorso, il corpo, che con la sua realtà è una delle leve su cui poggia la perdita, affiora nello stile di un linguaggio incarnato come quello del testo: “Le parole che toccano” di D. Quinodoz, quelle cariche di sensorialità, che l’analista pronuncia per raggiungere l’altro, langage qui touche (4). Per questo stesso motivo, la presenza dei poeti, delle loro

parole che ci toccano, e di un artista come Bill Viola – con le sue immagini sospese tra spirito e carnalità – mi è sembrata indispensabile. Parole e immagini nel silenzio dell’ascolto arrivano diritte al cuore. La dimensione della perdita si sente, si respira.

Proprio nell’intervento di Bill Viola si completano a vicenda il testo intenso e poetico con le immagini offerte dall’autore contemporaneo.

E’ un’arte di emozione quella di Bill Viola, che per essere compresa sino in fondo necessita, come afferma Cynthia Freeland, della “categoria filosofica del sublime” che lega sentimenti estremi al valore estetico dell’evento (5). Le sue opere affrontano i grandi temi: la vita, la morte, il perché dell’esistenza. Entrano in contatto con il pubblico attraverso canali tanto viscerali o emotivi, quanto intellettuali: la loro visione presuppone una durata e uno sguardo assorto e non promettono “soddisfazioni e rivelazioni immediate”. L’immagine delle opere di Viola, animata da movimenti impercettibili, galleggia lentamente nello sguardo dell’osservatore, attivando una miriade di sensori mentali e fisici, che attingono al tempo e allo spazio delle proprie vite, invitando l’altro alla profondità del sentire… “Viola produce sogni, eppure, ci sfida a sognare, ad avventurarci oltre ciò che viene offerto” (6).

La cover di questo libro è dedicata all’opera di Viola “Observance” (2002). “In Observance l’autore dà vita a una manifestazione di dolore molto coinvolgente. Una fila solenne di persone addolorate è incorniciata in uno schermo alto e stretto, come la sezione di una pala d’altare. I personaggi arrivano lentamente in cima alla fila e sostano un attimo di fronte a una terribile visione. Dire “lentamente” è riduttivo: la processione è estremamente rallentata e quindi il movimento quasi impercettibile. Anche se guardano nella nostra direzione, i personaggi non vedono noi, ma qualcosa di atroce, tragico e luttuoso, qualcosa di terribile che non conosciamo. Tutti hanno un aspetto normale e sono rappresentativi di diverse fasce d’età e gruppi etnici, accomunati solo dal bisogno di essere testimoni e di rendere omaggio. Ciascuno si presenta davanti a tale visione di dolore assoluto, presagito ma ancora ignoto, da solo. Possiamo osservare nel dettaglio le fasi della loro preparazione mentale e dell’angoscia” (7). Sembra impossibile non vivere come reale il dolore espresso da queste persone, sul loro volto si legge una nuova consapevolezza del mondo. Viola ritrae la vulnerabilità umana, il nostro intimo bisogno di prendere atto della perdita e in qualche modo di poterla superare.

L’artista ha affermato che molte delle sue opere sono scaturite da una prolungata e continua elaborazione della morte dei genitori. Nel suo toccante articolo ci fa dono di questa sua dolorosa esperienza: “La perdita di una persona cara – scrive – ci insegna il valore e la sacralità della vita umana e la presenza permanente dell’amore”. Il lutto della madre, seguito dalla nascita di suo figlio, gli rivelano un “insegnamento fondamentale”:

“nascita e morte vengono al mondo nello stesso istante. Non sono fermalibri della vita come ero stato indotto a credere. La morte è una presenza costante, una compagna di vita. Le due non possono esistere l’una senza l’altra”, come “il giorno segue alla notte in un ciclo eterno”.

Lo spazio sacro della nostra interiorità ci permette di dialogare con il cosmo infinito, di rendere presente l’assenza, il mistero dell’esistere sospeso tra il vivere e il morire.

Viola desidera creare nelle sue opere “uno spazio, una rappresentazione assolutamente reale e oggettiva del luogo dove risiede la morte, o addirittura realizzare un’opera non sulla morte ma sul luogo oltre la morte” (8). Questo luogo si colloca nella forza dell’immagine in qualità di rappresentazione: nel potere dell’immagine di trasformare la materialità del mondo, di rievocare l’oggetto anche quando esso è perduto.

Sono le stesse riflessioni dell’artista a descrivere l’epifania di un’immagine soggetta a un processo di trasfigurazione nel quale la dimensione interiore dell’oggetto o di un essere vivente si trasforma in contenuto simbolico. Tale consapevolezza avviene in seguito al lutto della madre, quando il suo sguardo scopre osservando le montagne viste da sempre nello skyline dell’orizzonte “un’immagine invisibile, un’immagine che risiedeva in un luogo al di là della vita e della morte, l’essenza di qualcosa di eterno”.

A proposito di visioni interiori, del nostro sguardo sui paesaggi naturali che abbracciano le nostre vite e da cui un giorno ci separeremo per lasciarli perennemente immobili al di là di noi, vorrei ricordare il rapporto che il pittore Cézanne ebbe con la vetta di Mont Sainte-Victoire, vicino ad Aix. La montagna, oggetto delle origini, fu dipinta molte volte, dalla giovinezza all’età anziana, e la sua rappresentazione mutò nel tempo, dai brillanti colori delle prime tele, sino ad approdare ad un’immagine essenziale e rarefatta, sino a diventare un luogo sempre più lontano e inaccessibile, quasi ombra bianca sulla tela. La perdita del tempo della vita, viene così raffigurata da Cézanne attraverso la smaterializzazione della montagna e la sua progressiva simbolizzazione. La montagna nello sguardo dell’artista  si svuota di vita terrena, per raggiungere, come scrive Viola, l’essenza di qualcosa di eterno.

“Memoria” (2000), l’opera scelta da Bill Viola per il suo articolo, allude alla fragilità dell’esistenza, alla “brevità della vita in un mondo a mala pena illuminato, sgranato, aggrappato a un sudario di seta” (Kira Perov).

L’immagine tremante del volto umano personifica l’atto del ricordare, come i ricordi potrebbe sparire da un momento all’altro e cadere nell’oblio, gli occhi sono inghiottiti dall’oscurità, ma è una cecità che fa luce all’interno del Sé.

Viola parla di digiuno degli occhi. Jacques Derrida nel libro “Memorie di cieco, l’autoritratto e altre rovine”, descrive il disegnatore come un cieco “senza occhi” ma nonostante tale cecità, il pittore può essere veggente, e avere vocazioni da visionario. Il perdersi nell’erranza assoluta non è privo di rischi e cadute, con gli occhi chiusi ci si abbandona ai fantasmi e al lutto della vista, ma spingendosi al di là della percezione si vede senza vedere (9). “Memoria” sembra dirci che le visioni interiori di Bill Viola nascono da questa forma di cecità.

Infine ancora un’altra opera di Viola altamente significativa per il tema della perdita, che ha ispirato la poesia di Antonella Anedda dedicata in questo libro al videoartista, si tratta di “Ocean without a shore”. Nel 2007 il video è stato presentato alla Biennale di Venezia nello spazio raccolto della chiesa quattrocentesca di San Gallo, sotto forma di un trittico installato sui tre altari della chiesa. In un ciclo che si ripete senza fine, singoli individui uscendo dalle tenebre varcano una soglia, una parete invisibile di acqua e luce per incarnarsi nel mondo fisico, prendere coscienza dei loro limiti e infine ritornare nel regno delle

ombre.

Nei riti d’iniziazione sono racchiusi l’atto dell’iniziare e quello del varcare la soglia. Il mito dell’inizio diventa dunque l’emblema di quella linea di confine in cui s’intrecciano di continuo i valori individuali e quelli intersoggettivi, un percorso ininterrotto di morti e rinascite che plasmano nel loro avvicendarsi l’identità, unità dinamica dell’essere, mai conclusa sino alla fine della vita ed anche oltre narrerebbero le opere di Viola… “Ocean without a shore” potrebbe essere letto come l’allenamento all’iniziazione che il Sé di ogni uomo deve compiere per elaborare nell’arco della vita il lutto originario, la dimensione archetipica della perdita.

 

 

Sentire e pensare la perdita; il confronto con il dolore e il valore della condivisione; la traduzione della perdita in un linguaggio artistico e poetico – nel libro, tutti questi nuclei confluiscono liberamente al centro di un’area comune i cui vertici ideali si basano sui concetti della perpetua trasformazione, del transfert, della creatività.

Gli scritti degli autori psicoanalisti non evocano una psicoanalisi astratta e rigidi confini concettuali, ma si muovono piuttosto lungo i margini di un’invenzione-intuizione, che illumina la dimensione soggettiva nell’atto di ‘osservare’ introspettivamente la perdita.

Lutti e trasformazioni sono all’opera in ciascun contributo e in senso interattivo anche il lettore, se vuole, può entrare in risonanza affettivamente, pensando alla perdita, alle proprie perdite.

 

Nei “Destini della perdita” De Silvestris sembra porre la sua tesi nella frase di Freud: “L’ultimo brandello di transfert – dopo molti baratti – si esaurisce solo con la morte”. Un transfert sempre all’opera sino alla morte. La capacità di gioco dei bambini e le vite degli artisti, l’espressione della creatività, possono aiutarci a comprendere meglio questo concetto di transfert che può attraversare l’esistenza. Anche Fraire e Rossanda ne parlano, riferendosi al “fare solitario e salvifico” dell’artista.

Sul destino della perdita in analisi, il caso clinico di una bambina che subisce il lutto materno, nella complessa cornice del pubertario, è un mirabile esempio di come l’analista possa accompagnare il paziente nell’avviare un processo di elaborazione della perdita. La trasformazione prende forma nei delicati sentimenti transferali del paziente e dell’analista, illusione e graduale disillusione ripercorrono nel corso della terapia il pensiero di Winnicott e non scaturiscono da “una competenza tecnica, ma dall’incontro della storia  del percorso personale del terapeuta con la storia personale del paziente”. La perdita subita dall’altro rispecchia le perdite dell’analista, seppure indicibili, sopportate nello spazio privato del Sé.

La costruzione di un’area comune, tra capacità di illudere e disponibilità a illudersi, in cui oscillano aspetti di unione e separazione, permette ai bisogni separativi di non irrompere in modo esplosivo.

E’ la modulazione del transfert nella mente dell’analista che consente in parallelo l’elaborazione del lutto.

La perdita nel cammino delle sue trasformazioni, prosegue il suo corso, veramente come si trattasse di un fiume in piena, nel lavoro coinvolgente e coraggioso di Ravasi. Se chi ha elaborato nell’infanzia la posizione depressiva può affrontare meglio le esperienze luttuose della vita, nella storia di Virginia Woolf, invece, il distacco dal vuoto depressivo non fu mai tragicamente possibile.  Anche per lo scrittore Cunningham ed il regista Daldry il corpo di Virginia galleggerà senza vita, nel libro come nel film, nelle acque limacciose di un torrente. Ma l’ispirazione letteraria, come quella filmica, è utile all’autrice per entrare e farci entrare nella stanza dell’analisi e nella storia ininterrotta della sofferenza, scandita dalle “ore” delle sedute. Le ore che oscillano come riflessi sull’acqua nel doppio movimento del perdere e del trovare. Una stanza piena di silenzio dopo che tutti vanno via, e allora molto resta racchiuso nella stanza più intima dell’analista, la sua caverna interna, quella che anche la Woolf scavava dietro i suoi personaggi, quella dove la sofferenza dei pazienti si deposita, e l’analista tenta di dare forma alla “frantumaglia”, di imprimere senso, narrazione, trasformazione al dolore psichico dell’altro. Anche se spesso, per molti casi clinici, “non ci sono cunicoli di riserva e ci si ritrova avvinghiati, magari insieme, a un arbusto nel fiume”. “Un’unica storia con tanti personaggi, ma una sola protagonista, la perdita”, così si potrebbe dire del lavoro dell’analisi; come sottolinea pure Baldassarro: il concetto di perdita sottende costantemente le teorie analitiche.

Ravasi è riuscita a descrivere la fatica e la solitudine dell’analista nell’essere sempre esposto in quel fiume dove “tutto è lasciare”, in quel fiume in piena di ore che attraversano la vita professionale, ma la perdita nel mestiere dell’analisi “può stare nella vita, facendosi memoria”.

Le memorie della perdita diventano per l’analista materia permanente di autoanalisi. Le emozioni che l’analista prova durante la seduta costituiscono uno strumento di conoscenza.

Da quella caverna, l’infinito del cielo e la finitudine di un bottone saranno restituiti al paziente, e le parole dette in analisi, quelle di maggior forza, verranno trascritte nell’inconscio “per sempre”.

E ciascuna storia analitica non sarà mai uguale alle altre, ogni incontro è unico per la mente dell’analista. Vorrei citare a questo proposito alcune riflessioni di Stefano Carta: “Ciò che propaga senso è il gesto irripetibile, la parola gridata o sussurrata una volta soltanto, il tempo della nostra vita, dei nostri giorni, dei nostri istanti, che è destinato a non tornare più. (…) il senso si dà solo dentro esperienze irriproducibili. La singolarità dell’esperienza significante è legata alla caducità, che potenzialmente rende ogni cosa preziosa proprio per la sua iscrizione entro un costante lavoro di lutto”.

Appare ancora una bambina in questo articolo: è colei che piange “lacrime di frantumaglia”, perdendosi nell’indecifrabilità del dolore materno. Non è un caso che sia De Silvestris che Ravasi parlino dell’infanzia afflitta da lutti precoci. Le conseguenze di questi traumi possono protrarsi anche nell’arco delle generazioni. “Sono figlio di un figlio morto”, diceva freddamente un paziente a J.-B.Pontalis, che ne parla in quel piccolo cammeo: “Quando la morte precipita nell’anima”. Era stato designato come figlio “sostitutivo”, perché la madre aveva perso un bambino qualche tempo prima della sua nascita. Nessuno lo aveva generato, ma manteneva una fedeltà mortale “a quell’occupante inanimato, a quell’assente eternamente presente” e ciò aveva congelato il suo vivere (10).

Vi sono casi in cui lutti precoci possono segnare dolorosamente l’esistenza di chi sopravvive e segnare il destino di un futuro artista. Penso al pittore Morandi che perse da piccolo un fratello, e alla poetica degli oggetti inanimati che rappresentò nelle sue opere. Rappresentazioni cariche di memoria, che fissano a mio avviso, nella trasparenza dei segni, la materializzazione in forma simbolica della perdita.

Il ricordo di una morte precoce affiora dall’infanzia della poetessa Antonella Anedda. La giovane donna era morta, vicino a lei la figura

sacra del Bambino divino dalla corona scintillante ed una bambina di sette anni che assisteva impotente alla morte. “Tutto era silenzio” (…) “Le opere inutili”.

“La morte sarebbe sfrecciata via e poi tornata e poi fuggita di nuovo fino a fermarsi un giorno su chi quel giorno era predestinato” scrive l’Anedda.

Quanta consapevolezza della finitudine può crescere nella mente di un bambino che assiste prematuramente al morire di un proprio caro…

Traumi incancellabili che la parola poetica può rievocare a causa di movimenti emozionali profondi. Non c’è “bisogno di gesti” ma solo di “stare” nel ricordo e accarezzarlo con le parole. Il linguaggio poetico si commenta da sé, non ha bisogno di nulla, soltanto di essere ascoltato col cuore, e in silenzio.

Una morte prematura ricompare nella poesia di Valerio Magrelli. Un giovane ucciso su una strada da un auto pirata, poi dileguata nel nulla in un pomeriggio di dicembre, lasciando Nicklas morente sul ciglio di una curva.

Il sacrificio di un innocente prima di Natale, la sua vita data in pasto alla malvagità. Quel dolce ragazzo non è più qui. Il sole che era in lui si è spento. Torna un riflesso della sua umanità e bellezza nei nostri ricordi assieme all’incancellabile dolore di averlo perduto.

Come Nicklas, quanti altri gesucristi giacciono per sempre a causa della violenza umana… per chi resta travolto non c’è scampo, per chi li ha amati sopravvive solo la speranza di una rinascita e il rispetto per il valore assoluto della vita, ma una fiducia nell’esistenza può essere recuperata solo per gradi mentre prima si è abitati a lungo dall’amore e dal dolore, dall’acuta presenza dell’assenza.

Ancora una citazione poetica per dare forma e profondità al discorso della perdita da un libro postumo di Roland Barthes (11).

All’indomani della morte della madre Barthes inizia un diario. Una narrazione che scandisce quotidianamente le fasi dell’elaborazione del lutto, anche se lui non avrebbe mai usato una simile espressione…

Alcuni brani di questa straordinaria testimonianza da “Dove lei non è”:

4 novembre:   … io stesso sono la mia propria madre.   (p. 38).

28 novembre:   A chi potrei porre questa domanda (con qualche speranza di risposta)? Poter vivere senza qualcuno che si amava, significa forse che lo si amava meno di quanto credessimo…?   (p. 70).

22 dicembre: Oh, dire il profondo desiderio di raccoglimento, di vita ritirata, di “Non occupatevi di me” che mi viene dritto dritto, inflessibilmente, dalla tristezza, come fosse “eterno” – raccoglimento così vero, che le piccole battaglie inevitabili, i giochi d’immagini, le ferite –, tutto ciò che fatalmente accade dal momento in cui si sopravvive, è soltanto una schiuma salata, amara, sulla superficie di un’acqua profonda…   (p. 219).

17 gennaio: Poco a poco si precisa l’effetto della mancanza: non ho il piacere di costruire niente di nuovo (tranne che nella scrittura): nessuna amicizia, nessun amore…   (p. 226).

 

Trasformazione e immaginazione creativa, sono intrecciate nel lavoro del lutto: è racchiusa nei luoghi della fantasia la potenzialità di lenire il desiderio doloroso per la perdita di un oggetto d’amore. La creazione mentale dell’artista è conscia di non poter sostituire la realtà, nell’arte vera non c’è  mai sconfinamento nel delirio, l’arte aspira piuttosto a comporre forme tra realtà ed immaginazione che condensano contenuti simbolici. Nell’istante in cui la mancanza dell’altro si fa più acuta ed insostenibile, la compresenza di desiderio e angoscia può stimolare una reazione immaginativa, che si concretizza negli uomini dotati di creatività in una forma artistica, nel caso di Barthes nella scrittura.

L’opera d’arte è frutto di sedimentazioni creative inconsce, che nascono dalle esperienze del soggetto e dai suoi vissuti, come anche dalle figurazioni ed espressioni dell’inconscio collettivo. L’oggetto perduto potrebbe non essere localizzato in un soggetto specifico ma essere identificato in un luogo o in un tempo dell’esistenza. Mi tornano in mente a proposito la filmografia e i disegni di Federico Fellini, che attingono all’immaginario erotico dei suoi sogni e delle sue fantasie, svelando i nuclei più segreti dei  propri desideri infantili, le sue profonde nostalgie verso la cultura di una terra d’origine legata al piacere e all’immaginazione (12). Nel passaggio da segno a simbolo, desiderio e perdita si fondono tra loro, l’erotismo del regista diventa linguaggio universale, comunicazione di un umano sentire, così sospeso tra vita e caducità. 

 

Pensare la perdita, era uno degli obiettivi di questo volume, ma era importante che ciò avvenisse, come indica la scelta del titolo di Baldassarro, attraverso un “tentativo di pensare ad essa, di lavorarla per tollerarla e farne motivo di elaborazione”, ma anche pensarla ed esprimerla nel ricordo, nell’affetto, in quanto esperienza. I contributi di Baldassarro e Màdera sono allineati nello sforzo di sistematizzare un pensiero sulla perdita e sul perdersi.

Nel  lavoro di Baldassarro “angoscia” è il temine chiave, “il luogo di intersezione esperienziale e concettuale della perdita”. Psicosi e melanconia sono descritte attraverso un’originale configurazione, che vede ciascuna patologia concepita sulla base di opposte coppie concettuali, sequenze che indicano il ruolo che la perdita e il suo contrario giocano in queste affezioni.

Il senso profondo consiste nel sottolineare il ruolo delle identificazioni nel destino della soggettività, che di continuo è permeata da un interminabile processo di acquisizioni e perdite.

Se l’eclisse del soggetto è sempre in agguato, a causa della scomparsa dell’oggetto, vi sono tuttavia  molteplici vie di confronto con la perdita, non ultima quella del patimento del dolore in solitudine, il vivere fino in fondo la precarietà a cui costringe l’assenza. Sopravvivere alla perdita fonda la soggettività: “La perdita – scrive De Silvestris – è sempre un’esperienza al limite: nel momento che si verifica è un vissuto che mozza il fiato, come se si dovesse morire insieme all’oggetto perduto, ma se un attimo dopo si respira, quell’aria è solo nostra e vuol dire che si è sopravvissuti”.

Un’altra possibilità, che di per sé  ha caratteristiche protettive è  il transfert, il quale “rende visibile l’inevitabile domanda sul perché di una perdita”. Infine la perdita del padre, nel duplice significato di iniziazione alle perdite e costruzione dell’identità, tema strettamente connesso al pensare, lo ritroviamo anche in Màdera, Fraire e Rossanda. I toni vibranti dell’articolo di Baldassarro, le poesie scelte, il rigore teorico, ci avvicinano all’autore e condividiamo sino in fondo il suo transitare tra soggettività ed oggettività del pensiero.

Màdera riflette sull’“oscurità dell’anima”, circoscrivendo l’inafferrabilità del dolore depressivo, alla luce della ricerca di A. Ehrenberg che approfondisce le interrelazioni tra ricerca psichiatrica e psicoterapeutica, e trasformazione storico-sociale della soggettività. Il mutamento della soggettività dell’uomo moderno verrebbe segnato dal declino del modello conflittuale edipico, dalla crisi del patriarcato e da un transitare verso un modello depressivo – deficitario in un crescendo di diffusa crisi identitaria. “L’ombra del padre ha cominciato la sua spettrale esistenza nell’inconscio collettivo e personale”.

L’elusione del confronto con il conflitto, l’angoscia e il limite spingono ad assoggettarsi alle leggi della prestazione e all’indottrinamento multimediatico, indotto dalle necessità di consumo delle società. L’individuo affetto da una patologia identitaria cronica sviluppa un delirio di inadeguatezza, non colmabile dalle difese maniacali, queste semmai sono al servizio del capitalismo globale.

L’assenza di riflessione, il lutto inconscio inelaborato della perdita del paterno, annichiliscono la soggettività e crollano così i progetti, manca una direzione, un gesto forte a cui riferirsi che abbia rispetto  per la natura e lo sviluppo dell’uomo.

Nel dialogo tra Fraire e Rossanda riecheggia la perdita di senso che travolge il mondo attuale e condanna a morte il significato, perdita ancor più dolorosa per chi ha costruito attorno alla passione politica il proprio modo di pensare e di vivere. Se la vicenda umana è tragica, incomponibile e straordinaria avventura, il modello della conflittualità non può essere scartato nella ricerca di un orizzonte di senso. L’insegnamento civile di Rossanda ci guida a mantenere fisso lo sguardo in questa direzione, a non rassegnarci verso prospettive “astensioniste”, perché veramente non c’è più tempo, “i tempi sono scanditi da altri non ce li lasciano”…purtroppo.

E il progetto politico deve e non può non essere collettivo, un recupero anche estremo del padre potrebbe far virare la barca, da acque torbide verso luoghi più etici e generativi. Il pensiero di Fraire non è in opposizione, ma completa il discorso nel ricordare la rivoluzionarietà della scoperta freudiana, che ha posto soggettività e sofferenza al centro della sua ricerca. “L’ineliminabile beanza tra il desiderio e la sua soddisfazione è non solo a fondamento della frustrazione propria dell’umano, poiché  è sulla scoperta della costitutività di questa beanza che poggia la moderna teoria del soggetto e del suo essere organizzato attorno alla conflittualità”. Il confronto con la perdita, esplicitato come “arte di tollerare e di attendere”, si ritinge di femminile nelle parole di Fraire.

Nel dialogo tra Fraire e Rossanda, il valore della condivisione tra soggetti è il vertice su cui le autrici ci coinvolgono con passione,  sostenendo così la cultura dell’incontro, quella dove anche il dissenso è strutturante. Accennando al loro pensiero sulla perdita, vorrei solo illuminare alcuni punti del discorso, di rara autenticità. Ad esempio, il valore della soggettività e preservare un’area di pensabilità, nonostante la perdita, le perdite – la fase autogenerativa di Aulagnier è un’ipotesi avvincente sull’insorgenza di un istinto alla soggettività fin dalle prime fasi della vita, e la madre “portaparola” rappresenta per il bambino colei da cui un giorno si potrà dissentire (Fraire).

Il rapporto emblematico col corpo, che appare nel suo invecchiare, come se “uscisse fuori da una forma vera”. “Sappiamo di essere il nostro corpo, ma pensiamo di averlo, come se la coscienza avesse un altro ordine di esistenza, stesse nel corpo come in una casa, lumaca nel guscio” (Rossanda). Il corpo femminile di chi non ha avuto maternità, è un corpo non minacciato dalla più terribile delle perdite, quella di un figlio. Si può attivare un controllo preventivo sugli effetti di una perdita che sarebbe catastrofica per la psiche? Convince quell’immagine di sospensione, quel “bloccarsi” sull’istante che potrebbe precedere l’avvento dolorosissimo, per arrestare l’ipotesi di una perdita irreparabile (Fraire)…

Le considerazioni disincantate di Rossanda sulla difficoltà di elaborare la perdita sono affiancate dalla lucentezza del pensiero e dalla precisione vibrante dei ricordi che tradiscono una profonda umana consapevolezza delle perdite subite. Lo sguardo dell’autrice, nel soffermarsi solo sulle “candele spente” – quelle che anni fa fecero galleggiare come fiammelle fluttuanti sulla Senna nella giornata dell’Aids – non cessa di accendere di senso l’esperienza vissuta nel privato e nel pubblico e la vita è veramente inimmaginabile senza “finitudine, sofferenza, desiderio”. La fine e la separazione, sono sentite dalle autrici anche come l’inizio di un nuovo viaggio. Uno dei punti centrali è considerare la “separazione” come un processo possibile solo attraverso la simbolizzazione, e inoltre che la perdita non riguarda l’oggetto, ma il nostro investimento su di esso. L’Io può adattarsi gradualmente alla perdita dell’oggetto e a quel vuoto di esperienza sensoriale se è confortato dalla presenza e dalla condivisione con un altro soggetto. Infine, il concetto che più avvince riguardo alle trasformazioni: “La creatività può liberarsi al prezzo di una perdita grave o ci si lascia trascinare dalla morte, o tutto e anch’essa, è messo al lavoro per la vita”.

 

Un’altra coppia di donne dialoga sulla perdita. La scrittrice Sonya Orfalian e Janine Altounian, esponente di spicco nello scenario della psicoanalisi. Entrambe di origine armena e portatrici dell’immane tragedia del genocidio.

Nel loro incontro la perdita viene affrontata nei termini di chi ha subito il trauma di dover abbandonare il luogo delle origini, di chi vive la condizione di esule come effetto di una violazione della legittimità di una soggettività ancorata alla sua terra di appartenenza.

Tuttavia la condizione dell’esilio impone di ricercare nuovi orizzonti identificatori che non possono più riconoscersi soltanto nel luogo di provenienza inteso nella sua fisicità, nei suoi confini sensibili.

Sarebbe possibile immaginare che l’elaborazione del “lutto del luogo” possa aprire a questi individui apolidi per necessità un’area più ampia della mente che favorisce, nella migliore delle ipotesi, i processi di simbolizzazione e il raggiungimento di una nuova identità? Sempre ovviamente se l’elaborazione del trauma sia stata possibile ed abbia avuto lo spazio del riconoscimento ed il tempo necessario per metabolizzarla sul piano psichico.

Ci si interroga sui modi in cui la trasmissione della cultura e delle narrazioni di un popolo, contribuiscono ad allargare questo campo di coscienza senza decadere in celebrazioni ripetitive e autolesive dell’identità. In che modo la “ferita” del genocidio può diventare uno strumento di conoscenza e di valore aggiunto per la soggettività di questi individui? Si potrebbe dire che nel destino del popolo armeno, come anche di altri popoli costretti all’esilio, la meta sia quella di elaborare la perdita mettendola a servizio della costruzione di un “luogo interno”.

Per raggiungere questo luogo delle origini all’interno del Sé, il rapporto con la perdita dovrà “trasformarsi”. La memoria di un legame indissolubile col trauma dovrà essere recisa, modificata – né subire passivamente il passato, né tagliare col passato ha alcun senso, “per elaborarlo ci vuole impegno”. L’atto che fonda il superamento del trauma è quello “di dare un nome alla perdita”, “scrivere per esprimere proprio questo sentimento della perdita, per parlare di ciò che si era perduto e di come ciò che si era perduto si poteva trasmettere”. Al tempo stesso “per riuscire a dare un nome alla perdita bisogna potersi distanziare” e il confronto con altre culture può rivelarsi un fertile terreno per trapiantare la propria identità che comprende sia il passato sia la posteriorità dell’esistenza. Per coloro che hanno affrontato l’esilio la costruzione dell’identità è opera ancora più complessa di chi non ha dovuto subirlo: “Un’opera in continua evoluzione, fatta di inevitabili sovrapposizioni e necessarie cancellature, un laboratorio sempre operativo. La perdita va colmata con nuovi contributi, occorre continuamente rabboccare il vaso con materiali sempre diversi”.

Si resta forse sospesi a vita su un crinale dove la distruttività del passato è osservata con distacco, riconosciuta, ricordata ma ha perso la sua potenzialità virulenta, mentre lo sguardo è ormai anche rivolto altrove… verso nuove mete progettuali, espressioni di rinnovata vitalità. Uno sguardo non più adombrato dalla rinuncia, dal vuoto identitario, paradossalmente arricchito dal “dolore vero di un continuo perdersi e ritrovarsi”. 

 

Altro tassello di questo mosaico sulla perdita, è formato dai lavori di Crozzoli, Giacchè, Veschambre.  Sebbene il lavoro di Crozzoli indichi l’attività di un gruppo che da anni riflette sulla “morte”, sono tutti contributi molto personali, hanno una radice intima che si commenta da sé.

L’attività psicologica, sociale ed umana di Gruppo Eventi nel “perdonare la morte”, ci avvicina alla comprensione del “significato delle nostre vite”, prima che abbiano fine, e al senso della trasmissione di un’eredità affettiva e spirituale verso chi resta. L’inconscio, nei sogni dei morenti, mescola immagini di rinascita e devastazione, e nei momenti estremi è ancora attiva una trasformazione. Negli ultimi decenni, sempre più, individui gravemente ammalati  si rivolgono agli psicoanalisti, per condividere l’ultimo passaggio di vita, in ascolto della profondità del proprio essere.

Per Giacchè, l’amico Carmelo Bene è compresente e sacro anche oltre la morte. Così le linee dell’amicizia tangenti alla vita volgono all’infinito, volando alto sulle “storie tra amici” – quelle che sono le brutte copie di un sentimento nobile come l’amicizia, malate invece di fusionalità ed invidia. L’attore nell’essenza è umano e in-umano, è colui che compie una “misteriosa iniziazione” verso l’alterità, votando se stesso al vuoto e allo smarrirsi. “Maschera funebre calata sul volto dell’Io e aperta verso il ventre oscuro della sua mancanza”. CB, così amava chiamare se stesso, straordinaria “macchina attoriale”, nella sua straziante e insieme gioiosa parodia dell’agonia si è inoltrato verso il “cosmo vuoto del non-luogo teatrale, a sfidare un vuoto perenne e sovrastante – che condanna ad una solitudine assoluta”. Giacchè, l’amico di CB, ci ha regalato un sorriso sulla perdita, evocando, attraverso la forma del linguaggio, i pensieri e l’affetto, la parte più indefinibile e misteriosa dell’anima di un vero attore.

La scrittura rivela, per la scrittrice Veschambre, lo stesso Essere. Il dolore psichico ha bisogno di poche giuste parole per essere narrato. La prosa poetica, sfiorando i tempi morti, il vuoto, l’ignoto ritrova le radici del linguaggio, quelle in cui la parola attinge alla preistoria e si spoglia dei muri difensivi. Le lingue hanno un suono, le parole hanno qualità tattile, il linguaggio ha una sua carnalità connessa alle origini. L’uso rarefatto estetizzante di una lingua staccata dal corpo è una trappola seduttiva che stritola l’essere. C’è un sentimento che unisce corpo e parola, l’autrice lo riscopre nel silenzio e nelle parole povere. A questo “scrivere sensibile” vorrei dedicare l’immagine  dell’“omega melanconico” che Pontalis cita in “Finestre” (13). L’omega è la lettera arcaica incrostata sulla fronte di un melanconico algerino, un uomo affetto da mutismo, che amava nascondersi tra i rami di un fico nell’ospedale. “Fuggire il mondo desolato per confondersi con un fico portatore di frutti che si aprono come una bocca, come il sesso di una donna. Fuggire nel silenzio. Soprattutto non dire niente. Forse scrivere, affinché la prima e l’ultima lettera, l’alfa e l’omega, diventino una lettera sola, indecifrabile ma visibile. Il corpo di una lettera morta, aperta all’infinito”.

A proposito dello scrivere che è così celebrato in questo libro, cito una riflessione di Rand e Torok, tratta da un articolo di Kancyper sull’opera di Borges: “La letteratura aggiunge qualcosa d’imprevisto. Grazie alla sua specificità fa maturare lo strumento analitico e ne arricchisce le possibilità di ascolto. Negli scambi tra letteratura e teoria analitica questo privilegio sarà affidato al testo letterario.  Il loro incontro darà luogo a continue modificazioni teoriche, non a conferme, ma a conformazioni. Così sarà la psicoanalisi ad adattarsi al testo letterario e non viceversa. Laddove la clinica non ha fornito (almeno non ancora) un modello sicuro per l’intuizione freudiana, la letteratura potrebbe essere chiamata a farlo (…). Converrebbe invertire le abituali relazioni tra psicoanalisi e letteratura, nel senso che l’opera letteraria, invece che come campo di applicazione per le conoscenze psicoanalitiche acquisite, potrebbe essere considerata come qualcosa che va oltre la psicoanalisi, qualcosa che la dota di nuovi strumenti d’ascolto e di comprensione”. (14)

L’opera d’arte è il campo al quale può attingere non solo la psicoanalisi ma qualunque uomo la osservi, si commuova e partecipi alla sua creazione con uno sguardo interiore.

L’arte in generale, la letteratura, la musica da sempre dialogano tra loro. “Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti” scrive Kandinsky nel libro Lo spirituale nell’arte (15). “La vera opera d’arte nasce ‘dall’artista’ in modo misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità, e diviene un soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta. Diventa un aspetto dell’essere. (…) Vive, agisce e collabora alla creazione della vita spirituale. (…) l’arte non è l’inutile creazione di cose che svaniscono nel vuoto, ma è una forza che ha un fine, e che deve servire allo sviluppo e all’affinamento dell’anima (…) Se l’arte si sottrae a questo compito rimane un vuoto, perché nessun’altra forza può sostituirla. In tutte le epoche, quando l’anima ha più vita, l’arte è più viva, perché l’anima e l’arte si influenzano e si arricchiscono a vicenda” (16). Le parole di Kandinsky sembrano risuonare nelle opere ricche di significati e trascendenza di Bill Viola… Diversamente, conclude l’artista russo, l’art pour l’art, quella senza scopo soffoca l’anima.

Nell’universo percettivo dell’arte la musica ha un posto d’onore. I suoni nella loro purezza colpiscono direttamente l’anima.

In origine affiorano i “suoni fisici” che appartengono ai segreti del corpo della vita-intrauterina, e proseguono sul pentagramma dell’esistenza con il ritmo del dondolio, il suono della parola umana, attraverso i corpi che come strumenti musicali risuonano nello spazio. Nella mente particelle emotive si aggrappano a tracce di suoni, come fossero “monadi” sonore che vagano alla ricerca di un significato. Il musicista non cessa mai di organizzarle in un linguaggio compiuto mediante un’opera di fine tessitura.

Anche la voce umana dunque veicola un’interiorità sonora come sostiene il compositore Giagni ricordando una performance dell’artista

contemporanea Marina Abramović: quando è una nuda disperazione a reclamare la scena non si può scegliere che la voce, quella che si possiede e quella che si perde… come ci testimonia col suo vissuto anche la scrittrice Veschambre. “La voce, la fibra sottile, si perde nel suo esaurimento: siamo al lutto dell'esperienza musicale più nativa e strutturale negli esseri umani, la voce che se ne va, oggetto sospeso tra il silenzio che precede e quello che segue, uno in rapporto con l'altro, come alfa e omega”.

La fabbrica della musica può sconfiggere il silenzio, ricorda Giagni attraverso il pensiero del filosofo Deleuze, i prodotti dell’atto creativo resistono per definizione anche alla morte. La musica, arte immateriale per eccellenza, produce oggetti a loro volta destinati a produrre in chi li ascolta percezioni e affetti, e facendo muovere i suoi materiali all’interno di una cornice temporale definita e non reversibile. Ed è proprio questa sua intrinseca caratteristica a farla “resistere” alla morte, a farle sfidare il tempo. Nella grammatica della musica, il ritornello costituisce l’unità strutturale alla base della capacità di innescare insiemi illimitati di trasformazioni progressive, crea le condizioni per ritrovare/ritrovarsi, dopo una perdita, dopo essersi smarriti. “Prisma”, “cristallo di spazio-tempo”, il ritornello “che fabbrica ogni volta tempi differenti” riesce “a spostare l’asse del dispositivo chiuso, del per sempre che la vita e la morte incessantemente ci mettono di fronte”.

L’incanto musicale del “tempo ritmicizzato” (Debussy) va ben oltre il senso narrativo compiuto di una storia, penetra nell’intimo e produce un evento psicologico in cui l’ascoltatore vive una relazione d’oggetto con la musica. Dietro le note si nasconde un uomo che compie un’opera per l’eternità, la sua arte astratta aiuta altri uomini a vivere nel tempo delle loro vite.  La musica ha la potenza di un gesto che tocca l’inconscio, attraversa le generazioni e diventa mitologia trasmessa da padre in figlio, traccia indelebile di memorie affettive; mescola ricordo a desiderio e scandisce la ricerca dell’uomo verso una via di salvezza e lo accompagna addolcendo la caducità dell’esistenza (17). Anche le lingue del mondo possono essere musica – come scrive Veschambre – comporre una sinfonia polifonica dove le parole più diverse si consumano come sassi che rotolano per secoli o millenni, formando quella sottile pellicola di contatti e scambi che tiene uniti i paesi della terra. La musica nella sua accezione più universale s’incarna nelle vite degli uomini, diventa la loro storia e segue il loro destino e alla fine di ogni percorso umano s’impone come distillato simbolico incancellabile.

 

Concludo su queste note l’introduzione al libro esprimendo ancora una volta la mia gratitudine agli Autori che hanno aderito a un progetto coinvolgente e non semplice, preziosi compagni di viaggio in queste acque difficili. 

 

 

        

                                                                        

 

 

 

 

 
 
 
 
  Note dell'autrice:

 

 

 

(1) C. G. Jung, (1930/31), Opere, in La dinamica dell’inconscio, “Gli stadi della vita”, Boringhieri, Torino, 1976, p. 428.

(2) C. G. Jung, (1934), Opere, in La dinamica dell’inconscio,  “Anima e morte”, Boringhieri, Torino, 1976, p. 437.

(3) P.-C. Racamier, (1992),  Il genio delle origini, Raffaello Cortina, Milano, 1993, p. 42.

(4) D. Quinodoz, Le parole che toccano, Borla, Roma, 2004.

(5) Autori Vari, ( a cura di C. Townsend ), L’arte di Bill Viola, Bruno Mondadori, Milano, 2005.

(6) Autori Vari, ( a cura di C. Townsend ), L’arte di Bill Viola, “Il sublime nell’opera di Bill Viola”, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 22.

(7) Ibidem, pp. 27-30.

(8) Ibidem, p. 94.

(9) J. Derrida, (1990), “Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine”,    Abscondita, Milano, 2003.

(10) J.-B. Pontalis, (2000), Finestre, E/O, Milano, 2001, pp. 44-45.

(11) R. Barthes, ( a cura di Nathalie Léger ), (2009), Dove lei non è, Einaudi, Torino, 2010.

(12) F. Fellini, Il libro dei sogni, Rizzoli, Milano, 2007.

(13) J.-B. Pontalis, (2000), Finestre, E/O, Milano, 2001, pp. 116-118.

(14) J.C. Rouchy, S. Tisseron, M. Torok, N. Rand, C. Nachin, P. Hachet, Lo psichismo alla prova delle generazioni, Borla, Roma, 1997; L. Kancyper, “J. L. Borges o la passione dell’amicizia”, Borla, Roma, 2006.

(15) W. Kandinsky, (1952), Lo spirituale nell’arte, SE, Milano, 1989-2005, p. 17.

(16) Ibidem, p. 88.

(17) Autori Vari, (a cura di B. Massimilla), Cinema psyche e arti visive,

“cinema e musica”, www.eidoscinema.it, n. 5, 2006, p. 5.

 

                                                                                                    

 

  

 

 

 

   

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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