Il
Trattato della ricerca
diadromico trasformazionale è l’ultimo libro di Sergio
Piro e segna una svolta importante nel suo percorso di
ricerca. Il libro è sia la storia breve ed essenziale di una
ricerca personale durata più di cinquanta anni partendo dalla
semantica del linguaggio schizofrenico, sia un manuale
utilizzato da ricercatori molteplici e diversi (psichiatri,
medici specializzandi in psichiatria, studenti in medicina,
malati “mentali”, volontari, giovani dei Centri Sociali)
per una ricerca collettiva (la ricerca regionale denominata
“Prassi
trasformazionali in campo di esclusione antropica”,
2003-2005) nel campo unificato dell’esclusione sociale e
dell’abbandono istituzionale: è un campo che opera una
connessione fra forme di esclusione e di abbandono, ma che
pone anche osservante e osservato, in quanto soggetti che
vivono la medesima condizione di emarginazione e negazione dei
diritti, sullo stesso piano da un punto di vista operazionale.
Si
diceva che il Trattato
della ricerca diadromico trasformazionale è un libro che
segna una svolta. Essa (la svolta) consiste, a mio avviso,
nella scomparsa nel titolo, rispetto ai due libri importanti
precedenti quali Antropologia
trasformazionale e Introduzione
alle antropologie trasformazionali, del sostantivo
“antropologia/e” unito
all’altro termine caro al nostro autore:
“trasformazionale” (che invece giustamente e
pervicacemente persiste).
Di
fatto non muta il preso di mira, la condizione antropica colta
nel suo incessante mutamento linguistico, patico,
doxico-ideologico, noetico-noematico, ma muta la protensione
dell’autore, il suo linguaggio.
Questo
– sempre controllato ma mai sterile, astuto sotto il profilo
epistemologico ma mai pedissequo – diviene strumento del
volgersi di Piro alla sua stessa intera ricerca, a quel
procedere a zig-zag oltre le barriere disciplinari che è
sempre stata cifra peculiare e inconfondibile del percorso di
cui si diceva in apertura.
Nella
protensione di Piro verso il mondo, la diadromia e la
trasformazionalità diventano i caratteri stabili della
ricerca antropologica. Antropologico
continua a designare il campo di studio, ma le portanti del:
- continuo rimbalzo/rimpallo tra epistemogenesi
ed epistemologia, generatore di paradossi e di transitorietà
(diadromia),
-
l’inarrestabile trasformazione
dell’osservante e dell’osservato
sono
i caratteri distintivi di quella ricerca antropologica pratica
che Piro addita come lo sforzo di una vita e come una
possibilità per altri ricercatori nel campo. Facciamone un
paio di citazioni:
«4.7.5.3.
Se tutti coloro che fanno ricerca, nel senso più lato della
parola, tentassero di esplicitare il contatto (o il corto
circuito) fra la loro epistemologia
spontanea, continuamente
rinascente in ogni esperienza ontica, con la tematizzazione e
l’espressione dei
risultati della loro ricerca, si avrebbe un duplice positivo
risultato: da un lato una più decisa espulsione dei reismo e
della “logica” cosale, dall’altro lato una maggiore
disposizione ad accogliere contraddizioni, paralogismi e
paradossi come una componente ineliminabile in un sistema
auto-riflettente» (cap. IV p. 249). E più avanti:
«4.8.6. E se la definizione di diadromia
come paradossale è
data per scontata (una
proliferazione locale di spunti teorici mutualmente
incompatibili), ne viene che ancor più propria e generale
è l’attribuzione di transitorio
all’atteggiamento epistemologico della fase che si apre
negli ultimi anni per questa ricerca» (ibidem
p. 256).
E
qui occorre un richiamo e una conclusione per questo discorso
che potrebbe apparire astratto, teorico, per addetti ai
lavori. Così non è.
Occorre
tenere a mente la scomparsa nel titolo di quel termine
“antropologia”. Infatti esso accompagnato all’attributo
“trasformazionale” ha ingenerato, nel passato, equivoci e
ha lasciato spazio a tentativi neodisciplinari e perfino
libro-professionali. Piro se ne avvide e già nel 1997 titolò
il suo libro “Introduzione alle antropologie
trasformazionali”, mitigando in parte la durezza semantica
di una antropologia sussuntiva unitaria. Ora la ricerca
antropologica diviene diadromico-trasformazionale, ora nessuno
equivoco è più possibile. Essa, la ricerca antropologica,
che si dispiega (se vera ricerca) tra l’inarrestabile
capovolgersi di ogni discorso nel suo contrario e
l’inarrestabile trasformarsi dell’osservante e
dell’osservato, è, ad un tempo, pratica e teorica, a tutti
appartiene e a tutti pertiene, senza distinzione di censo, di
razza, di laurea o diploma. Essa non mira a cattedre
universitarie o a posti di primario o alla professione
privata.
Il
Trattato della ricerca
diadromico trasformazionale, punto di arrivo (e di
rilancio orbitale) di una ricerca individuale lunga,
appassionata, contraddittoria, può dunque offrirsi come
manuale per una ricerca plurima, corale, democratica,
egualitaria: qui la sua grande novità, espressione fortemente
attiva della nostra speranza per un mondo diverso.
Antonio
Mancini
|
|