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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della negazione

Numero 15, anno VIII, gennaio 2011

 

 

     "PSICOPATOLOGIA E ANONIMATO NEL CAMPO PSICHIATRICO"

 

 

 

 di Salomon Resnik

 


Questo testo è una rielaborazione da parte dell'autore del suo intervento al convegno internazionale "Id-entità mediterranee.Psicoanalisi e luoghi della negazione"(Lecce, 30 ottobre 2010). Esso  verrà ulteriormente elaborato e pubblicato in un prossimo libro delle Edizioni Frenis Zero intitolato "Psicoanalisi e luoghi della negazione".

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

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Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

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La pratica della psichiatria, in molti paesi dell’Europa e in differenti parti del mondo, diviene sempre più meccanica e depersonalizzata. Per ragioni pratiche ed amministrative, apparentemente per mancanza di tempo, tale pratica diviene, nelle istituzioni, sempre più “reificata”  ed anonima. Il paziente appartiene spesso ad un quadro nosografico pratico ed attualizzato, ed il trattamento farmacologico corrisponde a “tale o talaltro” sistema classificatorio, ossia all’ideologia psichiatrica ufficiale. Il paziente tipo vuole logicamente sentirsi meglio, ma non vuole necessariamente  conoscere e comprendere la propria malattia. Comprendere implica un approccio psico- e socio-terapeutico che tocchi l’intimità del transfert interpersonale ed istituzionale.

Freud considera la conoscenza di sé e delle parti <<oscure del pensiero>> (Leibniz[1], Maine de Biran), ossia dell’inconscio, essenziale sul piano terapeutico. L’arte di scoprire il senso delle cose implica un attaccamento affettivo (Leibniz, op. cit., 1683).

Anche la famiglia ha bisogno di sostegni emotivi e che favoriscano la comprensione, soprattutto nel caso di pazienti isterici e psicotici, dato l’impatto e l’espansività dell’”ansia psicotica” nei loro abituali contesti.

Se la famiglia non può contenere l’ansia psicotica, essa cerca un’istituzione che, eventualmente, potrà farsi carico di una tale funzione: tollerare, ossia contenere, l’<<Angst>> del paziente. Tollerare una tale ansia non può essere “prescritto” al personale curante, è necessaria un’equipe curante motivata e ben formata. Sappiamo molto bene che la dose farmacologia prescritta dipende molto dal grado di tolleranza della “persona psicotica” come anche dalla natura del transfert del personale curante e dello psichiatra. Inoltre, la relazione di transfert istituzionale implica anche un’etica dell’incontro. Non è un caso se il mio primo libro pubblicato in Francia, oramai quarant’anni fa, aveva come titolo “Persona e psicosi”. Ero stato ispirato in parte da un libro di Wyrsch[2] intitolato “La persona dello schizofrenico”.

Quando lasciai Buenos Aires nel 1957 per andare a Parigi e poi a Londra, la mia ultima analista, la dott.ssa Alvarez di Toledo, mi disse: <<E’ bene completare la tua formazione in Francia ed in Inghilterra, ma attenzione! Non bisogna dimenticare che la relazione coi pazienti non è solo questione di oggetti interni o di meccanismi dell’io, ma è un confrontarsi da persona a persona>>.

E’ questa dimensione che ho ritrovato più tardi in Francia ed anche in Inghilterra. In particolare, con F. Tosquelles all’Ospedale “Saint Alban” a Lozère, con J. Oury a “Cour Cheverny” e più tardi con Roger  Gentis a Orleans. Tutti questi colleghi facevano parte del gruppo della psicoterapia istituzionale. Ho avuto l’opportunità di fare la conoscenza della psicoterapia istituzionale (termine suggerito dal dottor G. Daumézon che è stato  mio primario e mio amico durante il mio tirocinio all’Ospedale “Sainte  Anne” nel 1957).

Durante il mio soggiorno in Inghilterra (negli anni ’50 e ’60), ho avuto l’opportunità di lavorare e di studiare con Melanie Klein, Bion, Herbert  Rosenfeld, Winnicott, Esther Bick ed altri.

Nel corso del mio soggiorno in Inghilterra ero stato incaricato di dirigere una comunità di giovani pazienti psicotici, sia uomini che donne, in un grande ospedale psichiatrico nel Surrey, a Coulsdon (“Netherne Hospital”, nel 1958). Ho avuto anche la fortuna di poter scambiare delle idee con Maxwell Jones, direttore all’epoca di un ospedale che prendeva in carico pazienti psicopatici. Si trattava dell’Unità per Psicopatici di Belmont. Maxwell Jones era uno dei pionieri e dei “rivoluzionari” nell’organizzazione delle comunità terapeutiche. Il termine di “comunità terapeutica” è stato utilizzato per la prima volta da Tom Main al “Cassel Hospital” dove ho lavorato per parecchi anni. Questo ospedale aveva un orientamento  kleiniano.

Sono rientrato a Parigi nel 1970. Qui, sono stato invitato a tenere  delle conferenze all’Ospedale “Sainte Anne” (nella sala Magnan) in cui volevo far conoscere la mia esperienza in Inghilterra ed accostarla alla psichiatria francese. In seguito, sono divenuto “Maitre de Conférences” in Psichiatria alla Facoltà di Medicina dell’Università di Lione. Molti dei miei allievi sono diventati psicoanalisti interessati ad una psichiatria dinamica ed istituzionale.

Già con il mio primo maestro a Buenos Aires, il dottor Enrique Pichon Rivière, ho appreso che il paziente istituzionalizzato aveva un nome. Non era solo un caso clinico determinato, ma un essere umano, una persona.

Malauguratamente questo contesto etico si perde progressivamente con un approccio pragmatico-meccanicista. Il problema nella psicosi è spesso lo “slegarsi” (“déliaison” secondo Green) di un io, spesso multiplo, frammentato e sconvolto. In questo caso, ogni frammento del pensiero, disperso nel mondo, acquista spesso una vita autonoma: l’idea di persona si perde.

La ricerca ed il lavoro psicoterapeutico e psichiatrico coi pazienti psicotici richiede un interrogarsi sullo spazio geografico e cosmologico di un mondo disperso e della drammatizzazione della sua storia nella messa in scena istituzionale.

Guardando certi numeri del bollettino dell’Ospedale Psichiatrico di Saint Alban, che risalivano agli anni ’60, all’epoca di François Tosquelles,  mentre mi trovavo nel club dei pazienti, mi ricordai di un’esperienza sulla danza e sull’effetto della musica sul corpo, fatta con molti pazienti cronici e con un gruppo di professionisti curanti. Il vedere come una vecchia paziente catatonica uscisse dalla sua pietrificazione grazie alla danza (in compagnia mia o di un infermiere) era un documento di vita impressionante e molto importante.

Gli scambi affettivi ed umani tra pazienti e personale all’interno del “setting” istituzionale sono essenziali e restano sempre primari per me. Ma oggi si hanno delle difficoltà di contatto con e tra le istituzioni. Si tratta di un problema di autonomia dei servizi e delle ideologie psichiatriche per cui il collegamento tra differenti servizi diviene difficile. E’ come se parlassimo lingue differenti, una sorta di schizofrenizzazione delle ideologie istituzionali. E’ questo il mio problema personale, mi piace continuare il transfert coi miei pazienti ospedalizzati e dar loro delle sedute analitiche se il personale ed il primario sono d’accordo per lavorare “in gruppo”.

Ho avuto l’esperienza in Italia e anche in Francia per cui per certi primari il paziente diveniva di loro proprietà, una loro merce. Il giovane Marx, nel suo lavoro sull’alienazione, avrebbe detto che lo psichiatra o l’equipe curante diventa reificata e reificante.

E’ vero che i servizi in Francia o in Italia mancano di personale, ma anche di “veri” psichiatri.

Il paziente che non è ascoltato nel suo diritto al transfert con il suo interlocutore terapeuta ricade in crisi. Spesso, anche la persona curante cade in una crisi di transfert e di controtransfert. Spesso, il paziente non ascoltato, non compreso diventa isolato ed abbandonato.

Personalmente, mi lego molto ai miei pazienti ed in queste condizioni trovo molto difficile e sofferta la mia posizione. Tranne se ho la fortuna di trovare un servizio amichevole e vicino, cosa che è sempre più rara. Cerco di evitare l’ospedalizzazione per quanto possibile o di trovare dei farmaci per contenere e calmare il paziente.

Penso sempre che l’ospedalizzazione debba esserci in condizioni buone e che l’ospedale psichiatrico è il luogo in cui il paziente può fare e vivere la “sua crisi”. Una tale situazione richiede una presenza ed una lettura da parte di un inconscio vivo. Ciò pone un problema di formazione e di personalità adeguata. Bisognerebbe idealmente contare su personale formato ed abituato a tollerare l’ansia della crisi. Ciò implica l’avere una certa conoscenza vissuta nel transfert psicotico e non psicotico con questi pazienti. Pazienti cronici, “congelati” come gli attori del mio libro “Glaciazioni”, hanno bisogno di uno spazio terapeutico che si apra alle sue proiezioni… al disgelo e allo stesso incendio emozionale.

Sono stato sempre sensibile e pieno di ammirazione nei confronti del Centro di Crisi, creato a Londra dallo “Arbor Center” e diretto da J. Berck, col quale ho collaborato. Tutto ciò si oppone all’anonimato professionale, il personale si deve “mostrare” e vivere le peripezie emotive del transfert, persino durante la crisi.

So che la formazione del personale ha sempre giocato un ruolo importante in Inghilterra, nella tradizione di François Tosquelles e dei suoi collaboratori e anche in certi luoghi in Italia.

Il nostro interesse, oggi più che mai, è di entrare nella comprensione della dinamica istituzionale, con uno spirito di formazione del personale, cioè di tutti noi. Ciò fa parte della formazione permanente che consiste secondo me nel proporre un dialogo ed uno spirito di apprendimento nel campo di lavoro.

Anche la mia stanza di consultazione coi gruppi di formazione psicoterapeutica diviene un piccolo ospedale psichiatrico in cui devo fare le funzioni del personale curante. Sono i membri stessi del gruppo del mio piccolo ospedale intimo, tra cui contiamo dei pazienti schizofrenici, che si sdoppiano e diventano contemporaneamente curanti. Esso diviene anche capace di contribuire alla creazione di un campo di lavoro analitico in grado di contenere il massimo delle diversità pulsionali ed ideologiche (il delirio è anche un’ideologia particolare).


Un giorno ho incontrato in Italia un paziente, Leonardo, che era sul punto di strangolare sua madre che l’accompagnava alla seduta.

Nel suo stato compulsivo gli avevo detto:

<<Leonardo, tu sei “sdoppiato”, c’è un folle in te che cerca di strangolare tua madre>>.

In quel momento si è fermato, e sua madre ed io abbiamo potuto dargli qualche goccia di “Serenase” (aloperidolo), il paziente si è calmato ed un infermiere lo ha potuto accompagnare alla comunità terapeutica dove risiedeva.

Per fortuna, il direttore di questa comunità era uno dei miei allievi e comunicava molto bene coi membri della sua equipe curante.

Dopo la crisi, Leonardo è stato accompagnato da un’infermiera in comunità. La madre,  molto angosciata, è rientrata a casa. Un mese dopo, in una riunione con sua madre, con il paziente, con il direttore della comunità e con un’infermiera abbiamo avuto una discussione per riuscire a  fare il punto sulla situazione del paziente. L’infermiera ha detto che, dopo quell’episodio, Leonardo si chiudeva a chiave nella sua stanza e si rifiutava di partecipare alla vita comunitaria: non voleva che la sua follia privata  diventasse pubblica.

Leonardo non si sentiva preparato per la vita comunitaria, dato che aveva bisogno di essere ospedalizzato per contenere il “suo folle interiore”.

Sappiamo che i farmaci non riescono sempre a padroneggiare né a fornire una comprensione della  malattia, tuttavia essi aiutano a controllare i sintomi. Bisogna ancora raggiungere una comprensione dell’inconscio del paziente e dei suoi interlocutori (famiglia, personale curante, psicologi, psichiatri).

Leonardo era stanco della sua malattia e del suo folle interiore. Avrebbe voluto guarire della sua “follia mistica”. Nel suo delirio, si sentiva posseduto da molti guru e dei indiani, talora da Cristo e da Budda (talora è Budda e Buddo, quindi una coppia genitoriale) spesso in conflitto tra di loro. Ognuno voleva prendere il potere in questa lotta in seno alla sua comunità interiore.

Un giorno egli ha sognato un celebre guru, Sai Baba. Il maschile di Babba in italiano è Babbo, che vuol dire papà. Egli ha cominciato la sua analisi con me dopo la morte di suo padre, del suo Babbo che era un magistrato molto noto. Dopo aver perduto suo padre, sua madre doveva divenire allo stesso tempo  Babba  e Babbo:  dei genitori combinati in uno solo.

Talora nel transfert, mi chiamava Papà o Babbo ed io mi sentivo spesso chiamato Mamma. Dovevo così uscire dalla mia neutralità o anonimato del controtransfert per prendere coscienza dei personaggi  che egli proiettava  su di me e che dovevano essere in procinto di  entrare  sulla scena  del campo transferale. Il problema del transfert è che in un contesto reale la proiezione inconscia di un personaggio interiore (oggetto interno) sulla persona dello psichiatra, dell’analista o del personale curante soffre di una sorta di confusione di identità: prodotta da una giustapposizione tra realtà corporea ed induzione proiettiva.

Nel sogno, Leonardo aveva incontrato Sai Baba in un piccolo corridoio oscuro (non si dimentichino le Impressioni Oscure di  Leibnitz) che egli associa con il corridoio del mio studio dove egli aveva aggredito sua madre. All’interno del sogno egli voleva sapere se Sai Baba gli volesse bene o se fosse indifferente. Era dunque un sogno di transfert in cui chiedeva a me, Sai Baba, se io gli volessi bene.

“Sai baba” significa per lui (in italiano) “Sai, mamma?” oppure “Sei baba” cioè “Tu sei mamma”, come se io dovessi, nel transfert, fare le funzioni di padre e di madre. Una volta Leonardo, stanco della guerra di potere tra i suoi personaggi presenti nella sua testa (il suo teatro interiore), decise di mettersi di fronte delle foto o delle carte che rappresentavano i suoi personaggi interiori diventati “pubblici”. Tra di loro c’era un attore celebre, talora un po’ folle: Carmelo Bene. Poiché era stanco e perseguitato dalle sue allucinazioni (i personaggi discutevano tra di loro), nel momento in cui egli si confrontava con le immagini che erano di fronte a lui, le voci interiori sparivano ed erano le carte che si mettevano a parlare.

Tutto ciò ricorda il caso di Frau P. di Freud[1] (1896) in cui l’autore descrive per la prima volta il termine proiezione. Si tratta di allucinazioni intrapsichiche che si esteriorizzano nel modo della “proiezione”…., all’interno di un oggetto interno (i vicini nel caso di Frau P.). Così, il persecutore interno diventa un persecutore esterno. Nella versione tedesca di Freud, questi dice: come se ciò che è stato rimosso all’interno diventasse  “rimosso all’interno” di un oggetto esterno.

Leonardo  non era un paziente anonimo, era curato dalla comunità e da me, dapprima individualmente poi  in un gruppo terapeutico al mio studio ed in modo  specifico grazie alla collaborazione offerta dagli altri membri del gruppo e dai mie colleghi ospedalieri.

Uno dei miei pazienti di 12 anni, Ariel, non riusciva a studiare, i suoi pensieri scappavano dalla “sua testa” sotto forma di piccoli frammenti <<volanti  e  sparpagliati>>, come uccelli perduti nell’universo. Il paziente li chiama talora <<<i miei atomi volanti>>. Egli si interessava alla fisica atomica ed amava fare un viaggio in fondo al Cosmo con me come Cosmonauta-assistente: devo aiutarlo a <<ri-raccogliere>> le sue particelle-pensieri ed aiutarle a ritornare al loro nido (spazio mentale).

Talora, Ariel era molto stanco, il suo corpo triste e pesante aveva bisogno di allungarsi.

Durante una seduta, incrociava le gambe, in aria, come se stesse cominciando a camminare in verticale verso il Cosmo. Poi, faceva dei movimenti strani con le dita e diceva che gli era  sempre piaciuto creare delle <<forme>> con le dita. In quel momento voleva creare una sorta  di scala, di scalinata per andare verso l’alto: un gesto mistico, un pensiero corporeo?

Penso alla scala di Giacobbe su cui gli angeli salgono o scendono (Genesi 28,11).

Magicamente, Ariel muoveva le braccia come se fossero delle ali.

<<vedo che tu sei molto preoccupato di andare molto in alto>>, gli dico.

<<Sì>> mi dice da lontano, come se fosse in fondo al Cosmo, lontano dalla terra (o forse sdoppiato tra l’essere se stesso e Dio).

<<Sai quello che stai cercando  là?>>

<<No, mi interessa, ma ne ho paura>>

Ariel aveva paura di vivere l’orizzontalità, la vita sulla Terra. Viveva nella verticalità ascendente, verso il Cosmo. Si trattava di una caduta verso l’alto, forse come reazione  ad una caduta verso il basso (una sorta di  bipolarità tra reazione maniacale e depressiva). Nelle sedute precedenti. Aveva manifestato la sua inquietudine di fronte al mondo  dei morti e mi aveva chiesto chi fosse Anubi.

Gli avevo risposto, ricordandomi della mitologia egizia, dicendogli  che lui non sapeva ancora  se io dovevo essere un guardiano di vita o un guardiano di morte.

C’erano dei lutti nella sua vita che pesavano su di lui e di cui non riusciva a differenziare ciò che era vivo da ciò che era morto in se stesso. D’altra parte, egli aveva paura di vivere e di soffrire.

Diceva spesso:  <<Non mi piacciono i vivi>>.

Lui ed io eravamo   allora in un’avventura in cui, apparentemente, cercavamo a momenti dei frammenti di vita e in altri momenti dei <<frammenti di morte>>.

Lo psicotico ha spesso l’idea inconscia e talora conscia di un morto vivente in se stesso.

L’analisi diventa così un viaggio, un’avventura verso luoghi sconosciuti.

Vorrei dare qualche esempio vissuto nella mia pratica, privata ed istituzionale, sulla psicopatologia del campo terapeutico.

Con il titolo “Psicopatologia ed anonimato nel campo psichiatrico” cerco di creare una metafora viva della vita quotidiana “dei luoghi”. Sia che si tratti di una relazione di transfert privata, sia che si tratta di una istituzionale…

La nozione di anonimato, così come il principio di omertà (si veda il mio articolo in italiano), significa, ad un livello conscio, umiltà e dipendenza assoluta dal tiranno, dal boss. Ma ciò che mi interessa dal punto di vista psicoanalitico è la dinamica della tirannia degli oggetti interni[2] ed i loro effetti sulla vita relazionale del soggetto. Talora dobbiamo mantenere l’anonimato su certi aspetti del paziente che sono stati raccontati dalla famiglia in assenza del paziente (e viceversa). Cosa dobbiamo fare in queste situazioni? La risposta è delicata e personale. Nella mia esperienza professionale. Se una madre  telefona per dirmi che suo figlio  ha rotto il mobile della sua stanza in uno stato di crisi, e se  il paziente non me lo comunica durante la seduta, il mio atteggiamento è il seguente: considero che esso è un messaggio inconscio, del paziente, che induce nella madre la funzione mediatrice, di comunicare al  terapeuta, indirettamente, ciò che  lui ha paura di dire direttamente. E’ la stessa cosa nella bugia che è una forma di verità mascherata. L’arte della psicoanalisi o di ogni terapia interpersonale consiste nell’avere uno stile personale che permette d’introdurre i non-detti (l’anonimato o il principio di omertà) in modo adeguato.

Ci sono cose che accadono nella psicopatologia consueta di ogni istituzione su cui certe persone devono mantenere il silenzio e quasi l’anonimato, per conservare un certo spazio di sicurezza. Ciò significa che c’è un sentimento paranoide ed una paura di fronte all’autorità che rinvia, in ogni caso, a degli stati di panico o di persecuzione personale. La situazione è molto complessa e variabile secondo il grado di persecuzione reale o immaginata.

La questione della fedeltà al padrone rinvia alla psicopatologia intrapsichica del “legame tirannico”.

Uno dei miei pazienti, Paul, affetto da etilismo, un giorno mi ha detto: <<Bevo per motivi di fedeltà>>. Raccontava che sua madre era tossicomane, ma che a momenti era molto affettuosa con lui, mentre suo padre era un personaggio universitario importante ma freddo ed intossicato dal prestigio. Un tale prestigio l’ha trasformato in qualcuno di onnipotente. Nel caso di Paul la sua tossicomania etilica si è giustificata sulla base di un’identificazione patologica con il lato malato dei suoi oggetti genitoriali. Paul era dunque fedele ad un destino tragico che non riusciva a differenziare da quello dei suoi genitori: il suo io era immerso soprattutto nell’oggetto interno materno malato. Si trattava di una fusione o meglio di un legame amoroso e perverso al tempo stesso. Tutto ciò a proposito della fedeltà alla sintomatologia della madre che apparentemente rappresentava per lei, secondo il figlio, una “vendetta” autodistruttrice rispetto al padre freddo e potente. Il narcisismo autodistruttore gioca un ruolo molto importante per H. Rosenfeld a proposito della sfida nel transfert e nella vita, a partire da un’ideologia nichilista in cui più importante che vivere è distruggere il “vero tiranno”, o forse il malinteso inconscio  sulla realtà dell’oggetto esterno  ed interno. Recentemente  ho tenuto una conferenza su questo tema[3] presso  la Società Francese di Psicoterapia Psicoanalitica di Gruppo (SPPG).

M. Klein mi ha insegnato che il fondamento dell’invidia è l’ammirazione. Si tratta di un narcisismo distruttore nei confronti di un oggetto ammirato “invidiosamente”.

Un giorno dovevo tenere una conferenza a Parigi sul libro di Mélanie Klein “Invidia e gratitudine”. Ma io l’avevo intitolato “Invidia senza gratitudine”. L’attacco invidioso cerca di negare le qualità positive  dell’oggetto aggredito che ferisce il narcisismo dell’aggressore.

Essere analizzati  o essere aiutati in generale implica sempre una certa ferita narcisistica. E’ per questo che l’identificazione eccessiva con il maestro è un meccanismo di difesa per non farsi carico dell’inevitabile rivalità che esiste tra il figlio ed il padre (o la madre).

In questo modo ci si traveste prematuramente da psicoanalista come identificazione al maestro, aggressore inconscio del suo narcisismo. Così, la vera personalità resta nell’anonimato e mette in evidenza il “Falso Sé” (Winnicott). In effetti, quando uno dei nostri colleghi è apprezzato per la sua originalità ed il “suo stile”, ciò significa anche che egli è riuscito a differenziarsi dal maestro.

Lo stesso problema si pone al livello dell’evoluzione del bambino quando imita i genitori ammirati e spesso aggrediti inconsciamente (ossia invidiosamente) per divenire col tempo riconoscente nei loro confronti. 

Tutto ciò mette in  questione il significato del  silenzio in psicoanalisi e del modo di utilizzarlo.

Personalmente sono convinto che più il paziente è malato, più ha bisogno “di analizzare” il suo interlocutore o l’istituzione. Chiamo questo fenomeno “doppio transfert”. In realtà, il paziente percepisce l’analista a “suo modo” e viceversa. Il silenzio analitico si confonde talora con l’anonimato e col principio di omertà. Il vero silenzio analitico consiste  dalla parte dell’analista in un invito al paziente  a distendersi ed a associare. Il “quadro analitico” è molto complesso a tutti i livelli. L’esperienza terapeutica  è sempre alla ricerca di luoghi, di una semantica del gesto, delle parole, della qualità della parola e del silenzio, ed infine dell’atmosfera dello stesso incontro.  Chiamo quest’ultima situazione  “transfert ecologico ed etologico”, quando si tratta non solo di clima, ma ugualmente di territori e di frontiere psichiche.

Un altro  aspetto semiologico del campo dell’incontro è la ricerca della natura del legame paziente-analista con il paziente-istituzione. Talora si tratta della mancanza di legame… Il modo di attaccamento, o nesso, nel transfert rinvia alla storia del soggetto stesso. Winnicott parla di processo di personalizzazione o modo particolare per cui  un bambino piccolo diviene una persona. Ciò significa che egli arriva ad ottenere un’identità che gli permette di differenziarsi dagli altri. In questo modo egli si può confrontare con gli altri membri nella sua diversità.

La formazione del super-io nel bambino ha le sue radici, tra l’altro, nella proiezione delle proprie pulsioni aggressive e distruttrici rispetto alla scena primordiale. M. Klein (1927)[4] in uno dei suoi primi lavori sulle tendenze criminali nei bambini fornisce degli esempi sul sadismo dell’io del bambino proiettato sul super-io paterno. Questi attacchi inconsci o consci contro i genitori possono essere equivalenti al “lanciare una bomba” contro di loro (attacco esplosivo anale contro la coppia). In realtà, secondo M. Klein, c’è un’immagine arcaica dei suoi genitori, tra loro indifferenziati, facente parte di un’unica entità che si dimentica del bambino o lo lascia da parte mentre egli si rende conto  dei propri desideri sessuali e sadomasochistici. Talora il sadismo del bambino si dirige verso i fratelli e le sorelle a causa della gelosia e dell’invidia. Inconsciamente il gruppo famiglia o il gruppo terapeutico rappresenta spesso dei pezzetti  del corpo della madre. Prima di cominciare un gruppo, i membri  sono spesso preoccupati se manca un pezzetto. Ogni incontro è una vera ricostituzione, un rimembrare un corpo o oggetto primordiale materno.

D’altra parte, non si deve dimenticare che le esigenze orali del bambino che abita in noi sono spesso investite dall’avidità talora inesauribile. Tutto questo mostra la difficoltà di comprendere la relazione  complessa del bambino coi suoi genitori e col suo ambiente in generale, come anche il contesto della relazione paziente/psichiatra/analista al livello del transfert analitico nella pratica privata e nell’ospedale.

 

CONCLUSIONI

 

Ho cercato di esprimere e di drammatizzare la mia esperienza personale clinica ed “umana” nella mia formazione di psichiatra  e di psicoanalista in differenti contesti. Gli esempi clinici ci possono servire come punto di partenza per rendere  vive e “reali” le nostre discussioni piuttosto che astratte.

Spero di aver suscitato nel pubblico una vocazione ed un desiderio di ricerca in un compito così appassionante come l’esperienza umana, presente in maniera diversificata nella psicopatologia clinica del quotidiano ed in particolare nella pratica privata ed istituzionale.

 


 

   

 

 

 
 
 
 
   

Note:

 

 

 

[1] Leibniz, Selections , Charles Scribner’s sons, New York, 1951

 

[2] Wyrsch, La personne du schizophrène.

 

[3] Salomon Resnik, « Le narcissisme destructeur », Revue française de psychothérapie psychanalytique de groupe, in corso di  pubblicazione (2010).

 

[4] M. Klein, “Criminal tendencies in normal children” (1927), in The writings of Melanie Klein, vol 1, pag. 170.

 

   

 

   

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

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