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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività
Mind Sciences, Philosophy, Psychotherapy and Creativeness 

  Numero 4, anno II, giugno 2005 
DISFORIA E CONDOTTE SUICIDARIE NEL BOR­DERLINE 

 

di Mario Rossi Monti

Mario Rossi Monti è Professore Straordinario di Psicologia Clinica presso l'Istituto di Psicologia - Università di Urbino

 

Si ringrazia, oltre che l'autore,  anche l'editore Fioriti ( www.fioriti.it ) per aver concesso l'autorizzazione alla pubblicazione su "Frenis Zero" di questo lavoro, già apparso su Psichiatria e Psicoterapia Analitica, 19,2,156-162,2000 .

 

la depressione nel borderline

Da qualche tempo la parola depressione è diventata un concetto acchiappa­tut­to, una sorta di «parola-valigia» che, dopo essere stata riempita alla rinfusa di troppe cose, comincia a dare segni di cedimento. La sempre più insistente valuta­zione dell'aspetto quan­titativo-misurabile e la sempre più diffusa disattenzione per l'aspetto qualita­tivo della depressione  mostrano tutti i loro limiti proprio nello studio dell'area borderline. All'interno della sindrome borderline il termine «depressione» indica infatti una costellazione di esperienze che può anche prescin­dere dall'abbassa­mento del tono dell'umore o comunque della quale l'abbassamento del tono dell'umore può costi­tuire soltanto un aspetto marginale. Nella classica  distin­zione della depressione in due sottotipi (Blatt,1974; Blatt,Zuroff,1992), uno dipen­dente-anaclitico, orientato in senso interpersonale, caratterizzato da sentimenti di mancanza di aiuto, paura di abban­dono, sentimenti di vuoto, l'altro autocritico-introiettivo, caratterizzato da auto­critica, sentimenti di indegnità, inferiorità e colpa, la depressione borderline è stata unanimemente collo­cata nell'ambito della prima variante dipendente-anaclitica (Gunderson,Phillips, 1991).

La affettività «depressiva» del borderline è una con­dizione affettiva «atipica», per descrivere la quale si è fatto spesso ricorso a termini che ri­mandano alla noia, alla anedonia (Hoch, Polatin,1949), a sentimenti di futilità e soprattutto di vuoto inte­riore, ad una sorta di depres­sione senza affetto depressivo (Grinker,Werble,Drye,1968) per­vasa semmai da irritazione, disforia, lamentosità, da esperienze di depersonalizza­zione auto e allo-psichica e occa­sionalmente per­corsa da accessi di rabbia. Sono assenti i vissuti di colpa che costituiscono il tradi­zionale marker psicopato­logico delle depres­sioni melanconiche. La particolarità della depressione borderline non è quindi di carattere quantitativo ma qualitativo, relativa appunto alla qualità del sentimento depres­sivo (Gunderson, Phil­lips,1991; Rogers,Widiger, Krupp,1995).

Inoltre, mentre i disturbi dell'umore hanno prevalentemente un andamento fasico, ad episodi e quindi possono essere - magari a posteriori, anche da parte dello stesso paziente - ricondotti ad un momento, separato e distinto dal resto della propria vita, la af­fettività «depressiva» del borderline ha carattere diffusivo, permea tutta la vita, non si lascia limitare all'interno di uno spazio temporale separabile dal resto del corso vitale.

La perturbazione dell'affettività borderline non è delimitabile in epi­sodi sepa­rati dal corso della vita psichica normale, non è centrata sulla tri­stezza, si manifesta con modalità diverse dalla depressione maggiore, coinvolge un vasto agglomerato di affetti di natura spiacevole, può accompagnarsi a condot­te provo­catorie e di rottura (che stonerebbero in un quadro depressivo tipico dominato da tristezza vitale e inibizione) ed è in stretto rapporto di interdipen­denza con l'an­damento delle relazioni interpersonali (Westen et al.,1992).  In  questo senso la affettività insta­bile e caleidoscopica del borderline costituisce parte integrante di un complessivo assetto di personalità nel quale gli stati affettivi non si configurano come sistemi chiusi, rinserrati in se stessi (come ad esempio nel caso estremo di un arresto melancolico) ma si mantengono in una condizione di gran­de apertura, di forte reattività, esposti alle influenze dell'am­biente ed estrema­mente sensibili ad ogni variazione atmosferico-relazionale.

Al centro della instabilità affettiva cosiddetta depressiva del borderline si colloca l'umore disforico. Da molto tempo la disforia bussa alle porte dell'area borderline. Fin da quando Liebowitz e Klein (1979) coniarono il termine di disforia isteroide che non ha avuto molta fortuna sul piano nosografico (Spitzer,Janet,Williams, 1982) ma che ha avuto il merito di mettere a fuoco un particolare stato affettivo estremamente dipendente dalle variabili relazionali. A questo proposito il DSM-IV descrive un «umore disforico di base» del paziente borderline nel quale si inscrivono accessi di rabbia, panico o dispe­razione che lasciano solo raramente posto a momenti di benessere o di soddisfa­zione. Sotto questo profilo la cosiddetta depressione borderline potrebbe essere ricondotta al Disturbo Distimico, non tanto nella descrizione che ne dà il DSM-IV nell'ambito dei Disturbi dell'Umore, quanto per come viene descritto nei Criteri Alternativi di Ricerca della Appendice B. E' stato tuttavia messo in luce come la distinzione di carattere categoriale tra depressione maggiore e disturbo distimico sia in gran parte un artefatto nosografico che dà luogo ad una «chiarezza immaginaria» e non è utile nemmeno per la ricerca biologica in psichiatria (van Praag,1993). D'altra parte, ragionare in termini di co-presenza di due disturbi (disturbo distimico  e disturbo di personalità border-line), ricorrendo all'ambiguo stratagemma della comorbilità,  fa della disforia un affetto incomprensibile, disconnesso dal soggetto che ne è "portatore" ma anche "autore" (Gaddini,1989).

Ma che cosa significa umore disforico? La scuola di Vienna, parten­do dal ri­lievo che la riflessione psichiatrica sui disturbi affettivi è rimasta per trop­po tempo in uno stato di immobilismo basato sulla dicotomia tra affetto depressivo ed affetto maniacale, ha smosso le acque introducendo, con la disforia, un «terzo campo affettivo».  Riprendendo le riflessioni di Specht (1901) sull'affetto patolo­gico retro­stante alla paranoia, Berner, Musalek e Walter (1987) hanno cercato di mettere a fuoco dal punto di vista psico­patologico il concetto di disforia, tenendo conto delle diverse accezioni nelle quali il termine viene utilizzato nella psichiatria europea e nella psichiatria statunitense. Mentre nella letteratura anglosassone la disforia viene considerata uno stato affettivo strettamente collegato con la depressione o addirit­tura come un suo sinonimo, gli autori della scuola di Vienna ne hanno individuato alcune qualità specifiche che consentono di considerarlo come uno stato affettivo non coincidente con l'affetto depressivo. E' stato in questo senso proposto di circoscrivere l'uso del termine disforia a quelle condizioni caratterizzate da un sentimento di tensione spiacevole, irritazione, umore scontroso, con aumentata propensione ad acting out rabbiosi e rigidità affettiva con riduzione della capacità di modulare gli affetti (Berner, Musalek, Walter,1987;Gabriel,1987).

Se la scissione viene tradizionalmente considerata il marker psicodinamico della condizione borderline, la disforia ne costituisce invece il marker psicopatologico. Da questo punto di vista la disforia nel borderline è stata interpretata come la risultante di un effetto patoplastico svolto dalla organizzazione di personalità che, un po' come un prisma, filtra l'esperienza depressiva distorcendola. L'affetto disforico segnalerebbe una vera e propria resistenza della persona alla invasione di una più autentica tristezza, un tentativo di ribellarsi al destino depressivo (Stanghellini,1996).

La disforia rappresenterebbe il segnale di una condi­zione af­fettiva che non riesce a trovare una sua stabilità, ad assestarsi in un equilibrio che non sia - come da sempre è stato notato - stabile nella sua instabilità; il segnale, quindi, di una vicenda in perenne transizione, non in grado di accedere alla forma invariante di un quadro tipico (come quello estremo della melancolia); il sintomo di una depressione permanentemente evitata. Del resto anche le caratteri­stiche degli episodi deliranti nei pazienti borderline (subitaneità dell'esordio, transitorietà, revisione critica) fanno pensare a questa capacità funambolica dei pazienti borderline di camminare sull'orlo delle più gravi patologie psichiatriche. La cosiddetta «depressione» bor­derline non è quindi la manifestazione esteriore di una fallimen­tare elaborazione del lutto relativo ad una perdita, quanto piuttosto una condi­zione nella quale viene allo scoperto la miscela di rabbia, solitudine e vuoto inte­riore che si ac­compagna al ciclico perpetuarsi di oscillazioni affettive che dalla speranza, dalla fiduciosa illu­sione nel contatto con un oggetto idealizzato conducono alla de­lusione ed alla rabbia per il rinno­varsi della minaccia della perdita (Pazzagli, Rossi Monti). La caratteristica inten­sità del coinvolgimento relazionale del borderline, ma anche la elevata instabilità della relazione, estremamente sensibile ad ogni micro-frattura della empatia, sono il segnale, sul versante della relazione, di uno stato affettivo ciclicamente oscillante tra speranza e idealizzazione da un lato e delusione e svalutazione dall'altro. Per questa estrema suscettibilità alle variazioni atmosferico-ambientali il paziente bor­derline è più esposto, più allo scoperto, meno rinserrato nella propria struttura­zione psicopatologica che è invece rimasta aperta, carente, un po' come una frattura esposta, dolorante ed estremamente sensibile alle influenze dell'ambiente. Intrappo­lato in una condizione di instabilità ed esposto alle variazioni di un am­biente che vorrebbe (e - soprattutto - avrebbe voluto) più stabile, il border­line resta così irretito in una piccola bipolarità, in un ciclico alternarsi di speran­za e delusione i cui affetti emergenti sono costituiti dalla irritazione e dalla disfo­ria.


Disforia e condotte suicidarie nel Borderline

Il disturbo borderline di personalità è l'unico disturbo di per­sonalità che prevede tra i criteri diagnostici la presenza di comportamenti di carat­tere suicidario o autolesivo. Questo tipo di condotte non può essere facilmente ricondotto nell'alveo dei disturbi dell'umore, come da qualche tempo gran parte della psichiatria contemporanea è invece sempre più incline a fare, sulla base dell'assunto che ogni condotta suicidaria possa essere "spiegata" da una patologia psichiatrica o come esito di una malattia degli affetti. Due importanti ammonimenti di Karl Jaspers (1913) conser­vano ancora oggi tutto il loro valore. In primo luogo - scrive Jaspers - ogni singolo suicidio non si presta mai ad essere compreso o spiegato in maniera sufficiente secondo una legge causale che abbia validità generale; possiamo soltanto cercare di ricostruire alcune circo­stanze che lo hanno reso possibile. In secondo luogo è necessario ricordare che la via più semplice e comoda di fronte ad un suicidio è quella di attenersi strettamente all'ipotesi della malattia mentale. Questa ipotesi occlude il problema dei motivi che possono spingere un individuo ad uccidersi; il problema viene sbrigativamente risolto, collocandolo in un contesto altro ed alieno. Il rischio è che questa imposta­zione colluda con pressante bisogno di non-sapere che si annida in ciascuno di noi: se ci ponessimo davvero simili domande anche la nostra tranquillità rischierebbe di cadere in frantumi (Miller,1981).

I comportamenti suicidari del borderline sono anch'essi per così dire border­line, nel senso che non sono nel loro complesso riconducibili ad un vissuto depres­sivo né possono essere spiegati in base alla comorbidità con un disturbo affettivo maggiore (Kullgren,1988; Paris,1989; Kjelsberg et al.,1991; Soloff et al.1994). Questi rilievi sono comunque coerenti con la specificità qualitativa della espe­rienza cosiddetta "depressiva" del borderline. Se la suicidarietà acuta costituisce un problema di grande rilevanza nella patologia borderline, riguardando circa un paziente su dieci, ancora maggiore rilevanza ha quella che è stata chiamata suicida­rietà cronica (Schwartz,Flinn,Slawson,1974; Olin,1976; Fine,Sansone, 1990). La suicidarietà acuta sembra essere legata a stati acuti di angoscia, disperazione o rabbia, scatenati dalla percezione di un mondo interno irrimediabilmente vuoto. Questo sentimento diviene particolarmente drammatico quando si associa alla percezione del vuoto anche nel mondo esterno, al problema della solitudine del borderline, intesa come incapacità di stare solo, di vivere una tranquilla solitu­dine fondata sulla istituzione di un ambiente interno capace di assicurare stabilità (Winnicott,1958). La rabbia annichilatoria o la disperazione scatenate da questa condizione possono avere una alta potenzialità suicidaria.

Nella suicidarietà cronica rientrano tutte quelle condotte autodistruttive che costituiscono la "specialità compor­tamenta­le" del borderline (grave temerarietà ed imprudenza, comportamenti di addiction, propensione agli infortuni, autolesionismo, tentativi di suicidio, conti­nua minaccia di porre termine alla propria vita) (Fine,Sansone,1990). Queste condotte hanno un andamento nel tempo molto più esteso del comportamento suici­dario. In particolare sono stati individuati tre pattern di decorso: il primo a bassa frequenza, il secondo con andamento progressivamente declinante degli episodi ed il terzo con andamento fluttuante (Sabo,Gunderson et al.,1995). Quest'ultimo pattern, di gran lunga più fre­quente, è caratte­rizzato dalla presenza di un elevato livello di disforia. In questo senso l'affetto disforico può essere considerato come il miglior predittore del decor­so fluttuante delle condotte di tipo suicidario e della sucidarietà cronica.

Le relazioni del borderline nel loro complesso, e la relazione terapeutica in particolare, sono quasi sempre profondamente impregnate di disforia ed il ricatto autolesivo può rappresentare proprio un tenta­tivo di modulare l'affetto disforico (van der Kolk et al.,1989; van der Kolk et al.,1991). La minaccia ricattatoria del suicidio o di condotte autolesive pesa come una spada di Da­mocle sulla testa della maggior parte degli psichiatri che si imbarcano in un trattamento psicoterapico di un paziente borderline.  Ma se la suicidarietà cro­nica è una modalità gravemente distorta, di­sturbata (e disturbante) di relazionarsi con gli altri, essa è pur sempre una modalità di relazione. Attribuendo all'altro la responsabilità del proprio comportamento lo si coinvolge intensamente, suscitando nel terapeuta sentimenti assai difficili da gestire (Maltsberger,Buie,1974; Gabbard,Wilkinson,1994). In una condizione caratteriz­zata da una identità diffusa, poco coerente e coesa, queste condotte possono assolvere alla funzione di ridurre l'ansia e la disforia favorendo una maggiore coe­sione di un Sé altri­menti incline alla frammentazione, permettere l'espressione della rabbia, suscitare una viva risposta affettiva nell'altro (Gunderson,1984; Favazza,1989).

Se il bor­derline può essere considerato come un vero e proprio bricoleur dell'identità, costretto a ricorrere agli altri per riempire il vuoto del proprio spazio interiore, egli deve per così dire vivere nel mondo esterno e cercare di volta in volta «un regi­sta per senti­rsi esistere» (Bergeret,1975). In questo senso è necessario che molte emozioni che non possono essere vissute nella loro concatenazione narrativa e temporale, ven­gano fatte vivere a chi lo cir­conda. Il vissuto di perenne insoddisfa­zione, di irritazione, di frustrazione sorda, precur­sore di una rabbia più esplicitata, esprime nel borderline la insoppor­tabilità di una condizione nella quale si cerca tardivamente di riparare una ferita che si è già prodotta, di volta in volta inne­scando nelle relazioni con gli oggetti un circolo vizioso che riporta sempre allo stesso punto. Irritazione, sconforto, frustrazione, rabbia, talvolta odio, svilimento delle proprie capaci­tà umane e professionali sono tuttavia anche sentimenti caratteri­stici del terapeuta in ogni psicoterapia con un paziente borderline. Per lavorare in modo efficace con i pazienti borderline - ha scritto Paris (1989) -  è ne­cessario non lasciarsi intrappolare nella costante minaccia del ricorso a condotte suicidarie: «paradossalmente è possibile curare i pazienti borderline in modo efficace soltanto se l'aspetto cronico della loro suicidarietà viene tollerato». Si tratta, anche in questo caso, di fare un po' da «portabagagli» (Ferro,1996;Wheelis, Gunderson,1998) di queste emozioni, pre­standosi a vivere al posto del paziente stati emotivi e conca­tenazioni di affetti che sono avvertite come intollerabili per una organizzazione di personalità che non ha raggiunto una stabile strutturazione ma che è rimasta - un po' come un cantiere in cui i lavori non si sono conclusi -  esposta a tutte le intempe­rie; sensibile a tutte le incursioni dell'ambiente, di cui ha grande timore ma an­che disperato biso­gno.

 

 

 

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CURRICULUM  di MARIO ROSSI MONTI 

Laureato in Medicina e Chirurgia e Specializzato in Psichiatria

Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana

Professore Ordinario di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Scienze della Formazione (Corso di Laurea in Psicologia) presso l’Università di Urbino

Direttore del Corso di Perfezionamento Universitario Dalla Diagnosi alla Terapia. Il ruolo della Psicopatologia (Scienze della Formazione – Corso di Laurea in Psicologia) Università di Urbino, dal 2000-2001

E’ stato Docente presso la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Siena

Docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica e nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Firenze

Dal 1978 al 1994 è stato Aiuto Psichiatra nei Servizi di Salute Mentale della regione Toscana

Autore di numerosi contributi in riviste scientifiche nazionali ed internazionali, e in volumi, in tema di psicologia, psicopatologia e psicoterapia; e di alcuni libri fra i quali

Psichiatria e fenomenologia, Loescher, Torino, 1978

Dalla analisi esistenziale alla teoria dei sistemi (coll. S. Vitali), Feltrinelli, Milano, 1980

Maternità come crisi (con A. Pazzagli e P. Benvenuti), Il Pensiero Scientifico, Roma, 1981

Dopo la schizofrenia (coll. A. Ballerini), Feltrinelli, Milano, 1983

La conoscenza totale, Il Saggiatore, Milano, 1984

Psicopatologia e teorie della conoscenza (con M. Nardini), Athena, Roma, 1989

La vergogna e il delirio (con A. Ballerini), Boringhieri, Torino, 1990

Ha curato inoltre:

Manuale di Psichiatria del territorio, La Nuova Italia, Firenze, 1994

Psicopatologia della schizofrenia. Prospettive metodologiche e cliniche (con G. Stanghellini), Cortina, Milano, 1999

Percorsi di Psicopatologia. Fondamenti in evoluzione, Angeli, Milano, 2001.

 

 

 

 

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