Presentation   News Editorial    board   Archives    Links   Events Submit a     paper Sections
contacts & mail

FRENIS  zero       

Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Direttore Editoriale: Nicole Janigro

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Marina Breccia (Pisa), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Massimo Maisetti (Milano), Livia Marigonda (Venezia), Predrag Matvejevic' (Zagabria), Franca Mazzei (Milano), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 14, anno VII, giugno 2010

"Cinema, autentica passion...!"

 

   IL CALORE DEL SANGUE

 

 

  di  Lella Ravasi

 

   

 

L'autrice è nata a Milano dove vive e lavora come analista junghiana. Membro dell'Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (A.R.P.A.) e dell’"International Association for Analytical Psychology", collabora a numerose testate. Ha pubblicato diversi libri – nelle edizioni Cortina "Di madre in figlia" (1987), e "La lunga attesa dell’angelo" (1992) – sul tema della relazione analitica, in un linguaggio che intreccia terapia e narrazione. Il suo ultimo libro è "Sogni senza sbarre" uscito nel 2005 sempre per Cortina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Otto David di Donatello 2010 dalla miglior scenografia, fotografia, montaggio eccetera, e il David come miglior regia a Marco Bellocchio sono un riconoscimento finalmente importante a un film uscito l’anno scorso e non ancora abbastanza capito: la storia di Ida Dalser, trentina, amante del giovane Benito Mussolini quando lui è ancora socialista, madre del suo figlio maschio primogenito Benito Albino, e dall’uomo divenuto il Duce poi cacciata, rifiutata, negata, chiusa in manicomio, e lì morta. Un film potente, straordinario per la passione e assieme per la rigorosa tenuta stilistica, perfetta, niente proclami, una verità, quella del fascismo, che corre gelida dentro tutti noi. L’impronta di sangue e di neve segna la vita di Ida Dalser, corre come sangue e come neve , passione e gelo.Tra le immagini che ti si stampano dentro e che non se ne vanno (in un film ricco, profondo e compiuto, a cui continuo a tornare, probabilmente il capolavoro di Bellocchio) in me rimane la mano di Ida insanguinata all’inizio della storia quando abbraccia lo sconosciuto (il giovane allora rivoluzionario socialista Benito) in fuga e si ritrova segnata dal rosso della nuca ferita di lui, e l’altra immagine è quella neve dietro le sbarre del manicomio in cui la donna si staglia arrampicata anni dopo - quando tutto è dentro il gelo di morte – e lancia le sue lettere al mondo, nel silenzio del bianco che cade.

Una visione che commuove, che contiene tutto il dolore crocifisso della creatura in gabbia, il manicomio come una prigione, e la donna sospesa sullo sfondo infinito della neve oltre la grata. Il rosso del sangue, dell’amore passione a cui si è data; il gelo in cui la fine dell’amore, il tradimento della passione, l’ha confinata.

Un’eroina tragica, assoluta, che non vuole venire a patti, che urla la sua verità, che pretende dall’uomo il riconoscimento della storia d’amore, ma più ancora non sopporta il tradimento di lui, la scelta non solo di un’altra donna, ma di un’altra vita da cui lei è esclusa. Non è l’abbandono, è la perdita di qualsiasi senso dell’esistenza. Il suo essersi data totalmente a lui non le lascia via d’uscita, è viva solo dentro la passione, e l’esclusione la condanna a un dolore sempre più prigioniero, malmenato nella camicia di forza.

Medea, dice Bellocchio della sua Ida Dalser. Come Medea ha lasciato tutto alle spalle, non ha salvato niente, né beni materiali né tracce di identità, di autonomia di donna, ha un figlio, ma - come Medea - l’amore per lui non basta a salvarli. E’ il femminile la condanna, è la passione assoluta, il calore del sangue, a dannarla. Il materno urla in lei ma va oltre il figlio, è quell’unico uomo a esserle amante e figlio (gli allaccia le scarpe, lo sguardo adorante) e il bambino segue da sempre la madre, ne incorpora l’assoluto, fino a dannarsi, lui sì, nel marasma, nella confusione mentale, gravato dal destino di figlio rifiutato che porta all’estremo il rifiuto, nella maschera violenta e caricaturale del padre, del dittatore.

Una storia tremenda, vera, quella di Ida Dalser, che ricalca Medea, l’eroina tragica, e ne ripete la “terribilità”, come scrive Kerénji citando Euripide: il divino in lei domina, non ha mediazioni umane rispetto a un assoluto che la porta altrove, se non nella profondità del soffrire. La questione di fondo che Euripide pone con Medea è l’enigma del coesistere del divino con l’aspetto demoniaco del femminile, senza tuttavia farlo precipitare nel male, ma innalzandolo a  una nobiltà e a una dignità sofferte e segrete. Quella che appare esaltata in Euripide è di Medea la “libertà del terribile” che non richiede giustificazioni ma esiste, e contiene in sé il lato più oscuro del femminile, cruento e violento, barbaro e potente, sofferente e sacrificale.

Ida Dalser non è “la figlia del Sole” di Euripide, non fugge sul carro del Sole dopo aver ucciso i figli per uccidere in loro il suo uomo e loro padre Giasone che l’ha ripudiata, ma anche in lei non ha luogo il materno quieto che subisce per amore - cioè la rassegnata moglie madre fascista, ruolo che le viene suggerito di recitare da uno psichiatra più umano degli altri aguzzini - è più forte la potenza di un assoluto con cui non può venire a patti. Lui, il duce come Giasone, le ha tolto tutto: negandola come donna la costringe a vivere l’ossessione d’amore, a crescere il figlio gravandolo di questa ossessione, e assieme obbligandolo all’impotenza di una non identità. Lei, la donna, sfida al riconoscimento dell’identità e lui, l’uomo, la nega. Fino a farla rinchiudere in manicomio. Storia antica, come quella di Medea, la vicenda di questa donna vittima e protagonista dell’incantesimo dell’amour passion, ma anche della irriducibilità della passione per l’assoluto.

Estrema come vicenda, porta traccia della vita di tante donne anche oggi, ma più ancora nel film è una storia personale che racconta una storia collettiva. Ida non sa se stare in pace o in guerra, vuole stare con il suo uomo, e se lui vuole la guerra guerra sia. Lei lo segue, fa propri gli ideali di lui, vende tutto per seguirlo nella sua avventura, gli si dà bruciando tutto alle spalle, come Medea con Giasone, come i milioni di italiani che andranno a morire nella guerra, alcuni scegliendo la via eroica, la maggior parte condannati coscritti a partire - come sempre- per  morire in una guerra non voluta ma esaltata come “l’unica igiene del mondo”.  E poi sarà l’esaltazione “maschia” a costruire la violenza del fascismo, a inventare la prigione-manicomio in cui seppellire la diversità, le voci altre dal “credere-obbedire-combattere”. 

E allora il film è un affresco di vita personale e collettiva assieme, in cui ritroviamo le nostre vicende di passioni assolute che dannano il mondo individuale come la storia del mondo. Il fascismo ci corre davanti agli occhi nelle immagini dei cinegiornali d’epoca: il corpo del duce è per Ida il corpo che l’ha negata, dopo averla marchiata per sempre con un figlio così simile a lui, è per noi (che con lei vediamo le immagini di allora) il corpo della macchina che ha trascinato il paese nella dittatura, nella perdita di senso individuale, nella morale “marciare e non marcire”. Il racconto vive di straniamento e di realtà, gli occhi di Ida diventano gli occhi della storia, diventano in noi lo sguardo impietrito (anche se l’abbiamo visto molte volte nei documentari dell’epoca qui è un’altra cosa, qui non è documento del passato, è incarnazione) di chi è costretto a chiedersi “ma come è stato possibile? Quell’uomo sempre più caricatura di se stesso, la mascella in fuori, gli occhi roteanti, le pause a effetto tra le parole, come ha fatto a creare una catena di consensi, a costruire un mondo di omologazione?” E’ vero che questo è un film antifascista, ma non solo perché fa storia e mette fuori i fantasmi del passato, ma perché mostra il germe oggi, come allora, della violenza fascista nell’anima.

E dunque Ida non è solo la donna che pretendeva in modo irriducibile che venisse riconosciuta la verità, in lei non è solo viva la sua realtà personale, ma diventa anche la metafora collettiva dell’origine delle dittature, della distorsione della verità, della menzogna che annulla, ridicolizza, costringe al silenzio chi non si arrende, tratta come pazzi e visionari gli oppositori. Ida diventa un pezzo di tutti noi, una coscienza di dubbio irriducibile che non si rassegna. Ma come fare a vivere senza esserne travolti? Ida e suo figlio non ce l’hanno fatta. Milioni di italiani non ce l’hanno fatta. E alla fine il regime è stato travolto dalla guerra, il testone schiacciato da una pressa, come sempre finiscono le statue dei dittatori. Ma la follia e la morte sono lì, invincibili. La follia del duce Benito diventa quella del figlio, Benito Albino, prigioniero della disperata identificazione col delirio paterno. Il marasma della follia del fascismo e della guerra sono raccontati nell’immagine folgorante del marasma clinico del giovane figlio impazzito.

E oggi? Non si fanno analogie semplificate. L’origine del fascismo come delle forme totalitarie sta dentro la violenza e la riduzione a nullità dell’altro, e se l’altro è una donna ancor meglio: gli strumenti sono molti, diversi tra loro, e tutti puntano a una omologazione, a uno stare dalla parte dei vincitori, all’uso del potere come sopraffazione dell’avversario. E allora, dolorosamente, Ida Dalser è un pezzo della storia di tutti noi, nello svolgersi del fascismo come regime. Ma lo è ancora di più nel fascismo dell’anima, della psiche collettiva, nella nostra riduzione a schiavitù da parte di chi pretenderebbe di uccidere in noi la coscienza di dubbio che, irriducibilmente, e per nostra fortuna senza morirne come Ida, siamo invece chiamati a vivere. Uscendo dalla passione narcisistica dell’assoluto e imparando la mediazione positiva forse di un materno che salva il futuro senza rassegnazione. Tra il calore del sangue e il gelo dei sentimenti inventando un’altra strada come dice la Cassandra di Christa Wolf:  “tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Editor sito web e responsabile editoriale: Giuseppe Leo

 

Copyright A.S.S.E.Psi. - Ce.Psi.Di.- Edizioni  "FRENIS ZERO" 2003-2004-2005-2006-2007-2008  -2009 - 2010

 

Copyright

Tutti i contenuti delle pagine web di questa rivista telematica  sono proprietà dei rispettivi autori. Ogni riproduzione, ri-pubblicazione, trasmissione, modificazione, distribuzione e download del materiale tratto da questo sito a fini commerciali deve essere preventivamente concordato con gli autori e con il responsabile editoriale Giuseppe Leo. E` consentito visionare, scaricare e stampare materiale da questo sito per uso personale, domestico e non commerciale.

Nota legale

 

Questo sito web non effettua trattamento di dati personali ai sensi della legge 196/2003