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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Direttore Editoriale: Nicole Janigro

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Marina Breccia (Pisa), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Massimo Maisetti (Milano), Livia Marigonda (Venezia), Predrag Matvejevic' (Zagabria), Franca Mazzei (Milano), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 14, anno VII, giugno 2010

"Cinema, autentica passion...!"

 

   ALLA RICERCA DELLO STRANIERO

 

 

  di  Giuseppe Riefolo

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Eidos. Cinema e Psyche" ( www.eidoscinema.it ). Si ringrazia sentitamente l'autore oltre che la redazione ed il direttore responsabile di Eidos per aver messo a disposizione di Frenis Zero questo testo.

Giuseppe Riefolo è psichiatra (responsabile del Centro di Salute Mentale dell’ASL Roma/E) e psicoanalista (membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana). Tra le sue numerose pubblicazioni ha pubblicato il volume “Psichiatria prossima. La psichiatria territoriale in un’epoca di crisi” (Bollati Boringhieri, 2001) e  “Le visioni di uno psicoanalista” (Antigone, 2006), libro dedicato ai rapporti tra cinema e psicoanalisi.

 

 

 “l’identità è un’invenzione”

     (R.Andò, Eidos, giugno 2007)

 

 

 

Ho visto “Tulpan. La ragazza che non c’era”  (Sergey Dvortzevoy , 2008). E’ la storia della ricerca di stabilità in una terra di nomadi pastori. Mi sono chiesto: quante volte Asa dovrà tentare di andare nella città prima di riuscirci?  C’è Boni, l’amico, che gli ripete che bisogna andare via… nella città… dove è facile trovare il lavoro e dove ci sono le donne con le tette enormi!. Chissà perché Boni ha bisogno di convincere Asa e non può partire da solo: “possiamo partire… in due è facile trovare lavoro!”. Ho pensato che Asa e Boni sono le due facce del problema. Asa  andrà più volte a chiedere la mano di Tulpan perché non vuole lasciare la steppa dove, peraltro, tutto gli è ostile e dove non ha nemmeno un proprio posto. Boni vuole invece fuggire da quel posto, nonostante abbia un lavoro ed un trattore e si muova a proprio agio nella steppa arida. Boni è uno che non appartiene ai luoghi: è lì per sbaglio e per questo dovrà trasferirsi da qualche altra parte, e noi nel cinema sappiamo che non ha un proprio luogo perché da nessuna parte lo aspettano.  Magari proprio questa è la sua fortuna che gli permette di non soffrire perché non dovrà separarsi da nulla perché ciò che ha è solo concreto e pesante, come i suoi denti ostentatamente d’oro e una canzone straniera (si tratta di  Babylon degli Abba? non sono sicuro…) che spara a tutto volume sul suo trattore dove anche le foto porno con le donne dalle grandi tette sembrano indicare un luogo che è un altro pianeta, distante. Noi nel cinema sentiamo che nonostante le apparenze, è Boni lo straniero perché non abita i suoi luoghi nonostante – a differenza di Asa – abbia tutto quello che nella steppa si può desiderare.  Sappiamo che lo straniero è nella relazione con l’oggetto prima che verso i luoghi e che la soluzione è solo di poter amare ed essere cercati da un oggetto. Infatti, la differenza è che Asa cerca di amare Tulpan, mentre Boni sente che in quel posto non ci sono più donne: “Non avrò niente! Senza moglie non avrò nessun gregge!”, esclama Asa, mentre Boni dichiara di essere il vero straniero: “un’altra ragazza non c’è da queste parti, te lo vuoi mettere nella zucca?”. La differenza che interessa ad uno psicoanalista è  +L e + K di Bion: Boni non esplora e non ama i suoi luoghi, Asa insegue Tulpan di cui ha solo intravisto gli occhi dietro una tenda e i lunghi capelli dalla fessura di una porta, e questo è stato sufficiente per amarla: “Questo è il mio sogno: costruire un piccolo angolo di paradiso, qui, sotto il cielo della steppa!… Riesci a vedere?”. Ma lei forse non vede perché ha chiuso la porta, ma il problema, e la fortuna, per Asa è proprio lo spiraglio dietro il quale si intravedono gli occhi di Tulpan che, come il progetto del sogno si fa solo intuire, ma non si mostra mai perché il sognatore possa rincorrerla. Serve l’amore per inseguire i significati dei sogni che nella vita si segnalano appena è chiedono di essere cercati, Anche in questo caso, come per Tulpan, non saranno mai raggiunti.

I film parlano di storie. Non possono sapere se parlano di qualcos’altro. Ma noi sappiamo che, perché un film sia vivo deve avere il sapore e il tono di qualcos’altro oltre quello che mostra. E questo qualcos’altro – come per la realizzazione  e la frustrazione che incontrano le preconceptions di Bion -  è solo nel felice accoppiamento tra il film ed una nostra urgenza.

 

Alcune volte ci viene da pensare come mai il tema dello straniero si ponga come la cifra dei nostri tempi.  Sia nella stanza di analisi che al cinema ci rendiamo conto che lo straniero è il senso e il tono dei processi e che siamo continuamente all’inseguimento di uno straniero che ci contamini: “…perché, l’incubo della civiltà non è essere conquistata dai barbari, ma essere contagiata: non riesce a pensare di poter perdere contro quegli straccioni, ma ha paura che combattendoci può uscirne modificata, corrotta. Ha paura di toccarli… Nessuna muraglia… servì mai ad alcunché. I barbari iniziavano a galoppare lungo il muro. Quando finiva, ci giravano intorno ed invadevano la Cina. E’ successo tante volte.…” (Baricco, 2006).

 

Sappiamo che per il soggetto è straniero il delirio e l’allucinazione, stimoli interni “considerati come se non agissero dall’interno, ma dall’esterno, al fine di poter usare  contro di essi gli stessi mezzi di difesa con cui il sistema si protegge contro gli stimoli esterni” (Freud, 1920, 215) anime di eroi alla ricerca di una sepoltura degna che li porti finalmente nella storia. Al cinema si entra nella stanza delle anime che cercano sepoltura. Come in seduta con i pazienti.

 

Qualche giorno fa ho incontrato Pempa; era spaventato da mille voci che lo invadevano da quando il fratello maggiore, monaco tibetano, era tornato in Nepal. Io oramai conosco bene questo tipo di particolare sofferenza  che è la sofferenza di chi si ritrova improvvisamente straniero al proprio Sé. E so per certo che la sua situazione si risolverà e lui potrà ritrovare la calma sospesa e il suo esile filo nella storia degli altri. Bisogna che accadano, però, pochi ma precisi atti: comunicargli che io ci sono; che i suoi pensieri sono fantasmi che ha portato e sono cresciuti dal suo arrivo dal Nepal e che attraverso loro lui si è difeso dalla insopportabile perdita del cordone delle origini. Le sue allucinazioni possono trovare sepoltura. Gli “prescrivo” i farmaci che per me hanno anche il senso importante di un pegno concreto della mia funzione di “sostanza” (Balint, 1968) per lui. Parlo in sua presenza con i familiari, la moglie che ha in braccio la piccola bambina dagli occhi neri a mandorla, e alla coppia di italiani che lo ospita. So che devo parlare loro, come se ci stesse parlando lui, perché in lui quella comunicazione intima ora è interrotta. Gli dico che lo rivedrò fra due giorni e so che devo dirgli che starà bene. Non si tratta di suggestione, ma mi assumo per lui la responsabilità (Meltzer, 1967) di esserci e di immaginare un processo possibile. Pempa è l’esatto opposto dello studente Nathaniel di cui parla Freud (1919, 89). In Nathaniel i fantasmi che lo turbano ogni notte sono “i ricordi legati alla morte misteriosa e spaventevole dell’amato padre”, mentre per Pempa è proprio la perdita dei legami col proprio passato a lasciare liberi i fantasmi. Ovvero il campo delle nevrosi e quello delle psicosi; il conflitto col padre o la perdita della sostanza materna. In entrambi i casi, però, la sospensione dell’heimlich introduce necessariamente in una terra straniera. Gli analisti conoscono bene questa terra, perché inevitabilmente è il loro percorso con i pazienti.

 

Per Freud il perturbante è nell’irrompere di esperienze rese straniere dal rimosso.  Per la psicoanalisi ci sono due tipi di stranieri. La no-think di Bion e il rimosso. Nel primo caso ci sono i fantasmi di Pempa, mentre nel secondo caso si tratta del padre del film Il ritorno (Andrey Zvyagintsev, 2003). o la scena primaria di molti film quali ad esempio “Viaggio segreto” (R. Andò, 2007). Da un po’ di tempo per lo spettatore le cose si sono, in un certo senso, semplificate, nel senso che lo straniero è presentato esattamente come tale: un migrante che approda ai nostri lidi per essere accolto o, come direbbero al nostro Ministero degli Interni,  oggetto di “respingimento”!  (gli analisti sanno, per esperienza che un neologismo è una particolare forma di lapsus; confessa che è in gioco il turbamento per una sensazione “straniera” al Sé che cerca spazio…).

 

Il problema non è se respingere o accogliere, ma “trovare”. Per questo la politica non serve al soggetto, ma serve solo alle organizzazioni del soggetto (sappiamo, per una serie di ragioni, che non sono la stessa cosa e che, da Freud in poi, fra il soggetto e le organizzazioni i nessi sono complessi e sostanzialmente conflittuali). Parlo di “trovare” perché il soggetto è sempre alla ricerca di Sé, di parti che lo riguardano e che può solo trovare cercando fuori da Sé  – nel senso che è continuamente al lavoro per la riorganizzazione continua e la manutenzione del proprio Sé. Per questo è sterile, a mio parere una polemica sullo “straniero”: tutta la vita è un percorso con e verso lo straniero. Ciò di cui parlano i giornali e le TV concerne il costo di questo percorso. Invece, ciò di cui parlano i film è il sogno che sostiene questo percorso, la possibilità che uno straniero continuamente ci contamini. E’ parziale sostenere che questa contaminazione sia “civiltà”: gli psicoanalisti sanno che è fatica… il costo delle trasformazioni che chiamano “il lavoro del lutto”. Penso che il lutto, prima che essere la capacità e la fatica a separarsi, sia soprattutto la fatica a poter riorganizzare continuamente il proprio Sé, perché il Sé è continuamente instabile e dinamico, la meta e al tempo stesso la sonda e il dispositivo che permette la relazione con tutto ciò che è nuovo (tutto ciò che non è mai esistito prima) e che permette al soggetto di sopravvivere attraverso la capacità di trovare continuamente un equilibrio con l’ambiente (per questo Winnicott suggeriva che l’ambiente avesse movimenti d’amore verso il soggetto). I film ci dicono che c’è continuamente un movimento di tensione fra il soggetto e il suo contesto, dove ciascuno cerca continuamente l’altro e dove ciascuno è continuamente contenuto e contenitore per l’altro. Ciò che decide chi è contenuto e chi contenitore è solo il vertice del bisogno e del desiderio Per questo Asa tenta di andare via, ma la presenza di Tulpan chiede che lui rimanga lì; per questo Samal, la sorella, lo rincorrerà quando un ennesima volta cercherà di andare via e, invece piangerà, senza rincorrerlo, un’altra volta. Per questo Tulpan lo respingerà per poter essere libera, a sua volta, di andare in città a studiare. Ho pensato alla infinita e continua circolarità di questa posizione fatta di soste, ripensamenti, ritorni e nuovi slanci. Il lutto non è la perdita, ma il continuo e instabile rapporto che c’è fra la sosta e lo slancio. E’ il costo necessario che il Sé continuamente paga e continuamente riceve. Ho pensato a Guglielmo, che da tanti anni seguo al servizio. Tornato dalle vacanze di Pasqua ho trovato che aveva dovuto ricoverarsi in ospedale e lì era stato tanto male da dover essere contenuto a letto per un giorno. Improvvisamente devo essere stato sentito (devo essere diventato…) uno straniero perché, evidentemente, la sospensione di Pasqua gli impediva di sentirmi quello che conosceva e quello che si era collocato nella zona grave del suo bisogno di sentirsi vivo. Per alcuni giorni non ha voluto neanche  parlarmi e mi ha fatto dire che “si sarebbe tagliato le palle se fosse mai accaduto di incontrarmi un’altra volta!”. Poi ha accettato che andassi a trovarlo. Ha detto che durante l’ultima seduta io, in un momento l’ho guardato con particolare intensità e dopo la seduta ha considerato che quel mio sguardo significava la mia convinzione che lui fosse il responsabile del terremoto in Abruzzo.  Il campo è evidentemente ed intensamente attraversato da proiezioni, identificazioni, angosce. Ma mi fa pensare a come, improvvisamente qualcosa di familiare deve essere diventato, per Guglielmo, perturbante ed insostenibile. Qualcuno che ritorna ad essere uno straniero e, come succede per gli stranieri, la nostra precarietà non ci appartiene e alcune antiche esperienze del nostro Sé ci si ripresentano come estranee e minacciose. Per i pazienti psicotici, come per Guglielmo, la minaccia non concerne l’Edipo, ma il “Sentimento o l’emozione  di fondo” (Correale, 2000; Damasio, 1999) e “l’affetto di base” (Stern, 1985.) che ti fa sentire vivo.

 

Su un piano più ampio, quello sociale, accadono le stesse cose. La politica si pone il problema se mettere o togliere i muri per evitare che i Mongoli entrino nell’impero (Baricco). Ma gli psicoanalisti sanno bene che il problema è proprio l’idea di “muro”, ovvero attribuire alla cosa la funzione della cosa: la cosa al posto del processo, e questa è una dimensione che gli psicotici conoscono bene. Per gli psicoanalisti lo straniero ha il senso del processo che emerge dalla posizione negativa in analisi (come dalla tensione alla ricerca  e dalla curiosità nella vita comune…). E’ questo che ci interessa e ci riguarda. Escluso dal processo lo straniero è la rappresentazione delle agonie primitive di perdita di Sé, quelle che Winnicott (1963) descriveva nella paura del crollo. Devo però fare alcune precisazioni delicate. Il mestiere del “buon contenimento” mi trova diffidente perché io sono interessato ai processi (e, quindi, alla continua e fertile instabilità dei sistemi …) prima che agli oggetti. Se non è un processo, ma si propone come una caratteristica del soggetto, il “buon contenimento” è un’identità sterile e, quando osserviamo bene, esso presenta aree di singolare e sottile razzismo a sua volta. I film parlano proprio  di questo “contenimento” come processo e, quindi riescono a proporre la fatica del processo e il fallimento (o l’esito solo transitorio…) dell’adesione del migrante alla cultura che lo ospita. Ne parlano soprattutto i film che si occupano delle seconde generazioni di migranti quelli “… nati qui da genitori nati altrove, seconda generazione di immigrati, la più difficile. Non hai più casa, nel posto da dove vieni, non sei ancora a casa qui” (C. De Gregorio, La Repubblica, 6.11.07). In questo ambito, da un po’ di tempo si concentrano soprattutto i film che parlano di migranti: non più la fatica di raggiungere un Nuovomondo (Crialese, 2006), ma la sofferenza di non poter sentire come proprio un luogo che ti appartiene. Parlo di film quali  Mio figlio il fanatico (Udayan Prasad, 1998); East is East (Damien O'Donnel, 1999); La sposa turca (Fatih Akin, 2003); fino ai più recenti Un bacio appassionato (Ken Loach, 2004); Il destino nel nome (Mira Nair, 2006) e Oltre il paradiso (Fatih Akin, 2007). Elencando questi film penso a Tania 23  anni, mulatta. Padre italiano, madre di Capoverde; separati da quando era bambina. Dice di sentirsi “lacerata” con  pensieri “non buoni”… alcune volte pensieri “compulsivi” di suicidio: “non veri e propri pensieri di morire, ma come a volersi mettere alla prova… che il futuro è nero… non c’è speranza, ti senti impotente nei confronti della vita e faccio di tutto per prendere le cose in un certo senso e non va mai così . Mi sento un po’ perduta e disperata e non capisco, a me non manca niente , non è che mi sono morti i genitori o  ho subito traumi violenti  …non sono sfortunata, non ho handicap e mi sento in colpa…” .  E’ stata seguita al servizio per  alcuni mesi e il terapeuta me ne ha parlato più volte. Dopo un po’ di tempo che era partita, come si fa per i film, ho chiesto al terapeuta di dirmi come immaginava potesse essere ora la storia di Tania. Mi ha preso l’emozione di considerare come i film continuino nella mente degli spettatori esattamente come i pazienti – se le cose vanno bene -rimangono a vivere nella mente dei loro terapeuti perché si è costruito qualcosa di heimlich che ti autorizza a partecipare alle “vite degli altri”. Mi ha detto:“non si è più fatta sentire. Io la immagino impegnata a costruirsi la vita con quella tenacia che ha, a cercare amiche del cuore in persone anche improbabili, ad avere nostalgia della sua Roma, nostalgia idealizzata di una città in cui nessuno mette in dubbio origini ed identità. E intanto fare la hostess di bordo (questo cercava) su aerei che atterrano e decollano da e in luoghi sempre di  transito e senza appartenenza come gli aeroporti. Ogni tanto avrà incubi terribili, ogni tanto spero possa cercare un nome per quello che prova …”

 

       

 

 

 

 

 

Film citati:

 

Tulpan. La ragazza che non c’era; (Sergey Dvortzevoy , 2008).

Mio figlio il fanatico (Udayan Prasad, 1998);

East is East (Damien O'Donnel, 1999);

La sposa turca (Fatih Akin, 2003);

Un bacio appassionato (Ken Loach, 2004);

Il destino nel nome (Mira Nair, 2006)

Oltre il paradiso (Fatih Akin, 2007).

Nuovomondo (Crialese, 2006)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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