Questo non
è un libro sul genocidio degli ebrei. Psicologia
dell'antisemitismo è piuttosto, lo si vedrà, un libro
sull'antisemitismo ordinario, storicamente ripetitivo, concepito
come scena radicale o esemplare di tutte le follie razziali che
esplodono, per crisi, nelle società occidentali. Quando Imre
Hermann, durante la seconda guerra mondiale, senza dubbio verso il
1943, o tutt'al più all'inizio del 1944, concepisce e scrive questa
lunga riflessione sull'antisemitismo, che pubblica solamente nel 1945
dopo la liberazione, è non solamente a titolo di psicoanalista, ma in
quanto sostenitore del marxismo-leninismo. Nel momento in cui, sullo
slancio dell'"Istinto filiale"(1) egli scrive questo libro,
l'estremo della convulsione antisemita, per lui, come da lui indicato,
è rappresentato dai campi di lavoro obbligatorio in Ucraina, in cui
gli ebrei ungheresi sono ristretti al servizio degli eserciti
ungheresi (1941-1942). Dei campi di sterminio egli non sa nulla. La
deportazione degli ebrei ungheresi, dopo l'invasione tedesca, comincia
solamente nel maggio 1944.
Per certi
versi si troverà qui, dunque, l'analisi di un antisemitismo nei limiti
della semplice ragione: almeno nei limiti della ragione
socio-economica da un lato (di cui Hermann ha cura nel
riservarne il ruolo), psicoanalitica dall'altro. Perciò questo testo,
pubblicato qui in francese dopo più di quaranta anni, offre due
interessi pressoché contrari. Da una parte egli mostra i limiti di un
pensiero ancora <<ragionevole>> dell'antisemitismo, un pensiero che,
malgrado l'inquietudine ed il pessimismo che si sentirà trapelare
sotto la fredda analisi, non è stato ancora colpito dagli effetti
della vertigine sterminatoria. Ma d'altra parte, in questi stessi
limiti, esso resta, persino nelle sue 'impasses', di una flagrante
attualità.
Scena
radicale o esemplare di tutte le follie razziali che
contraddistinguono le società occidentali: è così che Hermann tenta di
avvicinare questo crocevia atroce in cui i popoli si negano, e che
egli designa come <<psicosi epidemica delle masse>>. Una tale psicosi
non può dipendere da un concetto unico o da una struttura semplice.
Non solamente il puro concetto dell'odio si trova interamente
squalificato, ma la struttura paranoica, che fornisce il modello del
meccanismo della proiezione, trova il suo estremo ed il limite in ciò
che Hermann chiama <<l'assioma di scelta>>, termine attorno al quale,
in favore dell'ambiguità mantenuta dalla lingua ungherese tra
<<paranoico>> e <<paranoide>>, l'analisi di Hermann ruota fino a
congiungere alla paranoia il suo altro psicotico. Progressivamente in
effetti, la dimensione paranoica che Hermann dimostra dapprima nella
psicologia individuale dell'antisemitismo deborda a tal punto dal suo
modello psichiatrico estendendosi alla psicologia collettiva, che la
schizofrenia viene a poco a poco a duplicarla in un terribile
paradosso, per tentare di caratterizzare le deviazioni più radicali
dei meccanismi che sono all'origine per l'essere umano della sua presa
nel socius, fino ad unirsi ad essa in questo specchio folle che
presenta ad una folla razzista il suo leader.
Così si
trova fondata come specifica, per Hermann, l'indagine psico-analitica
di queste devianze. Se c'è, in effetti, una necessità per lui di
scrivere e di pubblicare la "Psicologia dell'antisemitismo", è a
titolo di approfondimento che può essere in contributo, a tutte
le altre analisi o descrizioni possibili, della teoria psicoanalitica.
Questo approfondimento porta più lontano rispetto alle tesi freudiane
che egli riprende superandole. Esso consiste, per noi, in una parola
che emerge dal testo di Hermann: quella del godimento.
L'antisemitismo tocca al godimento, non solamente ignorato, nascosto,
ma incompiuto dell'uomo in quanto essere sociale, e discende dalle
modalità dell'orrore che, per disconoscimento e ribaltamento
proiettivo, ma anche per destrutturazione nel profondo, esso suscita
nella realtà. Le manifestazioni storiche dell'antisemitismo si
intersecano quindi sempre in una duplice dialettica dell'orrore e del
godimento che tiene nella sua tenaglia allo stesso tempo i persecutori
ed i perseguitati, gli assassini e le loro vittime. E lo si vedrà se,
fino ad un certo punto, lo stesso Hermann non si porterà a
momenti all'interno di questa dialettica. Almeno qui sottolineiamo
quanto dall'inizio alla fine insista sotto la sua pena la questione
del reale: questo reale che tramuta nell'abominevole tutti i tratti
della realtà, compresi quelli economici, in cui il razzismo può
trovare il suo pretesto.
<<I crimini
reali, scrive Imre Hermann, non danno luogo a delle accuse così ben
fornite, così continuamente alimentate dall'immaginario e così
apportatrici di godimento per gli accusatori. Che si tratti
dell'avvelenamento dei pozzi, origine dell'epidemia di colera, o di
assassinio o di incesto, l'orrore è la caratteristica principale delle
accuse>>.
Capovolgiamo dunque questa proposizione per esporne chiaramente la
conseguenza: il godimento destrutturato, pervertito, proiettato
immaginariamente nell'impossibile, non solo produce il crimine reale
degli accusatori nell'incontro con le loro vittime, ma lo genera
indefinitamente, miriadi di volte, senza senso.
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Di
passaggio, sottolineiamo i tratti pungenti con cui Hermann
disegna il ruolo della colpevolezza cristiana: attorno alla
dualità conflittuale padre-figlio, il godimento che ossessiona il
cristianesimo ed il suo capovolgimento dialettico fanno vedere
negli Ebrei dei fantasmi e dei 'reventants' di ciò che è stato
respinto o ucciso, in virtù di un assioma che Hermann enuncia qui,
e le cui conseguenze sono sempre vere: <<I padri detronizzati non
sono ciò nonostante annientati nello psichismo>>.
L'altro
concetto chiave che a noi piacerebbe ricordare è che
l'antisemitismo non dev'essere considerato solo nei momenti
parossistici delle sue esplosioni, ma anche nei suoi periodi di
latenza e di preparazione. In tal senso, è proprio come se fosse
una malattia collettiva che bisogna analizzare, non solo
epidemica, ma endemica. Se non si ammette in effetti l'esistenza
di meccanismi di ordine paranoico nella produzione del capro
espiatorio, bisogna ancora smontare il meccanismo di attribuzione
collettiva che funziona al principio dell'epidemia, ed è a ciò che
si dedica Hermann cercando di comprendere, al di là di una somma
di processi singoli, <<come il persecutore individuale si fonda
nella collettività, come la famiglia, lo Stato, l'associazione, la
razza diventino dei persecutori>>.
Oltre
ancora ai meccanismi della proiezione, bisogna ammettere un
<<istinto che riduce la vita, abolisce le particolarità e rende
gli individui uniformi>>. Questo sforzo di rendere l'altro
identico ad un tratto, ad un segno unico, non avviene senza
ricordare <<lo sforzo di rendere i sessi somiglianti>> che si
trova anche nella paranoia. Come anche la trasposizione della
classificazione zoologica ai gruppi umani. Ma al di là di un vizio
di pensiero, è la radice ambivalente dello statuto dell'animalità
per l'uomo che è in causa. Perciò non è un caso se tutto il testo
di Hermann appaia come ossessionato dalla questione
dell'animalità. Al contempo fonte di modelli e contrasto, spazio
da conquistare e da distruggere, luogo di pregnanza istintuale e
di attrazione orribile, l'animalità testimonia della profonda
ambiguità dell'uomo nei confronti del suo statuto simbolico, che
si paga sempre con il godimento. (...) |