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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

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Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 13, anno VII, gennaio 2010

"Malessere delle Culture"

 

   

TERRORISMO COME PATOLOGIA PSICO-SOCIALE

 

  di Anna Sabatini Scalmati

 

 

   
 
 

“dall’inatteso arriva la paura”

  Frammento di Archiloco, VII sec. A.C.

 

 

La parola terrorismo - dal greco tromos, tremare, rabbrividire, fremere di paura – somma un sentimento personale, lo stato dell’individuo atterrito, con una situazione sociale. L’Occidente considera terroristico “l’uso indiscriminato della violenza contro la popolazione civile con l’intento di diffondere panico e coartare un’unità politica nazionale o internazionale” e terroristi “i membri di organizzazioni private e clandestine […], non i militari inquadrati negli eserciti nazionali. Qualsiasi azione attribuibile ad apparati militari di uno stato – anche la più distruttiva e sanguinaria – non è considerata terroristica” (Zolo, 2006).

Le guerre che dilaniano le regioni del pianeta, la scienza piegata alla politica, la pervasività dell’economia e dell’industria culturale e ideologica, chiedono alle scienze umane di cimentarsi con una visione olistica, un sapere che superi le scissioni, le unipolarità delle posizioni manichee e si apra a situazioni extraterritoriali, al disagio della civiltà segnato dall’inquietante discontinuità prodotta dall’atomica. Di accendere una lampada che permetta al pensiero di aprirsi ad una visione del pianeta abitato non da un unico Uomo di dimensioni gigantesche, ma da una pluralità di esseri umani (Arendt, 1951).

Ad apertura di Il secolo Breve, Eric Hobsbawm riporta 12 lapidari giudizi sul ventesimo secolo. Riferisco quello di Primo Levi: “Non siamo noi, i superstiti [del Lager] i testimoni veri. [...] Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala, oltre che esigua: siamo quelli che, per la loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto” (p. 13).

Affinché “dall’inatteso non arrivi la paura” - che può scavalcare ogni nostra capacità di pensare – da Levi, e altri che come lui sono stati diretti testimoni del Maelström, - attingo il coraggio per sostenere, non distogliere lo sguardo dal presente e dai nodi di distruttività in esso disseminati.

Ripetutamente Tiresia ha cercato di dissuadere Edipo dall'investigare sulla morte di Laio, ma la peste che gravava su Tebe non poteva essere dissipata se non attraverso un penoso, accecante percorso di conoscenza. Non diversamente dal figlio di Laio e Giocasta, l’umanità è chiamata a rivedere le ragioni della sua storia, a farsi consapevole delle proprie trasgressioni; a prendere coscienza del complesso intreccio di forze che ripetutamente la spingono in un impasse che annulla qualsivoglia alternativa alle armi. Scontro distruttivo e letale che eccede le risorse immaginative, oscura la fantasia e, a differenza da quanto Freud ha sostenuto nel 1911[1], la ingessa e restringe al ruolo del censore. “Siamo più piccoli di noi stessi; senz’altro non siamo all’altezza di quello che possiamo inventare e fare; e persino la nostra fantasia non è all’altezza della nostra fantasia e dei prodotti della nostra fantasia; certo, non delle loro conseguenze” (Anders , 1980, p. 301).

Nel 1945 Gioachino Flescher[2] si chiede:

 

<<Possiamo noi, testimoni del disastro che ha colpito il nostro globo, con tranquilla coscienza affermare che questa guerra era inevitabile? C’è chi afferma che esistevano premesse economiche che rendevano ineluttabile lo scoppio di un conflitto armato. Ma queste premesse economiche non potevano essere neutralizzate? Alle origini dell’umanità le stesse premesse - cioè la lotta per l’esistenza materiale – giustificavano l’omicidio, eppure con il tempo a dispetto del numero sempre crescente dei competitori si erano potute creare condizioni nelle quali l’omicidio per cause materiali è diventato e divenne un avvenimento raro e punibile dalla legge, che giustamente parte dalla convinzione, che l’uomo su questa terra può vivere senza dovere eliminare fisicamente il suo prossimo. Perché questo non sarebbe possibile nei rapporti tra grandi collettività?>> (p. 9).

 

La centralità della conflittualità emotiva del pensiero kleiniano; la teorizzazione di Bleger, a cui dedico il prossimo capitolo; le testimonianze, le elaborazioni cliniche dei sopravvissuti ai campi di sterminio e a lunghe reclusioni; le riflessioni teorico-cliniche degli analisti del latino America e quelle successive all’11 settembre; gli studi sul trauma catastrofico, la fondamentale riflessione di Franco Fornari sul tema della guerra e la mia esperienza clinica, mi sollecitano a rivolgere l'attenzione ai nodi di odio e di vendetta (limito l'attenzione a questi primi anni del millennio) che, acutizzati dal crollo delle Torri Gemelle, legano e contrappongono l’Occidente al mondo islamico. Mi riferisco alle guerre di cui i mass media ci danno notizia: ai bombardamenti contro l'Afghanistan iniziati nell'ottobre del 2001; alla guerra infinita e preventiva in atto dal marzo del 2003 contro l'Irak e alla parola d'ordine shock and awe (colpisci e terrorizza) che l'accompagna. Alla offensiva israeliana dell'agosto del 2006 contro il Libano e all'operazione piombo fuso contro Gaza, dicembre 2008/gennaio 2009.

Spirali di guerre che avvitano storia generale, rapporti sociali e atteggiamenti individuali. “La situazione politica si insinua nella sfera dell’intimità e la inquina, e allo stesso tempo il confine tra la sfera pubblica e quella privata viene stravolto” (Viñar, p. 211). Alterazioni consce ed inconsce che sollevano onde che dalla sfera sociale e politica si ripercuotono su quella personale e viceversa. Livelli di turbamento che attraversano la comunità e sulle comunicazioni affettive e parentali riversano l’ombra della destabilizzazione sociale.

 


 

 

 

Il trans-soggettivo: uno scenario interpretativo

 

José Bleger, più di altri autori, coglie i nodi psichici che avviluppano ed intrecciano la biografia alla storia; l’intrapsichico al trans-soggettivo. Per Bleger l’io[3], che fin dall’inizio è in relazione con il mondo, a partire da uno stato di indifferenziazione primitiva, evolve da una dipendenza totale a  una relativa indipendenza. Per le richieste dei bisogni primari, che ciclicamente riattivano comportamenti di dipendenza, l’io ondeggia tra momenti di autosufficienza autistica e narcisista chiusura in se stesso, a momenti in cui si aggrappa ad un oggetto o alle istituzioni del mondo esterno. Questa oscillazione, per l’autore, è l’espressione del vincolo simbiotico di fondazione, realizzato e con la propria mente e con un oggetto esterno. Vincolo a suo parere assolutamente necessario per immobilizzare e tenere sotto controllo il nucleo agglutinato. Nucleo originario che avviluppa[4]:

 

<<abbozzi o formazioni molto primitive  dell’io in relazione con oggetti interni o con parti della realtà esterna, a tutti i livelli di integrazione (orale, anale, genitale), il tutto senza discriminazione, ma anche senza confusione>> (Bleger, p. 85).

 

Qualora questo nucleo, di fusione e indifferenziazione tra interno e esterno, non viene contenuto, sull’io, inizialmente fragilissimo e incoeso, si riversano ansie estreme, potenti e massive. L’aurorale struttura psicologica si protegge da esse opponendo difese violente e primitive, quali la scissione e la proiezione agglutinata; difese che, nella misura in cui espellono nel mondo esterno il nucleo agglutinato, stringono con questo un vincolo simbiotico. Primo ponte, vincolo io/mondo a cui, quale depositario, è affidato il compito di immobilizzare, tenere sotto controllo la complessa e contraddittoria indifferenziazione primitiva: il nucleo psicotico originario, interno ad ogni essere umano. In questa prima relazione - nucleo originario/depositario - affondano le radici dell’io psichico[5] e la tessitura dei legami.

E' questa relazione che struttura il vincolo, il legame che sorregge e accoglie i residui della vita intrauterina, le prime indistinte percezioni me/non me, amalgama di sensazioni enterocettive, esterocettive, sensoriali, olfattive e visive della prima struttura psicologica. Insieme indifferenziato, preconflittuale che nessun nuovo nato può elaborare e dipanare da solo e che, in misura maggiore o minore, rimarrà sempre non elaborato. Ombra mai dissipata, che non chiede di esserlo nella misura in cui è condivisa e contenuta dall’ambiente. Nucleo di affetti non differenziati - non si sono ancora formate le coppie oppositive (buono/cattivo) - che la proiezione primitiva deposita nell’ambiente a cui chiede accoglimento, contenimento e protezione: un saldo vincolo di cura. Nucleo che permane immobilizzato sullo sfondo, sebbene in parte si decanti nei comuni gesti quotidiani e in parte, sorretto dal consenso muto della comunità, si rifranga sugli oggetti che accompagnano e rispondono ai bisogni primari. L’ambiente se ne fa carico, il legame intersoggettivo ne circoscrive via via gli spazi, affinché, superata la linea d'ombra della pubertà, l’io si apra ad una seconda cerchia di mondo.

Vincolo simbiotico tra il nuovo nato che denuncia la sua dipendenza e lievita il suo corpo alla ricerca di braccia che lo accolgano: depositario/ambiente che contenga, immobilizzi e interiorizzi questo primo nodo costitutivo. Scambio di gesti, suoni, odori, pelle, relazione preverbale con cui si puntella la prima architrave della mente e si istituisce un retroterra di sicurezza. Il piccolo è fuso con l’adulto, questi se ne fa ospite generoso, depositario attento non prevaricante. Il piccolo proietta i colori del proprio sentire, l’ambiente li accoglie, ne snoda le ansie e tesse il nodo intersoggettivo, mentre nell’intrapsichico quest’incontro riverbera e deposita nuove e peculiari qualità emotive. Vincolo simbiotico che lungo tutto il corso della vita contiene ciò che la mente, prodotto immateriale di uno strumento materiale - l’universo corporeo - non riesce a contenere.

La perdita del depositario apre nella psiche crepe nel cui fondo limaccioso scivolano e si confondono realtà, pensieri, sensazioni ed eventi. Il nucleo agglutinato non chiede rêverie - pensiero, affetto, voce che elabora e trasforma il ‘sentire’ in pensiero – ma accoglimento, contenimento, immobilizzazione da parte dell'ambiente. Suo destino è continuare ad avere bisogno di figure sociali via via diverse: famiglia, comunità, “oggetti culturali” e, trasversalmente, l’ambiente non umano (Searles).

Residuo inconscio dell’indifferenziazione primaria, il nucleo agglutinato per un verso mantiene saldo il legame con il mondo esterno, per l'altro sviluppa articolazioni via via più complesse con la realtà interna ed esterna che lentamente, sebbene mai del tutto, lo dipanano. Percezioni più mature e nuove relazioni che permettono fugaci insight, rafforzano l'io e lo contrappongano al nucleo originario. Ciononostante sullo sfondo, assorbiti e nel contempo condivisi dal contesto sociale, nel trans-soggettivo, permangono nuclei di indifferenziazione, proiezioni che non chiedono di essere reintroiettate: richieste di complementarietà io/mondo, espressione della dipendenza originaria della mente dal mondo esterno. Deriva da ciò che:

 

<<un residuo di indifferenziazione primaria rimarrà sempre in ogni soggetto  maturo, il che significa che in ogni momento della vita del soggetto ci sarà un legame simbiotico, o di depositazione dell’indifferenziazione>> (Amati, p. 246[6]).

 

Ciò permette di cogliere, ed è questo il punto che a noi ora interessa, il sincronico disporsi delle trame dell’intrapsichico, dell’intersoggettivo e del trans-soggettivo; il ruolo strutturante e organizzatore dell’altro simile (Green); la funzione strutturante dei “validi rapporti sociali [che] in una legislazione ben fondata sono elementi essenziali per la salute mentale” (Jaques, 1970, p. 206); le interconnessioni tra la storia individuale, familiare e generazionale e i disegni che sottostanno ai movimenti dell’economia, della politica, del militare.

 

<<La crescita degli individui>> scrive Di Chiara <<avviene in una trama sociale sempre più vasta e coinvolgente, ma soprattutto in spazi mentali che sono quelli delle culture dei gruppi (p. 15). Il mondo interiore degli individui alla fine si struttura a partire dalle esperienze di interazione psichica globale compiute da ognuno, conservate attivamente nella ‘memoria sensoriale delle relazioni’>> (p. 49).

 

Aree di soggettività che si intrecciano nella realtà psichica e si dispiegano nel suo complesso asse, mentre il trans-soggettivo - anello esterno, spazio “dei rapporti tra il soggetto e l’ambiente sociale condiviso” (Amati, p. 243), sfera che contiene il me, l’altro da me e gli altri con cui l’altro da me entra in complesse relazioni culturali, socioeconomiche, politiche e religiose - origina sentimenti di appartenenza e sicurezza. Risonanza emotiva che evoca un “sentimento di indissolubile legame, di stretta appartenenza al mondo esterno nel suo insieme” (Freud, 1929, p. 558).

Trans-soggettivo che trattiene e assorbe le percezioni/sensazioni che emergono dalle regioni sommerse del sé, catena di trasmissione e deposito di ciò a cui il pensiero, la ragione, non ha accesso. Spazio pluridimensionale, area di rifrazione di onde complesse, intrapsichiche, intersoggetive, transgenerazionali, che congiunge il presente al passato. Il nostro presente senso dell'Io scrive Freud è:

 

<<un avvizzito residuo di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva ad una comunione quanto mai intima dell'Io con l'ambiente. Se possiamo ammettere che – tale senso primario dell'Io si sia conservato nella vita psichica di molte persone, esso si collocherebbe, come una sorta di controparte, accanto al più angusto e più nettamente delimitato senso dell’Io della maturità, e i contenuti rappresentativi ad esso conformi sarebbero precisamente quelli dell’illimitatezza e della comunione con il tutto [...]>> (Freud, 1929, p. 561).

 

La posizione agglutinata proposta da Bleger precede le posizioni kleiniane, tappe successive, difficili, dolorose anch’esse, mai definitivamente acquisite, del percorso che dalla mera esistenza biologica procede verso un mai compiuto sé. Tentativi della mente per giungere a contenere se stessa, aprirsi al vivere e, dalla contrapposizione pulsionale mors tua vita mea, approdare, tollerando l’acuto cordoglio di questa percezione, a relazioni fondate sul reciproco riconoscimento, vita tua, vita mea (Fornari) e alle regioni dell’etica segnate da un movimento che va oltre l’io e si apre all’altro.

 

<<La ‘dura realtà>> scrive Puget <<è necessaria alla costituzione della realtà psichica; la realtà include tra le altre cose eventi sociali e culturali che hanno sia un potenziale di identificazione sia un potenziale traumatico che generano sintomi, conflitti, ecc.>> (1995).

 

Queste tappe - espressioni della fragilità umana, dell’esposizione ai bisogni, della radicale dipendenza dall’oggetto e dei rischi connessi alla sua mancanza; della violenza dei desideri che legano indissolubilmente l’io all’altro, desiderato/odiato; dei moti affettivi che si organizzano attorno alle rappresentazioni fantasmatiche me/non me, mondo interno/esterno - ci parlano della funzione di rasserenamento, sostegno, di profonda e strutturale umanizzazione il cui compimento è affidato alla rete sociale. Bisogni alla cui soddisfazione l’umanità ha delegato la famiglia, le istituzioni, lo Stato e i legami etici che strutturano e organizzano i gruppi umani.

Se queste richieste vengono tradite, sull’io precipita un’ansia catastrofica, che può provocare “l’annientamento totale e immediato dell’io” (Bleger, p. 85).

 

<<Vera e propria “apocalisse culturale” da cui si fanno avanti i fantasmi inquietanti, confusi e primigeni dell’indifferenziazione primaria e dei primi orizzonti persecutori. [...] Ne possono derivare un annebbiamento più o meno temporaneo della coscienza e un’invasiva angoscia catastrofica, vissuti di depersonalizzazione e derealizzazione, confusione psicotica e frammentazione>> (Sabatini Scalmati, 2003, p. 126).

 

Con sullo sfondo lo scenario interpretativo fin qui proposto volgo ora l’attenzione ad alcune linee guida che a mio parere legano la storia di oggi a quella di ieri.

 


 

 

 

 

Dalla storia di ieri

La fine del secondo conflitto mondiale ha riversato sul presente un’eredità che non può fare a meno di mettere in discussione il passato. Eredità che chiede articolati livelli di ascolto e il sostegno di ‘un’angosciata immaginazione’ (Arendt) per cogliere  il ‘sovraliminare’ e sostenere la sfida aperta dallo scarto prometeico, cioè dalla “incapacità d’immaginarci tutto ciò che possiamo produrre e tutti i guai che possiamo combinare (Anders, 1980, p. 27).

Nel 1945, alla cessazione delle ostilità, i sopravvissuti si trovano di fronte ad ‘orrori’ quali mai l’umanità - per estensione dell’area di guerra, livello tecnologico degli armamenti ed efficienza degli apparati burocratici – aveva conosciuto. I lager  iniziano a mostrare l'enorme qualità di male che scorre a fianco delle voci 'alte' della cultura, i roghi di Dresda e Berlino sono da poco spenti e i ‘fascismi’ caduti, allorché un sole bianco, abbagliante, che irradia milioni di gradi di calore, accende i cieli di Hiroshima/Nagasaki. Nel risucchio del vuoto d’aria, si polverizza la distanza morale che sembrava separare i vincitori dai vinti.

Orrori antichi, che la cultura credeva relegati ai primordi dell’umanità, ed orrori espressione ultima e tragica di una conoscenza che viola i segreti della materia e dà vita ad elementi nuovi, quali il plutonio che, a sua volta, dà vita alla palla di fuoco che, in un milionesimo di secondo, polverizza ogni forma di vita.

Cinquanta otto anni dopo, nell’agosto del 2003, Washington, capitale dell’occidente, punta di diamante dell’economia, delle tecnoscienze e della supremazia militare, in anni arroventati quali quelli successivi all’attentato alle Twin Towers, in una sala del museo aeronautico dell’US Air Force di Washington[7], fa spazio all’Enola Gay[8]: il Boeing B-29 che il 6 agosto del 1945 ha sganciato l’atomica su Hiroshima. Con arrogante negazione di ogni forma di riparazione, con un abuso politico della memoria, l'icona della devastante potenza della bomba - quasi a confermare che i progetti genocidari sono illegali e da condannare se perpetrati da altri, non se esiti della propria strategia militare - conosce una legittimazione museale.

Asimmetria che, con l’assenza nella città di un museo in memoria dei genocidi perpetrati dalla nazione a danno degli autoctoni, sembra ribadire che l’area geografica delle vittime è il metro atto a valutare la violenza che nega la vita a milioni di individui.

 

 <<[…] l’umanità ha prodotto Auschwitz e ha chiesto scusa; ha prodotto anche Hiroshima, e non ha chiesto scusa. Da tale inaccettabile ‘asimmetria’ è poi scaturita la legittimazione e giustificazione non solo di tutti i bombardamenti futuri, ma ‘del Bombardamento come azione legittima, contrapposta al Campo di sterminio come azione illegittima’>> (Martelli p. 224).

 

Questo diversificato riconoscimento della colpa e della sofferenza legittima i 100 milioni di litri di diserbanti, miscela di triclorofenolo (l’agente orange), lanciati dall’aviazione degli Stati Uniti sulle foreste vietnamite[9]; i bombardamenti al fosforo, l'utilizzo di Droni che riversano i missili Hellfire (Fuoco di inferno) in Afghanistan e nelle diverse aree di guerra [10].

Ma questa presunta ‘legittimità’, fatta tragicamente propria dai terroristi dell’11 settembre, si è rivolta contro l’Occidente, e New York è divenuta la vittima del più violento attentato terroristico registrato nella storia. Evento funesto che, al di là della disposizione delle potenze nello scacchiere mondiale, del modello tecnocratico della guerra asimmetrica[11], drammaticamente sparigliato dallo stesso attentato - il martire, con modalità impreviste, scavalca il principio di deterrenza - mostra il tallone d’Achille del progetto egemonico.

Progetto che ricalca le orge di assassini degli indiani delle Americhe in seguito alla conquista, le catastrofi ‘umanitarie’ con cui le potenze coloniali hanno sigillato il loro potere in Asia e in Africa. Progetti che oltrepassano le frontiere degli Stati, che forzano le coscienze a fare fronte all'improvviso aumento di sadismo e ad inquietanti confronti tra comunità/mondo, locale/ globale, arcaico/moderno. Mentre ciò accade, sui vinti “nudi di fronte alla propria verità, alla propria storia, alla propria memoria” (Fouad Allam, p. 63), esclusi dal concetto dell’universo degli obblighi (Helen Fein[12])), scende un sudario che li rende invisibili e li cancella dalla storia. Leggiamo nel romanzo di Garcia Marquez:

 

<<Quando José Arcadio Secondo si svegliò era disteso supino nel buio. Si  accorse che stava viaggiando su un treno interminabile e silenzioso, e che aveva i capelli appiccicati dal sangue secco e che gli dolevano tutte le ossa. Provò una tremenda stanchezza. Con una voglia di dormire per ore e ore, al sicuro dal terrore e dall’orrore, si accomodò sul lato che gli faceva meno male, e soltanto allora scoprì di essere sdraiato sui morti. Non c’era nessuno spazio libero nel vagone, tranne il corridoio centrale. Dovevano essere trascorse parecchie ore dal massacro, perché i cadaveri avevano la temperatura del gesso in autunno […]. Cercando di sfuggire all’incubo, José Arcadio Secondo si trascinò di vagone in vagone, nella direzione verso la quale avanzava il treno, e nei lampi di luce che divampavano tra le assi di legno quando passavano per i villaggi addormentati vedeva i morti uomini, i morti donne, i morti bambini, destinati ad essere gettati in mare come le banane di scarto. […] Quando arrivò nel primo vagone fece un salto nel buio, e rimase disteso nella cunetta finché il treno non fu passato del tutto. Era il treno più lungo che aveva mai visto, con quasi duecento carri merci, e una locomotiva a ogni estremo e una terza nel mezzo. Non aveva nessuna luce, nemmeno i fanali verdi e rossi di posizione, e scivolava a una velocità notturna e furtiva […]. Una settimana dopo [....] la versione ufficiale, mille volte ripetuta e ribattuta in tutto il paese con quanti mezzi di divulgazione fossero alla portata del governo, finì per imporsi: Non c’erano stati morti>> (pp. 300, 303).

 

Gli eventi storici chiedono l’attenzione e la memoria della comunità, depositazione complessa che permette di contenere i vissuti emotivi, di non separare la violenza dalla colpa (Fornari). Di misurarsi con la dolorosa, profondamente umana, esperienza depressiva. Esperienza che alleggerisce la memoria, redime in parte il passato e si apre al futuro e all’umanità dell’altro, alla sua fragilità non dissimile dalla propria. Se ciò non avviene, se tale elaborazione viene arrogantemente e trionfalmente evitata, l’orizzonte si tinge di persecuzione e prende corpo un’inquietante spirale in cui il trauma genera altri traumi, il passato ripropone le sue scelte nel presente e alla colpa di ieri non può che sommarsi quella di oggi.

Lo Stato che viola i diritti umani e si impone con la forza dell’apparato militare, con colpevole superficialità, affonda il coltello nei gangli vitali dei vincoli intersoggettivi e comunitari. Sulle istituzioni sociali - nella loro funzione di mediazione dei bisogni e di contenimento di ansie di natura psicotica - ricade un alone di sfiducia che solleva instabilità psichica nella comunità (Jaques, 1955). Manomissione dei legami sociali che inquina il senso della vita e con tragica ignoranza frantuma lo scrigno che contiene - mediato da modelli culturali, dalla tradizione, dai riti e dai ritmi quotidiani - le ansie della comunità. Disperse nell’ambiente, non più contenute, queste tornano sui singoli che, o le rilanciano con un sovrappiù di angoscia sul mondo esterno, o investiti da esse vivono in un mondo che si colora di persecuzione.


 
 

Rottura dei vincoli comunitari 

 

C’è uno scarto tra il conoscere gli ‘eventi’ che accadono nelle diverse regioni del pianeta e riuscire ad immaginare, a rappresentarsi i sussulti emotivi che percuotono gli individui che vi sono coinvolti. Tra il sapere razionale, descrittivo, mediato dal linguaggio - ‘dove non è questione di angoscia’ - come ad epigrafe di un suo lavoro nota polemicamente Lévinas - e il sapere sensoriale ed affettivo. Sappiamo che il nucleo della sofferenza è intrinsecamente indicibile e irrappresentabile, come  ci è noto che chi non ne è toccato non desidera sentirne parlare. Occorre fare forza sulle proprie emozioni, guardare a lungo in esse, compararle con qualcosa che si è provato e si conosce, per riuscire ad incontrare dentro di sé l’altro e il suo malessere, sia l’altro amico o nemico. Per riuscire a contenere il suo tragitto di sofferenza e non di rado di programmata, imposta disumanizazzione.

Incontro interno, non ideologico, dal quale partire per cum-prendere gli scenari di terrore, odio, vendetta, ma anche rallentamento, se non ibernazione dell’attività ideativa, che anni di guerra, bombardamenti quotidiani, luoghi come Guantanamo e carceri segrete, settorializzazione dei territori e check-point, originano e rafforzano. Per gettare luce sull’ambiguità, sulla compresenza di strutture democratiche e di apartheid, “sulla coesistenza dell’orrore con lo spettacolo di un’apparente normalità sociale” (Viñar. p. 208).

 

<<L’angustia del pensiero umano>> scrive Jaspers <<specie quando si manifesta sotto forma di un’opinione mondiale destinata a travolgere ogni cosa come un’irrefrenabile ondata, rappresenta un  pericolo immenso>> (p. 107).

 

Questa angustia, mentre fa muovere indisturbati gli eserciti e fa crollare complesse istituzioni civili, programma atti disperati. 'Atti' che vanno visti in interazione con il quadro storico e solo secondariamente con categorie di patologia mentale: la patologia non nasce nel vuoto, non è possibile isolare un individuo dal contesto sociale e geopolitico ove appare il ‘disordine’. 'Disordine' che giova alla presenza invasiva e alla pressione ideologica di una potenza che mira alla “distruzione delle forme sociali indigene” e “senza restrizioni [demolisce] i sistemi di riferimento dell’economia, i modi di presentarsi, di vestirsi” (Fanon, p. 7).

C'è pertanto da interrogarsi sulla ricaduta, sul fascino ipnotico dell’informazione satellitare e dei modelli da essa esibiti che, in quanto proposti dalle potenze egemoni, si pretendono ‘universali’, ‘assoluti’, ‘civili’ e ‘unica’, possibile e desiderabile condizione esistenziale e culturale. Messaggi, “che sanno bene come rivolgersi all’inconscio altrui poiché provengono dall’inconscio dei loro autori” (Green, p. 103). Sulla ricaduta nell'immaginario della narrativa dell’altro, narrativa  che rimanda valori discrepanti al proprio sentire e intacca il  substrato dell'identità (Papadopoulos). Sui vissuti di umiliazione e vergogna che l’ideologia occidentale – post-moderna, “biologica”, “antropometrica”, “eugenetica” - riversa sulle vite che nascono e compiono il loro arco in contesti socio/culturali ad alto potenziale traumatico, ove è difficile contenere ed elaborare i fatti di vita quotidiana. Sul peso che si riversa sulla psiche quando le istituzioni politiche e militari rinserrano la società sotto una coltre di silenzi e paura, mentre disseminano il territorio di cluster bomb:

 

<<situazione che porta alla sua espressione limite il fantasma generale della guerra in relazione al padre-straniero-nemico che calpesta il sacro ruolo della patria-terra-madre. […] l’immagine del padre che sadicizza la madre, immagine che ogni uomo porta dentro di sé>> (Fornari, pp. 115, 116).

 

In tali situazioni l’equilibrio tra fattori esogeni e endogeni si spezza, i primi schiacciano i secondi per poi farli risorgere con raddoppiata carica di orrore. Il linguaggio della forza - che modifica il diritto e orienta l’etica secondo categorie rese variabili da sempre nuovi ‘stati di eccezione’[13] - inquina la complementarità tra ‘preconcezioni’, desideri e progetti individuali-collettivi. La circolarità tra le aree della psiche e la  rete di valori sottintesi e condivisi si sconnette. Gli affetti, privati del consueto contesto espressivo, del retroterra di sicurezza, della “matrice transpersonale delle rappresentazioni condivise” (Kaes, in Amati, p. 248), si fanno muti, mentre i comportamenti empatici e ‘civili’ si squilibrano, sopravanzati da agiti violenti, aggressivi, lesivi di ogni forma di umanità. La 'colpa' che alimenta e dà respiro alla ‘posizione depressiva’, corrosa da un’inquietudine che giornalmente si autoconferma, via via si affievolisce. Al suo posto si riattivano comportamenti modellati da logiche difensive che innalzano mura, accecano la visione dell’altro e avanzano una mastodontica semplificazione manichea. Le pagine dell’evoluzione umana e dei comportamenti sociali[14] si sfogliano in senso regressivo.

 

<<La psicoanalisi>> scrive George Awad <<ci insegna che ogni fenomeno mentale, come le emozioni, le fantasie, i desideri e i comportamenti che comprendono gli atti di terrore, sono significativi, multi-determinati e in definitiva comprensibili, anche se la comprensione è incompleta e imperfetta. Ci insegna che tutti i comportamenti  […] hanno le loro radici nel passato recente, distante, arcaico, e sono implicati molti fattori, quali quello biologico, psicologico, familiare e socio-culturale, e i fenomeni mentali cambiano e si trasformano nel corso del tempo>>.

 

Nell’acquaforte Los desastres de la guerra, Francisco Goya rappresenta, in un mostruoso Colosso, il male che domina la storia, sconvolge l’ordine delle cose e getta una carovana e gli armenti nel panico.

La storia sprigiona angoscia, questa ne attiva un’altra che oscura l’immaginazione, preclude l’accesso alla fantasia e agli stati mentali soggiacenti l’angoscia stessa. I sentimenti precipitano, si disperdono in un pozzo e la sensazione che la vita è dura e vuota di senso diventa via via più intensa. La defaillance del sociale e del trans-soggettivo, acuisce le spinte all’alienazione, il senso di impotenza, disintegrazione e morte; genera coni d’ombra che offuscano la mente e ottundono il pensare, perché

 

    <<il pensare chiaramente – scrive Bion - tende a favorire la consapevolezza della 'realtà', la valutazione corretta del reale. Ma può darsi che l'essere consapevoli della realtà comporti l'essere consapevoli di qualcosa di sgradevole, perché la realtà non è necessariamente piacevole […] Possiamo trovarci in un universo di pensiero, in una cultura, o anche in una cultura contemporanea, di natura tale che inevitabilmente soffriremo il dolore di sentire che il nostro universo non è favorevole al nostro benessere. L’osare essere consapevoli dei fatti dell’universo in cui viviamo richiede coraggio. Quell’universo può non essere piacevole e possiamo essere disposti ad uscirne; se non riusciamo a uscirne, se per qualche motivo la nostra muscolatura non sta funzionando, o se si dà il caso che non sia appropriato darsi alla fuga o ritirarsi, allora possiamo essere ridotti ad altre forme di fuga – come l’addormentarsi o il diventare inconsapevoli dell’universo di cui non desideriamo essere consapevoli, oppure l’ignorarlo o l’idealizzarlo>> (p. 239).

 

Al venire meno dei vincoli simbiotici, degli argini intersoggettivi e trans-soggettivi, eretti a protezione della fragilità umana e sociale, si aprono scenari interni di inenarrabile terrore. Dalla Klein sappiamo che se l’odio è intenso e le frustrazioni gravi, sia il mondo interno sia quello esterno sono attraversati da una violenta scissione. Da una parte oggetti idealizzati ed esigenti, dall’altra terrificanti nemici: premessa per rapporti sociali crudeli e persecutori. La scissione impedisce il contatto sia con la colpa - l’oggetto dell’odio è meramente odiato, quindi né curiosità né domande lo presentano nella mente - sia con l’amore, sentimento scisso, o negato o diretto altrove.

Se materiali esplosivi disseminati nelle diverse regioni del mondo intorpidiscono delle coscienze, in altre sollevano tempeste di furia e distruzione con costi umani inenarrabili.

 


 
 

Gruppi sigillo

 

 

[...] ed essi vengono presi ed infranti da ciò che   appartiene alla cerchia stessa della loro esistenza.

                                                                  Hegel, Estetica

 

Quando la politica, a dispetto delle convenzioni di Ginevra, con indiscriminati attacchi ai civili, non riconosce l’ingiustizia, non la corregge o almeno la allevia[15]  disconosce la fragilità del tessuto psichico che sorregge i processi di umanizzazione ed innesca regressioni che accendono appetiti violenti e cannibalici e una circolarità di comportamenti disperati e delittuosi fra cui il terrorismo.

La situazione diventa incandescente quando i desideri di periferizzazione dell’altro, l’implicito razzismo, toccano la sensazione nascosta in ogni essere umano, di non avere diritto di vivere. Quando si nasce e si vive in luoghi ove non si declina la speranza, l’élan vital, la libido, si rivelano dadi truccati. La mera volontà di vivere non supplisce al vulnus arrecato ai diritti umani fondamentali, all’assenza di un progetto personale e sociale condiviso.

La paura, il disconoscimento degli affetti, il vivere da ‘superflui’ (Arendt, 1951), slatentizzano le angosce di annichilimento di stati arcaici della mente e il potere delle forze distruttive interne.

 

 <<Il senso di giusto o di sbagliato, di torto subito o di gratitudine, di rettitudine consapevole o di colpa, non è di solito una reazione meditata. E’ piuttosto una risposta spontanea; e se la circostanza è di quelle importanti la nostra risposta non è solo spontanea ma molto intensa>> (Jaques, 1970,  p. 208-209).

 

Se la risposta spontanea all'ingiustizia viene coartata, la tensione del campo relazionale, oltre che sul presunto nemico, riverbera sul sociale lapilli di violenza che azionano l'aggressività dei padri, dei figli e dei fratelli tra loro e quella dei padri, figli e fratelli contro le loro donne e i più deboli[16]. Nelle difficoltà gli esseri umani non diventano migliori. Il male storico costituisce un’unica catena, un continuum patologico nel quale possono cumularsi esperienze diverse e la condizione di vittima si può incrociare con quella di carnefice:

 

<<Perché mai – si chiede la scrittrice Ruth Klüger  - circostanze peggiori dovrebbero rendere migliori le persone? Auschwitz non è stata una scuola di niente, men che mai di umanità e tolleranza. Mi è capitato di parlare con uno studente tedesco che si stupiva di aver conosciuto a Gerusalemme  un ebreo ungherese sopravvissuto ad Auschwitz che detestava gli arabi. Perché, ho reagito io, quell’esperienza avrebbe dovuto renderlo più tollerante? I campi di concentramento sono stati distruttivi dell’animo umano e non solo dei corpi; certo non una scuola di umanità>> (p. 12).

 

Umiliazione, vergogna, rabbia, sentimenti ripetutamente rinnovati, non più assorbiti e filtrati dal contesto relazionale  - “si può vivere d’amore e d’acqua fresca, di briciole e di promesse, ma non si sopravvive al disprezzo” (Khadra, p. 197) -, vengono evacuati e gettati nel corpo, nel terreno della percezione o nella sfera del trans-soggettivo: luogo dell’azione e della violenza sociale. Prende sempre più corpo una semplificazione manichea che divide il noi dal voi e viceversa ed apre la spirale di un reciproco crescendo di distruttività:

 

<<Quando gli altri cessano di essere considerati come un alter ego o un essere umano simile a noi, prende piede una radicale trasformazione dei vincoli sociali. L’altro è demonizzato o trasformato in un subumano, e la sua distruzione non solo non suscita compassione, ma diviene persino un obbligo, come quello che costringe un medico ad amputare un arto per fermare la cancrena>> (Viñar,  p. 213).

 

L’universo dell’azione - l’agire sulla realtà per dare risposte a bisogni urgenti ed immediati, mette in secondo piano il lavorio della psiche e restringe i margini delle riflessioni relative alle parte avversa. Gli spazi della mentalizzazione, necessari all’elaborazione del conflitto interno/esterno, si isteriliscono e, se affiorano delle considerazioni sull’altro, la ‘neolingua’ vi coglie i semi di una probabile imminente minaccia, per cui ogni sguardo sulla colpa diviene tabù. E ciò mentre le pulsioni, poco addomesticabili e scarsamente sensibili all’azione civilizzatrice, emergono in tutta la loro potenzialità:

 

<<Là dove siamo sorpresi o scioccati dal comportamento dei nostri simili, là dove vediamo agire, senza riserve, con cinismo, un appetito illimitato di godimento, l’appropriazione del profitto a qualunque condizione, là dove la potenza rifiuta il benché minimo contropotere, là dove il dominio è assoluto, là è la nostra ‘mitologia’ così reale: la teoria delle pulsioni così segnalata da Freud>> (Green, p. 103).

 

L’esperienza delle offese, la memoria transgenerazionale dell’acquiescenza imposta, scavano crepacci che scavalcano l’oscillazione PS-D[17]  e, mentre limitano la mente all'interno di una supposta realtà dell’altro (il concretismo di cui parla Grubrich-Simitis[18]), la schierano su modalità primitive di incorporazione. In queste situazioni le spinte proiettive sono fortemente inflazionate, mentre il pensiero, che ha bisogno di rimandi interno/esterno, introiezione, dubbio, orizzonti insaturi, si irrigidisce e si automatizza. 

Le metafore si ingessano e la mentalizzazione stenta a trasformare le sensazioni endogene ed esogene in rappresentazioni, ad attivare processi mentali in grado di elaborarle; diventa difficile riflettere criticamente su se stessi e comprendere gli atteggiamenti e le credenze dell’altro. Alla ricaduta sull’Io di nuclei agglutinati che non trovano depositazione  segue una permeabilità  dei confini intergenerazionali e il rifluire sui figli della storia dei padri.

La mente si trova asserragliata tra un universo psichico - sempre e comunque conflittuale - che mette a nudo ferite che non guariscono, mentre il sociale conosce continue pesanti manomissioni e amare ingiustizie. Sugli ‘eventi’, di cui gli individui sono testimoni ed attori, irrompono antichi scenari di rancore, risentimenti che tolgono ogni spazio al nuovo e all’imprevisto; il passato occupa il presente, il presente ri-propone il passato e questo, come un’ipoteca, si proietta sul futuro.

Il male che brucia dentro, gli elementi traumatici, isolati dal contesto relazionale, non filtrati da nessuna forma di elaborazione, si ripropongono in produzione seriale. Ciò impedisce di cogliere il diverso nell’intelaiatura del presente, di riconoscere la precarietà dolorosa, la compresenza di bene e male in sé e negli altri, mentre si preclude la reale comprensione della specificità degli avvenimenti. Diviene parimenti impossibile legare l’amore e l’odio con la conoscenza ed affidare a tempi diversi la soluzione del conflitto. I figli ripercorrono le orme dei padri ed entrano “in quella forma di organizzazione difensiva sociale, di sindrome psicosociale che il […] gruppo di appartenenza già pratica” (Di Chiara p. 9)[19].

Più aumenta la violenza sociale, più divengono preponderanti fenomeni di suggestione collettiva; la ‘causa’ schiaccia la vita del singolo, mero accidente di fronte ai disegni della storia. In situazioni di precarietà politica e sociale, l’identità, intesa come insieme di pratiche, forme, oggetti e simboli, diviene forza di conservazione che chiede agganci forti e si oppone a qualsivoglia trasformazione. Scrive Bauman:

 

<<Dopo tutto il nocciolo duro dell’identità – la risposta alla domanda ‘Chi sono?  […] -  può formarsi solo in riferimento ai legami che connettono l’io ad altre persone e alla presunzione di affidabilità e stabilità nel tempo di tali legami. Abbiamo bisogno di relazioni, e abbiamo bisogno di relazioni su cui poter contare, una relazione cui fare riferimento per definire noi stessi>> (Bauman 2003, p. 111).

 

In queste situazioni i confini dei singoli Sé si attenuano e i gruppi, depositari di identificazioni proiettive incrociate massive, divengono il luogo concreto ove dare espressione a bisogni molto profondi, ove istituire legami di totale complementarità: abbraccio indissolubile tra ciò che viene proiettato e il ruolo del depositario.

 

<<In condizioni adatte, la paura oggettiva può essere più facilmente affrontata che non la persecuzione fantasticata. Il nemico cattivo e sadico viene combattuto non nella solitudine del mondo inconscio interno, ma in  collaborazione con i compagni d’arme nella vita reale. In tal modo, non solo gli individui si liberano della persecuzione fantasticata, ma, per di più, i membri dell’esercito sono temporaneamente liberati dall’ansia depressiva, perché i loro impulsi sadici possono essere negati con l’attribuire la loro aggressività all’osservanza del dovere, cioè esprimendo gli impulsi aggressivi raccolti e introiettati da tutta la comunità>> (Jacques, 1955. p. 615).

Bleger scrive relativamente a questi gruppi :

 

<<Il gruppo simbiotico […] si muove in blocco in maniera massiva e rigida; l’unità corrisponde alla totalità del gruppo, i cui componenti non sono differenziati o discriminati; al suo interno i ruoli sono fissi e rigidi e vengono distribuiti (non condivisi) fra i membri, che li assumono in modo complementare e solidale. La mancanza di differenziazione o discriminazione fra i componenti del gruppo simbiotico consiste in questo: benché i ruoli siano fissi, possono ruotare o alternarsi i depositari che li assumono, ma ogni rotazione si effettua comunque in blocco e massivamente>>(p. 86).

 

Una dura disperazione, una nube depressiva che traccia  panorami di apocalittico nichilismo, cementa questo gruppo: primitivo[20], omofilo, misogino, chiuso all’interno di un orizzonte schizo-paranoide. In esso la capacità di pensare, possibile freno all’azione, viene sostituita da un abbraccio con un dio che fa propri i torti subiti dai suoi fedeli e promette giustizia. Uso ideologico e politico della religione che sublima le condizioni del gruppo sociale e rende possibile programmare la propria morte a danno dell’oppressore[21]. In esso lo spazio per l’Io individuale e separato, così come la dissidenza interna, sono duramente repressi. Coloro che vi aderiscono sono affiliati, non individui. Gruppo/sigillo che, in uno stato di minorizzazione regressiva, lega i corpi in un patto di rivalsa e di annientamento, “uno per tutti, tutti per uno!” La mente, con la freddezza dell’impotenza, osserva il gruppo e si adegua alle sue richieste: il corpo si fa strumento politico e non appena il semaforo dà il verde,  aziona il pulsante. Un’esplosione colpisce alla cieca, l'attentatore si frantuma e con lui il corpo di coloro che gli sono vicini.

L’Io, disposto a tutto pur di rimanere in vita, impoverito da sempre nuove scissioni e dalla vena di follia che percorre le vicende umane, si erge sopra se stesso e con un doppio salto mortale - dichiarazione di onnipotenza che si traduce in un gesto di morte - proietta la sua vita nell’al di là. Atto politico e atto di accusa alla politica che occulta un’angoscia di annientamento e si riveste di sublime. “Il martirio, forma sublimata di odio, diviene il nome sotto cui viene rubricato il sacrificio della propria vita e l’eccidio che ad esso si accompagna” (Sabatini Scalmati, 2006, p. 86).

Le polveri dell’aggressività, presenti nell’intrapsichico, nell’intersoggettivo e nel trans-soggettivo, in casi estremi simultaneamente presenti nelle tre sfere, prendono fuoco e ‘qualcuno’ diviene il tragico/a attore/attrice di eventi orribili. Destini personali macinati dalla durezza della storia che una furia narcisistica - perduto il confine tra normalità e follia - sacralizza in un atto di morte. La vita diventa soggetto e oggetto di morte. Non è più dunque la morte che distrugge la vita, ma la vita che  distrugge la vita facendosi strumento di morte. “La violenza che disintossica il colonizzato”, secondo la cruda definizione di Fanon.

Si uccide il nemico, ma con lui si uccide se stessi. Suicidio/omicidio come atto di accusa, ma anche – e qui la logica si impiglia in contraddizioni e si apre al paradosso - atto d’amore di cui l’esplosione svela la matrice perversa.

 

<<[…] la guerra non si nutre soltanto di ferocia e di alienazione, ma si nutre anche della capacità di soffrire a cagione di amore. Il pacifismo facile dimentica spesso  questa fondamentale verità, che, se non rivelata nel suo reale significato, rischia di lasciare in mano ai dominanti una forza incommensurabile per trascinare i dominati verso la follia distruttiva nell’illusione di compiere un atto d’amore>> (Fornari, p. 72).

 

Il gesto con cui si rivendica il diritto alla vita e con essa i diritti del proprio gruppo, in quanto atto di morte, rinfocola il sadismo e questi inflazione l’odio che, a sua volta, sgretola livelli di pensiero. Con la sua morte, il ‘martire’ non apre spazi di vita ai suoi fratelli ma, chiuso a tenaglia su se stesso, imprime al vortice impazzito un’ulteriore carica di aggressività e, nella misura in cui aumenta la sua capacità di colpire l’aggressore, accresce la possibilità per ambedue le parti di essere distrutte in una moltiplicazione di odio e di sadismo.

Di fronte a questo paradosso il nostro pensiero è chiamato ad una brutale sterzata, incamminarsi sulla via di una mutazione culturale che sappia guardare al di là della propria vita, e farsi carico, oltre che delle proprie emozioni, di quelle delle generazioni che verranno (Jonas,1979). Affinché ai vinti non accada - come è accaduto all’acciaio del World Trade Center, utilizzato per costruire le strutture portanti di una super tecnologica nave da guerra in costruzione nel porto di New Orleans - di farsi esecutori della loro morte. Che la violenza giustificata dell’oppresso non trascini nella morte dell’altro la propria vita e la propria cultura. Che la giusta causa che ha chiamato alla rivolta, non si faccia ingiusta e prevaricatrice e quindi strumento della vocazione pantoclastica delle istituzioni di guerra (Cortesi). Che la violenza e il sadismo che girano su se stessi come viti spanate non si moltiplichino a vicenda e alle guerre di oggi ne seguano altre peggiore. “Viviamo […] in un’era nella quale gestiamo la produzione della nostra stessa distruzione, ciò che non sappiamo e solo il momento in cui avverrà” (Anders, p. 13). 

Questo estremo chiama il pensiero a cogliere, dietro il gesto, la violenza, l’arroganza dei potenti - ottusi giocolieri delle sorti del pianeta – le acute lacerazione del tessuto umano e della sua crosta di civiltà. Deriva antropologica, assalto alla ‘storia’ dell’umanità, che può fare degli umani “degli analfabeti emotivi” (Anders) sordi al dolore, al lutto, alla pietà.

 

Poiché “non esiste innovazione se non ai confini con l’impossibile” (Kristeva, p. 5) noi che, in quanto psicoanalisti e operatori della salute mentale, conosciamo le vicissitudini della mente e le connessioni tra la mancanza di speranza, il terrore e l’onnipotenza distruttiva, con Hanna Segal dobbiamo:

 

<<guardare in faccia le nostre paure e mobilitare le nostre forze contro la distruzione. Dobbiamo essere ascoltati. […] Siamo a conoscenza dei meccanismi psichici del diniego, della proiezione, del pensiero magico e così via. Dovremmo in qualche misura contribuire a vincere l’apatia e l’auto inganno presenti in noi e negli altri. […]. ‘Il silenzio è il vero crimine contro l’umanità’. Noi, che in quanto psicoanalisti crediamo nel potere delle parole e nell’effetto terapeutico dell’esplicitazione della verità, non dobbiamo rimanere in silenzio>> (Segal, p,156).


 

Note dell'Autrice:

[1]     “Con l'introduzione del principio di realtà si è differenziata una specie di attività di pensiero che, serbatosi libera dall'esame di realtà, è rimasta soggetta soltanto al principio di piacere. Si tratta dell'attività del fantasticare che incomincia con il gioco dei bambini, e che successivamente, portata avanti nella forma dei sogni ad occhi aperti, rinuncia alla dipendenza dagli oggetti reali”. Due principi dell'accadere psichico, p. 456, 457.

[2]     Psicoanalista della Società Italiana di Psicoanalisi  e direttore della rivista trimestrale Psicoanalisi.

[3]              Questo autore usa la minuscola per tutte e tre le istanze: io, es, super-io.

[4]              Alle posizioni schizoparanoide e depressiva elaborate dalla Klein, Bleger antepone un’organizzazione primitiva della personalità che chiama posizione glischro–carica (glischro, vischioso agglutinata, karion, nucleo). Posizione non anoggettuale, pur se la relazione oggetto/io è indifferenziata. Più che relazioni oggettuali, in questa posizione si hanno oggetti mescolati con porzioni di io.

[5]              Bleger coglie la spinta proiettiva, la ricerca del vincolo da parte del nuovo nato. Altri, che nell’economia di questo saggio tralascio, come  Piera Aulagnier, Giuseppe Di Chiara, si soffermano di contro sull’investimento emotivo, sulle fantasie e le aspettative che i genitori riversano sul nascituro. L’Aulagnier scrive: “La particolarità dell’Io fa si che esso inizialmente sia stato l’idea, il nome, il pensiero parlati dal discorso di un altro” (p. 21). Di Chiara a sua volta osserva: “gli atteggiamenti inconsci e consci del mondo che aspetta il bambino che deve nascere e poi costituirà il suo ambiente di sviluppo sono della massima importanza nel determinare alcuni destini” (p. 9).

 

[6]     Devo alla dott.ssa Amati, profonda conoscitrice della elaborazione teorica di Bleger, la conoscenza del pensiero di questo autore in Italia ancora poco noto.

[7]     Cfr, Zolo, D., Globalizzazione. Una mappa di problemi, p. 115.

[8]              Nome del Boeing. Il comandante ha dato all’aereo il nome di sua madre (sic!).

[9]           Lo rivela lo studio più recente e completo finora, quello di Jeanne Mager Stellman della Columbia University di New York apparso su Nature, 17 aprile 2003 The extent and pattern of usage of Agent Otrange and other herbicide in Vietnam.

[10]     Droni, aerei senza piloti, (unmanned aerial vehicle). Questi apparecchi sono guidati da piloti che da migliaia di miglia di distanza, su schermi con una tastiera e joystich, ne seguono il volo, centrano l'obiettivo e aprono il fuoco.

[11]           La guerra asimmetrica prevede: schiacciante superiorità militare di uno dei contendenti e perdite occidentali zero. L’altro, infinitamente più debole, combatte in modo non ‘ortodosso’; dizione che comprende forme di guerriglia e  resistenza popolare, giungendo al fine estremo del ‘terrorismo’. Questa asimmetria dall’area militare si è estesa a considerazioni di ordine antropologico, secondo le quali alla figura del ‘nemico’ - barbaro, criminale, terrorista - non viene riconoscimento lo status di combattente. Accade così che per l’amministrazione statunitense di Guantanamo i ‘combattenti nemici’ sono privati dei diritti dei prigionieri di guerra.

 

[12]     Con Universo degli obblighi si intende “la cerchia di persone legate fra loro da obblighi di reciproca protezione, i cui vincoli derivano dal comune rapporto con una divinità o una fonte consacrata di autorità” (Bauman, 1992. p. 48).

 

 [13]             L’11 novembre del 2001 un decreto presidenziale USA apre nel diritto uno spazio per la figura totalmente priva di diritti dell’enemy combatant, prigioniero in tuta arancione a cui tutto è negato: il processo, la pena , ogni orma di dignità e il nome. Nel fondo del “Corriere della Sera” del 13 agosto 2006 a firma di Angelo Panebianco leggiamo che, in situazioni di allarme sociale, la tortura non può essere condannata, che la “legalità, i diritti umani” e “lo stato di diritto” sono optional validi solo “in condizioni di normalità”, non quando il “nemico, il nemico vero, assoluto, quello che ti ucciderà se non riuscirai a neutralizzarlo” appare all’orizzonte. Alle anime candide dei pacifisti - “appartenenti al ‘nemico interno’ […] alleato di fatto del terrorismo jahadista” – l’autore ricorda che “i principi vanno sempre adattati alla situazioni e che servono solo se si resta vivi”. Affermazioni di egolatria cieca. Come Polifemo, l'occidente arranca contro il nemico senza chiedersi il perché, senza sentirsi responsabile della sua presenza.

 

[14]         Al riguardo rimando a Sabatini Scalmati, A. Riflessioni psicoanalitiche sulla guerra e sulla violenza di guerra.

[15]     Nel saggio Sulla violenza Hanna Arendt così distingue tra potere e violenza. Il potere si fonda su norme stabilite, condivise e comunicate. La violenza è conseguente alla crisi del potere, essa “appare come ultima risorsa per mantenere intatta la struttura del potere” (p. 50). “Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente. La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa finisce per fare scomparire il potere” (p. 61).

[16]     Scrive Fornari “l’ostilità provata verso il colonizzatore coinvolge ispo facto anche l’ostilità verso il padre come oggetto fantastico interno e quest’ultima a sua volta mobilita il senso di colpa per il proprio sadismo” (p. 117).

[17]     Con oscillazione ps-d si intende la fluttuazione tra la posizione depressiva e la posizione schizo-paranoide. La posizione schizo-paranoide (ps) è uno stato della mente in cui gli oggetti sono sentiti come pericolosi e minacciosi, in grado di mettere in serio pericolo la sopravvivenza dell’Io. A tale pericolo l’Io reagisce scindendo se stesso e le sue rappresentazioni degli oggetti esterni. Nella posizione depressiva (D), propria della complessità e della ricchezza della mente, l’Io è in profondo rapporto con i suoi sentimenti ambivalenti di amore e di odio nei confronti degli oggetti. Questa consapevolezza suscita sentimenti depressivi, sensi di colpa e intensi desideri riparativi. Questa oscillazione tra le due posizioni, la prima tutta tesa alla sopravvivenza del sé, la seconda alla sopravvivenza dell’oggetto, nelle situazioni di cui parliamo è fortemente sbilanciata sul versante schizo-paranoide.

[18]     Concretismo, opposto dell’astrazione; con tale termine si intende un concetto pensato in modo concreto, immaginato in intima aderenza e fusione con altri concetti. Non è quindi un concetto astratto, separato e pensato di per sé, ma è collegato e confuso con altri. Non è un concetto differenziato, ma materiale d’intuizione fornito dai sensi.

[19]     Ci serve da esempio sia la nascita nel 1987 a Gaza di Hamas, dopo 20 anni di occupazione israeliana, sull’onda della prima Intifada. Hezbollah è parimente una organizzazione che si è formata nella lotta contro l’occupazione, seguita all’invasione del paesi dei Cedri nel 1982.

[20]     Gruppo lontano sia dalla concettualizzazione freudiana dei meccanismi sociali delle folle del 1921, sia da quella dei gruppi per ‘assunti di base’ formulata da Bion nel 1961. Psicologia delle masse ed analisi dell’Io di Freud e Esperienza nei gruppi di Bion sono saggi importanti nello studio dell’analisi del potere.  Il potere non viene studiato partendo dalle norme repressive e autoritarie, ma dal consenso che il legame di massa genera nel confronto del potere, dalla adesione acritica dei gruppi alla figura del leader.

[21]           “Nessuna religione, nessun fanatismo, nessun fondamentalismo può garantire [la morte volontaria]. Solo se la vita non vale nulla, solo se non vi è differenza fra l’esplodere con un aereo, o con tritolo […] e il continuare a vivere in condizioni disumane –solo in questi casi vi può essere un’offerta così ampia di aspiranti suicidi” (Curi, p. 410).

 

 

 

 

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