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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
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"Vite soffiate. I vinti della
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Anno/Year: 2008
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
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Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
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La
pratica della psichiatria, in molti paesi dell’Europa e in
differenti parti del mondo, diviene sempre più meccanica e
depersonalizzata. Per ragioni pratiche ed amministrative,
apparentemente per mancanza di tempo, tale pratica diviene, nelle
istituzioni, sempre più “reificata”
ed anonima. Il paziente appartiene spesso ad un quadro
nosografico pratico ed attualizzato, ed il trattamento farmacologico
corrisponde a “tale o talaltro” sistema classificatorio, ossia
all’ideologia psichiatrica ufficiale. Il paziente tipo vuole
logicamente sentirsi meglio, ma non vuole necessariamente
conoscere e comprendere la propria malattia. Comprendere
implica un approccio psico- e socio-terapeutico che tocchi l’intimità
del transfert interpersonale ed istituzionale.
Freud
considera la conoscenza di sé e delle parti <<oscure del
pensiero>> (Leibniz,
Maine de Biran), ossia dell’inconscio, essenziale sul piano
terapeutico. L’arte di scoprire il senso delle cose implica un
attaccamento affettivo (Leibniz, op. cit., 1683).
Anche
la famiglia ha bisogno di sostegni emotivi e che favoriscano la
comprensione, soprattutto nel caso di pazienti isterici e psicotici,
dato l’impatto e l’espansività dell’”ansia psicotica” nei
loro abituali contesti.
Se
la famiglia non può contenere l’ansia psicotica, essa cerca
un’istituzione che, eventualmente, potrà farsi carico di una tale
funzione: tollerare, ossia contenere, l’<<Angst>> del
paziente. Tollerare una tale ansia non può essere “prescritto” al
personale curante, è necessaria un’equipe curante motivata e ben
formata. Sappiamo molto bene che la dose farmacologia prescritta
dipende molto dal grado di tolleranza della “persona psicotica”
come anche dalla natura del transfert del personale curante e dello
psichiatra. Inoltre, la relazione di transfert istituzionale implica
anche un’etica dell’incontro. Non è un caso se il mio primo libro
pubblicato in Francia, oramai quarant’anni fa, aveva come titolo
“Persona e psicosi”. Ero stato ispirato in parte da un libro di
Wyrsch
intitolato “La persona dello schizofrenico”.
Quando
lasciai Buenos Aires nel 1957 per andare a Parigi e poi a Londra, la
mia ultima analista, la dott.ssa Alvarez di Toledo, mi disse:
<<E’ bene completare la tua formazione in Francia ed in
Inghilterra, ma attenzione! Non bisogna dimenticare che la relazione
coi pazienti non è solo questione di oggetti interni o di meccanismi
dell’io, ma è un confrontarsi da persona a persona>>.
E’
questa dimensione che ho ritrovato più tardi in Francia ed anche in
Inghilterra. In particolare, con F. Tosquelles all’Ospedale “Saint
Alban” a Lozère, con J. Oury a “Cour Cheverny” e più tardi con
Roger Gentis a Orleans.
Tutti questi colleghi facevano parte del gruppo della psicoterapia
istituzionale. Ho avuto l’opportunità di fare la conoscenza della
psicoterapia istituzionale (termine suggerito dal dottor G. Daumézon
che è stato mio primario
e mio amico durante il mio tirocinio all’Ospedale “Sainte
Anne” nel 1957).
Durante
il mio soggiorno in Inghilterra (negli anni ’50 e ’60), ho avuto
l’opportunità di lavorare e di studiare con Melanie Klein, Bion,
Herbert Rosenfeld,
Winnicott, Esther Bick ed altri.
Nel
corso del mio soggiorno in Inghilterra ero stato incaricato di
dirigere una comunità di giovani pazienti psicotici, sia uomini che
donne, in un grande ospedale psichiatrico nel Surrey, a Coulsdon (“Netherne
Hospital”, nel 1958). Ho avuto anche la fortuna di poter scambiare
delle idee con Maxwell Jones, direttore all’epoca di un ospedale che
prendeva in carico pazienti psicopatici. Si trattava dell’Unità per
Psicopatici di Belmont. Maxwell Jones era uno dei pionieri e dei
“rivoluzionari” nell’organizzazione delle comunità
terapeutiche. Il termine di “comunità terapeutica” è stato
utilizzato per la prima volta da Tom Main al “Cassel Hospital”
dove ho lavorato per parecchi anni. Questo ospedale aveva un
orientamento kleiniano.
Sono
rientrato a Parigi nel 1970. Qui, sono stato invitato a tenere
delle conferenze all’Ospedale “Sainte Anne” (nella sala
Magnan) in cui volevo far conoscere la mia esperienza in Inghilterra
ed accostarla alla psichiatria francese. In seguito, sono divenuto
“Maitre de Conférences” in Psichiatria alla Facoltà di Medicina
dell’Università di Lione. Molti dei miei allievi sono diventati
psicoanalisti interessati ad una psichiatria dinamica ed
istituzionale.
Già
con il mio primo maestro a Buenos Aires, il dottor Enrique Pichon Rivière,
ho appreso che il paziente istituzionalizzato aveva un nome. Non era
solo un caso clinico determinato, ma un essere umano, una persona.
Malauguratamente
questo contesto etico si perde progressivamente con un approccio
pragmatico-meccanicista. Il problema nella psicosi è spesso lo
“slegarsi” (“déliaison” secondo Green) di un io, spesso
multiplo, frammentato e sconvolto. In questo caso, ogni frammento del
pensiero, disperso nel mondo, acquista spesso una vita autonoma:
l’idea di persona si perde.
La
ricerca ed il lavoro psicoterapeutico e psichiatrico coi pazienti
psicotici richiede un interrogarsi sullo spazio geografico e
cosmologico di un mondo disperso e della drammatizzazione della sua
storia nella messa in scena istituzionale.
Guardando
certi numeri del bollettino dell’Ospedale Psichiatrico di Saint
Alban, che risalivano agli anni ’60, all’epoca di François
Tosquelles, mentre mi
trovavo nel club dei pazienti, mi ricordai di un’esperienza sulla
danza e sull’effetto della musica sul corpo, fatta con molti
pazienti cronici e con un gruppo di professionisti curanti. Il vedere
come una vecchia paziente catatonica uscisse dalla sua pietrificazione
grazie alla danza (in compagnia mia o di un infermiere) era un
documento di vita impressionante e molto importante.
Gli scambi affettivi ed umani tra
pazienti e personale all’interno del “setting” istituzionale
sono essenziali e restano sempre primari per me. Ma oggi si hanno
delle difficoltà di contatto con e tra le istituzioni. Si tratta di
un problema di autonomia dei servizi e delle ideologie psichiatriche
per cui il collegamento tra differenti servizi diviene difficile. E’
come se parlassimo lingue differenti, una sorta di schizofrenizzazione
delle ideologie istituzionali. E’ questo il mio problema personale,
mi piace continuare il transfert coi miei pazienti ospedalizzati e dar
loro delle sedute analitiche se il personale ed il primario sono
d’accordo per lavorare “in gruppo”.
Ho avuto l’esperienza in Italia e
anche in Francia per cui per certi primari il paziente diveniva di
loro proprietà, una loro merce. Il giovane Marx, nel suo lavoro
sull’alienazione, avrebbe detto che lo psichiatra o l’equipe
curante diventa reificata e reificante.
E’ vero che i servizi in Francia o in
Italia mancano di personale, ma anche di “veri” psichiatri.
Il paziente che non è ascoltato nel suo
diritto al transfert con il suo interlocutore terapeuta ricade in
crisi. Spesso, anche la persona curante cade in una crisi di transfert
e di controtransfert. Spesso, il paziente non ascoltato, non compreso
diventa isolato ed abbandonato.
Personalmente,
mi lego molto ai miei pazienti ed in queste condizioni trovo molto
difficile e sofferta la mia posizione. Tranne se ho la fortuna di
trovare un servizio amichevole e vicino, cosa che è sempre più rara.
Cerco di evitare l’ospedalizzazione per quanto possibile o di
trovare dei farmaci per contenere e calmare il paziente.
Penso
sempre che l’ospedalizzazione debba esserci in condizioni buone e
che l’ospedale psichiatrico è il luogo in cui il paziente può fare
e vivere la “sua crisi”. Una tale situazione richiede una presenza
ed una lettura da parte di un inconscio vivo. Ciò pone un problema di
formazione e di personalità adeguata. Bisognerebbe idealmente contare
su personale formato ed abituato a tollerare l’ansia della crisi. Ciò
implica l’avere una certa conoscenza vissuta nel transfert psicotico
e non psicotico con questi pazienti. Pazienti cronici, “congelati”
come gli attori del mio libro “Glaciazioni”, hanno bisogno di uno
spazio terapeutico che si apra alle sue proiezioni… al disgelo e
allo stesso incendio emozionale.
Sono
stato sempre sensibile e pieno di ammirazione nei confronti del Centro
di Crisi, creato a Londra dallo “Arbor Center” e diretto da J.
Berck, col quale ho collaborato. Tutto ciò si oppone all’anonimato
professionale, il personale si deve “mostrare” e vivere le
peripezie emotive del transfert, persino durante la crisi.
So
che la formazione del personale ha sempre giocato un ruolo importante
in Inghilterra, nella tradizione di François Tosquelles e dei suoi
collaboratori e anche in certi luoghi in Italia.
Il
nostro interesse, oggi più che mai, è di entrare nella comprensione
della dinamica istituzionale, con uno spirito di formazione del
personale, cioè di tutti noi. Ciò fa parte della formazione
permanente che consiste secondo me nel proporre un dialogo ed uno
spirito di apprendimento nel campo di lavoro.
Anche
la mia stanza di consultazione coi gruppi di formazione
psicoterapeutica diviene un piccolo ospedale psichiatrico in cui devo
fare le funzioni del personale curante. Sono i membri stessi del
gruppo del mio piccolo ospedale intimo, tra cui contiamo dei pazienti
schizofrenici, che si sdoppiano e diventano contemporaneamente
curanti. Esso diviene anche capace di contribuire alla creazione di un
campo di lavoro analitico in grado di contenere il massimo delle
diversità pulsionali ed ideologiche (il delirio è anche
un’ideologia particolare).
Un
giorno ho incontrato in Italia un paziente, Leonardo, che era sul
punto di strangolare sua madre che l’accompagnava alla seduta.
Nel
suo stato compulsivo gli avevo detto:
<<Leonardo,
tu sei “sdoppiato”, c’è un folle in te che cerca di strangolare
tua madre>>.
In
quel momento si è fermato, e sua madre ed io abbiamo potuto dargli
qualche goccia di “Serenase” (aloperidolo), il paziente si è
calmato ed un infermiere lo ha potuto accompagnare alla comunità
terapeutica dove risiedeva.
Per
fortuna, il direttore di questa comunità era uno dei miei allievi e
comunicava molto bene coi membri della sua equipe curante.
Dopo
la crisi, Leonardo è stato accompagnato da un’infermiera in comunità.
La madre, molto
angosciata, è rientrata a casa. Un mese dopo, in una riunione con sua
madre, con il paziente, con il direttore della comunità e con
un’infermiera abbiamo avuto una discussione per riuscire a
fare il punto sulla situazione del paziente. L’infermiera ha
detto che, dopo quell’episodio, Leonardo si chiudeva a chiave nella
sua stanza e si rifiutava di partecipare alla vita comunitaria: non
voleva che la sua follia privata
diventasse pubblica.
Leonardo
non si sentiva preparato per la vita comunitaria, dato che aveva
bisogno di essere ospedalizzato per contenere il “suo folle
interiore”.
Sappiamo
che i farmaci non riescono sempre a padroneggiare né a fornire una
comprensione della malattia,
tuttavia essi aiutano a controllare i sintomi. Bisogna ancora
raggiungere una comprensione dell’inconscio del paziente e dei suoi
interlocutori (famiglia, personale curante, psicologi, psichiatri).
Leonardo
era stanco della sua malattia e del suo folle interiore. Avrebbe
voluto guarire della sua “follia mistica”. Nel suo delirio, si
sentiva posseduto da molti guru e dei indiani, talora da Cristo e da
Budda (talora è Budda e Buddo, quindi una coppia genitoriale) spesso
in conflitto tra di loro. Ognuno voleva prendere il potere in questa
lotta in seno alla sua comunità interiore.
Un
giorno egli ha sognato un celebre guru, Sai Baba. Il maschile di Babba
in italiano è Babbo, che vuol dire papà. Egli ha cominciato la sua
analisi con me dopo la morte di suo padre, del suo Babbo che era un
magistrato molto noto. Dopo aver perduto suo padre, sua madre doveva
divenire allo stesso tempo Babba
e Babbo: dei
genitori combinati in uno solo.
Talora
nel transfert, mi chiamava Papà o Babbo ed io mi sentivo spesso
chiamato Mamma. Dovevo così uscire dalla mia neutralità o anonimato
del controtransfert per prendere coscienza dei personaggi
che egli proiettava su
di me e che dovevano essere in procinto di
entrare sulla
scena del campo
transferale. Il problema del transfert è che in un contesto reale la
proiezione inconscia di un personaggio interiore (oggetto interno)
sulla persona dello psichiatra, dell’analista o del personale
curante soffre di una sorta di confusione di identità: prodotta da
una giustapposizione tra realtà corporea ed induzione proiettiva.
Nel
sogno, Leonardo aveva incontrato Sai Baba in un piccolo corridoio
oscuro (non si dimentichino le Impressioni Oscure di
Leibnitz) che egli associa con il corridoio del mio studio dove
egli aveva aggredito sua madre. All’interno del sogno egli voleva
sapere se Sai Baba gli volesse bene o se fosse indifferente. Era
dunque un sogno di transfert in cui chiedeva a me, Sai Baba, se io gli
volessi bene.
“Sai
baba” significa per lui (in italiano) “Sai, mamma?” oppure
“Sei baba” cioè “Tu sei mamma”, come se io dovessi, nel
transfert, fare le funzioni di padre e di madre. Una volta Leonardo,
stanco della guerra di potere tra i suoi personaggi presenti nella sua
testa (il suo teatro interiore), decise di mettersi di fronte delle
foto o delle carte che rappresentavano i suoi personaggi interiori
diventati “pubblici”. Tra di loro c’era un attore celebre,
talora un po’ folle: Carmelo Bene. Poiché era stanco e perseguitato
dalle sue allucinazioni (i personaggi discutevano tra di loro), nel
momento in cui egli si confrontava con le immagini che erano di fronte
a lui, le voci interiori sparivano ed erano le carte che si mettevano
a parlare.
Tutto
ciò ricorda il caso di Frau P. di Freud (1896) in cui l’autore
descrive per la prima volta il termine proiezione. Si tratta di
allucinazioni intrapsichiche che si esteriorizzano nel modo della
“proiezione”…., all’interno di un oggetto interno (i vicini
nel caso di Frau P.). Così, il persecutore interno diventa un
persecutore esterno. Nella versione tedesca di Freud, questi dice:
come se ciò che è stato rimosso all’interno diventasse
“rimosso all’interno” di un oggetto esterno.
Leonardo
non era un paziente anonimo, era curato dalla comunità e da
me, dapprima individualmente poi in un gruppo terapeutico al mio studio ed in modo
specifico grazie alla collaborazione offerta dagli altri membri
del gruppo e dai mie colleghi ospedalieri.
Uno
dei miei pazienti di 12 anni, Ariel, non riusciva a studiare, i suoi
pensieri scappavano dalla “sua testa” sotto forma di piccoli
frammenti <<volanti e
sparpagliati>>, come uccelli perduti nell’universo. Il
paziente li chiama talora <<<i miei atomi volanti>>.
Egli si interessava alla fisica atomica ed amava fare un viaggio in
fondo al Cosmo con me come Cosmonauta-assistente: devo aiutarlo a
<<ri-raccogliere>> le sue particelle-pensieri ed aiutarle
a ritornare al loro nido (spazio mentale).
Talora,
Ariel era molto stanco, il suo corpo triste e pesante aveva bisogno di
allungarsi.
Durante
una seduta, incrociava le gambe, in aria, come se stesse cominciando a
camminare in verticale verso il Cosmo. Poi, faceva dei movimenti
strani con le dita e diceva che gli era
sempre piaciuto creare delle <<forme>> con le dita.
In quel momento voleva creare una sorta
di scala, di scalinata per andare verso l’alto: un gesto
mistico, un pensiero corporeo?
Penso
alla scala di Giacobbe su cui gli angeli salgono o scendono (Genesi
28,11).
Magicamente,
Ariel muoveva le braccia come se fossero delle ali.
<<vedo
che tu sei molto preoccupato di andare molto in alto>>, gli
dico.
<<Sì>>
mi dice da lontano, come se fosse in fondo al Cosmo, lontano dalla
terra (o forse sdoppiato tra l’essere se stesso e Dio).
<<Sai
quello che stai cercando là?>>
<<No,
mi interessa, ma ne ho paura>>
Ariel
aveva paura di vivere l’orizzontalità, la vita sulla Terra. Viveva
nella verticalità ascendente, verso il Cosmo. Si trattava di una
caduta verso l’alto, forse come reazione
ad una caduta verso il basso (una sorta di
bipolarità tra reazione maniacale e depressiva). Nelle sedute
precedenti. Aveva manifestato la sua inquietudine di fronte al mondo
dei morti e mi aveva chiesto chi fosse Anubi.
Gli
avevo risposto, ricordandomi della mitologia egizia, dicendogli che lui non sapeva ancora
se io dovevo essere un guardiano di vita o un guardiano di
morte.
C’erano
dei lutti nella sua vita che pesavano su di lui e di cui non riusciva
a differenziare ciò che era vivo da ciò che era morto in se stesso.
D’altra parte, egli aveva paura di vivere e di soffrire.
Diceva
spesso: <<Non mi
piacciono i vivi>>.
Lui
ed io eravamo allora
in un’avventura in cui, apparentemente, cercavamo a momenti dei
frammenti di vita e in altri momenti dei <<frammenti di
morte>>.
Lo
psicotico ha spesso l’idea inconscia e talora conscia di un morto
vivente in se stesso.
L’analisi
diventa così un viaggio, un’avventura verso luoghi sconosciuti.
Vorrei
dare qualche esempio vissuto nella mia pratica, privata ed
istituzionale, sulla psicopatologia del campo terapeutico.
Con
il titolo “Psicopatologia ed anonimato nel campo psichiatrico”
cerco di creare una metafora viva della vita quotidiana “dei
luoghi”. Sia che si tratti di una relazione di transfert privata,
sia che si tratta di una istituzionale…
La
nozione di anonimato, così come il principio di omertà (si veda il
mio articolo in italiano), significa, ad un livello conscio, umiltà e
dipendenza assoluta dal tiranno, dal boss. Ma ciò che mi interessa
dal punto di vista psicoanalitico è la dinamica della tirannia degli
oggetti interni
ed i loro effetti sulla vita relazionale del soggetto. Talora dobbiamo
mantenere l’anonimato su certi aspetti del paziente che sono stati
raccontati dalla famiglia in assenza del paziente (e viceversa). Cosa
dobbiamo fare in queste situazioni? La risposta è delicata e
personale. Nella mia esperienza professionale. Se una madre
telefona per dirmi che suo figlio
ha rotto il mobile della sua stanza in uno stato di crisi, e se il paziente non me lo comunica durante la seduta, il mio
atteggiamento è il seguente: considero che esso è un messaggio
inconscio, del paziente, che induce nella madre la funzione
mediatrice, di comunicare al terapeuta,
indirettamente, ciò che lui
ha paura di dire direttamente. E’ la stessa cosa nella bugia che è
una forma di verità mascherata. L’arte della psicoanalisi o di ogni
terapia interpersonale consiste nell’avere uno stile personale che
permette d’introdurre i non-detti (l’anonimato o il principio di
omertà) in modo adeguato.
Ci
sono cose che accadono nella psicopatologia consueta di ogni
istituzione su cui certe persone devono mantenere il silenzio e quasi
l’anonimato, per conservare un certo spazio di sicurezza. Ciò
significa che c’è un sentimento paranoide ed una paura di fronte
all’autorità che rinvia, in ogni caso, a degli stati di panico o di
persecuzione personale. La situazione è molto complessa e variabile
secondo il grado di persecuzione reale o immaginata.
La
questione della fedeltà al padrone rinvia alla psicopatologia
intrapsichica del “legame tirannico”.
Uno
dei miei pazienti, Paul, affetto da etilismo, un giorno mi ha detto:
<<Bevo per motivi di fedeltà>>. Raccontava che sua madre
era tossicomane, ma che a momenti era molto affettuosa con lui, mentre
suo padre era un personaggio universitario importante ma freddo ed
intossicato dal prestigio. Un tale prestigio l’ha trasformato in
qualcuno di onnipotente. Nel caso di Paul la sua tossicomania etilica
si è giustificata sulla base di un’identificazione patologica con
il lato malato dei suoi oggetti genitoriali. Paul era dunque fedele ad
un destino tragico che non riusciva a differenziare da quello dei suoi
genitori: il suo io era immerso soprattutto nell’oggetto interno
materno malato. Si trattava di una fusione o meglio di un legame
amoroso e perverso al tempo stesso. Tutto ciò a proposito della
fedeltà alla sintomatologia della madre che apparentemente
rappresentava per lei, secondo il figlio, una “vendetta”
autodistruttrice rispetto al padre freddo e potente. Il narcisismo
autodistruttore gioca un ruolo molto importante per H. Rosenfeld a
proposito della sfida nel transfert e nella vita, a partire da
un’ideologia nichilista in cui più importante che vivere è
distruggere il “vero tiranno”, o forse il malinteso inconscio
sulla realtà dell’oggetto esterno
ed interno. Recentemente ho
tenuto una conferenza su questo tema
presso la Società
Francese di Psicoterapia Psicoanalitica di Gruppo (SPPG).
M.
Klein mi ha insegnato che il fondamento dell’invidia è
l’ammirazione. Si tratta di un narcisismo distruttore nei confronti
di un oggetto ammirato “invidiosamente”.
Un
giorno dovevo tenere una conferenza a Parigi sul libro di Mélanie
Klein “Invidia e gratitudine”. Ma io l’avevo intitolato
“Invidia senza gratitudine”. L’attacco invidioso cerca di negare
le qualità positive dell’oggetto
aggredito che ferisce il narcisismo dell’aggressore.
Essere
analizzati o essere
aiutati in generale implica sempre una certa ferita narcisistica. E’
per questo che l’identificazione eccessiva con il maestro è un
meccanismo di difesa per non farsi carico dell’inevitabile rivalità
che esiste tra il figlio ed il padre (o la madre).
In
questo modo ci si traveste prematuramente da psicoanalista come
identificazione al maestro, aggressore inconscio del suo narcisismo.
Così, la vera personalità resta nell’anonimato e mette in evidenza
il “Falso Sé” (Winnicott). In effetti, quando uno dei nostri
colleghi è apprezzato per la sua originalità ed il “suo stile”,
ciò significa anche che egli è riuscito a differenziarsi dal
maestro.
Lo
stesso problema si pone al livello dell’evoluzione del bambino
quando imita i genitori ammirati e spesso aggrediti inconsciamente
(ossia invidiosamente) per divenire col tempo riconoscente nei loro
confronti.
Tutto
ciò mette in questione
il significato del silenzio
in psicoanalisi e del modo di utilizzarlo.
Personalmente
sono convinto che più il paziente è malato, più ha bisogno “di
analizzare” il suo interlocutore o l’istituzione. Chiamo questo
fenomeno “doppio transfert”. In realtà, il paziente percepisce
l’analista a “suo modo” e viceversa. Il silenzio analitico si
confonde talora con l’anonimato e col principio di omertà. Il vero
silenzio analitico consiste dalla
parte dell’analista in un invito al paziente
a distendersi ed a associare. Il “quadro analitico” è
molto complesso a tutti i livelli. L’esperienza terapeutica
è sempre alla ricerca di luoghi, di una semantica del gesto,
delle parole, della qualità della parola e del silenzio, ed infine
dell’atmosfera dello stesso incontro.
Chiamo quest’ultima situazione
“transfert ecologico ed etologico”, quando si tratta non
solo di clima, ma ugualmente di territori e di frontiere psichiche.
Un
altro aspetto semiologico
del campo dell’incontro è la ricerca della natura del legame
paziente-analista con il paziente-istituzione. Talora si tratta della
mancanza di legame… Il modo di attaccamento, o nesso, nel transfert
rinvia alla storia del soggetto stesso. Winnicott parla di processo di
personalizzazione o modo particolare per cui
un bambino piccolo diviene una persona. Ciò significa che egli
arriva ad ottenere un’identità che gli permette di differenziarsi
dagli altri. In questo modo egli si può confrontare con gli altri
membri nella sua diversità.
La
formazione del super-io nel bambino ha le sue radici, tra l’altro,
nella proiezione delle proprie pulsioni aggressive e distruttrici
rispetto alla scena primordiale. M. Klein (1927)
in uno dei suoi primi lavori sulle tendenze criminali nei bambini
fornisce degli esempi sul sadismo dell’io del bambino proiettato sul
super-io paterno. Questi attacchi inconsci o consci contro i genitori
possono essere equivalenti al “lanciare una bomba” contro di loro
(attacco esplosivo anale contro la coppia). In realtà, secondo M.
Klein, c’è un’immagine arcaica dei suoi genitori, tra loro
indifferenziati, facente parte di un’unica entità che si dimentica
del bambino o lo lascia da parte mentre egli si rende conto
dei propri desideri sessuali e sadomasochistici. Talora il
sadismo del bambino si dirige verso i fratelli e le sorelle a causa
della gelosia e dell’invidia. Inconsciamente il gruppo famiglia o il
gruppo terapeutico rappresenta spesso dei pezzetti
del corpo della madre. Prima di cominciare un gruppo, i membri
sono spesso preoccupati se manca un pezzetto. Ogni incontro è
una vera ricostituzione, un rimembrare un corpo o oggetto primordiale
materno.
D’altra
parte, non si deve dimenticare che le esigenze orali del bambino che
abita in noi sono spesso investite dall’avidità talora
inesauribile. Tutto questo mostra la difficoltà di comprendere la
relazione complessa del
bambino coi suoi genitori e col suo ambiente in generale, come anche
il contesto della relazione paziente/psichiatra/analista al livello
del transfert analitico nella pratica privata e nell’ospedale.
CONCLUSIONI
Ho
cercato di esprimere e di drammatizzare la mia esperienza personale
clinica ed “umana” nella mia formazione di psichiatra
e di psicoanalista in differenti contesti. Gli esempi clinici
ci possono servire come punto di partenza per rendere
vive e “reali” le nostre discussioni piuttosto che
astratte.
Spero
di aver suscitato nel pubblico una vocazione ed un desiderio di
ricerca in un compito così appassionante come l’esperienza umana,
presente in maniera diversificata nella psicopatologia clinica del
quotidiano ed in particolare nella pratica privata ed istituzionale.
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