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Poche
descrizioni sono così precise e profonde come i versi che seguono:
"L'animo
mio, per disdegnoso gusto
credendo
col morir fuggir disdegno
ingiusto
fece me contra me giusto"
La
profonda intuizione di Dante, racchiusa in questi versi, mette in
luce la connessione tra il suicidio, la ferita narcisistica
insanabile e il senso di vergogna e di umiliazione. Un'altra
mirabile sintesi dantesca, sempre a proposito di suicidio, è quella
riguardante Catone:
"Libertà
va cercando, ch'è sì cara,
come
sa chi per lei vita rifiuta"
Qui si
accenna ad un'altra dinamica che sottende il suicidio, connessa alla
coerenza e al rigore morale, dinamica, questa, che si riscontra più
raramente e che comunque è più adatta ad essere discussa in
filosofico che psichiatrico. Delle due modalità di suicidio,
tratterò della prima, cioè del suicidio per rabbia e per vendetta.
E a questo proposito, esiste una sorta di casistica letteraria che
può illustrare il problema del sentimento di umiliazione
narcisistica nel suicidio: "i casi clinici" a cui fare
riferimento sono Aiace, Madame Bovary e Anna Karenina.
Nell'Aiace
di Sofocle l'umiliazione che muove la tragedia è innanzitutto la
mancata assegnazione delle armi di Achille al protagonista;
quest'ultimo, sviato da Atena, crede di vendicare l'offesa col
sangue di Odisseo e degli altri duci achei, ma fa in realtà una
strage di armenti. Dopo la folle esultanza, Aiace progressivamente
torna in sé ma, schiacciato dalla vergogna, trova nel suicidio la
risoluzione alla propria vita, che ora gli appare insostenibile, e
si suicida gettandosi sulla spada di ettore infissa al suolo,
nonostante le preghiere palpitanti di tenerezza dell'amata e la
presenza del figlioletto Eurisace. A parte l'antefatto del
torto nell'assegnazione delle armi, tutta la tragedia echeggia
ossessivamente di risate di scherno. Odisseo ride con gli Atridi
alle angosce del folle; Aiace stesso ride contro il rivale, e di lui
ridono gli Achei scampati alla strage. Atena, nel prologo, proclama
che "ridere del nemico è il più bel riso"; ride Menelao,
mentre teucro amaramente constata che si ride sui caduti, e Tecmessa,
col suo "ridano pure" pregusta una rivalsa. Ma Aiace non
tollera il cerchio delle ritorsioni beffarde, e lo spezza di fatto
con la propria morte, con cui trova finalmente pace. In questo modo
la sua virtus disarma i nemici: "ridere di lui come
potrebbero?", ma egli ha dovuto pagare con la vita
l'intolleranza alla ferita narcisistica dell'umiliazione, pur
indotta da un dio (egli ha peccato di hubris nei confronti di
Atena). Aiace, e questo è il nodo della sua grandezza, accetta
eroicamente la sorte, ma quando la speranza di vita gloriosa è resa
vana dal fato, la sua coerenza inflessibile, o se si vuole
l'impossibilità di tollerare lo scacco, lo spingono a cercare
l'unica alternativa possibile, cioè il riscatto nella scelta di una
morte gloriosa, per cui "merita che lo pianga anche il
nemico".
Foto: Locandina di "Madame Bovary" di Vincente Minnelli
L'intolleranza
all'offesa narcisistica è una delle caratteristiche fondamentali di
Emma Bovary; questa prospettiva può aiutarci a comprendere sia
l'apparente forza perversa che la sottostante debolezza infantile e
la vulnerabilità di questo personaggio. Il rapporto
sadomasochistico con Charles offende Emma, che si vergogna della
propria e dell'altrui viltà, e la loro incapacità a sostenere la
colpa fa in modo che questa rimbalzi dall'uno all'altra, come in
ogni legame sadomasochistico. Madame Bovary nasce quando Emma, dopo
aver intravisto i vantaggi del matrimonio con Charles, si accorge
dei suoi difetti, che non riesce a tollerare: "Con l'età, lui
prendeva abitudini grossolane, dopo aver mangiato tagliuzzava i
tappi delle bottiglie vuote; si passava e ripassava la lingua sui
denti; nel sorbire la minestra, gorgogliava ad ogni
cucchiaiata". La propria vulnerabilità narcisistica non
permette ad Emma di tollerare i difetti dell'altro: "Dio mio,
ma perché mai mi sono sposata?". Così prova a risvegliare in
lui la passione, recitandogli versi d'amore, ma lui non appare
"né più innamorato né, comunque, più turbato", anzi,
la bacia a ore fisse, "quasi come un dolce, previsto per tempo,
dopo la monotonia del pranzo". Tuttavia, dopo la sua prima
vendetta, il ballo col Visconte, essa torna e si rannicchia accanto
a Charles, che dorme; quando, il mattino dopo, trova il
portasigari, egli si umilia e così facendo ferisce Emma nel
suo orgoglio, come nell'episodio delle critiche da parte di un
collega, in cui il marito scambia la rabbia di lei per tenerezza,
mentre"... lei era esasperata per la vergogna". Al tempo
stesso, pur cercando soddisfazioni altrove, è attratta come una
calamita dal marito, o meglio, è schiacciata dal senso di colpa nei
suoi confronti, e si odia per questo. Quando accetta la corte di
Leone, si compromette, ma Charles "poco geloso, non se ne
stupiva"; Emma lo osserva: "... Era là, con il berretto
calcato fino alle sopracciglia, le sue grosse labbra tremolavano, e
questo aggiungeva qualcosa di stupido alla sua faccia; persino la
schiena, la sua schiena tranquilla, era irritante a vedersi, alla
giovane donna parve di leggere scritta su quella rendigote tutta la
mediocrità del personaggio". In realtà, l'offesa di Emma,
quella che la spinge a morire, non è tanto l'abbandono di Rodolfo,
o la sazietà e la delusione di Leone, ("Lei era
disgustata di lui quanto lui era stanco di lei"): Emma soffre
inconsapevolmente per colui che disprezza, e la sua sofferenza è
dovuta al fatto che non si sa staccare da lui, da una figura così
bassa. Prova a uniformarsi agli ideali di vita di Charles, facendo
la brava donna di casa, ma in realtà "è piena di avidità, di
rabbia e di odio". Si tratta quindi di un legame di vergogna e
di odio, ma a suo modo indissolubile:
"Ma
quel che più l'irritava era constatare come Charles non avesse il
minimo sentore del suo strazio. La convinzione del marito di
renderla felice le pareva uno stupido insulto, tutta quella
tranquillità una manifestazione d'ingratitudine. Per chi
dunque lei si comportava così bene? Non era forse lui
l'ostacolo a ogni suo desiderio, la causa di ogni sua miseria, il
gancio aguzzo di quella catena complicata che la stringeva da tutte
le parti?". Tuttavia, basta che egli le fornisca l'occasione,
con Ippolito, per riabilitarlo, e lei "assaporava la felicità
del riscatto in un sentimento nuovo, più sano, veramente migliore,
di provare finalmente un poco di tenerezza per quel poveraccio che
l'adorava"; anzi, giunge perfino a notare che "i denti del
marito non erano per nulla brutti", salvo poi disilludersi:
"come aveva fatto a immaginare che un simile uomo potesse
valere qualcosa? Non ne aveva già più e più volte toccato con
mano la mediocrità?". La delusione dopo l'illusione distrugge
Emma. Rovina il marito economicamente, e prova una commistione di
rabbia e di colpa:"'Sì', mormorava digrignando i denti ' mi
perdonerà, lui che anche se mi offrisse un milione, non potrebbe
farsi perdonare di avermi conosciuta... mai e poi mai!' L'esasperava
proprio quest'idea della superiorità di Bovary su di lei". Ed
Emma distrugge Charles col proprio odio, dapprima convincendolo ad
operare il garzone storpio Ippolito, ed esponendolo così ad una
brutta figura professionale, ed infine con la propria morte.
Foto: Isabelle Huppert in "Madame Bovary" (1991) di Claude
Chabrol
E' la
morte che allontana Emma dalla vergogna, rendendola anche capace di
tenerezze nei confronti di Charles ("'Non piangere, presto non
ti tormenterò più'. E gli passava la mano tra i capelli
lentamente".), e facendola diventare la sua ossessione
("Per piacerle, come se lei fosse ancora in vita, adottò le
sue predilezioni, le sue idee: si comprò scarpe di vernice, prese
l'abitudine delle cravatte bianche. Si metteva il cosmetico sui
baffi, e come lei firmò altri pagherò. Lei lo corrompeva dalla
tomba".) Lei continuerà ad apparirgli come un fantasma, che
riuscirà a perseguitarlo anche dalla tomba ("Ogni notte,
comunque, la sognava, sempre lo stesso sogno: lui le si accostava,
ma, quando stava per stringerla, lei gli si sfaceva in polvere tra
le braccia".), fino a distruggerlo, con una sorta di vendetta
post-mortem"... ogni tanto qualche curioso, affacciandosi da
sopra la siepe del giardino, scorgeva con meraviglia quell'uomo
dalla barba incolta, coperto di sordidi stracci, inselvatichito,
andare avanti e indietro, piangendo".
Foto: Locandina di "Madame Bovary" di C.Chabrol
(1991 )con Isabelle Huppert
Non è
difficile dunque cogliere il punto centrale del suicidio di Emma
Bovary. Cosa ella non tollera, al punto di preferire la morte? Qual
è il senso di insopportabile umiliazione, che corrisponde alla
vergogna, e alla intolleranza dello scherno di Aiace? Non certo
l'abbandono di amanti che, a ben vedere, contano poco e nulla; ma
neppure il disprezzo di Charles, che narcisisticamente diventa
disprezzo di sé. Il disprezzo nell'hic et nunc non è dunque che un
rappresentante di qualcosa di antico. V'è al di dietro di tutto
questo un bruciante senso di ingiustizia subita, di cocente
recriminazione per qualcosa di non avuto e che non si potrà avere
più, che è drammatizzato, nel senso di messa in scena,
dall'impossibilità di recuperare come figura valida e apprezzata
Charles, al fine di apprezzare se stessa, e quindi di recuperare un
oggetto d'amore valido, per potersi sentire amata. Il sentimento che
domina sembra, a ben vedere, il desiderio di vendetta, che di fatto
riesce contro Charles. Dunque, a seguito della frustrazione e
dell'ingiustizia narcisistica subita in antico, tutta la vita di
Emma sembra accuratamente predisposta e programmata per scontare e
far scontare l'intollerabile livore per l'umiliazione continua,
inserita nel suo vivere da quando la grande ingiustizia fu
consumata.
Foto: una incisione ottocentesca di "Anna Karenina"
In
Anna Karenina la vulnerabilità narcisistica è più sottile, più
difficile a cogliersi, forse meno psicopatologica, ma comunque
costantemente presente, e costituisce il tema di fondo che
accompagna le relazioni tormentate della protagonista; quando
questa fragilità si accentua, e la propria immagine diventa
irrimediabilmente compromessa, l'unica alternativa è il suicidio.
Anna è una donna estremamente sensibile all'immagine di sé che le
viene rimandata dagli altri, e non tollera di apparire diversa
rispetto al proprio ideale narcisistico. Già dopo aver conosciuto
Vronskij si domanda "Di cosa mai mi vergogno io?"; si
risponderà che non c'è nulla di cui vergognarsi, ma sa che è una
bugia; è consapevole di sbagliare, ma non lo ammette. Quando
rivede il marito, come Emma Bovary si sofferma impietosamente sul
suo aspetto: "Ah, Dio mio, perché ha le orecchie fatte a quel
modo?". L'allontanamento da lui è inevitabile. Gli confessa il
suo amore per l'altro andandone quasi fiera, ma solo in
seguito capisce le possibili conseguenze:"Aveva lo sgomento del
disonore, al quale prima non aveva mai neppure pensato. Appena
immaginava quello che il marito avrebbe fatto, le si affacciavano i
pensieri più paurosi. Le venne in mente che sarebbe venuto subito
l'intendente a cacciarla di casa, che il suo disonore sarebbe stato
rivelato a tutto il mondo". Questo sentimento le è così
intollerabile che ne fa le spese anche Vronskij: "Quando
pensava a Vronskij le pareva che egli non l'amasse più, che già
cominciasse ad essere stanco di lei, che lei non potesse offrirglisi
più, e sentiva per questo un astio verso di lui. Le
sembrava che le parole, che ella aveva dette al marito e che
incessantemente ripeteva nella mente, le avesse dette a tutti e che
tutti le avessero udite".
Foto: un fotogramma di "Anna Karenina" (1935) di
C.Brown con Greta Garbo
Nonostante
sia una donna di mondo, non si conforma alle regole della società a
cui appartiene, quando Vronskij si preoccupa che qualcuno li veda
assieme, ella esclama "Ah, per me è lo stesso!", ma lo
guarda "sotto il velo di una strana cattiveria". Il suo
apparente anticonformismo nasce proprio dall'intolleranza alla
critica: non riesce in sostanza a concepire di poter essere in
qualche modo imperfetta e vulnerabile. Eloquente, a questo
proposito, l'episodio della rappresentazione a teatro, in cui finge
prima di ignorare le convenzioni che le impongono una vita ritirata,
e poi rimprovera Vronskij di averla esposta alla vergogna. Anche nei
rapporti affettivi, ha un bisogno continuo di conferme tangibili del
suo fascino e della sua capacità di seduzione: a volte dà
l'impressione che il ruolo di Vronskij sia proprio quello di
rimandarle l'immagine della donna che vuole essere. E' talmente
sicura della propria influenza su di lui che fa a meno del divorzio;
quando teme che egli sfugga, cambia idea e vuole legarlo a sé. Ma
questo è un espediente, e Anna, il cui amore segue la legge del
tutto o del nulla, non si abbassa ad usarlo, anche perché avverte
che ormai non ha più potere su di lui. Anna trasgredisce, sa di
farlo, ma non sopporta, a differenza dei veri anticonformisti, di
essere una trasgreditrice. Tradisce il marito, ma non tollera il suo
comprensibile sarcasmo sulla situazione. E' indicativo l'episodio in
cui, credendosi in punto di morte, obbliga il marito e Vronskij alla
riconciliazione, annullando magicamente la propria colpa. E ancora
viola le regole della buona società a cui appartiene, ma è per lei
intollerabile la constatazione, nell'altrui atteggiamento, del fatto
che violandole si è compromessa. Il suo è un suicidio dovuto
all'intensa vergogna, alla mancanza di possibilità di restaurare
l'immagine di sé. Quando avverte disprezzo per la sua condizione da
parte dell'alta società, e contemporaneamente indovina
l'insoddisfazione di Vronskij, sente con chiarezza che non c'è
rimedio; allora le sue difese crollano, e la morte diventa l'unica
soluzione alla vergogna.
Foto: la locandina di "Anna Karenina" (1935)
Anna
Karenina viene condotta ad un suicidio previsto e inevitabile
perché si pone il compito di risolvere un'equazione narcisistica di
grado impossibile. La pretesa grandiosa è quella di mantenere al
massimo livello il recupero narcisistico senza nulla perdere: ella
deve essere libera nel piacere e trasgressiva (le pulsioni devono
essere soddisfatte); la società (mondo esterno/Super-Io) deve
approvarla totalmente; Vronskij deve essere soddisfatto (abolizione
del rischio della perdita d'oggetto); Karenin deve essere contento e
riconciliato con Vronskij (lo split deve essere risolto nella
realtà, non nell'oggetto interno). Se cede uno dei punti
dell'equazione impossibile, Anna non ne tollera la frustrazione e
"piuttosto muore".
Foto: La locandina di "Anna Karenina"(1997) di
B.Rose con Sophie Marceau
E'
evidente il progetto antico di suicidio nella impercorribilità
della via risolutiva: ella non vuole risolvere niente nell'hic et
nunc, ma vuole riottenere tutta la gratificazione possibile
dall'oggetto antico, ormai inesistente. Come in Aiace, come in Emma
Bovary, sembra che il suicidio fosse scritto da sempre nel progetto
di vita, come inevitabile conclusione.
Il
suicidio dunque come evento inserito da sempre in una trama antica:
mai come semplice risposta alla situazione in atto, ma come reazione
ad un evento antico di cui l'attuale costituisce solo una
riedizione. A questo punto, è lecito domandarsi perchè il suicidio
sia così raro, a fronte dell'elevata frequenza di gravi traumi
narcisistici che segnano le fasi precoci della vita, come rileviamo
nella pratica psicoterapeutica.
Nell'analisi
di questi tre casi, risultano evidenti alcune dinamiche di fondo.
Innanzitutto, la presenza costante del sentimento di umiliazione. La
vergogna è un sentimento di ordine narcisistico (mentre la colpa è
di ordine oggettuale), ed è connessa alle fasi pregenitali dello
sviluppo: questo spiega il suo carattere intransigente, crudele e
senza riparazione possibile. Il sentimento di vergogna si manifesta
in modo globale, primario e assoluto quando il narcisismo si scinde
dal legame con l'oggetto. Dal momento che ogni scissione di questo
tipo favorisce la pulsione di morte, si può ben comprendere che il
suicidio avvenga per vergogna (Green, 1985).
In
Aiace, Emma ed Anna risulta evidente come la situazione di fondo che
spinge inesorabilmente alla morte sia sempre la presenza di una
grave ferita narcisistica, che fa sì che l'umiliazione diventi
intollerabile. Se si verifica una situazione di fondo di
intolleranza alla frustrazione, perchè questa lede eccessivamente
il Sé, allora la ferita narcisistica diviene un valido movente
suicida. Secondo Kohut, i soggetti con intensa fragilità
narcisistica, quando subiscono sconfitte nella realizzazione delle
loro mete ambiziose ed esibizionistiche, provano una vergogna
bruciante, spesso seguita da un'invidia intensa e da impulsi
autodistruttivi, che vanno considerati non come attacchi del
Super-io contro l'Io, ma come tentativi dell'Io sofferente di
sbarazzarsi del Sé, cancellando la sconfitta e l'offesa. In
questo caso gli impulsi autodistruttivi non vanno assimilati alle
tendenze suicide nel paziente depresso, ma devono essere considerati
come espressione della rabbia narcisistica (Kohut, 1971). Per la
vergogna la sola via di uscita è il narcisismo negativo (Green,
1985), con neutralizzazione degli affetti e affermazione
megalomanica dell'Io, prima della sua sparizione. In quest'ottica il
suicidio può essere considerato l'estremo atto narcisistico dopo
che è avvenuto il crollo delle difese disponibili: la pulsione di
morte, con annullamento della tensione, ha il sopravvento sul
principio di piacere, con conseguente rinuncia pulsionale alla
soddisfazione. In questi casi la conseguenza è il distacco della
libido dall'oggetto, e il ritiro, mortifero, sul Sé.
Certo,
il sentimento di vergogna è universale, e tutti noi siamo, in
misura variabile, vulnerabili narcisisticamente: questa
universalità, connessa al legame tra scacco narcisistico e
suicidio, rende ragione dell'ubiquità degli atti autolesivi. In
realtà, il problema è dimensionale, e pur essendo la fragilità
narcisistica una variabile quantitativa, il disturbo mentale causa
una vulnerabilità tale in questo senso da rendere possibile, di
fatto, una distinzione qualitativa tra dimensioni psicopatologiche e
dimensioni psicogene, o umane, del suicidio. E d'altronde, non
tenere presenti queste ultime comporterebbe l'incapacità di
comprendere il suicidio in casi simili a quelli letterari trattati
in precedenza: come inquadrare da un punto di vista nosologico Emma
Bovary, e soprattutto, che farmaci somministrarle?
Foto: Isabelle Huppert in "Madame Bovary"(1991) di Claude
Chabrol
Di
solito la teorizzazione sulle possibili forme di prevenzione del
suicidio si fonda sul presupposto che l'atto autolesivo sia indice e
conseguenza di un disturbo mentale, una sorta di via finale comune
della psicopatologia. In effetti, molti disturbi psichiatrici
esitano in suicidio: predomina ovviamente la depressione, ma
l'incidenza è alta anche nella schizofrenia e nell'alcoolismo. Ad
un primo esame, si tratta di disturbi diversi; tuttavia, non è
difficile individuare in essi dinamiche abbastanza costanti.
Il
meccanismo che sottende la depressione è la perdita e
l'introiezione dell'oggetto amato, verso il quale vengono rivolte
non solo le cariche libidiche, ma anche quelle aggressive, connesse
all'abbandono. Nell'alcoolismo, come nelle tossicodipendenze, la
dinamica è identica, anche se l'introduzione della sostanza
chimica, fredda, sempre disponibile, che non tradisce, tende a
sostituire l'oggetto perduto e a restaurare l'onnipotenza
narcisistica. Per quanto concerne la schizofrenia, si potrebbe
supporre l'esistenza di un meccanismo differente, ma ad un più
attento esame risulta possibile ricondurne la dinamica a quelle
accennate prima: in effetti, il suicidio negli schizofrenici compare
non tanto nei periodi di acuzie della sintomatologia psicotica, ma
più spesso alla remissione, quando la consapevolezza del proprio
disturbo può indurre sentimenti depressivi, correlati ad una
migliore capacità di esame della propria realtà e alla conseguente
caduta dell'autostima. Gli atti autolesivi connessi alla
sintomatologia produttiva (per esempio, alle allucinazioni
imperative) non sono, di fatto, molto frequenti. Il suicidio nella
schizofrenia rappresenterebbe quindi una scappatoia alla depressione
che coglierebbe il paziente in conseguenza del migliore esame della
propria realtà, successivo alla remissione della
sintomatologia psicotica.
Foto: incisione da
Tardieu A., "Etude medico-legale sur la pendaison, la
strangulation et la suffocation", Baillière, Paris, 1879.
Ci
sembra quindi che sia possibile individuare in questi quadri alcune
dinamiche di fondo comuni, che possono essere ricondotte alla
perdita dell'oggetto amato e alla compromissione del Sé; si tratta
di concetti apparentemente distinti, ma che, come vedremo, hanno un
denominatore comune, che è l'incapacità a tollerare la perdita e
la separazione.
la
perdita dell'oggetto d'amore determina un ripiegamento verso
l'interno dell'aggressività, e un'identificazione dell'Io con
l'oggetto perduto, vissuto ambivalentemente, verso il quale vengono
dirette le cariche aggressive elicitate dall'abbandono : "...
l'Io può uccidersi solo quando... riesce a trattare se stesso come
oggetto" (Freud, 1915). Anche quando postula l'esistenza
dell'istinto di morte, Freud spiega la tendenza suicidaria
nell'ambito della dinamica dell'aggressività, l'autodistruttività
dell'istinto di morte viene tenuta sotto controllo tramite la
fusione con la libido, che permette di dirigere l'aggressività
verso gli oggetti esterni. L'interiorizzazione dell'aggressività
sarebbe quindi il processo più pericoloso per la psiche umana.
Anche la teoria kleiniana imposta la dinamica del suicidio
sull'istinto di morte. Per difendersi dal timore di annientamento
l'Io proietta una parte dell'istinto di morte sull'oggetto esterno -
che diventa il persecutore - mentre la parte dell'istinto di morte
trattenuta nell'Io rivolge la propria aggressività contro l'oggetto
persecutorio. Da qui origina il senso di colpa, cioè il timore
continuo di rappresaglia da parte dell'oggetto investito, che è
accompagnato anche dal senso di perdita e di privazione, dovuti al
fatto che l'Io si sente impoverito per aver depositato nell'oggetto
stesso aspetti del proprio Sé. In entrambe le impostazioni è
evidente che il presupposto di base è l'incapacità di tollerare la
perdita e la separazione. In quest'ottica, anche le fantasie di
rinascita e di riunione possono essere viste come tentativi di
negare la perdita: lasciare per primi significa anche evitare di
essere lasciati.
Foto: incisione tratta da Tardieu A., op.cit.
Nello
sviluppo, la separazione emotiva dai genitori è inevitabile; è
possibile che nei soggetti con intensa vulnerabilità narcisistica
la fase di separazione individuazione sia stata in qualche modo
compromessa, causando l'intollerabilità alla perdita. In questo
senso la morte può essere vista anche come l'estremo tentativo di
ricostituire l'unione perduta, col ritorno al ventre materno. Col
suicidio si raggiungerebbe la vita connessa al ricordo del
narcisismo primario e al senso di onnipotenza, confermando una
separazione mai avvenuta. La fantasia suicidaria, più che agire
impulsi autopunitivi e distruttivi, sarebbe un tentativo di
ripristinare un equilibrio narcisistico precario; questo sarebbe
legato all'incapacità di tollerare la solitudine, la perdita e la
separazione per un processo inadeguato di introiezione e di distacco
dalla figura materna. In questi casi le difese più comuni sono la
ricerca di approvazione da parte del mondo esterno e la costruzione
del Sé grandioso; tuttavia, ogni perdita, come il fallimento dei
propri progetti, il decadimento fisico o del proprio ruolo sociale,
ripropone il fantasma del fallimento della separazione dalla madre,
e la morte viene a rappresentare un'occasione di ricongiungimento,
che pone rimedio alla ferita narcisistica insopportabile, e al senso
di disperazione e di vuoto. Il suicida regredirebbe fino a uno
stadio in cui c'è poca differenziazione tra il Sé e l'oggetto, con
fusione narcisisistica o unione simbiotica con una figura
significativa che realizza le fantasie di grandiosità e di
immortalità. In effetti, quando l'autostima e l'integrità del Sé
dipendono dall'attaccamento ad un oggetto perduto, il suicidio può
rappresentare l'unica via per ristabilire la coesione del Sé (Gabbard,
1990).
In
sintesi, le difese funzionano finché la frustrazione non è
eccessiva; quando la soglia viene oltrepassata, cioé quando è
minacciata la propria integrità e connessione interna, vanno in
scacco, con facile passaggio all'acting suicidario. Ancora una volta
si ha l'impressione che il concetto di norma sia essenzialmente
quantitativo; le dinamiche descritte non sono infatti patognomoniche
di un determinato disturbo, ma sono sottese da esperienze
universali, connesse allo sviluppo e all'evoluzione. Questo ci
riporta alla dimensione psicogena, o se si vuole umana, del
suicidio.
Foto: incisione da Tardieu A., op.cit.
Se
consideriamo lo sviluppo, risulta evidente che la perdita
dell'oggetto d'amore va considerata come un inevitabile passaggio
evolutivo. Dalla perdita della sicurezza e dell'onnipotenza propria
della vita intrauterina, allo svezzamento, alla perdita del genitore
edipico, i primi anni di vita sono costellati di perdite; senza di
esse, non sarebbe possibile lo strutturarsi normale della
personalità. L'identificazione con l'oggetto buono può avvenire
solo se esso viene riconosciuto come altro da sé, quindi se si
rompe l'unità indistinta madre-bambino della fase di narcisismo
primario. Solo avvertendo questa perdita, connessa al sentirsi
separato, il bambino potrà introiettare l'oggetto e idetificarsi
con esso, cominciando a formare la propria identità. D'altronde, la
perdita dell'oggetto è il motore dell'instaurazione del principio
di realtà. La situazione di simbiosi non evolve per definizione, ed
è mortifera, perché, evitando la separazione, impedisce lo
sviluppo e l'evoluzione; d'altro canto, il rapporto diadico stesso
contiene in sé la separazione, e quindi l'angoscia di morte.
L'incapacità di elaborazione del lutto è connessa alla nostalgia
mortale insita nell'atto suicida. Qual è quindi il destino della
componente narcisistica in relazione agli eventi infantili? Dalla
prima perdita, ai suoi successivi rappresentanti psichici, l'Io
normale rinuncia all'oggetto e resta in vita, e con questa dinamica
definisce sempre meglio se stesso e si sviluppa. La tragicità di
questo concetto è che la sopravvivenza è indissolubilmente legata
alla separazione, e alla possibilità di costruire dentro di sé un
oggetto buono che permanga anche dopo la perdita; perché ciò
avvenga, però, l'oggetto deve essere perso. Si può accennare a
questo proposito alla profondissima intuizione di dante, che ha
rappresentato nell'Inferno i suicidi come piante, che non possono
vivere separate dalla terra-madre. I suicidi sono di fatto persone
lese, come è lesa irrimediabilmente una pianta sradicata, per la
quale la separazione dalla terra-madre è impossibile: il principio
di ritorsione, per l'affronto insanabile, non manca mai, come i
nostri tre casi dimostrano, anche se l'oggetto, ma non principale,
della ritorsione è il sé. Valgono qui i versi di Auden:
"I
and the public know
what
all schoolchildren learn,
men to
whom evil is done
do
evil in return".
La
nostalgia dell'oggetto amato per primo, dovuta al dolore connesso
alla separazione e alla vischiosità della libido, è il filo
conduttore della vita interiore di ognuno, che lega passato e
presente: il lutto costruisce gli oggetti interni, quindi l'Io e
l'identità. Se il lavoro del lutto fallisce, non ci si può
separare, ed è sempre possibile l'attacco contro l'oggetto
malamente amato che è dentro di sé.
A
questo punto, si può affermare che la capacità di tollerare la
frustrazione è funzione della capacità di separarsi, che
riconduce alla separazione inevitabile dall'oggetto amato per primo.
Se questa è stata possibile, esistono gli strumenti interni per
tollerare la frustrazione, che in sostanza è sempre una perdita,
perché esiste ed è interiorizzato l'oggetto buono, di cui è
possibile avere nostalgia. Se ciò non è avvenuto, la perdita lede
l'integrità del sé, ed è quindi intollerabile. Ovviamente questo
modello non è assoluto: esiste un livello quantitativo della norma
nella capacità di tollerare la frustrazione, che, se troppo
intensa, è lesiva anche su un Io solidamente formato; tuttavia, a
qualsiasi livello si verifichi l'intolleranza, il meccanismo di base
che la determina è quello descritto.
Allora,
è possibile parlare di profilassi del suicidio? In effetti,
l'individuazione di una dimensione umana, e non strettamente
psicopatologica nelle dinamiche degli atti autolesivi comporta
alcune conseguenze a questo proposito. Innanzitutto, secondo quanto
affermato, le attività preventive possono avere un senso solo se
mirano a intervenire sul disturbo mentale. In effetti, l'esperienza
di perdita dell'oggetto d'amore è universale, e la possibilità di
non superarla riguarda ogni uomo; se ciò accade, è assai probabile
che ogni frustrazione successiva sia vissuta come troppo intensa, e
l'equilibri psichico ne risenta, in altre parole, è probabile che
insorga un disturbo mentale. Se, al contrario, pur essendo
compromesso il processo di separazione, il soggetto non è
disturbato e riesce in qualche modo a mantenere coeso il proprio Sé
nonostante le frustrazioni, allora è improbabile che giunga a
compiere un atto autolesivo. Si tratta quindi di mettere in atto
strategie di prevenzione secondaria, individuando un disturbo che si
è già manifestato e trattandolo; in sostanza, stiamo parlando
della psichiatria in generale, senza provvedimenti specifici.
Se
invece immaginiamo qualcosa di attinente al concetto di prevenzione
primaria in questo ambito, ci rendiamo subito conto di trovarci di
fronte ad un compito impossibile. Evitare l'insorgenza della
condizione di base che predispone al suicidio, cioè
dell'intolleranza narcisistica alla perdita e alla frustrazione,
significa mettere in atto una profilassi precoce delle
relazioni umane, ed è ovviamente un proposito utopico. Tuttavia,
questa è un'ipotesi che alcuni hanno preso in considerazione: per
esempio, sia Melanie Klein che Anna Freud hanno ipotizzato
l'utilità di una diffusione su ampia scala della psicoanalisi a
scopo profilattico, per fornire, ad esempio, alle mamme gli
strumenti più idonei a favorire lo sviluppo adeguato dei propri
figli. Inoltre, sono stati messi in pratica esperimenti in cui
si fornivano ai bambini le condizioni di vita reputate ottimali
per lo sviluppo armonico della personalità (l'esperienza
dell'asilo di Mosca, riportata da Vera Schmidt). Si tratta però di
tentativi piuttosto ingenui, se teniamo conto della quantità di
variabili che possono influire sullo sviluppo, e del fatto che la
maggior parte di esse sfugge a qualsiasi intervento profilattico.
Gli eventi, anche i più importanti, sono distribuiti casualmente, e
la fortuna ha un ruolo considerevole nella vita di ognuno; non
esistono fattori di predisposizione che permettano di stimare se e
quanto una madre potrà fornire al proprio bambino il sostegno
emotivo di cui necessita, nel momento più opportuno per le sue
esigenze, se non interverranno motivi contingenti o indipendenti a
turbare questo equilibrio, per esempio una malattia che scinda la
coppia madre-bambino, e così via. Né, d'altra parte, ha senso
puntare l'attività preventiva sulla modificazione dei fattori
psicosociali che paiono correlati al suicidio; i progetti di questo
tipo spesso dimenticano che esistono, accanto ai livelli di rischio
modificabili, come, per esempio, la disoccupazione, i livelli
intrapsichici su cui non si può agire. Ad esempio, i paesi
scandinavi hanno tassi di suicidio tra i più elevati del mondo pur
non presentando quelle condizioni socioambientali che la letteratura
solitamente correla al rischio di suicidio. E ancora, spesso si
sopravvaluta l'importanza dei media, che secondo alcuni avrebbero
un'influenza notevole sull'intenzionalità suicidaria; in realtà,
la preoccupazione per evitare il cosiddetto effetto Werther sembra
scarsamente fondata, o almeno non sembra sostenibile che un input di
questo tipo possa di per sé spiegare un suicidio, senza che
intervengano condizioni predisponenti di altro genere, che con
l'informazione dei media non hanno molto a che vedere, che esistono
a prescindere da essa, e che con tutta probabilità si
manifesterebbero comunque, anche se con modi e tempi differenti.
Sembra
che, in quest'ottica, la prevenzione del suicidio sia sovrapponibile
al progetto utopico di prevenzione del narcisismo, cioé di una
condizione che si sviluppa nei primi mesi di vita, è connessa
all'interazione più intima e complessa che si conosca, spesso si
manifesta solo a posteriori, si conferma e rafforza con esperienze
di vita obbligate, imprevedibili e immodificabili, ed è assai
difficilmente risolvibile; se la prevenzione viene intesa in questo
senso, siamo certamente di fronte ad un compito impossibile. Anzi,
avere la pretesa di manipolare secondo schemi, come sarebbe
inevitabile, gli eventi emozionali e relazionali della vita,
potrebbe provocare problemi gravi, come succede se si cerca di
impedire all'acqua, sia pur di un piccolo torrente, di scorrere
verso valle.
In
sostanza, il suicidio è parte integrante della dimensione umana: è
possibile tentare di intervenire in senso preventivo nel caso dei
disturbi mentali, ma non possiamo immaginare la condizione umana
priva del suicidio: basti pensare a cosa resterebbe della
letteratura se eliminassimo il suicidio dalle pagine degli
scrittori! E ancora una volta, è l'intuizione poetica dei versi di
Virgilio che meglio sintetizza la tragicità della condizione umana,
il destino segnato in modo indelebile dalla sorte della vita di
ognuno, specie per quanto riguarda gli eventi infantili e
l'influenza che essi avranno sulla strutturazione della personalità
globale e, in definitiva, sulla possibilità che il soggetto
commetta o meno atti autolesivi:
"Cui
non risere parentes
ne
deus hunc mensa dea nec dignata cubili est".
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