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 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

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  RITORNO A DRESDA. La visione di una psicoanalista sul trauma e sulla guarigione.

 

 

 

 di Maria Ritter

 

 

Nota iconografica: le foto a corredo di questo articolo sono tratte dalla mostra sulla collezione Prinzhorn che si è tenuta a Praga nell'aprile-maggio 2009, la cui recensione è stata pubblicata su Frenis Zero alla pagina web: http://web.tiscali.it/cepsidi/prinzhorn.htm Alcuni di questi artisti non morirono in manicomio, ma in un lager nazista.

  

 Maria Ritter è psicoanalista dell'I.P.A e vive a La Jolla in California (U.S.A.). Questo articolo è una rielaborazione dell'intervento che l'autrice ha tenuto al panel "Warm Ashes - Smoldering or Igniting?", tenutosi al 45.o Congresso Internazionale dell'I.P.A. (Berlino, luglio 2007). La traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.

Abstract in English1:

 

Santayana’s statement (1906), “Those who cannot remember the past are condemned to repeat it,” holds especially true when the trauma involves overwhelming childhood experiences of survival during WWII and its aftermath in Germany and everywhere directly effected by this war. It is one of the most horrid collapses of decency and civility in the history of human civilization.

This paper attempts to put words to a personal story unearthed in my personal, analytic work. While my book, Return to Dresden (2004), gives a reflective, subjective, and historical account of my family’s history during and after WWII in Germany, including years of refugee life and the survival of the fire bombing of Dresden, the paper presents an effort to reflect on and understand the verbal as well as the non-verbal memories, affects and associations within the psychoanalytic framework – in particular as they relate to trauma, analytic process, complicated mourning, adaptive defenses, and lack of psychic integration. In order to illustrate these connections, the actual text is quoted.

 One particular form of early repression associated with massive trauma, the silencing of the child voice, emerges as a profound, life-long defensive response in the service of maintaining the fragile organization of early ego development. The process of silencing serves both, the managing of experienced terror as well as the organizing of intra-psychic conflicts around shame, guilt, aggression and masochism.

Within the therapeutic experience of being listened to, the ability to verbalize memories and reconnect repressed and distorted affect is restored. This process ultimately reclaims the ability to listen to oneself, fosters self-analysis, and empathy.

 I will be discussing the concepts of trauma and reconstruction, ranging from Freud’s etiology of neurosis and affect trauma theory to a more contemporary debate over the usefulness of trauma work at all (Blum, Fonagy), including the popularization of victimhood as a contemporary cultural defensive phenomenon (Reisner, Laub and Lee). Within this discussion, the underlying feelings of shame and guilt emerge as significant counter-transference reactions when the heaviness of anti-Semitism and the generational guilt of a “child of the perpetrator nation” enter the therapeutic relationship. Clinical examples of working with a Holocaust survivor and a woman of German/Jewish descent will follow.

 Freud’s comments to Einstein (1932) on feelings of powerlessness in the face of humans waging wars include the hopeful yet desperate appeal to counteract and balance the destructive instinct by creating affectional ties and promote empathic identification with others. Surviving trauma means defying death and re-claiming the broken pieces of life with others.


 

 

La onnipresenza ed il continuo ricordo del trauma.

 

 

L'iscrizione sotto la statua dell'emaciato recluso nel campo di concentramento di Dachau così recita:

 

Den Toten zur Ehr, Den Lebenden zur Mahnung.

 

(In onore del morto, un ricordo/avvertimento al vivo).

 

Essa ci fa esaminare e ci fa piangere sulle "Ceneri Calde" della perdita e del male. I milioni di morti ci ricordano di elaborare il lutto tra tutti noi e di continuare ad ascoltare e a parlare.                

 

Sono profondamente grata ai miei colleghi per questa esperienza di ri-membrare e di ricordare. Sono pienamente consapevole del fatto che qualcuno tra di noi oggi non può parlare, oppure passerà un brutto periodo  nell'ascoltare questi temi carichi di angoscia e di orrore. Avrò qualche difficoltà anch'io nel parlarne.

L'affermazione di Santayana (1906) <<Chi non può ricordare il passato è condannato a ripeterlo>> è particolarmente vera quando il trauma implica esperienze stravolgenti che si sono verificate durante la Seconda Guerra Mondiale e subito dopo essa in Germania e in ogni luogo direttamente coinvolto da questa guerra. E' stato uno dei più orribili collassi della convivenza civile e della civiltà nella storia umana. Sessant'anni dopo la caduta del Terzo Reich e la fine dei massacri nazisti, ci incontriamo da psicoanalisti in questa città, tutti noi "in esilio" dopo esperienze traumatiche nella Germania nazista. Siamo qui per condividere, per dar nome, e per ascoltare l'impatto di un tale orribile passato sulle nostre vite e sul nostro lavoro coi pazienti. E' una mia speranza quella di creare un'opportunità di dialogo e di riconciliazione, e di  trasmettere coraggio nell'ascoltarci e tollerarci gli uni con gli altri in un'epoca in cui il ciclo della violenza e del trauma continua a perpetuarsi in molte parti del mondo.

Poche settimane fa, mentre ero in seduta con un paziente, ci fu qualcuno che bussò forte alla mia porta. Quando aprii, scoprii che due grossi poliziotti in piena uniforme mi aspettavano. Quello che vidi erano distintivi luccicanti da sceriffo, stivali lucidi e scure uniformi che mi bloccavano la strada. Istantaneamente, mi posi l'onnipresente domanda auto-accusatoria: <<Cosa ho fatto questa volta?>>. Mi aspettavo di essere arrestata o che mi fosse notificata qualche citazione in giudizio - la mia risposta paranoica era alimentata da una recente citazione in giudizio per una cartella clinica.

Si può ben avere una simile risposta, ma per me questa scena scatenò un "déjà vu" familiare, come un vecchio incubo che stava diventando reale.

 

 

 Nel 1947 vivevo con la mia famiglia a Lipsia, nel settore sovietico della Germania occupata. Da ragazza sedicenne ero a conoscenza di soldati e di poliziotti che giungevano nelle vicinanze, spesso al mattino presto, per prelevare e portar via persone ritenute sospette - qualcosa che non si vuole mai più vedere ancora nella vita. Vivevamo in un mondo spaventoso in cui i vicini si spiavano l'un l'altro, e le autorità si presentavano solo per accusare e per punire - non per proteggere. Ho spesso temuto che anche mia madre potesse improvvisamente sparire o essere catturata al mercato nero della città dove la gente scambiava beni con denaro. Le mie paure si erano già ben interiorizzate, supportate da introiezioni culturali, religiose e familiari, come ad esempio la paura delle streghe e dei fantasmi, del fuoco e del buio, di "Butzemann" (orco), di "Knecht Rupprecht", del Dio Onnipotente, del diavolo e di altre creature nascoste2

 

 

  Queste rigide direttive superegoiche sia interne che esterne erano ben programmate nella coscienza collettiva della cultura nazista al tempo in cui ero nata.

La vista dei poliziotti alla mia porta ed il percorso diretto verso i miei sentimenti di colpa, capaci di farmi sentire impotente, erano il frutto di un passato 'programmato', la mia reazione fisiologico-emozionale che è cresciuta sempre più tenue nel corso degli anni, anche se mai del tutto estinta. Tali reazioni post-traumatiche sono familiari alla maggioranza dei sopravvissuti ad un trauma.

Ritornando ai poliziotti alla mia porta, alla fine ho udito uno di loro chiedere: <<Qualcuno in questo appartamento ha chiamato il 9113 ?>>. Io li fissavo e mi sorpresi a scusarmi di qualcosa che non avevo fatto, e quindi tornai dal mio paziente che non aveva alcuna idea di quanto fossi sconvolta. Il mio panico  e il mio senso di colpa immediati rappresentavano un altro percorso per me ben familiare rivolto al mio passato di vergogna collettiva per i peccati dei miei 'padri e madri' nella Germania nazista. Sebbene io fossi una bambina piccola durante la guerra, crescendo sono stata tormentata dal rendermi conto che persino i membri della mia famiglia avessero partecipato alle atrocità della guerra, che avessero sostenuto il Fuehrer e che  il prezzo che noi tutti pagavamo era quello di non avere alcun diritto di parola. Il nostro destino era stata la nostra punizione. Simili reazioni di colpa collettiva e correlata allo status di sopravvissuti non sono proprietà solo di un'epoca o di una nazionalità come è stato dimostrato dalla comunità coreana dopo il massacro al "Virginia Tech" di Blacksburg (negli U.S.A.) nell'aprile 2007.

 

Il silenzio del bambino ed il recupero del linguaggio.

Forse l'espressione tedesca "Es hat mir die Sprache verschlagen" (restai ammutolito) sarebbe un modo migliore per descrivere gli effetti successivi ad un trauma grave, la risposta di shock che consiste nel non essere capace di parlare allo scopo di organizzare l'esperienza. Tale era l'esperienza di noi "Kriegskinder"4  , di noi bambini durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale nel 19455   .  Nella seguente esperienza di colpa collettiva e di vergogna nazionale durante il risveglio del dopo guerra, noi bambini non ponevano domande.

 Un recente articolo sulla "San Diego Union-Tribune" (Domenica, 20 maggio 2007) diede il benvenuto al maestro tedesco Christoph Eschenbach per un concerto con la "Philadelphia Orchestra". Esso conteneva i seguenti commenti sulla sua storia personale:

<<E' nato a Breslau, in Germania (ora Wroclaw, in Polonia) durante la Seconda Guerra Mondiale. Sua madre morì alla sua nascita; suo padre, musicologo ed anti-nazista, fu costretto ad arruolarsi nell'esercito tedesco e morì sul fronte russo. Sua nonna e la sua bisnonna morirono di malattia mentre cercavano di mettere in salvo il giovane Christoph. Quando finì la guerra, l'allora orfano di cinque anni era così traumatizzato che non riuscì a parlare per quasi un anno. Quando cominciò le lezioni di pianoforte, la musica divenne la sua salvezza>>.

Queste esperienze hanno conseguenze che influiscono pesantemente sulla vita a vari gradi di intensità nello sviluppo della capacità di tollerare gli affetti, o, per meglio dire, lanciano una sfida a molti di noi a vivere ed a lavorare con un disturbo post-tramatico da stress. E' un dilemma condiviso da molti dei nostri pazienti e dei nostri colleghi. Comunque, il conquistare la consapevolezza ed il trovare l'espressione verbale da parte del bambino che si è messo in silenzio può aprire la strada ad una migliore comprensione delle risposte difensive come ad esempio il bisogno di mantenere ed idealizzare la sofferenza di fronte all'aggressività, alla colpa ed alla vergogna. In breve, il trauma deve essere ri-detto in parole. Con parole mie:

<<"Certamente abbiamo ricevuto ciò che abbiamo meritato" diceva mio nonno dopo la guerra, ed io gli credevo. L'espressione del suo viso quando guardava fuori dalla finestra denunciava amarezza ed una solenne rassegnazione di fronte alla punizione di Dio ed alla pietà per tutti noi. Per molti anni ho pensato che la mia storia non fosse di alcuna importanza alla luce della sofferenza di milioni di vittime. Allora un giorno, mi divenne chiaro che non è importante entrare in competizione per lo status di vittima con coloro che sono vissuti attraverso il loro trauma, ma piuttosto celebrare la vita che è stata lasciata, una storia di un sopravvissuto alla volta - una persona alla volta, una lacrima alla volta>> (pag. XV e 104).

Fu in terza classe che vidi per la prima volta un tremolante filmato in bianco e nero sulla liberazione di Auschwitz come parte di un programma scolastico di de-nazificazione. Non avevo alcuna idea di cosa stessi vedendo, ma ricordo le persone dal viso emaciato e dagli gli occhi scavati che indossavano dei vestiti a strisce e che mi guardavano dietro il filo spinato. Ero così terrorizzata che volevo chiudere gli occhi. L'insegnante non faceva commenti su ciò che stavamo vedendo, ed io non feci nessuna domanda a mia madre. Ciò che avevo visto era troppo orribile per far delle domande a chiunque, ma sapevo che il mio popolo aveva commesso tali crimini e che quella visione era parte di una punizione. Solo più tardi, da adulta, visitai il campo di concentramento di Dachau e comincia ad afferrare l'enormità di queste atrocità e l'ideologia malvagia che c'era dietro tali azioni. Quel giorno persi qualsiasi fede.

Mettere in silenzio il bambino serve sia a favorire una rimozione funzionale di impressioni visive ed uditive spaventose sia a stabilire lo stadio dei conflitti attorno all'aggressività organizzata in modo nevrotico ed alle inibizioni. Il trauma influenza il processo dello sviluppo dell'io che viene a combinarsi coi problemi della regolazione e della tolleranza degli affetti.

Ancora oggi sono in corso di pubblicazione testimonianze di sopravvissuti all'Olocausto e di altri sopravvissuti alla guerra, sia negli U.S.A. che in Germania. Essi continuano a trovare una voce - persino dopo 60 anni. I motivi per questo ritardo sono molteplici. Sono convinta che tra i tedeschi sopravvissuti alla guerra è dovuta prima morire una generazione di genitori e di nonni prima che le loro ammonizioni potessero venire disattese e fosse abbandonato il silenzio. Porre delle domande a costoro avrebbe significato frugare nelle loro ceneri calde di distruzione, e forse alimentare di nuovo il loro fuoco di odio e dolore. E, cosa più importante, è rimasto poco tempo per raccontare la storia.

Non molto tempo fa avevo frugato tra le mie ceneri calde quando mi dedicai al training analitico. Uno degli analista che mi intervistavano mi chiese: <<Come queste esperienze della sua infanzia la hanno influenzata come terapeuta?>> . Spinta da questa domanda, pensai alla mia esitazione e vergogna quando in passato avevo lavorato con pazienti ebrei ed alla mia preoccupazione per il loro transfert e per il mio controtransfert. Essi mi vedevano come un'altra donna della Gestapo, o una vecchia signora benevola con un accento tedesco, non così dissimile da quello dei loro familiari più anziani, o ancora come una vera 'freudiana' - dato il mio accento? Talora i pazienti ebrei condividevano con me le loro reazioni, in altre occasioni se ne andavano va dal mio studio dopo che avevano conosciuto la mia storia in Germania.

 

 

Qualche anno fa, un uomo anziano, un sopravvissuto ad un campo di concentramento, si sedette nel mio studio inviato dallo psichiatra della clinica che pensava che noi avremmo costituito una buona "coppia" (analitica). Si presentò porgendomi i suoi documenti ufficiali del campo di concentramento e sperava che io potessi leggerli e tradurglieli. Il guardarli fece battere il mio cuore all'impazzata e la mia voce iniziò a tremare non appena iniziai a leggere per lui. Eccoci, eravamo un "Haeftling"(internato) ebreo ed una figlia di un perpetratore nella stessa stanza. Ero pienamente consapevole, per quanto difficile fosse per me provarci, che non potessi mai pienamente comprendere l'enormità delle sue perdite, della sua personale agonia, dell'estinzione della sua famiglia e del restare senza una casa dopo gli anni del campo di concentramento. In modo piuttosto singolare, egli si sentì capito da un'altra persona, me, anch'essa immigrata, come affermò al nostro primo incontro.

Nel 1945, quando egli era un ragazzo di 15 anni a lungo separato dai suoi genitori, un tedesco nel campo di concentramento aveva risparmiato la sua vita. Il mio paziente disse: <<Conclusi che non tutti i tedeschi erano malvagi. C'era stato almeno un tedesco buono!>>. Raccontandomi la sua storia carica di perdite insormontabili, mi aveva ricordato, in modo inconscio, del mio popolo che aveva commesso tali atrocità, ancor di più quando mi porse i suoi documenti di identità di Buchenwald con un suo ritratto dal volto emaciato. C'era l'evidenza dell'agonia di fronte a me. Guardavo a quel ritratto fotografico e rabbrividivo. Mi riportò indietro alle immagini che avevo visto sullo schermo in terza elementare. Nonostante il profondo abisso che c'era tra noi due, durante i pochi mesi successivi egli mi faceva partecipare alla sua lunga storia di vita fatta di sofferenze, di sentimenti di terrore e di sintomi fisici cronici. Egli viveva col timore di essere ancora perseguitato, nonostante tutti questi anni in cui era vissuto in un Paese attento ai diritti umani, sicuro e rispettoso della libertà religiosa. Un vicino lo stava citando in giudizio per un conflitto su una proprietà ed egli era diventato depresso. Quando gli dissi che la paura di perdere la proprietà e la casa gli potevano far ritornare sentimenti di terrore che egli aveva provato nella Germania nazista, cominciò a piangere sommessamente. Non potevo trattenere le lacrime. Aveva bisogno di raccontare a me ed io avevo bisogno di tollerare tutto ciò. Stavamo entrambi seduti in silenzio ed io ascoltavo le sue parole ed i suoi silenzi. C'era quiete nella stanza.

Sentivo che c'era un fragile ponte tra noi due, ed un barlume di riconciliazione proprio dal fatto di essere insieme. Comunque, nel profondo avevo paura della sua rabbia, di un inesplicabile rifiuto o di una rappresaglia che egli potesse sfogare su di me in quanto rappresentante del popolo tedesco. Ero commossa e sorpresa dai miei potenti sentimenti di compassione, di profonda vergogna e di colpa. Per me, non c'era alcuna via di scampo dai fatti, dai ricordi e dai sentimenti tristi; sapevo che ci sarebbe voluto del tempo e delle lacrime per lavorare con quelli miei6   . Cominciai a scoprire nella mia analisi personale la sottostante confusione attorno alla sofferenza al servizio del diniego della rabbia e le mie distorsioni riguardo alla colpa individuale e collettiva.

Molti autori indicano l'importanza cruciale del contro-transfert nel lavoro analitico.

Tra di loro Volker Friedrich (1999) enfatizza l'importanza di analizzare il contro-transfert, e tutte le proiezioni che si verificano l'uno sull'altro al fine di ampliare la capacità di tollerare il dolore psichico e l'ansietà ed approfondire la comprensione degli individui discendenti della seconda e terza generazione, sia che discendano da sopravvissuti sia dai perpetratori dell'Olocausto. Friedrich fa questo commento:<<Riconoscere Hitler in noi è difficile per lo psicoanalista tedesco>>. E' questo un orrendo compito che prende tutta una vita?7  

Laub e Lee (2003) affermano che il trauma <<libera l'istinto di morte creando uno stato di defusione istintuale e di disinvestimento libidico>>, un processo che conduce ad un fallimento della connessione empatica all'epoca della traumatizzazione.

Alexander e Margarete Mitscherlich (1975) descrivono la perdita dell'ideale del super-io della nazione tedesca a seguito della caduta del Terzo Reich. Questa perdita venne sperimentata come una ferita narcisistica massicci e potenzialmente maligna.

In riferimento ai concetti di Freud di lutto e di melanconia e della perdita dell'ideale dell'io, gli autori affermano che, al fine di evitare la loro svalorizzazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi collettivamente si distaccarono dai crimini effettivi commessi come nazione. La voce più contemporanea del libro di Daniel J. Goldhagen, "I volonterosi esecutori di Hitler: i tedeschi comuni e l'Olocausto" (1996), ci fa capire qualcosa.

Chi stava mettendo ordine in questo caos? Come generazione successiva fummo lasciati dietro le rovine, ma vivi. Messi a confronto con le questioni tormentose di chi sapesse cosa e chi facesse cosa senza risposte chiare, molti di noi scivolarono in un masochismo ed in un odio nazionale  con un silenzio imposto dall'esterno oppure, più spesso, auto-imposto che ha portato ad una sentenza a vita di espiazione e di amnesia volontaria. In questo modo, la sofferenza poteva assumere un'espressione eroica e stoica, addirittura giustificata come uno scopo nobile in se stesso. al prezzo, comunque, di una depressione cronica espressa nel pathos e nella melanconia. Ciò sarebbe servito all'elevazione di un sé sminuito e, come nella mia famiglia, ci avrebbe dotati di una opportunità di sfida a soffrire 'bene' ("ad immagine di Cristo"), nonostante la disillusione della nostra fede in Dio e la perdita di fiducia nella guida dei più anziani della nostra comunità religiosa.

Io non avevo molto a che fare con tutto ciò oppure sì? Sembrava che i miei genitori avessero pagato con perdite e con la disfatta la loro partecipazione ed il loro sostegno all'ideologia di Hitler, ed io ero nata in modo innocente in questa confusione spaventosa, vivendo col dilemma della sconfitta nazionale, della colpa collettiva e della vergogna personale.  Che io avessi davvero molto a che fare con tutto ciò lo scoprii dolorosamente lungo tutta la mia vita. La mia eredità di pezzi frammentati comprendeva fatti storici incompleti, segreti familiari e la perdita di membri della famiglia che conoscevano la verità, in contrasto con i tesori, cui ero molto affezionata, della mia grande cultura. Elaborare il lutto della de-idealizzazione dei miei genitori li rese più umani; non avevo avuto più tempo per difenderli nelle loro buone intenzioni.

Quel che successe a noi figli della Seconda Guerra Mondiale non includeva solo la perdita di persone significative, di case o di comunità, ma anche portò alla perdita traumatica dell'"oggetto interno buono" ed a quella di un Superio benigno. R. Schaeffer (1960) parla dell'importanza di un Superio capace di amare e che è amato dato che esso rappresenta i residui di un contatto emozionale al genitore o all'ideale del genitore.

Mantenendo un tale contatto permette di evitare sentimenti di totale abbandono e rifiuto (Freud, 1939, p. 139; R. Schaeffer (1960, p. 180).

Ho concluso che una tale assenza di un Superio protettivo e capace di conforto avviluppato in un tono culturale, sadico ma sommesso, di punizione e di uccisioni abbia contribuito ad un'assenza di rappresentazioni positive del sé e dell'oggetto e, ancor più, abbia determinato un'incapacità di organizzare, afferrare e persino ricordare il trauma8    . L'esprimere ed il sentire empatia sono il risultato dell'auto-riflessione e di un'esperienza di compassione. Il mondo in cui vivevamo era un mondo rotto per tutti noi, per i membri della nostra famiglia, per gli anziani e per gli insegnanti molto più a lungo di quanto non fosse ufficialmente durata la guerra. Il lamentarsi degli orrori divenne un processo spirituale e personale. Ecco un esempio di empatia sacrificale di fronte alla realtà ed al controllo imposto dal senso di dignità.

Ho un ricordo molto nitido della mia famiglia seduta attorno al tavolo da pranzo nel 1947 durante la "Hungersnot"9   , quando chiedevo più pane e mio fratello quattordicenne mi diceva: <<Se io non ho fame, allora nemmeno tu ce l'hai>>.  La compassione giunse nelle nostre vite quando i pacchi della "American Care" arrvarono con il cibo vero, coi giocattoli e con le note scritte piene di gentilezza.

Questa perdita di reciprocità e di sicurezza esistenziale continua ad essere vera per molti sopravvissuti alla guerra, specialmente per quelli che erano bambini, che vivono con un senso di passiva anticipazione di una prossima catastrofe. Laub e Auerhahn (1998) parlano di "vivere in un tempo preso in prestito ad uno stato di esecuzione estesa" (p. 379).

Una paura di un'"esecuzione estesa"(Laub e Auerhahn, 1998) cominciò a tormentarmi quando le Forze Alleate arrivarono a bombardarci e ad ucciderci a Dresda nel 1945 allo scopo di aiutarci a liberarci dalle malvagità del regime totalitario di Hitler. Persino dopo che la guerra era finita ricordo che a Lipsia ci si sedeva fuori dalle case e si aspettava la Bomba Atomica che ci avrebbe prossimamente colpiti. Al confronto con queste paure l'attesa di una seconda venuta di Cristo, annunciata dalle fanfare di trombe nel cielo (come mi si diceva al catechismo) era veramente un pensiero confortante.  Io mi chiedevo: <<Sono state queste le più severe punizioni per noi, oppure sono stati atti di empatia?>>.

L'aggressività era giustificata come un male necessario e la realtà era sentita come fuori dal controllo di ciascuno. Sono arrivata alle seguenti conclusioni.

Propongo che per la generazione dei sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale, specialmente per i "Kriegskinder", il compito sia quello di comprendere la propria aggressività,  distorsioni e le scissioni provenienti dagli impulsi aggressivi che hanno disorganizzato tutte le funzioni dell'io. L'intensità del male testimoniato dal mondo esterno si è aggiunto alla distorsione degli impulsi di rabbia del mondo interno grazie o all'onnipotenza o al diniego. Le "introiezioni naziste", di cui Volker Friedrich (1999) parla, rappresentano gli atteggiamenti inconsci come anche la vergogna silenziosa e la colpa associate alle introiezioni culturali dei genitori. La rabbia repressa si tramuta in odio di sé e masochismo.

Propongo anche che noi "Kriegskinder" abbiamo bisogno di espandere la nostra capacità di tollerare e di provare empatia per il dolore degli altri, come nel mondo d'oggi questo è richiesto ai sopravvissuti dell'Olocausto ed alle vittime del terrorismo. Abbiamo bisogno di gestire la nostra ansietà e le risposte post-traumatiche che saranno sicuramente risvegliate quando ascoltiamo l'altro. Le risposte di vergogna e di colpa sono dei paraocchi che ci tengono lontani dal notare e dal vedere. Comunque, senza i residui e la presenza di un Superio che dà amore e sostegno è difficile vedere e far fronte alle atrocità umane. Il dono della compassione e dell'accettazione, non necessariamente del perdono, offre un ponte per recuperare l'amore per se stessi.

Quindi, l'analisi del proprio contro-transfert diventa cruciale nella formazione di ogni analista con una storia personale traumatica quando lavora con le vittime di traumi. E' all'interfaccia con la comune traumatizzazione che l'identificazione e l'obiettività diventano permeabili e la neutralità è una sfida dolorosa, come quando si lavora con la rabbia ed il transfert negativo di un paziente o quando si ascolta la ricostruzione del trauma. Quest'ultima è una modalità di organizzare i fili dei ricordi in un'organizzazione gestibile dell'io.

 

 La voce del trauma
 

La guarigione dal trauma è un processo tanto personale quanto universale e rimando all'abbondante letteratura per ulteriori considerazioni. Il mio proposito è stato quello di rivisitare  i luoghi posti in Germania ed in Polonia e di ri-raccontare la mia storia in parole ed in riflessioni. Scrivere sul trauma è qualcosa di molto simile allo stesso processo analitico, in cui le parole e le associazioni fluiscono, intrecciate con elementi di racconti di storie, di ricordi e di sentimenti emergenti, di conflitti inconsci, di sogni poetici e di simboli enigmatici. L'affettività ed i movimenti difensivi forniscono il significato, mentre nutrono una ri-creazione di un'organizzazione conscia per le esperienze del passato e del presente. E', comunque, l'unica esperienza interpersonale che consiste nel parlare, nell' ascoltare e nell' interpretare l'analisi del processo che permette al contenuto di avere importanza. L'ascolto da parte dell'analista testimonia una realtà che nel tempo si è  incisa, si è congelata o distorta e sommersa, ma ora ha una possibilità di cambiare.

Anziché parlare della guarigione dal trauma, voglio condividere coi lettori due passaggi per dimostrare il modo in cui parla il trauma. Dapprima il lettore ascolterà la voce da adulta di mia madre in una lettera che scrisse il 23 febbraio 1945, dieci giorni dopo che eravamo sopravvissuti al bombardamento di Dresda, contrapposta alla mia voce riguardante lo stesso evento, cercando di raccogliere frammenti di memoria ed emozioni spuntate 50 anni dopo. La ricostruzione di mia madre delle sue esperienze traumatiche è contrassegnata da uno stile telegrafico del resoconto, uno sforzo di organizzare proprio  cosa è successo a noi tutti. E' la voce dello stordimento e dello shock svuotato di ogni affetto.

La mia voce infantile che ricorda è molto più viscerale e frammentata, vicina al processo primario. Espressi verbalmente e poi scrissi questo testo al tempo presente, in inglese anziché in tedesco. A volte ho inserito dei residui di parole familiari e simboliche. Mi sono persino sorpresa a scivolare in immagini poetiche come per afferrare  grazie alla forma artistica delle parole, presa in prestito da versi e da musiche, qualcosa a cui la mia voce adulta potesse connettersi e a cui potesse contribuire. Comprendo questo flusso come una ricostruzione di ricordi che ha un qualcosa di regredito, che attacca le emozioni, un tempo soffocate, al linguaggio nel lavoro analitico. Entrambe le voci sono frammentate e mostrano una significativa assenza di affetto al momento della ricostruzione.

La mia ricostruzione è stata letta in inglese, sebbene a volte delle parole tedesche  venivano ad esservi associate(*).

Un brano della lettera tradotta di mia madre, scritta a Dresda di notte,  il 13 febbraio 1945:

<<... Allora un nuovo allarme. In fretta giù per le scale! Pensavamo che il mondo stesse per finire. La prima incursione aerea non era nulla a confronto con questa. La casa oscillava avanti e indietro e prese fuoco. Non c'era una casa che non fosse incendiata --- su e giù per la strada... fumo, fumo. In un ingresso il nostro primo riparo. Ma anche quella casa stava bruciando, ci stringemmo tutti insieme. Oma e Liddy cercarono ancora una volta di uscire, ma subito ritornarono indietro. Oma e Liddy giacciono a terra, completamente esausti. Liddy disse: "Stiamo tutti andando incontro alla morte qui".  Il fuoco venne giù per le scale, tutto era in fiamme, la porta d'ingresso della casa, tutto. Oma in modo composto stava avendo un attacco di cuore, era così blu. Liddy soffocava, ma non potevo essere loro di alcun aiuto. Ognuno soffocava o bruciava. Io fui  tenuta sveglia solo dai bambini che dicevano: "Mamma, sei ancora viva?" Con le mie ultime forze, al mattino presto, cercai di rompere la porta della casa incendiata. Ci riuscii. I bambini fuori--- Ruth fuori. Maria era interamente avvolta dalle fiamme, le spensi col mio cappotto --- usciti. Tutti gli altri erano morti". (Ritter, p. 84)10     .

La mia voce della stessa notte di Dresda:

(Brani) <<Corro verso la porta aperta, mia madre... faccio un passo--- il fosforo mi dà fuoco. Sto andando a fuoco!... Le mie calze prendono fuoco, rapidamente intorno a me, lingue arancioni, grido... Brucio come una torcia... Mia madre corre verso di me, prende il suo cappotto e mi avvolge con esso strettamente tutt'intorno.. le fiamme sono finite... caldo... non più così male. Fuori per strada, in piedi insieme. Un vecchio cammina... non so chi sia. La nonna e zia Liddy non sono con noi...La luce del giorno si sta intensificando; stiamo camminando... per le strade. Camminando su rottami, corpi là... fumo e ceneri, un cavallo morto... non vedere. Arancione, non più tempesta di fuoco. Asfalto caldo, le scarpe sono appiccicate, lasciate lì. Tutti noi camminiamo nel parco... gli alberi bruciano, tronchi carbonizzati.... E' buio per giorni... Dicono che le mie ferite stanno finalmente meglio quando chiedo qualche "Wurst"... Ridono di ciò... "Eri molto malata in quei giorni">>. (p. 82, 83)

Così, mia madre mi ha salvato la vita, e lei fece lo fece ancora, in seguito, nel campo profughi e quando ci condusse fuori dalla zona sovietica. In entrambe le nostre storie, Anna ed io contavamo sulla presenza delle nostre madri per mantenere un legame emozionale tanto fragile quanto rassicurante. La ricostruzione non solo implica il cercare e scoprire fatti ed eventi passati, ma richiede una valutazione soggettiva delle proprie associazioni, dei ricordi, delle emozioni e dei conflitti  in presenza dell'altro. Ciò che non può essere messo in parole verrà ad essere ri-agito ("re-enacted") nel transfert e sentito nel controtransfert, ma può essere osservato e tollerato, in condizioni di sicurezza, insieme nell'esperienza analitica.

Questo processo permette di ri-organizzare una mente caotica e ferita nel contesto di una relazione importante e di recuperare, con un senso di speranza, delle "rappresentazioni di oggetti buoni".

In senso evolutivo e retrospettivo, quel periodo di trauma condensò la mia esperienza di precoce idealizzazione della figura materna in una combinazione conflittuale di gratitudine per avermi salvato la vita, di rabbia per il dolore e di deprivazione per ciò che io ritenevo fosse di sua responsabilità, passando per l'idealizzazione, e un sentimento prematuramente realistico di rassicurazione che su di lei si potesse sempre contare. Comunque, questo ebbe luogo in un clima di silenzio oppressivo circa il perché tutto ciò fosse accaduto, chi ne avesse la responsabilità, e circa cosa serbasse il futuro - con la rara eccezione del commento di mio nonno secondo cui noi tutti "meritavamo" tutto ciò. Le lezioni della storia affidano a noi analisti una storia traumatica le cui ceneri calde dobbiamo condividere con un altro. Condividere in presenza dell'empatia è il primo passo verso la riconciliazione.

 
Caso clinico: rompere il silenzio
 

Un caso clinico illustra il dilemma tra ricostruzione e riorganizzazione di un io una volta frammentato con mancanza di coerenza emozionale nel trattamento di una donna quarantenne. L'atteggiamento di rifiuto da parte della sua madre tedesca ad aprire i propri ricordi e le proprie emozioni non permetteva alla figlia di costruire un mondo interno sicuro e ricco. Il negarle le sue storie di guerra e di sopravvivenza ad essa l'aveva impoverita. Il bisogno della mia paziente di conoscere la storia della sua famiglia, quella di suo padre ebreo americano, la lotta per la sopravvivenza di sua madre nella Berlino del 1945, e il ritrovare una sorellastra della madre, tutto ciò divenne il lavoro basilare da fare per conoscere se stessa. Il suo profondo desiderio di conoscere meglio la sua nonna berlinese 'Omi', una donna con cui si poteva identificare, avventurosa ed energica, consentirono la realizzazione del suo desiderio di affermazione e di separatezza.  Le sue scoperte concernenti il proprio mondo interno la condussero a rappresentazioni de sé e dell'altro più complete. Una connessione empatica era stata recuperata non solo con sua madre, ma anche con me attraverso il processo del transfert. Scoprire la sua storia mi servì alla comprensione della mia storia. Le mie paure di perderla, proprio come sua madre temeva l'abbandono di sua figlia, erano al servizio di un'importante funzione di chiarire l'individuazione senza l'abbandono.

 

Note conclusive
 

I commenti di Freud (1932) ad Einstein sui sentimenti di impotenza di fronte alle guerre che gli uomini intraprendono includono l'appello pieno di speranza, eppure anche disperato di contrapporsi e di bilanciare l'istinto distruttivo creando legami affettivi e promuovendo l'identificazione con gli altri. Sopravvivere al trauma significa sfidare la morte e ri-chiamare i pezzi rotti della vita con gli altri. La ricostruzione sfida la distruzione. L'analisi è un atto congiunto di sfida nei confronti degli impulsi distruttivi tanto esterni quanto interni al servizio della loro comprensione e della loro integrazione, con la speranza di ri-stabilire i legami affettivi nei confronti degli eventi e degli oggetti significativi. Sane identificazioni frenano le spinte dal basso. Comprendere e gestire l'aggressività è stato uno dei più difficili compiti nel mio viaggio personale e professionale e, lo so bene, nella guarigione di altri sopravvissuti. Il dilemma di vedere la rabbia che si manifesta nella violenza catastrofica mentre si prega "liberaci dal male" mi ha reso difficile, e lo ipotizzo per qualsiasi altra persona con una storia di trauma, umanizzare ed organizzare gli elementi roventi degli impulsi aggressivi.

La frase proverbiale "Reden ist Silber, Schweigen ist Gold" (parlare è argento, il silenzio è d'oro) potrebbe sembrare un consiglio per l'analista alle prime armi. Per l'analizzando, comunque, è sia nell'argento (il parlare) che nell'oro (il silenzio) che il processo analitico inizia a far luce. Questo processo diviene interpretabile grazie alla testimonianza dell'analista; il vostro ascolto verso di me oggi è parte di quell'esperienza. Il processo del ri-cordare permette l'integrazione e, secondo Santayana, offre un'alternativa necessaria alla proverbiale 'condanna a ripetere'. La nostra speranza come psicoanalisti è quella di riscrivere, in modo leggermente differente, la frase di Santayana: "Coloro che non possono ricordare il passato sono condannati a ripetere in analisi".

Alcuni anni fa il mio fratello maggiore mi diede una piccola spilla con un ritratto di mia madre risalente a quando aveva un anno di età.  I suoi bei occhi esprimevano meraviglia, innocenza e speranza. Era nata a Berlino nel 1903. La spilla in qualche modo aveva continuato a parlare attraverso gli anni  del disastro: fughe, fuoco e cenere, vita da rifugiati, carestie, morte, musica e sollievo.  E' il residuo oggi di una presenza,  che rievoca l'innocenza della vita e la resilienza dello spirito umano.

 

 

 

 NOTE del traduttore:

(*) Al Congresso dell'I.P.A. del 2007 l'autrice ha letto al pubblico i testi da lei indicati, e l'autrice aggiungeva questa precisazione: <<Dato che la mia lingua madre è il tedesco, ne ascolterete ancor più la componente affettiva nella mia voce e nel modo in cui leggo il testo>>.

 

NOTE dell'autore:

(1) Una precedente versione di questo articolo è stata presentata ad un seminario presso l'Istituto e la Società Psicoanalitica di San Diego il 26 marzo 2004 con i dottori Haig Koshkarian e Robert Nemiroff come discussants. Le seguenti persone vi hanno contribuito con le loro idee e coi loro utili suggerimenti: Marky Reynolds, Dr. Michele Stewart, Dr. Winfried Ritter, Dr. Gay Parnell, and Dr. Robert Tyson.

(2) Si veda "Der Struwwelpeter", 1844, del Dr. Heinrich Hoffmann (1809-1894), uno psichiatra con un particolare interesse  per la psichiatria infantile. Freud molto probabilmente conosceva bene questo libro. Io ne ricordo chiaramente il testo e le immagini.

(3) Il "911" è il numero di telefono nazionale per le emergenze.

(4) Con il termine "Kriegskinder" in questo contesto vengono definiti i bambini nati prima e durante la Seconda Guerra Mondiale i quali sono stati esposti ai traumi della guerra e sono sopravvissuti. Le loro esperienze hanno lasciato delle cicatrici fisiche ed emotive di vario grado di reattività nel loro funzionamento mentale, in relazione all'età ed alle costellazioni sia esterne che interne (M. Ritter).

(5) Si veda il "Tagungsreport: Die Generation der Kriegskinder und ihre Botschaft fuer Europa sechzig Jahre nach Kriegsende, 14.04.2005 – 16.04.2005, Frankfurt, Germany". La conferenza fu frequentata da 600 esperti e testimoni e si focalizzò, tra le altre cose, sull'intento di fermare il silenzio della generazione dei genitori chiamando per nome le atrocità. Il dialogo non intendeva creare un modello di "competizione tra le vittime". Gli effetti della guerra sui bambini venivano descritti coi seguenti elementi: essere cresciuti "presto nella vita", alte aspettative verso se stessi di funzionare in modo indipendente, sentimenti di colpa ed incapacità di chiedere ai genitori cosa fosse accaduto allora, una "fiducia primaria" disturbata, ed un'identità fragile. Tali elementi sono stati trasferiti alla generazione successiva dei sopravvissuti.

(6) Si veda anche Ritter, M. "Return to Dresden", The Mitzvah, p. xxiii.

(7) Si noti la recente presa di posizione ufficiale della "American Psychoanalytic Association" nel condannare la tortura. <<In quanto organizzazione di psicoanalisti che hanno dedicato le loro vite ad aiutare la gente ad annientare gli effetti del trauma nelle loro vite, l'ApsaA protesta energicamente contro ogni tortura, includendo ogni tortura somministrata ed approvata dal governo nei confronti di persone detenute. La tortura degrada chi la subisce e chi la somministra. Gli effetti di tale degradazione fisica e morale, lo sappiamo, sono trasmessi alle famiglie ed ai discendenti tanto delle vittime quanto dei perpetratori>> (si veda il sito web dell'ApsaA).

(8)  <<Si può arrivare a tal punto da credere che l'opacità del trauma (...) vale a dire, nei miei termini, la sua resistenza alla significazione  --- sia allora ritenuta responsabile dei limiti del ricordare>> (Jacques Lacan).

(9) "Hungersnot" significa carestia.

(10) <<...Dann neuer Alarm. Schnell runter! Wir dachten, die Welt geht unter. Da war der erste Angriff gar

nichts gewesen. Das Haus schwankte hin und her und brannte. Kein Haus brannte nicht – die ganze Strasse

auf und ab….Qualm, Qualm. In einem Hausflur, erster Schutz. Aber das Haus brannte auch, wir kauerten

uns zusammen. Oma und Liddy versuchten nochmal raus, kamen aber wieder...Oma und Liddy legten sich

hin, voellig erschoepft. Liddy sagte, hier gehen wir zugrunde. Das Feuer kam die Treppe herunter, alles

brannte, die Haustuer, alles. Oma hat wohl gnaedigerweise einen Herzschlag gehabt, sie war ganz blau.

Liddy ist erstickt, ich sah es und konnte nicht helfen. Alles erstickte oder verbrannte. Ich selbst wurde nur

durch der Kinder Fragen,”Mutti, lebst du noch?” wach gehalten. Mit letzter Kraft gegen Morgen versuchte

ich die brennende Haustuere aufzureissen. Es gelang. Die Kinder raus – Ruth raus, Maria brannte

lichterloh, loeschte sie mit meinem Mantel aus – raus. Alles andere tot….>> (Ritter, M. Personal letter).

 

 

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