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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
Prezzo/Price: € 18,00
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Anno/Year: 2010
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-0-4
Anno/Year: 2008
Prezzo/Price: € 18,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
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“Chi
avrebbe infatti creduto che lui, Tommasino Unzio, da qualche tempo in
qua, nella crescente e sempre
più profonda sua melanconia, si fosse preso d’una tenerissima pietà
per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza
saper perché, in attesa del deperimento e della morte? Quanto più
labili e tenui e quasi inconsistenti le forme di vita, tanto più lo
intenerivano, fino alle lagrime talvolta. Oh! In quanti modi si
nasceva, e per una volta sola, e in quella data forma, unica, perché
mai due forme non erano uguali, e così per poco tempo, per un giorno
solo talvolta, e in un piccolissimo spazio, avendo tutt’intorno,
ignoto, l’enorme mondo, la vacuità enorme e impenetrabile del
mistero dell’esistenza. Formichetta, si nasceva, e moscerino, e filo
d’erba. Una formichetta, nel mondo! Nel mondo, un moscerino, un filo
d’erba. Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e
via per sempre; mai più, quello; mai più!”
Canta
l’Epistola,
L. Pirandello
Nel
lutto interiorizzato, quasi non ci sono segni.
E’
il compimento dell’interiorità assoluta. Eppure,
tutte
le società sagge hanno prescritto e codificato l’esteriorizzazione
del
lutto.
Malessere
della nostra, per via del fatto che essa nega il lutto.
Dove
lei non è,
R. Barthes
La
perdita, perdersi, perdere. Dimensione fisica e psichica sono
ineluttabilmente intrecciate nella realtà della perdita che non dà
scampo all’essere. Dalla culla alla tomba, ci confrontiamo
dolorosamente con tutto ciò che non ritornerà. A Palermo, in un
luogo incredibile che è la cripta dei Cappuccini, un popolo di
scheletri ‘vive’ nei cunicoli sotterranei, ci si sente osservati
dalle loro presenze, mentre si vaga e ci si domanda increduli come il
culto dei morti possa aver sconfinato
nella surrealtà. La morte si è fermata e non è passata
oltre, non si è dissolta nell’invisibilità dell’oblio, né è
stata archiviata nelle maglie della memoria. In una nicchia, nella
sezione delle morti premature, c’è il corpo di Rosalia, aveva due
anni nei primi del novecento, quando la sua vita finì.
La
cosa stupefacente è che Rosalia, immagino attraverso una procedura di
imbalsamazione, è rimasta com’era: congelata in un delirio di vita,
intatta e bella, a ricordare come sarebbe stata da viva. Un’immagine
diversa della morte, che rappresenta l’insopprimibile inquietudine
che l’uomo prova nei confronti della perdita e il disperato
tentativo di remare contro corrente e di fermare ciò che non è più.
Quando l’essere cessa di esistere e la vita viene tolta, si è
avvolti da un doppio mistero, quello della vita che appare e scompare.
La vita, espressione di un’energia attiva rispetto al fluire
dell’essere, volge naturalmente a una fine. La morte – ricorda
Jung
– non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e
sconosciuto processo vitale. Ma quello della morte è solo un aspetto
della perdita. In tutte le età della vita ci confrontiamo con
l’esperienza della perdita, questa transizione complessa dipende
dalle modificazioni che la psiche individuale può accettare di
compiere e dal suo potenziale di trasformazione. Anche se è un
“paragone imperfetto”, l’allegoria del corso quotidiano del
sole, citata da Jung, descrive dallo zenit all’estinzione il viaggio
del sole che “ritira i suoi raggi
per
illuminare se stesso, dopo aver diffuso la sua luce sul mondo”, il
sole dopo aver illuminato la terra tiene per sé i suoi raggi (1). Lo
“scopo naturale” della vita sarebbe dunque quello di
“acquisire” attraverso la perdita una nuova dimensione, o meglio,
attraverso l’elaborazione e la significazione della perdita. Nessuna
età della vita può essere trascinata nella successiva, ciascuna deve
perdere qualcosa che non potrà più appartenerle.
Ogni età troverà nel suo svolgersi elementi unici e nuovi, ma
si dovrà mantenere ben ferma la memoria del passato, come flusso
vitale continuo e indivisibile, viaggio attraverso il quale si
dipana un’intera esistenza. Diversamente
la curva della vita psichica sembra resistere ad adattarsi a
questa legge naturale – mentre nel restare immobili con lo sguardo,
fissati indietro, ci si pietrifica (2).
In
“Primordi e sviluppo del lutto originario”, P.-C. Racamier
descrive il lutto originario come processo
e attraversamento, sempre
all’opera nelle diverse età della vita. Il lutto originario inizia
quando il bambino appunto “volgerà le spalle” alla madre ed
accetterà di perderla, avviando così la perdita dell’illusione di
onnipotenza e appartenenza totale all’unità
duale con la madre (3). Tale iniziazione al lutto, nell’arco
dell’esistenza, rifornirebbe la psiche di capacità specifiche
essenziali al confronto con la realtà della perdita. Nel mito è
Atropo, colei che ha il compito di tagliare il filo con la vita;
l’immagine allegorica delle forbici evoca “un gesto originario”,
che ha la proprietà di aprire e chiudere la vita: la fine e
l’origine coincidono in un unico gesto e “i due fantasmi inversi e
interconnessi di auto-generazione e di dis-generazione” sembrano
unirsi.
Perdita,
trasformazione e generatività sono
intrecciate nell’esperienza del vivere e, in quanto forme di
esistenza, non cessano mai di interagire nella psiche.
L’intento
di questo libro è di vagare idealmente sull’invisibile bordo di un
centro, per acquisire visuali più ampie, su un tema che non può
essere ridotto alle sole conoscenze psicoanalitiche. La sua lettura
offre un mosaico di esperienze intorno a un discorso così universale
ed è proprio la valorizzazione dell’esperienza
il motore centrale delle riflessioni sul tema.
Il
comune denominatore di una panoramica così eterogenea è, dunque,
rappresentato dall’esperienza da cui origina ogni singola voce:
toccanti testimonianze che nascono dalla vita di ciascun autore e si
pongono come fondamento essenziale e necessario per radicare in
profondità una riflessione. Storie drammatiche, legate a traumi
personali che l’elaborazione,
la condivisione e il linguaggio
poetico hanno potuto lenire e infine trasformare... Per questo
sono infinitamente grata agli Autori che mi hanno permesso di
condividere aspetti così privati della loro soggettività.
Esplorare
aree complesse della realtà interna, decostruire aspetti difensivi,
svelare emozioni e affetti: queste sono le caratteristiche di un
viaggio autoanalitico e riflessivo.
L’effetto unificante del tema ha consentito
un’articolazione tra linguaggi di autori di differenti appartenenze,
sulla base di un “sentire originario” comune. Ciò che sarebbe
potuto apparire un punto di disunione, ha invece attivato un’energia
aggregante. In più punti del discorso, il corpo,
che con la sua realtà è una delle leve su cui poggia la perdita,
affiora nello stile di un linguaggio
incarnato come quello del testo: “Le parole che toccano” di D.
Quinodoz, quelle cariche di sensorialità, che l’analista pronuncia
per raggiungere l’altro, langage qui touche (4). Per questo stesso motivo, la presenza dei
poeti, delle loro
parole
che ci toccano, e di un artista come Bill Viola – con le sue immagini
sospese tra spirito e carnalità – mi è sembrata
indispensabile. Parole e immagini nel silenzio dell’ascolto arrivano
diritte al cuore. La dimensione della perdita si
sente, si respira.
Proprio
nell’intervento di Bill Viola si completano a vicenda il testo
intenso e poetico con le immagini offerte dall’autore contemporaneo.
E’
un’arte di emozione quella
di Bill Viola, che per essere compresa sino in fondo necessita, come
afferma Cynthia Freeland, della “categoria filosofica del sublime”
che lega sentimenti estremi al valore estetico dell’evento (5). Le
sue opere affrontano i grandi temi: la vita, la morte, il perché
dell’esistenza. Entrano in contatto con il pubblico attraverso
canali tanto viscerali o emotivi, quanto intellettuali: la loro
visione presuppone una durata e uno sguardo assorto e non promettono
“soddisfazioni e rivelazioni immediate”. L’immagine delle opere
di Viola, animata da movimenti impercettibili, galleggia lentamente
nello sguardo dell’osservatore, attivando una miriade di sensori
mentali e fisici, che attingono al tempo e allo spazio delle proprie
vite, invitando l’altro alla profondità
del sentire… “Viola produce sogni, eppure, ci sfida a sognare,
ad avventurarci oltre ciò che viene offerto” (6).
La
cover di questo libro è dedicata all’opera di Viola
“Observance” (2002). “In Observance l’autore dà vita a una
manifestazione di dolore molto coinvolgente. Una fila solenne di
persone addolorate è incorniciata in uno schermo alto e stretto, come
la sezione di una pala d’altare. I personaggi arrivano lentamente in
cima alla fila e sostano un attimo di fronte a una terribile visione.
Dire “lentamente” è riduttivo: la processione è estremamente
rallentata e quindi il movimento quasi impercettibile. Anche se
guardano nella nostra direzione, i personaggi non vedono noi, ma
qualcosa di atroce, tragico e luttuoso, qualcosa di terribile che non
conosciamo. Tutti hanno un aspetto normale e sono rappresentativi di
diverse fasce d’età e gruppi etnici, accomunati solo dal bisogno di
essere testimoni e di rendere omaggio. Ciascuno si presenta davanti a
tale visione di dolore assoluto, presagito ma ancora ignoto, da solo.
Possiamo osservare nel dettaglio le fasi della loro preparazione
mentale e dell’angoscia” (7). Sembra
impossibile non vivere come reale il dolore espresso da queste persone,
sul loro volto si legge una
nuova consapevolezza del mondo. Viola ritrae la vulnerabilità
umana, il nostro intimo bisogno di prendere atto della perdita e in
qualche modo di poterla superare.
L’artista
ha affermato che molte delle sue opere sono scaturite da una
prolungata e continua elaborazione della morte dei genitori. Nel suo
toccante articolo ci fa dono di questa sua dolorosa esperienza: “La
perdita di una persona cara – scrive – ci insegna il valore e la
sacralità della vita umana e la presenza permanente dell’amore”.
Il lutto della madre, seguito dalla nascita di suo figlio, gli
rivelano un “insegnamento fondamentale”:
“nascita
e morte vengono al mondo nello stesso istante. Non sono fermalibri
della vita come ero stato indotto a credere. La morte è una presenza
costante, una compagna di vita. Le due non possono esistere l’una
senza l’altra”, come “il giorno segue alla notte in un ciclo
eterno”.
Lo
spazio sacro della nostra interiorità ci permette di dialogare con il
cosmo infinito, di rendere presente l’assenza, il mistero
dell’esistere sospeso tra il vivere e il morire.
Viola
desidera creare nelle sue opere “uno spazio, una rappresentazione
assolutamente reale e oggettiva del luogo dove risiede la morte, o
addirittura realizzare un’opera non sulla morte ma sul luogo oltre
la morte” (8). Questo luogo si colloca nella forza dell’immagine
in qualità di rappresentazione: nel potere dell’immagine di trasformare la materialità del mondo, di rievocare l’oggetto
anche quando esso è perduto.
Sono
le stesse riflessioni dell’artista a descrivere l’epifania di
un’immagine soggetta a un processo di trasfigurazione
nel quale la dimensione interiore dell’oggetto o di un essere
vivente si trasforma in contenuto simbolico. Tale consapevolezza
avviene in seguito al lutto della madre, quando il suo sguardo scopre
osservando le montagne viste da sempre nello skyline dell’orizzonte
“un’immagine invisibile, un’immagine che risiedeva in un luogo
al di là della vita e della morte, l’essenza di qualcosa di
eterno”.
A
proposito di visioni interiori, del nostro sguardo sui paesaggi
naturali che abbracciano le nostre vite e da cui un giorno ci
separeremo per lasciarli perennemente immobili al di là di noi,
vorrei ricordare il rapporto che il pittore Cézanne ebbe con la vetta
di Mont Sainte-Victoire, vicino ad Aix. La montagna, oggetto delle
origini, fu dipinta molte volte, dalla giovinezza all’età anziana,
e la sua rappresentazione mutò nel tempo, dai brillanti colori delle
prime tele, sino ad approdare ad un’immagine essenziale e rarefatta,
sino a diventare un luogo sempre più lontano e inaccessibile, quasi
ombra bianca sulla tela. La perdita del tempo della vita, viene così
raffigurata da Cézanne attraverso la smaterializzazione della
montagna e la sua progressiva simbolizzazione. La montagna nello
sguardo dell’artista si
svuota di vita terrena, per raggiungere, come scrive Viola,
l’essenza di qualcosa di eterno.
“Memoria”
(2000), l’opera scelta da Bill Viola per il suo articolo, allude
alla fragilità dell’esistenza, alla “brevità della vita in un
mondo a mala pena illuminato, sgranato, aggrappato a un sudario di
seta” (Kira Perov).
L’immagine
tremante del volto umano personifica l’atto del ricordare, come i
ricordi potrebbe sparire da un momento all’altro e cadere
nell’oblio, gli occhi sono inghiottiti dall’oscurità, ma è una
cecità che fa luce all’interno del Sé.
Viola
parla di digiuno
degli occhi.
Jacques Derrida nel libro “Memorie
di cieco, l’autoritratto e altre rovine”, descrive
il disegnatore come un cieco “senza occhi” ma nonostante tale
cecità, il pittore può essere veggente, e avere vocazioni da
visionario. Il perdersi nell’erranza assoluta non è privo di rischi
e cadute, con gli occhi chiusi ci si abbandona ai fantasmi e al lutto
della vista, ma spingendosi al di là della percezione si vede senza
vedere (9). “Memoria” sembra dirci che le visioni
interiori di
Bill Viola nascono da questa forma di cecità.
Infine
ancora un’altra opera di Viola altamente significativa per il tema
della perdita, che ha ispirato la poesia di Antonella Anedda dedicata
in questo libro al videoartista, si tratta di “Ocean without a shore”.
Nel 2007 il video è stato presentato alla Biennale di Venezia nello
spazio raccolto della chiesa quattrocentesca di San Gallo, sotto forma
di un trittico installato sui tre altari della chiesa. In un ciclo che
si ripete senza fine, singoli individui uscendo dalle tenebre varcano
una soglia, una parete invisibile di acqua e luce per incarnarsi nel
mondo fisico, prendere coscienza dei loro limiti e infine ritornare
nel regno delle
ombre.
Nei
riti d’iniziazione sono racchiusi l’atto dell’iniziare e quello
del varcare la soglia. Il
mito dell’inizio diventa dunque l’emblema di quella linea di
confine in cui s’intrecciano di continuo i valori individuali e
quelli intersoggettivi, un percorso ininterrotto di morti e rinascite
che plasmano nel loro avvicendarsi l’identità, unità dinamica
dell’essere, mai conclusa sino alla fine della vita ed anche oltre
narrerebbero le opere di Viola… “Ocean without a shore” potrebbe
essere letto come l’allenamento all’iniziazione che il Sé di ogni
uomo deve compiere per elaborare nell’arco della vita il lutto
originario, la dimensione archetipica della perdita.
Sentire
e pensare la perdita; il confronto con il dolore e il valore della
condivisione; la traduzione della perdita in un linguaggio artistico e
poetico
– nel libro, tutti questi nuclei confluiscono liberamente al centro
di un’area comune i cui vertici ideali si basano sui concetti della
perpetua trasformazione, del transfert, della creatività.
Gli
scritti degli autori psicoanalisti non evocano una psicoanalisi
astratta e rigidi confini concettuali, ma si muovono piuttosto lungo i
margini di un’invenzione-intuizione, che illumina la dimensione
soggettiva nell’atto di ‘osservare’ introspettivamente la
perdita.
Lutti
e trasformazioni sono all’opera in ciascun contributo e in senso
interattivo anche il lettore, se vuole, può entrare in risonanza
affettivamente, pensando alla perdita, alle proprie perdite.
Nei
“Destini della perdita” De Silvestris sembra porre la sua tesi
nella frase di Freud: “L’ultimo brandello di transfert – dopo
molti baratti – si esaurisce solo con la morte”. Un transfert
sempre all’opera sino alla morte. La capacità di gioco dei bambini
e le vite degli artisti, l’espressione della creatività, possono
aiutarci a comprendere meglio questo concetto di transfert che può
attraversare l’esistenza. Anche Fraire e Rossanda ne parlano,
riferendosi al “fare solitario e salvifico” dell’artista.
Sul
destino della perdita in analisi, il caso clinico di una bambina che
subisce il lutto materno, nella complessa cornice del pubertario, è
un mirabile esempio di come l’analista possa accompagnare il
paziente nell’avviare un processo di elaborazione della perdita. La
trasformazione prende forma nei delicati sentimenti transferali del
paziente e dell’analista, illusione e graduale disillusione
ripercorrono nel corso della terapia il pensiero di Winnicott e non
scaturiscono da “una competenza tecnica, ma dall’incontro della
storia del percorso
personale del terapeuta con la storia personale del paziente”. La
perdita subita dall’altro rispecchia le perdite dell’analista,
seppure indicibili, sopportate nello spazio privato del Sé.
La
costruzione di un’area comune, tra capacità di illudere e
disponibilità a illudersi, in cui oscillano aspetti di unione e
separazione, permette ai bisogni separativi di non irrompere in modo
esplosivo.
E’
la modulazione del transfert nella mente dell’analista che consente
in parallelo l’elaborazione del lutto.
La
perdita nel cammino delle sue trasformazioni, prosegue il suo corso,
veramente come si trattasse di un fiume in piena, nel lavoro
coinvolgente e coraggioso di Ravasi. Se chi ha elaborato
nell’infanzia la posizione depressiva può affrontare meglio le
esperienze luttuose della vita, nella storia di Virginia Woolf,
invece, il distacco dal vuoto depressivo non fu mai tragicamente
possibile. Anche per lo
scrittore Cunningham ed il regista Daldry il corpo di Virginia
galleggerà senza vita, nel libro come nel film, nelle acque
limacciose di un torrente. Ma l’ispirazione letteraria, come quella
filmica, è utile all’autrice per entrare e farci entrare nella
stanza dell’analisi e nella storia ininterrotta della sofferenza,
scandita dalle “ore” delle sedute. Le ore che oscillano come
riflessi sull’acqua nel doppio movimento del perdere e del trovare.
Una stanza piena di silenzio dopo che tutti vanno via, e allora molto
resta racchiuso nella stanza più intima dell’analista, la sua caverna interna, quella che anche la Woolf scavava dietro i suoi
personaggi, quella dove la sofferenza dei pazienti si deposita, e
l’analista tenta di dare forma alla “frantumaglia”, di imprimere
senso, narrazione, trasformazione al dolore psichico dell’altro.
Anche se spesso, per molti casi clinici, “non ci sono cunicoli di
riserva e ci si ritrova avvinghiati, magari insieme, a un arbusto nel
fiume”. “Un’unica storia con tanti personaggi, ma una sola
protagonista, la perdita”, così si potrebbe dire del lavoro
dell’analisi; come sottolinea pure Baldassarro: il concetto di
perdita sottende costantemente le teorie analitiche.
Ravasi
è riuscita a descrivere la fatica e la solitudine dell’analista
nell’essere sempre esposto in quel fiume dove “tutto è
lasciare”, in quel fiume in piena di ore che attraversano la vita
professionale, ma la perdita nel mestiere dell’analisi “può stare
nella vita, facendosi memoria”.
Le
memorie della perdita diventano per l’analista materia permanente di
autoanalisi. Le emozioni che l’analista prova durante la seduta
costituiscono uno strumento di conoscenza.
Da
quella caverna, l’infinito del cielo e la finitudine di un bottone
saranno restituiti al paziente, e le parole dette in analisi, quelle
di maggior forza, verranno trascritte nell’inconscio “per
sempre”.
E
ciascuna storia analitica non sarà mai uguale alle altre, ogni
incontro è unico per la mente dell’analista. Vorrei citare a questo
proposito alcune riflessioni di Stefano Carta: “Ciò che propaga
senso è il gesto irripetibile, la parola gridata o sussurrata una
volta soltanto, il tempo della nostra vita, dei nostri giorni, dei
nostri istanti, che è destinato a non tornare più. (…) il senso si
dà solo dentro esperienze irriproducibili. La singolarità
dell’esperienza significante è legata alla caducità, che
potenzialmente rende ogni cosa preziosa proprio per la sua iscrizione
entro un costante lavoro di lutto”.
Appare
ancora una bambina in questo articolo: è colei che piange “lacrime
di frantumaglia”, perdendosi nell’indecifrabilità del dolore
materno. Non è un caso che sia De Silvestris che Ravasi parlino
dell’infanzia afflitta da lutti precoci. Le conseguenze di questi
traumi possono protrarsi anche nell’arco delle generazioni. “Sono
figlio di un figlio morto”, diceva freddamente un paziente a
J.-B.Pontalis, che ne parla in quel piccolo cammeo: “Quando la morte
precipita nell’anima”. Era stato designato come figlio
“sostitutivo”, perché la madre aveva perso un bambino qualche
tempo prima della sua nascita. Nessuno lo aveva generato, ma manteneva
una fedeltà mortale “a quell’occupante inanimato, a
quell’assente eternamente presente” e ciò aveva congelato il suo
vivere (10).
Vi
sono casi in cui lutti precoci possono segnare dolorosamente
l’esistenza di chi sopravvive e segnare il destino di un futuro
artista. Penso al pittore Morandi che perse da piccolo un fratello, e
alla poetica degli oggetti inanimati che rappresentò nelle sue opere.
Rappresentazioni cariche di memoria, che fissano a mio avviso, nella
trasparenza dei segni, la materializzazione in forma simbolica della
perdita.
Il
ricordo di una morte precoce affiora dall’infanzia della poetessa
Antonella Anedda. La giovane donna era morta, vicino a lei la figura
sacra
del Bambino divino dalla corona scintillante ed una bambina di sette
anni che assisteva impotente alla morte.
“Tutto era silenzio” (…) “Le opere inutili”.
“La
morte sarebbe sfrecciata via e poi tornata e poi fuggita di nuovo fino
a fermarsi un giorno su chi quel giorno era predestinato” scrive
l’Anedda.
Quanta
consapevolezza della finitudine può crescere nella mente di un
bambino che assiste prematuramente al morire di un proprio caro…
Traumi
incancellabili che la parola poetica può rievocare a causa di
movimenti emozionali profondi. Non c’è “bisogno di gesti” ma
solo di “stare” nel
ricordo e accarezzarlo con le parole. Il linguaggio poetico si
commenta da sé, non ha bisogno di nulla, soltanto di essere ascoltato
col cuore, e in silenzio.
Una
morte prematura ricompare nella poesia di Valerio Magrelli. Un giovane
ucciso su una strada da un auto pirata, poi dileguata nel nulla in un
pomeriggio di dicembre, lasciando Nicklas morente sul ciglio di una
curva.
Il
sacrificio di un innocente prima di Natale, la sua vita data in pasto
alla malvagità. Quel dolce ragazzo non è più qui. Il sole che era
in lui si è spento. Torna un riflesso della sua umanità e bellezza
nei nostri ricordi assieme all’incancellabile dolore di averlo
perduto.
Come
Nicklas, quanti altri gesucristi giacciono per sempre a causa della violenza umana… per
chi resta travolto non c’è scampo, per chi li ha amati sopravvive
solo la speranza di una rinascita e il rispetto per il valore assoluto
della vita, ma una fiducia nell’esistenza può essere recuperata
solo per gradi mentre prima si è abitati
a lungo dall’amore e dal dolore, dall’acuta presenza
dell’assenza.
Ancora
una citazione poetica per dare forma e profondità al discorso della
perdita da un libro postumo di Roland Barthes (11).
All’indomani
della morte della madre Barthes inizia un diario. Una narrazione che
scandisce quotidianamente le fasi dell’elaborazione del lutto, anche
se lui non avrebbe mai usato una simile espressione…
Alcuni
brani di questa straordinaria testimonianza da “Dove lei non è”:
4
novembre: … io
stesso sono la mia propria madre.
(p. 38).
28
novembre: A chi
potrei porre questa domanda (con qualche speranza di risposta)? Poter
vivere senza qualcuno che si amava, significa forse che lo si amava
meno di quanto credessimo…?
(p. 70).
22
dicembre: Oh, dire il profondo desiderio di raccoglimento, di vita ritirata, di “Non occupatevi di
me” che mi viene dritto dritto, inflessibilmente, dalla tristezza,
come fosse “eterno” – raccoglimento così vero,
che le piccole battaglie inevitabili, i giochi d’immagini, le ferite
–, tutto ciò che fatalmente accade dal momento in cui si sopravvive,
è soltanto una schiuma salata, amara, sulla superficie di un’acqua
profonda… (p.
219).
17
gennaio: Poco a poco si precisa l’effetto della mancanza: non ho il
piacere di costruire
niente di nuovo (tranne che nella scrittura): nessuna amicizia, nessun
amore… (p. 226).
Trasformazione
e immaginazione creativa, sono intrecciate nel lavoro del lutto: è
racchiusa nei luoghi della fantasia la potenzialità di lenire il
desiderio doloroso per la perdita di un oggetto d’amore. La
creazione mentale dell’artista è conscia di non poter sostituire la
realtà, nell’arte vera non c’è
mai sconfinamento nel delirio, l’arte aspira piuttosto a
comporre forme tra realtà ed immaginazione che condensano contenuti
simbolici. Nell’istante in cui la mancanza dell’altro si fa più
acuta ed insostenibile, la compresenza di desiderio e angoscia può
stimolare una reazione immaginativa, che si concretizza negli uomini
dotati di creatività in una forma artistica, nel caso di Barthes
nella scrittura.
L’opera
d’arte è frutto di sedimentazioni creative inconsce, che nascono
dalle esperienze del soggetto e dai suoi vissuti, come anche dalle
figurazioni ed espressioni dell’inconscio collettivo. L’oggetto
perduto potrebbe non essere localizzato in un soggetto specifico ma
essere identificato in un luogo o in un tempo dell’esistenza. Mi
tornano in mente a proposito la filmografia e i disegni di Federico
Fellini, che attingono all’immaginario erotico dei suoi sogni e
delle sue fantasie, svelando i nuclei più segreti dei
propri desideri infantili, le sue profonde nostalgie verso la
cultura di una terra d’origine legata al piacere e
all’immaginazione (12). Nel passaggio da segno a simbolo, desiderio
e perdita si fondono tra loro, l’erotismo del regista diventa
linguaggio universale, comunicazione di un umano sentire, così
sospeso tra vita e caducità.
Pensare
la perdita, era uno degli obiettivi di questo volume, ma era
importante che ciò avvenisse, come indica la scelta del titolo di
Baldassarro, attraverso un “tentativo di pensare ad essa, di
lavorarla per tollerarla e farne motivo di elaborazione”, ma anche
pensarla ed esprimerla nel ricordo, nell’affetto, in quanto
esperienza. I contributi di Baldassarro e Màdera sono allineati nello
sforzo di sistematizzare un pensiero sulla perdita e sul perdersi.
Nel
lavoro di Baldassarro “angoscia” è il temine chiave, “il
luogo di intersezione esperienziale e concettuale della perdita”.
Psicosi e melanconia sono descritte attraverso un’originale
configurazione, che vede ciascuna patologia concepita sulla base di
opposte coppie concettuali, sequenze che indicano il ruolo che la
perdita e il suo contrario giocano in queste affezioni.
Il
senso profondo consiste nel sottolineare il ruolo delle
identificazioni nel destino della soggettività, che di continuo è
permeata da un interminabile processo di acquisizioni e perdite.
Se
l’eclisse del soggetto è sempre in agguato, a causa della scomparsa
dell’oggetto, vi sono tuttavia molteplici vie di confronto con la perdita, non ultima quella
del patimento del dolore in solitudine, il vivere fino in fondo la
precarietà a cui costringe l’assenza. Sopravvivere alla perdita
fonda la soggettività: “La perdita – scrive De Silvestris – è
sempre un’esperienza al limite: nel momento che si verifica è un
vissuto che mozza il fiato, come se si dovesse morire insieme
all’oggetto perduto, ma se un attimo dopo si respira, quell’aria
è solo nostra e vuol dire che si è sopravvissuti”.
Un’altra
possibilità, che di per sé ha
caratteristiche protettive è il
transfert, il quale “rende visibile l’inevitabile domanda sul
perché di una perdita”. Infine la perdita del padre, nel duplice
significato di iniziazione alle perdite e costruzione dell’identità,
tema strettamente connesso al pensare, lo ritroviamo anche in Màdera,
Fraire e Rossanda. I toni vibranti dell’articolo di Baldassarro, le
poesie scelte, il rigore teorico, ci avvicinano all’autore e
condividiamo sino in fondo il suo transitare tra soggettività ed
oggettività del pensiero.
Màdera
riflette sull’“oscurità dell’anima”, circoscrivendo
l’inafferrabilità del dolore depressivo, alla luce della ricerca di
A. Ehrenberg che approfondisce le interrelazioni tra ricerca
psichiatrica e psicoterapeutica, e trasformazione storico-sociale
della soggettività. Il mutamento della soggettività dell’uomo
moderno verrebbe segnato dal declino del modello conflittuale edipico,
dalla crisi del patriarcato e da un transitare verso un modello
depressivo – deficitario in un crescendo di diffusa crisi
identitaria. “L’ombra del padre ha cominciato la sua spettrale
esistenza nell’inconscio collettivo e personale”.
L’elusione
del confronto con il conflitto, l’angoscia e il limite spingono ad
assoggettarsi alle leggi della prestazione e all’indottrinamento
multimediatico, indotto dalle necessità di consumo delle società.
L’individuo affetto da una patologia identitaria cronica sviluppa un
delirio di inadeguatezza, non colmabile dalle difese maniacali, queste
semmai sono al servizio del capitalismo globale.
L’assenza
di riflessione, il lutto inconscio inelaborato della perdita del
paterno, annichiliscono la soggettività e crollano così i progetti,
manca una direzione, un gesto forte a cui riferirsi che abbia rispetto
per la natura e lo sviluppo dell’uomo.
Nel
dialogo tra Fraire e Rossanda riecheggia la perdita di senso che
travolge il mondo attuale e condanna a morte il significato, perdita
ancor più dolorosa per chi ha costruito attorno alla passione
politica il proprio modo di pensare e di vivere. Se la vicenda umana
è tragica, incomponibile e straordinaria avventura, il modello della
conflittualità non può essere scartato nella ricerca di un orizzonte
di senso. L’insegnamento civile di Rossanda ci guida a mantenere
fisso lo sguardo in questa direzione, a non rassegnarci verso
prospettive “astensioniste”, perché veramente non c’è più
tempo, “i tempi sono scanditi da altri non ce li
lasciano”…purtroppo.
E
il progetto politico deve e non può non essere collettivo, un
recupero anche estremo del padre potrebbe far virare la barca, da
acque torbide verso luoghi più etici e generativi. Il pensiero di
Fraire non è in opposizione, ma completa il discorso nel ricordare la
rivoluzionarietà della scoperta freudiana, che ha posto soggettività
e sofferenza al centro della sua ricerca. “L’ineliminabile beanza
tra il desiderio e la sua soddisfazione è non solo a fondamento della
frustrazione propria dell’umano, poiché
è sulla scoperta della costitutività di questa beanza che
poggia la moderna teoria del soggetto e del suo essere organizzato
attorno alla conflittualità”. Il confronto con la perdita,
esplicitato come “arte di tollerare e di attendere”, si ritinge di
femminile nelle parole di Fraire.
Nel
dialogo tra Fraire e Rossanda, il valore della condivisione tra
soggetti è il vertice su cui le autrici ci coinvolgono con passione,
sostenendo così la cultura
dell’incontro, quella dove anche il dissenso è strutturante.
Accennando al loro pensiero sulla perdita, vorrei solo illuminare
alcuni punti del discorso, di rara autenticità. Ad esempio, il valore
della soggettività e preservare un’area di pensabilità, nonostante
la perdita, le perdite – la fase autogenerativa di Aulagnier è
un’ipotesi avvincente sull’insorgenza di un istinto
alla soggettività fin dalle prime fasi della vita, e la madre
“portaparola” rappresenta per il bambino colei da cui un giorno si
potrà dissentire (Fraire).
Il
rapporto emblematico col corpo, che appare nel
suo
invecchiare, come se “uscisse fuori da una forma vera”.
“Sappiamo di essere il nostro corpo, ma pensiamo di averlo, come se
la coscienza avesse un altro ordine di esistenza, stesse nel corpo
come in una casa, lumaca nel guscio” (Rossanda). Il corpo femminile
di chi non ha avuto maternità, è un corpo non minacciato dalla più
terribile delle perdite, quella di un figlio. Si può attivare un
controllo preventivo sugli effetti di una perdita che sarebbe
catastrofica per la psiche? Convince quell’immagine di sospensione,
quel “bloccarsi” sull’istante che potrebbe precedere l’avvento
dolorosissimo, per arrestare l’ipotesi di una perdita irreparabile (Fraire)…
Le
considerazioni disincantate di Rossanda sulla difficoltà di elaborare
la perdita sono affiancate dalla lucentezza del pensiero e dalla
precisione vibrante dei ricordi che tradiscono una profonda umana
consapevolezza delle perdite subite.
Lo
sguardo dell’autrice, nel soffermarsi solo sulle “candele
spente” – quelle che anni fa fecero galleggiare come fiammelle
fluttuanti sulla Senna nella giornata dell’Aids – non cessa di
accendere di senso l’esperienza vissuta nel privato e nel pubblico e
la vita è veramente inimmaginabile senza “finitudine, sofferenza,
desiderio”.
La
fine e la separazione, sono sentite dalle autrici anche come
l’inizio di un nuovo viaggio. Uno dei punti centrali è considerare
la “separazione” come un processo possibile solo attraverso la
simbolizzazione, e inoltre che la perdita non riguarda l’oggetto, ma
il nostro investimento su di esso. L’Io può adattarsi gradualmente
alla perdita dell’oggetto e a quel vuoto di esperienza sensoriale se
è confortato dalla presenza e dalla condivisione con un altro
soggetto. Infine, il concetto che più avvince riguardo alle
trasformazioni: “La creatività può liberarsi al
prezzo
di una perdita grave o ci si lascia trascinare dalla morte, o tutto e
anch’essa, è messo al lavoro per la vita”.
Un’altra
coppia di donne dialoga sulla perdita. La scrittrice Sonya Orfalian e
Janine Altounian, esponente di spicco nello scenario della
psicoanalisi. Entrambe di origine armena e portatrici dell’immane
tragedia del genocidio.
Nel
loro incontro la perdita viene affrontata nei termini di chi ha subito
il trauma di dover abbandonare il luogo delle origini, di chi vive la
condizione di esule come effetto di una violazione della legittimità
di una soggettività ancorata alla sua terra di appartenenza.
Tuttavia
la condizione dell’esilio impone di ricercare nuovi orizzonti
identificatori che non possono più riconoscersi soltanto nel luogo di
provenienza inteso nella sua fisicità, nei suoi confini sensibili.
Sarebbe
possibile immaginare che l’elaborazione del “lutto del luogo”
possa aprire a questi individui apolidi per necessità un’area più ampia della mente che
favorisce, nella migliore delle ipotesi, i processi di simbolizzazione
e il raggiungimento di una nuova identità? Sempre ovviamente se
l’elaborazione del trauma sia stata possibile ed abbia avuto lo
spazio del riconoscimento ed il tempo necessario per metabolizzarla
sul piano psichico.
Ci
si interroga sui modi in cui la trasmissione della cultura e delle
narrazioni di un popolo, contribuiscono ad allargare questo campo di
coscienza senza decadere in celebrazioni ripetitive e autolesive
dell’identità. In che modo la “ferita” del genocidio può
diventare uno strumento di conoscenza e di valore aggiunto per la
soggettività di questi individui? Si potrebbe dire che nel destino
del popolo armeno, come anche di altri popoli costretti all’esilio,
la meta sia quella di elaborare la perdita mettendola a servizio della
costruzione di un “luogo interno”.
Per
raggiungere questo luogo delle origini all’interno del Sé, il
rapporto con la perdita dovrà “trasformarsi”. La memoria di un legame
indissolubile col trauma
dovrà essere recisa, modificata – né subire passivamente il
passato, né tagliare col passato ha alcun senso, “per elaborarlo ci
vuole impegno”. L’atto che fonda il superamento del trauma è
quello “di dare un nome
alla perdita”, “scrivere
per esprimere proprio questo sentimento della perdita, per parlare di
ciò che si era perduto e di come ciò che si era perduto si poteva
trasmettere”. Al tempo stesso “per riuscire a dare un nome alla
perdita bisogna potersi distanziare” e il confronto con altre
culture può rivelarsi un fertile terreno per trapiantare la propria
identità che comprende sia il passato sia la posteriorità
dell’esistenza. Per coloro che hanno affrontato l’esilio la
costruzione dell’identità è opera
ancora più complessa di chi non ha dovuto subirlo: “Un’opera in
continua evoluzione, fatta di inevitabili sovrapposizioni e necessarie
cancellature, un laboratorio sempre operativo. La perdita va colmata
con nuovi contributi, occorre continuamente rabboccare il vaso con
materiali sempre diversi”.
Si
resta forse sospesi a vita su un crinale dove la distruttività del
passato è osservata con distacco, riconosciuta, ricordata ma ha perso
la sua potenzialità virulenta, mentre lo sguardo è ormai anche
rivolto altrove… verso nuove mete progettuali, espressioni di
rinnovata vitalità. Uno sguardo non più adombrato dalla rinuncia,
dal vuoto identitario, paradossalmente arricchito dal “dolore vero
di un continuo perdersi e ritrovarsi”.
Altro
tassello di questo mosaico sulla perdita, è formato dai lavori di
Crozzoli, Giacchè, Veschambre. Sebbene
il lavoro di Crozzoli indichi l’attività di un gruppo che da anni
riflette sulla “morte”, sono tutti contributi molto personali,
hanno una radice intima che si commenta da sé.
L’attività
psicologica, sociale ed umana di Gruppo Eventi nel “perdonare la
morte”, ci avvicina alla comprensione del “significato delle
nostre vite”, prima che abbiano fine, e al senso della trasmissione
di un’eredità affettiva e spirituale verso chi resta.
L’inconscio, nei sogni dei morenti, mescola immagini di rinascita e
devastazione, e nei momenti estremi è ancora attiva una
trasformazione. Negli ultimi decenni, sempre più, individui
gravemente ammalati si
rivolgono agli psicoanalisti, per condividere l’ultimo passaggio di
vita, in ascolto della profondità del proprio essere.
Per
Giacchè, l’amico Carmelo Bene è compresente e sacro anche oltre la
morte. Così le linee dell’amicizia tangenti alla vita volgono
all’infinito, volando alto sulle “storie tra amici” – quelle
che sono le brutte copie di un sentimento nobile come l’amicizia,
malate invece di fusionalità ed invidia. L’attore nell’essenza è
umano e in-umano, è colui che compie una “misteriosa iniziazione”
verso l’alterità, votando se stesso al vuoto e allo smarrirsi.
“Maschera funebre calata sul volto dell’Io e aperta verso il
ventre oscuro della sua mancanza”. CB, così amava chiamare se
stesso, straordinaria “macchina attoriale”, nella sua straziante e
insieme gioiosa parodia dell’agonia si è inoltrato verso il
“cosmo vuoto del non-luogo teatrale, a sfidare un vuoto perenne e
sovrastante – che condanna ad una solitudine assoluta”. Giacchè,
l’amico di CB, ci ha regalato un sorriso sulla perdita, evocando,
attraverso la forma del linguaggio, i pensieri e l’affetto, la parte
più indefinibile e misteriosa dell’anima di un vero attore.
La
scrittura rivela, per la scrittrice Veschambre, lo stesso Essere. Il
dolore psichico ha bisogno di poche giuste parole per essere narrato.
La prosa poetica, sfiorando i tempi morti, il vuoto, l’ignoto
ritrova le radici del linguaggio, quelle in cui la parola attinge alla
preistoria e si spoglia dei muri difensivi. Le lingue hanno un suono,
le parole hanno qualità tattile, il linguaggio ha una sua carnalità
connessa alle origini. L’uso rarefatto estetizzante di una lingua
staccata dal corpo è una trappola seduttiva che stritola l’essere.
C’è un sentimento che unisce corpo e parola, l’autrice lo
riscopre nel silenzio e nelle parole povere. A questo “scrivere
sensibile” vorrei dedicare l’immagine dell’“omega melanconico” che Pontalis cita in
“Finestre” (13). L’omega è la lettera arcaica incrostata sulla
fronte di un melanconico algerino, un uomo affetto da mutismo, che
amava nascondersi tra i rami di un fico nell’ospedale. “Fuggire il
mondo desolato per confondersi con un fico portatore di frutti che si
aprono come una bocca, come il sesso di una donna. Fuggire nel
silenzio. Soprattutto non dire niente. Forse scrivere, affinché la
prima e l’ultima lettera, l’alfa e l’omega, diventino una
lettera sola, indecifrabile ma visibile. Il corpo di una lettera
morta, aperta all’infinito”.
A
proposito dello scrivere che è così celebrato in questo libro, cito
una riflessione di Rand e Torok, tratta da un articolo di Kancyper
sull’opera di Borges: “La letteratura aggiunge qualcosa
d’imprevisto. Grazie alla sua specificità fa maturare lo strumento
analitico e ne arricchisce le possibilità di ascolto. Negli scambi
tra letteratura e teoria analitica questo privilegio sarà affidato al
testo letterario. Il loro incontro darà luogo a continue modificazioni
teoriche, non a conferme, ma a conformazioni. Così sarà la
psicoanalisi ad adattarsi al testo letterario e non viceversa. Laddove
la clinica non ha fornito (almeno non ancora) un modello sicuro per
l’intuizione freudiana, la letteratura potrebbe essere chiamata a
farlo (…). Converrebbe invertire le abituali relazioni tra
psicoanalisi e letteratura, nel senso che l’opera letteraria, invece
che come campo di applicazione per le conoscenze psicoanalitiche
acquisite, potrebbe essere considerata come qualcosa che va oltre la
psicoanalisi, qualcosa che la dota di nuovi strumenti d’ascolto e di
comprensione”. (14)
L’opera
d’arte è il campo al quale può attingere non solo la psicoanalisi
ma qualunque uomo la osservi, si commuova e partecipi alla sua
creazione con uno sguardo interiore.
L’arte
in generale, la letteratura, la musica da sempre dialogano tra loro.
“Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei
nostri sentimenti” scrive Kandinsky nel libro Lo spirituale nell’arte (15). “La vera opera d’arte nasce
‘dall’artista’ in modo misterioso, enigmatico, mistico.
Staccandosi da lui assume una sua personalità, e diviene un soggetto
indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta.
Diventa un aspetto dell’essere. (…) Vive, agisce e collabora alla
creazione della vita spirituale. (…) l’arte non
è l’inutile creazione di cose che svaniscono nel vuoto, ma è
una forza che ha un fine, e che deve servire allo sviluppo e
all’affinamento dell’anima (…) Se l’arte si sottrae a questo
compito rimane un vuoto, perché nessun’altra forza può
sostituirla. In tutte le epoche, quando l’anima ha più vita,
l’arte è più viva, perché l’anima e l’arte si influenzano e
si arricchiscono a vicenda” (16). Le parole di Kandinsky sembrano
risuonare nelle opere ricche di significati e trascendenza di Bill
Viola… Diversamente, conclude l’artista russo, l’art pour
l’art, quella senza scopo soffoca
l’anima.
Nell’universo
percettivo dell’arte la musica ha un posto d’onore. I suoni nella
loro purezza colpiscono direttamente l’anima.
In
origine affiorano i “suoni fisici” che appartengono ai segreti del
corpo della vita-intrauterina, e proseguono sul pentagramma
dell’esistenza con il ritmo del dondolio, il suono della parola
umana, attraverso i corpi che come strumenti musicali risuonano nello
spazio. Nella mente particelle emotive si aggrappano a tracce di
suoni, come fossero “monadi” sonore che vagano alla ricerca di un
significato. Il musicista non cessa mai di organizzarle in un
linguaggio compiuto mediante un’opera di fine tessitura.
Anche
la voce umana dunque veicola un’interiorità sonora come sostiene il
compositore Giagni ricordando una performance dell’artista
contemporanea
Marina Abramović:
quando è una nuda disperazione a reclamare la scena non si può
scegliere che la voce, quella che si possiede e quella che si perde…
come ci testimonia col suo vissuto anche la scrittrice Veschambre. “La
voce, la fibra sottile, si perde nel suo esaurimento: siamo al lutto
dell'esperienza musicale più nativa e strutturale negli esseri umani,
la voce che se ne va, oggetto sospeso tra il silenzio che precede e
quello che segue, uno in rapporto con l'altro, come alfa e omega”.
La
fabbrica della musica
può sconfiggere il silenzio, ricorda Giagni attraverso il pensiero
del filosofo Deleuze, i prodotti dell’atto creativo resistono per definizione anche alla
morte. La musica, arte immateriale per eccellenza, produce
oggetti a loro volta destinati a produrre in chi li ascolta percezioni
e affetti, e facendo muovere i suoi materiali all’interno di una
cornice temporale definita e non reversibile. Ed è proprio questa
sua intrinseca caratteristica a farla “resistere” alla morte, a
farle sfidare il tempo. Nella grammatica della musica, il ritornello costituisce l’unità strutturale alla base della capacità
di innescare insiemi illimitati di trasformazioni progressive,
crea le condizioni per ritrovare/ritrovarsi, dopo una perdita, dopo essersi smarriti.
“Prisma”, “cristallo di spazio-tempo”, il ritornello “che
fabbrica ogni volta tempi differenti” riesce “a spostare l’asse
del dispositivo chiuso, del per
sempre che la vita e la morte incessantemente ci mettono di
fronte”.
L’incanto
musicale del “tempo ritmicizzato” (Debussy) va ben oltre il senso
narrativo compiuto di una storia, penetra nell’intimo e produce un
evento psicologico in cui l’ascoltatore vive una relazione
d’oggetto con la musica. Dietro le note si nasconde un uomo che
compie un’opera per l’eternità, la sua arte astratta aiuta altri
uomini a vivere nel tempo delle loro vite.
La musica ha la potenza di un gesto che tocca l’inconscio,
attraversa le generazioni e diventa mitologia trasmessa da padre in
figlio, traccia indelebile di memorie affettive; mescola ricordo a
desiderio e scandisce la ricerca dell’uomo verso una via di salvezza
e lo accompagna addolcendo la caducità dell’esistenza (17). Anche
le lingue del mondo possono essere musica – come scrive Veschambre
– comporre una sinfonia polifonica dove le parole più diverse si
consumano come sassi che rotolano per secoli o millenni, formando
quella sottile pellicola di contatti e scambi che tiene uniti i paesi
della terra. La musica nella sua accezione più universale s’incarna
nelle vite degli uomini, diventa la loro storia e segue il loro
destino e alla fine di ogni percorso umano s’impone come distillato
simbolico incancellabile.
Concludo
su queste note l’introduzione al libro esprimendo ancora una volta
la mia gratitudine agli Autori che hanno aderito a un progetto
coinvolgente e non semplice, preziosi compagni di viaggio in queste
acque difficili.
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