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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività
Mind Sciences, Philosophy, Psychotherapy and Creativeness 

  Numero 4, anno II, giugno 2005 
"IL DISDEGNOSO GUSTO": FRUSTRAZIONE E VENDETTA NEL SUICIDIO

di Romolo Rossi 

 

Il presente lavoro del Prof. Romolo Rossi fu presentato al  Convegno Internazionale "Aggressività e disperazione nelle condotte suicidarie" (Abano Terme, 4-6 giugno 1998). L'autore ha autorizzato la trascrizione della registrazione audio effettuata durante quel convegno.

 

 

 

Poche descrizioni sono così precise e profonde come i versi che seguono:

"L'animo mio, per disdegnoso gusto

credendo col morir fuggir disdegno

ingiusto fece me contra me giusto"

 

La profonda intuizione di Dante, racchiusa in questi versi, mette in luce la connessione tra il suicidio, la ferita narcisistica insanabile e il senso di vergogna e di umiliazione. Un'altra mirabile sintesi dantesca, sempre a proposito di suicidio, è quella riguardante Catone:

"Libertà va cercando, ch'è sì cara, 

come sa chi per lei vita rifiuta"

 

Qui si accenna ad un'altra dinamica che sottende il suicidio, connessa alla coerenza e al rigore morale, dinamica, questa, che si riscontra più raramente e che comunque è più adatta ad essere discussa in filosofico che psichiatrico. Delle due modalità di suicidio, tratterò della prima, cioè del suicidio per rabbia e per vendetta. E a questo proposito, esiste una sorta di casistica letteraria che può illustrare il problema del sentimento di umiliazione narcisistica nel suicidio: "i casi clinici" a cui fare riferimento sono Aiace, Madame Bovary e Anna Karenina.

Nell'Aiace di Sofocle l'umiliazione che muove la tragedia è innanzitutto la mancata assegnazione delle armi di Achille al protagonista; quest'ultimo, sviato da Atena, crede di vendicare l'offesa col sangue di Odisseo e degli altri duci achei, ma fa in realtà una strage di armenti. Dopo la folle esultanza, Aiace progressivamente torna in sé ma, schiacciato dalla vergogna, trova nel suicidio la risoluzione alla propria vita, che ora gli appare insostenibile, e si suicida gettandosi sulla spada di ettore infissa al suolo, nonostante le preghiere palpitanti di tenerezza dell'amata e la presenza del figlioletto Eurisace. A  parte l'antefatto del torto nell'assegnazione delle armi, tutta la tragedia echeggia ossessivamente di risate di scherno. Odisseo ride con gli Atridi alle angosce del folle; Aiace stesso ride contro il rivale, e di lui ridono gli Achei scampati alla strage. Atena, nel prologo, proclama che "ridere del nemico è il più bel riso"; ride Menelao, mentre teucro amaramente constata che si ride sui caduti, e Tecmessa, col suo "ridano pure" pregusta una rivalsa. Ma Aiace non tollera il cerchio delle ritorsioni beffarde, e lo spezza di fatto con la propria morte, con cui trova finalmente pace. In questo modo la sua virtus disarma i nemici: "ridere di lui come potrebbero?", ma egli ha dovuto pagare con la vita l'intolleranza alla ferita narcisistica dell'umiliazione, pur indotta da un dio (egli ha peccato di hubris nei confronti di Atena). Aiace, e questo è il nodo della sua grandezza, accetta eroicamente la sorte, ma quando la speranza di vita gloriosa è resa vana dal fato, la sua coerenza inflessibile, o se si vuole l'impossibilità di tollerare lo scacco, lo spingono a cercare l'unica alternativa possibile, cioè il riscatto nella scelta di una morte gloriosa, per cui "merita che lo pianga anche il nemico".

  Foto: Locandina di "Madame Bovary" di Vincente Minnelli

L'intolleranza all'offesa narcisistica è una delle caratteristiche fondamentali di Emma Bovary; questa prospettiva può aiutarci a comprendere sia l'apparente forza perversa che la sottostante debolezza infantile e la vulnerabilità di questo personaggio. Il rapporto sadomasochistico con Charles offende Emma, che si vergogna della propria e dell'altrui viltà, e la loro incapacità a sostenere la colpa fa in modo che questa rimbalzi dall'uno all'altra, come in ogni legame sadomasochistico. Madame Bovary nasce quando Emma, dopo aver intravisto i vantaggi del matrimonio con Charles, si accorge dei suoi difetti, che non riesce a tollerare: "Con l'età, lui prendeva abitudini grossolane, dopo aver mangiato tagliuzzava i tappi delle bottiglie vuote; si passava e ripassava la lingua sui denti; nel sorbire la minestra, gorgogliava ad ogni cucchiaiata". La propria vulnerabilità narcisistica non permette ad Emma di tollerare i difetti dell'altro: "Dio mio, ma perché mai mi sono sposata?". Così prova a risvegliare in lui la passione, recitandogli versi d'amore, ma lui non appare "né più innamorato né, comunque, più turbato", anzi, la bacia a ore fisse, "quasi come un dolce, previsto per tempo, dopo la monotonia del pranzo". Tuttavia, dopo la sua prima vendetta, il ballo col Visconte, essa torna e si rannicchia accanto a Charles, che dorme; quando, il mattino dopo, trova il portasigari,  egli si umilia e così facendo ferisce Emma nel suo orgoglio, come nell'episodio delle critiche da parte di un collega, in cui il marito scambia la rabbia di lei per tenerezza, mentre"... lei era esasperata per la vergogna". Al tempo stesso, pur cercando soddisfazioni altrove, è attratta come una calamita dal marito, o meglio, è schiacciata dal senso di colpa nei suoi confronti, e si odia per questo. Quando accetta la corte di Leone, si compromette, ma Charles "poco geloso, non se ne stupiva"; Emma lo osserva: "... Era là, con il berretto calcato fino alle sopracciglia, le sue grosse labbra tremolavano, e questo aggiungeva qualcosa di stupido alla sua faccia; persino la schiena, la sua schiena tranquilla, era irritante a vedersi, alla giovane donna parve di leggere scritta su quella rendigote tutta la mediocrità del personaggio". In realtà, l'offesa di Emma, quella che la spinge a morire, non è tanto l'abbandono di Rodolfo, o la sazietà e la delusione di Leone, ("Lei era disgustata di lui quanto lui era stanco di lei"): Emma soffre inconsapevolmente per colui che disprezza, e la sua sofferenza è dovuta al fatto che non si sa staccare da lui, da una figura così bassa. Prova a uniformarsi agli ideali di vita di Charles, facendo la brava donna di casa, ma in realtà "è piena di avidità, di rabbia e di odio". Si tratta quindi di un legame di vergogna e di odio, ma a suo modo indissolubile:

"Ma quel che più l'irritava era constatare come Charles non avesse il minimo sentore del suo strazio. La convinzione del marito di renderla felice le pareva uno stupido insulto, tutta quella tranquillità una manifestazione d'ingratitudine. Per chi dunque  lei si comportava così bene? Non era forse lui l'ostacolo a ogni suo desiderio, la causa di ogni sua miseria, il gancio aguzzo di quella catena complicata che la stringeva da tutte le parti?". Tuttavia, basta che egli le fornisca l'occasione, con Ippolito, per riabilitarlo, e lei "assaporava la felicità del riscatto in un sentimento nuovo, più sano, veramente migliore, di provare finalmente un poco di tenerezza per quel poveraccio che l'adorava"; anzi, giunge perfino a notare che "i denti del marito non erano per nulla brutti", salvo poi disilludersi: "come aveva fatto a immaginare che un simile uomo potesse valere qualcosa? Non ne aveva già più e più volte toccato con mano la mediocrità?". La delusione dopo l'illusione distrugge Emma. Rovina il marito economicamente, e prova una commistione di rabbia e di colpa:"'Sì', mormorava digrignando i denti ' mi perdonerà, lui che anche se mi offrisse un milione, non potrebbe farsi perdonare di avermi conosciuta... mai e poi mai!' L'esasperava proprio quest'idea della superiorità di Bovary su di lei". Ed Emma distrugge Charles col proprio odio, dapprima convincendolo ad operare il garzone storpio Ippolito, ed esponendolo così ad una brutta figura professionale, ed infine con la propria morte.

   Foto: Isabelle Huppert in "Madame Bovary" (1991) di Claude Chabrol

E' la morte che allontana Emma dalla vergogna, rendendola anche capace di tenerezze nei confronti di Charles ("'Non piangere, presto non ti tormenterò più'. E gli passava la mano tra i capelli lentamente".), e facendola diventare la sua ossessione ("Per piacerle, come se lei fosse ancora in vita, adottò le sue predilezioni, le sue idee: si comprò scarpe di vernice, prese l'abitudine delle cravatte bianche. Si metteva il cosmetico sui baffi, e come lei firmò altri pagherò. Lei lo corrompeva dalla tomba".) Lei continuerà ad apparirgli come un fantasma, che riuscirà a perseguitarlo anche dalla tomba ("Ogni notte, comunque, la sognava, sempre lo stesso sogno: lui le si accostava, ma, quando stava per stringerla, lei gli si sfaceva in polvere tra le braccia".), fino a distruggerlo, con una sorta di vendetta post-mortem"... ogni tanto qualche curioso, affacciandosi da sopra la siepe del giardino, scorgeva con meraviglia quell'uomo dalla barba incolta, coperto di sordidi stracci, inselvatichito, andare avanti e indietro, piangendo".

   

 Foto: Locandina di "Madame Bovary" di C.Chabrol (1991   )con Isabelle Huppert

Non è difficile dunque cogliere il punto centrale del suicidio di Emma Bovary. Cosa ella non tollera, al punto di preferire la morte? Qual è il senso di insopportabile umiliazione, che corrisponde alla vergogna, e alla intolleranza dello scherno di Aiace? Non certo l'abbandono di amanti che, a ben vedere, contano poco e nulla; ma neppure il disprezzo di Charles, che narcisisticamente diventa disprezzo di sé. Il disprezzo nell'hic et nunc non è dunque che un rappresentante di qualcosa di antico. V'è al di dietro di tutto questo un bruciante senso di ingiustizia subita, di cocente recriminazione per qualcosa di non avuto e che non si potrà avere più, che è drammatizzato, nel senso di messa in scena, dall'impossibilità di recuperare come figura valida e apprezzata Charles, al fine di apprezzare se stessa, e quindi di recuperare un oggetto d'amore valido, per potersi sentire amata. Il sentimento che domina sembra, a ben vedere, il desiderio di vendetta, che di fatto riesce contro Charles. Dunque, a seguito della frustrazione e dell'ingiustizia narcisistica subita in antico, tutta la vita di Emma sembra accuratamente predisposta e programmata per scontare e far scontare l'intollerabile livore per l'umiliazione continua, inserita nel suo vivere da quando la grande ingiustizia fu consumata.

  Foto: una incisione ottocentesca di "Anna Karenina"

In Anna Karenina la vulnerabilità narcisistica è più sottile, più difficile a cogliersi, forse meno psicopatologica, ma comunque costantemente presente, e costituisce il tema di fondo che accompagna le relazioni tormentate della protagonista; quando  questa fragilità si accentua, e la propria immagine diventa irrimediabilmente compromessa, l'unica alternativa è il suicidio. Anna è una donna estremamente sensibile all'immagine di sé che le viene rimandata dagli altri, e non tollera di apparire diversa rispetto al proprio ideale narcisistico. Già dopo aver conosciuto Vronskij si domanda "Di cosa mai mi vergogno io?"; si risponderà che non c'è nulla di cui vergognarsi, ma sa che è una bugia; è consapevole di sbagliare, ma non lo ammette.  Quando rivede il marito, come Emma Bovary si sofferma impietosamente sul suo aspetto: "Ah, Dio mio, perché ha le orecchie fatte a quel modo?". L'allontanamento da lui è inevitabile. Gli confessa il suo amore per l'altro andandone quasi fiera, ma solo  in seguito capisce le possibili conseguenze:"Aveva lo sgomento del disonore, al quale  prima non aveva mai neppure pensato. Appena immaginava quello che il marito avrebbe fatto, le si affacciavano i pensieri più paurosi. Le venne in mente che sarebbe venuto subito l'intendente a cacciarla di casa, che il suo disonore sarebbe stato rivelato a tutto il mondo". Questo sentimento le è così  intollerabile che ne fa le spese anche Vronskij: "Quando pensava a Vronskij le pareva che egli non l'amasse più, che già cominciasse ad essere stanco di lei, che lei non potesse offrirglisi più, e sentiva per questo un astio verso di lui. Le sembrava  che le parole, che ella aveva dette al marito e che incessantemente ripeteva nella mente, le avesse dette a tutti e che tutti le avessero udite". 

  

 Foto: un fotogramma di "Anna Karenina" (1935) di C.Brown con Greta Garbo

Nonostante sia una donna di mondo, non si conforma alle regole della società a cui appartiene, quando Vronskij si preoccupa che qualcuno li veda assieme, ella esclama "Ah, per me è lo stesso!", ma lo guarda "sotto il velo di una strana cattiveria". Il suo apparente anticonformismo nasce proprio dall'intolleranza alla critica: non riesce in sostanza a concepire di poter essere in qualche modo imperfetta e vulnerabile. Eloquente, a questo proposito, l'episodio della rappresentazione a teatro, in cui finge prima di ignorare le convenzioni che le impongono una vita ritirata, e poi rimprovera Vronskij di averla esposta alla vergogna. Anche nei rapporti affettivi, ha un bisogno continuo di conferme tangibili del suo fascino e della sua capacità di seduzione: a volte dà l'impressione che il ruolo di Vronskij sia proprio quello di rimandarle l'immagine della donna che vuole essere. E' talmente sicura della propria influenza su di lui che fa a meno del divorzio; quando teme che egli sfugga, cambia idea e vuole legarlo a sé. Ma questo è un espediente, e Anna, il cui amore segue la legge del tutto o del nulla, non si abbassa ad usarlo, anche perché avverte che ormai non ha più potere su di lui. Anna trasgredisce, sa di farlo, ma non sopporta, a differenza dei veri anticonformisti, di essere una trasgreditrice. Tradisce il marito, ma non tollera il suo comprensibile sarcasmo sulla situazione. E' indicativo l'episodio in cui, credendosi in punto di morte, obbliga il marito e Vronskij alla riconciliazione, annullando magicamente la propria colpa. E ancora viola le regole della buona società a cui appartiene, ma è per lei intollerabile la constatazione, nell'altrui atteggiamento, del fatto che violandole si è compromessa. Il suo è un suicidio dovuto all'intensa vergogna, alla mancanza di possibilità di restaurare l'immagine di sé. Quando avverte disprezzo per la sua condizione da parte dell'alta società, e contemporaneamente indovina l'insoddisfazione di Vronskij, sente con chiarezza che non c'è rimedio; allora le sue difese crollano, e la morte diventa l'unica soluzione alla vergogna. 

  Foto: la locandina di "Anna Karenina" (1935)

 

Anna Karenina viene condotta ad un suicidio previsto e inevitabile perché si pone il compito di risolvere un'equazione narcisistica di grado impossibile. La pretesa grandiosa è quella di mantenere al massimo livello il recupero narcisistico senza nulla perdere: ella deve essere libera nel piacere e trasgressiva (le pulsioni devono essere soddisfatte); la società (mondo esterno/Super-Io) deve approvarla totalmente; Vronskij deve essere soddisfatto (abolizione del rischio della perdita d'oggetto); Karenin deve essere contento e riconciliato con Vronskij (lo split deve essere risolto nella realtà, non nell'oggetto interno). Se cede uno dei punti dell'equazione impossibile, Anna non ne tollera la frustrazione e "piuttosto muore". 

 

 Foto: La locandina di "Anna Karenina"(1997) di B.Rose con Sophie Marceau

E' evidente il progetto antico di suicidio nella impercorribilità della via risolutiva: ella non vuole risolvere niente nell'hic et nunc, ma vuole riottenere tutta la gratificazione possibile dall'oggetto antico, ormai inesistente. Come in Aiace, come in Emma Bovary, sembra che il suicidio fosse scritto da sempre nel progetto di vita, come inevitabile conclusione.

Il suicidio dunque come evento inserito da sempre in una trama antica: mai come semplice risposta alla situazione in atto, ma come reazione ad un evento antico di cui l'attuale costituisce solo una riedizione. A questo punto, è lecito domandarsi perchè il suicidio sia così raro, a fronte dell'elevata frequenza di gravi traumi narcisistici che segnano le fasi precoci della vita, come rileviamo nella pratica psicoterapeutica.

Nell'analisi di questi tre casi, risultano evidenti alcune dinamiche di fondo. Innanzitutto, la presenza costante del sentimento di umiliazione. La vergogna è un sentimento di ordine narcisistico (mentre la colpa è di ordine oggettuale), ed è connessa alle fasi pregenitali dello sviluppo: questo spiega il suo carattere intransigente, crudele e senza riparazione possibile. Il sentimento di vergogna si manifesta in modo globale, primario e assoluto quando il narcisismo si scinde dal legame con l'oggetto. Dal momento che ogni scissione di questo tipo favorisce la pulsione di morte, si può ben comprendere che il suicidio avvenga per vergogna (Green, 1985).

In Aiace, Emma ed Anna risulta evidente come la situazione di fondo che spinge inesorabilmente alla morte sia sempre la presenza di una grave ferita narcisistica, che fa sì che l'umiliazione diventi intollerabile. Se si verifica una situazione di fondo di intolleranza alla frustrazione, perchè questa lede eccessivamente il Sé, allora la ferita narcisistica diviene un valido movente suicida. Secondo Kohut, i soggetti con intensa fragilità narcisistica, quando subiscono sconfitte nella realizzazione delle loro mete ambiziose ed esibizionistiche, provano una vergogna bruciante, spesso seguita da un'invidia intensa e da impulsi autodistruttivi, che vanno considerati non come attacchi del Super-io contro l'Io, ma come tentativi dell'Io sofferente di sbarazzarsi del Sé, cancellando la sconfitta e l'offesa.  In questo caso gli impulsi autodistruttivi non vanno assimilati alle tendenze suicide nel paziente depresso, ma devono essere considerati come espressione della rabbia narcisistica (Kohut, 1971). Per la vergogna la sola via di uscita è il narcisismo negativo (Green, 1985), con neutralizzazione degli affetti e affermazione megalomanica dell'Io, prima della sua sparizione. In quest'ottica il suicidio può essere considerato l'estremo atto narcisistico dopo che è avvenuto il crollo delle difese disponibili: la pulsione di morte, con annullamento della tensione, ha il sopravvento sul principio di piacere, con conseguente rinuncia pulsionale alla soddisfazione. In questi casi la conseguenza è il distacco della libido dall'oggetto, e il ritiro, mortifero, sul Sé.

Certo, il sentimento di vergogna è universale, e tutti noi siamo, in misura variabile, vulnerabili narcisisticamente: questa universalità, connessa al legame tra scacco narcisistico e suicidio, rende ragione dell'ubiquità degli atti autolesivi. In realtà, il problema è dimensionale, e pur essendo la fragilità narcisistica una variabile quantitativa, il disturbo mentale causa una vulnerabilità tale in questo senso da rendere possibile, di fatto, una distinzione qualitativa tra dimensioni psicopatologiche e dimensioni psicogene, o umane, del suicidio.  E d'altronde, non tenere presenti queste ultime comporterebbe l'incapacità di comprendere il suicidio in casi simili a quelli letterari trattati in precedenza: come inquadrare da un punto di vista nosologico Emma Bovary, e soprattutto, che farmaci somministrarle? 

   Foto: Isabelle Huppert in "Madame Bovary"(1991) di Claude Chabrol

Di solito la teorizzazione sulle possibili forme di prevenzione del suicidio si fonda sul presupposto che l'atto autolesivo sia indice e conseguenza di un disturbo mentale, una sorta di via finale comune della psicopatologia. In effetti, molti disturbi psichiatrici esitano in suicidio: predomina ovviamente la depressione, ma l'incidenza è alta anche nella schizofrenia e nell'alcoolismo. Ad un primo esame, si tratta di disturbi diversi; tuttavia, non è difficile individuare in essi dinamiche abbastanza costanti.

Il meccanismo che sottende la depressione è la perdita e l'introiezione dell'oggetto amato, verso il quale vengono rivolte non solo le cariche libidiche, ma anche quelle aggressive, connesse all'abbandono. Nell'alcoolismo, come nelle tossicodipendenze, la dinamica è identica, anche se l'introduzione della sostanza chimica, fredda, sempre disponibile, che non tradisce, tende a sostituire l'oggetto perduto e a restaurare l'onnipotenza narcisistica. Per quanto concerne la schizofrenia, si potrebbe supporre l'esistenza di un meccanismo differente, ma ad un più attento esame risulta possibile ricondurne la dinamica a quelle accennate prima: in effetti, il suicidio negli schizofrenici compare non tanto nei periodi di acuzie della sintomatologia psicotica, ma più spesso alla remissione, quando la consapevolezza del proprio disturbo può indurre sentimenti depressivi, correlati ad una migliore capacità di esame della propria realtà e alla conseguente caduta dell'autostima. Gli atti autolesivi connessi alla sintomatologia produttiva (per esempio, alle allucinazioni imperative) non sono, di fatto, molto frequenti. Il suicidio nella schizofrenia rappresenterebbe quindi una scappatoia alla depressione che coglierebbe il paziente in conseguenza del migliore esame della propria realtà, successivo alla remissione della sintomatologia psicotica. 

 

Foto: incisione da Tardieu A., "Etude medico-legale sur la pendaison, la strangulation et la suffocation", Baillière, Paris, 1879.

 

Ci sembra quindi che sia possibile individuare in questi quadri alcune dinamiche di fondo comuni, che possono essere ricondotte alla perdita dell'oggetto amato e alla compromissione del Sé; si tratta di concetti apparentemente distinti, ma che, come vedremo, hanno un denominatore comune, che è l'incapacità a tollerare la perdita e la separazione.

la perdita dell'oggetto d'amore determina un ripiegamento verso l'interno dell'aggressività, e un'identificazione dell'Io con l'oggetto perduto, vissuto ambivalentemente, verso il quale vengono dirette le cariche aggressive elicitate dall'abbandono : "... l'Io può uccidersi solo quando... riesce a trattare se stesso come oggetto" (Freud, 1915). Anche quando postula l'esistenza dell'istinto di morte, Freud spiega la tendenza suicidaria nell'ambito della dinamica dell'aggressività, l'autodistruttività dell'istinto di morte viene tenuta sotto controllo tramite la fusione con la libido, che permette di dirigere l'aggressività verso gli oggetti esterni. L'interiorizzazione dell'aggressività sarebbe quindi il processo più pericoloso per la psiche umana. Anche la teoria kleiniana imposta la dinamica del suicidio sull'istinto di morte. Per difendersi dal timore di annientamento l'Io proietta una parte dell'istinto di morte sull'oggetto esterno - che diventa il persecutore - mentre la parte dell'istinto di morte trattenuta nell'Io rivolge la propria aggressività contro l'oggetto persecutorio. Da qui origina il senso di colpa, cioè il timore continuo di rappresaglia da parte dell'oggetto investito, che è accompagnato anche dal senso di perdita e di privazione, dovuti al fatto che l'Io si sente impoverito per aver depositato nell'oggetto stesso aspetti del proprio Sé. In entrambe le impostazioni è evidente che il presupposto di base è l'incapacità di tollerare la perdita e la separazione. In quest'ottica, anche le fantasie di rinascita e di riunione possono essere viste come tentativi di negare la perdita: lasciare per primi significa anche evitare di essere lasciati. 

Foto: incisione tratta da Tardieu A., op.cit.

Nello sviluppo, la separazione emotiva dai genitori è inevitabile; è possibile che nei soggetti con intensa vulnerabilità narcisistica la fase di separazione individuazione sia stata in qualche modo compromessa, causando l'intollerabilità alla perdita. In questo senso la morte può essere vista anche come l'estremo tentativo di ricostituire l'unione perduta, col ritorno al ventre materno. Col suicidio si raggiungerebbe la vita connessa al ricordo del narcisismo primario e al senso di onnipotenza, confermando una separazione mai avvenuta. La fantasia suicidaria, più che agire impulsi autopunitivi e distruttivi, sarebbe un tentativo di ripristinare un equilibrio narcisistico precario; questo sarebbe legato all'incapacità di tollerare la solitudine, la perdita e la separazione per un processo inadeguato di introiezione e di distacco dalla figura materna. In questi casi le difese più comuni sono la ricerca di approvazione da parte del mondo esterno e la costruzione del Sé grandioso; tuttavia, ogni perdita, come il fallimento dei propri progetti, il decadimento fisico o del proprio ruolo sociale, ripropone il fantasma del fallimento della separazione dalla madre, e la morte viene a rappresentare un'occasione di ricongiungimento, che pone rimedio alla ferita narcisistica insopportabile, e al senso di disperazione e di vuoto. Il suicida regredirebbe fino a uno stadio in cui c'è poca differenziazione tra il Sé e l'oggetto, con fusione narcisisistica o unione simbiotica con una figura significativa che realizza le fantasie di grandiosità e di immortalità. In effetti, quando l'autostima e l'integrità del Sé dipendono dall'attaccamento ad un oggetto perduto, il suicidio può rappresentare l'unica via per ristabilire la coesione del Sé (Gabbard, 1990).

In sintesi, le difese funzionano finché la frustrazione non è eccessiva; quando la soglia viene oltrepassata, cioé quando è minacciata la propria integrità e connessione interna, vanno in scacco, con facile passaggio all'acting suicidario. Ancora una volta si ha l'impressione che il concetto di norma sia essenzialmente quantitativo; le dinamiche descritte non sono infatti patognomoniche di un determinato disturbo, ma sono sottese da esperienze universali, connesse allo sviluppo e all'evoluzione. Questo ci riporta alla dimensione psicogena, o se si vuole umana, del suicidio. 

Foto: incisione da Tardieu A., op.cit.

Se consideriamo lo sviluppo, risulta evidente che la perdita dell'oggetto d'amore va considerata come un inevitabile passaggio evolutivo. Dalla perdita della sicurezza e dell'onnipotenza propria della vita intrauterina, allo svezzamento, alla perdita del genitore edipico, i primi anni di vita sono costellati di perdite; senza di esse, non sarebbe possibile lo strutturarsi normale della personalità. L'identificazione con l'oggetto buono può avvenire solo se esso viene riconosciuto come altro da sé, quindi se si rompe l'unità indistinta madre-bambino della fase di narcisismo primario. Solo avvertendo questa perdita, connessa al sentirsi separato, il bambino potrà introiettare l'oggetto e idetificarsi con esso, cominciando a formare la propria identità. D'altronde, la perdita dell'oggetto è il motore dell'instaurazione del principio di realtà. La situazione di simbiosi non evolve per definizione, ed è mortifera, perché, evitando la separazione, impedisce lo sviluppo e l'evoluzione; d'altro canto, il rapporto diadico stesso contiene in sé la separazione, e quindi l'angoscia di morte. L'incapacità di elaborazione del lutto è connessa alla nostalgia mortale insita nell'atto suicida. Qual è quindi il destino della componente narcisistica in relazione agli eventi infantili? Dalla prima perdita, ai suoi successivi rappresentanti psichici, l'Io normale rinuncia all'oggetto e resta in vita, e con questa dinamica definisce sempre meglio se stesso e si sviluppa. La tragicità di questo concetto è che la sopravvivenza è indissolubilmente legata alla separazione, e alla possibilità di costruire dentro di sé un oggetto buono che permanga anche dopo la perdita; perché ciò avvenga, però, l'oggetto deve essere perso. Si può accennare a questo proposito alla profondissima intuizione di dante, che ha rappresentato nell'Inferno i suicidi come piante, che non possono vivere separate dalla terra-madre. I suicidi sono di fatto persone lese, come è lesa irrimediabilmente una pianta sradicata, per la quale la separazione dalla terra-madre è impossibile: il principio di ritorsione, per l'affronto insanabile, non manca mai, come i nostri tre casi dimostrano, anche se l'oggetto, ma non principale, della ritorsione è il sé. Valgono qui i versi di Auden:

 

"I and the public know

what all schoolchildren learn,

men to whom evil is done

do evil in return".

 

La nostalgia dell'oggetto amato per primo, dovuta al dolore connesso alla separazione e alla vischiosità della libido, è il filo conduttore della vita interiore di ognuno, che lega passato e presente: il lutto costruisce gli oggetti interni, quindi l'Io e l'identità. Se il lavoro del lutto fallisce, non ci si può separare, ed è sempre possibile l'attacco contro l'oggetto malamente amato che è dentro di sé.

A questo punto, si può affermare che la capacità di tollerare la frustrazione è funzione della capacità  di separarsi, che riconduce alla separazione inevitabile dall'oggetto amato per primo. Se questa è stata possibile, esistono gli strumenti interni per tollerare la frustrazione, che in sostanza è sempre una perdita, perché esiste ed  è interiorizzato l'oggetto buono, di cui è possibile avere nostalgia. Se ciò non è avvenuto, la perdita lede l'integrità del sé, ed è quindi intollerabile. Ovviamente questo modello non è assoluto: esiste un livello quantitativo della norma nella capacità di tollerare la frustrazione, che, se troppo intensa, è lesiva anche su un Io solidamente formato; tuttavia, a qualsiasi livello si verifichi l'intolleranza, il meccanismo di base che la determina è quello descritto.

Allora, è possibile parlare di profilassi del suicidio? In effetti, l'individuazione di una dimensione umana, e non strettamente psicopatologica nelle dinamiche degli atti autolesivi comporta alcune conseguenze a questo proposito. Innanzitutto, secondo quanto affermato, le attività preventive possono avere un senso solo se mirano a intervenire sul disturbo mentale. In effetti, l'esperienza di perdita dell'oggetto d'amore è universale, e la possibilità di non superarla riguarda ogni uomo; se ciò accade, è assai probabile che ogni frustrazione successiva sia vissuta come troppo intensa, e l'equilibri psichico ne risenta, in altre parole, è probabile che insorga un disturbo mentale. Se, al contrario, pur essendo compromesso il processo di separazione, il soggetto non è disturbato e riesce in qualche modo a mantenere coeso il proprio Sé nonostante le frustrazioni, allora è improbabile che giunga a compiere un atto autolesivo. Si tratta quindi di mettere in atto strategie di prevenzione secondaria, individuando un disturbo che si è già manifestato e trattandolo; in sostanza, stiamo parlando della psichiatria in generale, senza provvedimenti specifici.

Se invece immaginiamo qualcosa di attinente al concetto di prevenzione primaria in questo ambito, ci rendiamo subito conto di trovarci di fronte ad un compito impossibile. Evitare l'insorgenza della condizione di base che predispone al suicidio, cioè dell'intolleranza narcisistica alla perdita e alla frustrazione, significa mettere  in atto una profilassi precoce delle relazioni umane, ed è ovviamente un proposito utopico. Tuttavia, questa è un'ipotesi che alcuni hanno preso in considerazione: per esempio, sia Melanie Klein che Anna Freud hanno ipotizzato l'utilità di una diffusione su ampia scala della psicoanalisi a scopo profilattico, per fornire, ad esempio, alle mamme gli strumenti più idonei a favorire lo sviluppo adeguato dei propri figli.  Inoltre, sono stati messi in pratica esperimenti in cui si fornivano ai bambini le condizioni di vita reputate ottimali per  lo sviluppo armonico della personalità (l'esperienza dell'asilo di Mosca, riportata da Vera Schmidt). Si tratta però di tentativi piuttosto ingenui, se teniamo conto della quantità di variabili che possono influire sullo sviluppo, e del fatto che la maggior parte di esse sfugge a qualsiasi intervento profilattico. Gli eventi, anche i più importanti, sono distribuiti casualmente, e la fortuna ha un ruolo considerevole nella vita di ognuno; non esistono fattori di predisposizione che permettano di stimare se e quanto una madre potrà fornire al proprio bambino il sostegno emotivo di cui necessita, nel momento più opportuno per le sue esigenze, se non interverranno motivi contingenti o indipendenti a turbare questo equilibrio, per esempio una malattia che scinda la coppia madre-bambino, e così via. Né, d'altra parte, ha senso puntare l'attività preventiva sulla modificazione dei fattori psicosociali che paiono correlati al suicidio; i progetti di questo tipo spesso dimenticano che esistono, accanto ai livelli di rischio modificabili, come, per esempio, la disoccupazione, i livelli intrapsichici su cui non si può agire. Ad esempio, i paesi scandinavi hanno tassi di suicidio tra i più elevati del mondo pur non presentando quelle condizioni socioambientali che la letteratura solitamente correla al rischio di suicidio. E ancora, spesso si sopravvaluta l'importanza dei media, che secondo alcuni avrebbero un'influenza notevole sull'intenzionalità suicidaria; in realtà, la preoccupazione per evitare il cosiddetto effetto Werther sembra scarsamente fondata, o almeno non sembra sostenibile che un input di questo tipo possa di per sé spiegare un suicidio, senza che intervengano condizioni predisponenti di altro genere, che con l'informazione dei media non hanno molto a che vedere, che esistono a prescindere da essa, e che con tutta probabilità si manifesterebbero comunque, anche se con modi e tempi differenti.

Sembra che, in quest'ottica, la prevenzione del suicidio sia sovrapponibile al progetto utopico di prevenzione del narcisismo, cioé di una condizione che si sviluppa nei primi mesi di vita, è connessa all'interazione più intima e complessa che si conosca, spesso si manifesta solo a posteriori, si conferma e rafforza con esperienze di vita obbligate, imprevedibili e immodificabili, ed è assai difficilmente risolvibile; se la prevenzione viene intesa in questo senso, siamo certamente di fronte ad un compito impossibile. Anzi, avere la pretesa di manipolare secondo schemi, come sarebbe inevitabile, gli eventi emozionali e relazionali della vita, potrebbe provocare problemi gravi, come succede se si cerca di impedire all'acqua, sia pur di un piccolo torrente, di scorrere verso valle.

In sostanza, il suicidio è parte integrante della dimensione umana: è possibile tentare di intervenire in senso preventivo nel caso dei disturbi mentali, ma non possiamo immaginare la condizione umana priva del suicidio: basti pensare a cosa resterebbe della letteratura se eliminassimo il suicidio dalle pagine degli scrittori! E ancora una volta, è l'intuizione poetica dei versi di Virgilio che meglio sintetizza la tragicità della condizione umana, il destino segnato in modo indelebile dalla sorte della vita di ognuno, specie per quanto riguarda gli eventi infantili e l'influenza che essi avranno sulla strutturazione della personalità globale e, in definitiva, sulla possibilità che il soggetto commetta o meno atti autolesivi:

"Cui non risere parentes

ne deus hunc mensa dea nec dignata cubili est".

 

 

BIBLIOGRAFIA:

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Kohut H. (1971) Narcisismo e analisi del Sé. Boringhieri, Torino, 1976.

Rossi R. (1990) "L'amore inutile. Il suicidio come fallimento del lutto". In Pavan L., De Leo D. Il suicidio nel mondo contemporaneo. Liviana Editrice, Padova.

Speziale-Bagliacca R. (1992) Crescere corvi. Marietti, Genova.

 

 

 

 

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