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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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Culture Psichiatriche & Cultura Nazionale.

Per una storia sociale della cultura psichiatrica italiana (1909 - 1929)

 

 di   ANDREA SCARTABELLATI

 

Andrea Scartabellati è Dottore in Storia Contemporanea (laureatosi all'Università di Trieste), ha conseguito un Dottorato di ricerca in Storia sociale dall'età medievale all'età contemporanea presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, ed ha insegnato psicologia e metodologia della ricerca psicosociologica in un liceo di Lodi. Ha pubblicato due monografie sul tema della storia della follia, mentre suoi saggi sono stati pubblicati sulla Rivista Sperimentale di Freniatria e sull'Archivio Trentino. Ha inoltre pubblicato "Intellettuali nel conflitto. Alienisti e patologie attraverso la Grande Guerra (1909-1921)" per la casa editrice Goliardica (Bagnaria Arsa, Urbino) nel 2003.

                                    

Meno di vent’anni intercorrono tra la morte di Cesare Lombroso, avvenuta nell’ottobre del 1909, e la stipula dei Patti Lateranensi nel febbraio 1929. Due date significative per l’officina intellettuale psichiatrica [1] e la storia della cultura italiana, qui accettate pragmaticamente quali limiti di un circoscritto lasso temporale denso di una batteria di histoire-problèmes che ancor oggi, all’indagine dello storico della cultura [2] e della medicina, si pongono quali interrogazioni essenzialmente poco esplorate [3].

Se il primo decennio del XX secolo aveva visto il maturare delle diverse e sovente antitetiche strategie culturali vive nel contesto nazionale, sarà solo nelle due successive decadi che le stesse strategie si confronteranno concretamente [4] nei luoghi accademici e negli spazi istituzionali, non estranee, bensì partecipi, della più generale crisi di consenso vissuta sul piano socio-politico ed economico dall’architettura statuale liberale emersa dal Risorgimento.

Sono questi anni, coincidenti con la sopravvalutata crisi del positivismo [5] – il cui tramonto fu assai meno inarrestabile di quel comunemente creduto – a sanzionare quella che Eugenio Garin ha indicato come definitiva frattura, a tutt’oggi non ricomposta, tra ambienti scientifici e scuole filosofiche [6]. Anni, dal punto di vista della psichiatria e della psicologia, ancora in attesa di un’ampia investigazione abile nel lasciarsi alle spalle sia i contraccolpi delle battaglie ideologiche innescate dall’appartenenza culturale dei vari autori, sia, come anticipato, quell’affrettata liquidazione del positivismo italiano [7] - recentemente rinfocolata da libri e articoli [8] - la quale deve poi considerarsi vera e propria banalizzazione dell’enciclopedica opera lombrosiana. Un’opera dallo spessore e dalla fortuna indiscutibilmente internazionale, ridotta spesso ad esclusivo morfologismo fisico da un’equivoca tendenza storiografica vòlta a rimuoverne le influenze e le eredità ancora vigorose in larghi settori delle scienze mediche nazionali fino ai primi anni ’50 del XX secolo.

Come notava Carl Gustav Jung nel 1919 meditando sul più ampio panorama medico internazionale [9], non è adeguato né, nello stesso tempo, soddisfacente richiamarsi al superamento filosofico del positivismo per dedurne un sincronico ripiegamento tra gli adepti delle discipline delle patologie mentali. 

   Foto:  C. G. Jung

Appare chiaro da queste premesse che, pur non esaurendo il panorama positivista nostrano, il nome di Cesare Lombroso viene qui innalzato a campione di un più generale stato d’animo scientifico ed esempio paradigmatico di una consapevole opzione operativa medica. Opzione frutto di una maturata e precisa concezione dei rapporti correnti tra società, scienza e ruolo progressista degli intellettuali ascrivibile tout court ai pensatori positivisti [10].

  Foto: Enrico Ferri

La scelta non è, del resto, né storicamente né storiograficamente arbitraria. E’ sufficiente valutare i coevi giudizi certo interessati ma, non a priori errati, sia di un ortodosso della scuola antropologica quale Enrico Ferri, sia di un suo radicale avversario quale Agostino Gemelli, convergenti da sponde conflittuali nell’individuare in Cesare Lombroso l’artefice dell’allora coscienza contemporanea [11] ed il rappresentante della mentalità di tutta un’epoca [12]. Pure Antonio Gibelli, scrivendo nel 1985 a proposito della condizione dei paradigmi lombrosiani-positivisti durante gli anni della Grande guerra, ne notava la persistente, più che sorprendente, vitalità, malgrado le sconvolgenti ed inaspettate realtà patologiche scaturite dal conflitto ne avessero esaltato antiche lacune [13].

  Foto: A. Gemelli

E tuttavia, con tutto ciò, non si vuol affatto cadere nell’errore opposto di chi ha affrettatamente liquidato il positivismo italiano, immaginandone una coerenza interna, una compattezza ed un favore accademico che, di fatto, dimostra di non possedere con l’inizio del ‘900. I giudizi d’ineluttabilità ed incomprensibilità riservati alla malattia mentale insiti negli approcci positivisti [14] ad una popolazione manicomiale in preoccupante aumento [15], e la fallimentare esperienza della terapeutica psichiatrica, avevano già allora denunciato i limiti propri di una prassi scientifica più propensa a dominare i problemi che non a risolverli. Del resto, da queste note carenze si generava l’esigenza urgente di psicologi e psichiatri – si pensi alla scuola gemelliana - di una severa revisione dei paradigmi allora dominanti nelle due discipline [16].

La crisi del modello medico-biologico della psichiatria antropologica celava la lacuna vitale del positivismo nazionale: la sua incapacità di ammettere un senso concreto dell’essere e dell’agire umano che non si rovesciasse in posizioni di radicale fenomenismo o, tanto peggio, di singolare idealismo [17].

Pur ammantate del velo razionalista, le teorizzazioni positiviste pagavano senza sconti un intrinseco caro prezzo al loro desiderio di presentarsi quali ipotesi sperimentali chiare e conchiuse [18], dirette ad investigare dal vitro morfo-antropologico la totalità dell’esistenza degli individui impazziti. E proprio questa estrema semplificazione del reale doveva facilmente prestare il fianco alle severe censure degli avversari, cui, per altro, si rispondeva in due forme. Sia assumendo orgogliosi atteggiamenti di difesa tanto più rigidi e coerenti quanto maggiore era la sordità verso tali osservazioni critiche. Sia volgendosi a cercare una via di fuga alle disapprovazioni rinnovando uno sterile tecnicismo medico presuntuosamente impenetrabile al senno di filosofi e non addetti ai lavori.

Nemmeno l’allora nascente psicologia, nonostante alcune volenterose prese di posizione, fiaccava la dinamica che conduceva la psichiatria italiana ad appiattirsi nella trincea di un obsoleto riduzionismo organicistico e fisiologico [19]. Era la storia stessa della materia a presentarsi, nel caso, come una pesante palla al piede. La nascita della psicologia in Italia era infatti merito dell’impegno e dello sforzo di numerosi e celebri psichiatri [20], sì imbrigliati nelle secche dell’evoluzionismo antropologico e dubbiosi di fronte ai responsi di una realtà patologica proteiforme e sfuggente, ma non al punto di rinunciare sic et simpliciter al vincolo della subordinazione dell’elemento psichico (secondario) all’elemento organico (dominante) [21].

In linea con la formazione accademica e la professionalità prevalentemente manicomiale degli alienisti, e nella prospettiva ultima di un’assimilazione della psicologia alla psichiatria - intesa la prima come tecnica diagnostica complementare della seconda [22] - l’ambizione conoscitiva dei primi psicologi non si spingeva oltre la raccolta, la descrizione e la catalogazione di fatti [23] positivisticamente intesi. 

Innervandosi alla psichiatria, ai suoi artifici teorici e alle sue istituzioni, la psicologia ritraeva un duplice vantaggio. Da un lato, ricavava uno spazio di manovra riconosciuto, per quanto circoscritto. Dall’altro, assicurava al suo capitale conoscitivo lo scudo da opporre agli attentati idealistici [24], come osservava con realismo Sante De Sanctis. Certo, l’apparentamento originario della psicologia alla psichiatria non era indolore. Con l’abdicazione della prima all’autonomia, essa rinunciava a svolgere quel ruolo di sferzante critica verso le matrici scientifiche della seconda che, al contrario, sorreggeva negli Stati Uniti ed in Germania [25] la ramificazione del nuovo insegnamento. Ma la giovane psicologia italiana non era certo pronta per dare battaglia su più fronti, nonostante gli anni precedenti la guerra ne sanzionassero il fugace consolidamento organizzativo in ambito militare [26].

In un quadro più ampio, già segnato a fuoco vivo dal processo di revisione delle filosofie razionaliste di fine ‘800, proprio il conflitto bellico si abbatteva sul sistema positivista medico generando una duplice conseguenza. Il tramonto dell’ingenua fiducia degli epigoni lombrosiani nella scienza quale mezzo per la soluzione ultima dei problemi umani; e l’azzeramento di quell’apertura universalistica insita nell’idea di una attività conoscitiva unica ed unitaria, ponte di civiltà tra i popoli e le nazioni [27], che aveva corrisposto concretamente alla possibilità per i giovani laureati italiani di lunghi soggiorni nei più avanzati laboratori esteri.

Il declino del primordiale ottimismo positivista era da mettere, inoltre, in relazione non solo al divenire interno - tra disorientamento e crisi – dell’impresa scientifica nazionale e delle sue promesse, ma anche con un generale mutamento di clima che si registrava nell’opinione pubblica e nei governi di Roma. Mutamento capace di investire e scardinare con forza le tradizionali relazioni allacciate dai gruppi dirigenti post-risorgimentali con scienziati, igienisti, medici della tubercolosi ed interpreti delle temibili patologie mentali.

 L’accelerazione in senso nazionalista impressa al dinamismo politico dai governi italiani (1910-12) alle prese col fallimento del riformismo giolittiano, col problema dell’emersione delle masse politicizzate e con i deficit delle strategie liberali, si rivelava la premessa necessaria per la messa in mora dell’adesione di alienisti e psicologi verso quell’ambiguo riformismo socialista che aveva assunto a ideologia il positivismo [28]. Ma se colpire il riformismo socialista equivaleva, sul piano culturale, a mettere in discussione la tradizione positivista, non meno vero si rivelava il contrario. Anzi, le due battaglie, culturale e politica, coesistevano sovrapponendosi. Soprattutto la frangia nazionalista, con l’iterazione compulsiva di aggressive parole d’ordine rivolte ad una nuova borghesia [29] capace di ritagliare per sé un nuovo ruolo nello Stato, e di scrivere un differente copione per la nazione sul palcoscenico internazionale, si manifestava l’abile grimaldello per fiaccare quell’ispirazione progressista della medicina sociale che aveva guidato l’impegno di numerosi scienziati al cospetto delle gravi lacune emerse dopo l’unità.

Il caratteristico rifiuto della società di massa, intesa quale espressione di degenerazione del presente e sciagura per il futuro, del nazionalismo italiano [30], si nutriva nel contesto psichiatrico di turbamenti comuni, e della possibilità d’incontri proficui con un linguaggio scientifico fortemente marcato all’origine da uno strutturale sociologismo antropologico prodigo di avvertimenti circa il rischio imminente del collassamento fisio-morale della razza italiana.

Nella sostanziale passività della dirigenza del partito socialista, stretta tra incongruenze teoriche e condanne preventive, il migrare di alienisti e psicologi verso i lidi ideologici nazionalisti apriva allora una nuova fase nella storia della psichiatria. Dopo decenni, le masse popolari apparivano alle scienze della mente prive di quell’estro ingenuamente positivo che ne aveva favorito l’incontro con l’illuminata e patriottica scienza, e aveva dato lustro alla filantropica azione di medici, igienisti e psicologi. Non più italiani da fare, le masse si capovolgevano nell’oscuro e confuso groviglio umano da sorvegliare e, all’occorrenza, punire.

Macchiato da dilanianti aporie e fraintendimenti sedimentatesi negli anni, il precedente umanitarismo socio-psichiatrico [31] cedeva il passo ad un esclusivistico sentimento, puntellato da una consapevole scelta classista tesa a porre un argine, per mezzo del credo nazionalista, al disorientamento provocato dalla crisi di quella dirigenza e di quella prassi politica che aveva patrocinato ai tempi di Andrea Verga, e favorito nell’età di Lombroso, Tamburini, Morselli e Venturi, la ramificazione asilare della scienza alienistica.

   Foto: Andrea Verga

Certo, occorre premettere che, quali intellettuali al servizio della nazione e parte attiva della cittadinanza, a psichiatri e psicologi non sono ascrivibili peculiari responsabilità nel definitivo affossamento della realtà statuale liberale. Nel tortuoso tracciato che, dalla fine della guerra condurrà al colpo di stato fascista, essi danno l’impressione più di attendere che di compartecipare agli eventi, al limite legittimando della loro autorità da laboratorio il sospetto dello sfacelo morale e biologico della nazione. Il Giulio Cesare Ferrari che pontifica di una «rivoluzione degli spiriti fascisti»; l’adulatorio Giacomo Pighini che scrive: «Tale Mussolini. Egli è il prototipo di quella costituzione ipertonica tiroideo-ipofisario-surreno-genitale che si riproduce in parecchie centinaia di esemplari nella nuova generazione dell’Italia fascista»; il Lorenzo Gualino che esalta «la terapia del manganello», sono più delle eccezioni che non la regola [32]. E tuttavia, al di là di posizioni ideologiche individuali spesso volubili e dalla complicata definizione, resta cifra di una biografia di gruppo degli scienziati della mente [33], quella loro disponibilità a porsi al servizio del potere, quel loro proverbiale saper di volta in volta destreggiarsi nelle situazioni contingenti senza urtare gli interessi dominanti che, alla metà degli anni ’20, autorizzerà Arturo Donaggio, futuro presidente della Società Italiana di Psichiatria e firmatario del Manifesto degli Scienziati Razzisti, ad irrobustire col sapere psichiatrico le diverse filosofie fasciste del lavoro, non ultima quella del «risveglio dell’artigianato» [34].

 La salvaguardia delle convenienze corporative e la ricerca di opportunistiche garanzie a favore del ruolo degli alienisti nei meccanismi sociali sterilizzava, insomma, l’eventuale capacità della stessa scienza di farsi carico di istanze critiche verso il potere costituito. Non era casuale che nemmeno lo spartiacque determinato dalla dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria svelasse aree di pubblico dissenso. In uno dei pochi casi documentati, quello dello psichiatra e neuropatologo romano Giuseppe Mingazzini, le perplessità concernevano poi la scelta dello schieramento – ostile agli Imperi Centrali – non l’opportunità o l’inevitabilità del conflitto [35].

Era questo lo scenario nel quale convivevano, non senza zone d’ombra, incertezze ed emblematiche prove di equilibrismo dialettico, i fedeli continuatori dell’opera lombrosiana, i positivisti critici volti ad un ripensamento degli artifici teorici dall’interno, ed i nemici dichiarati del positivismo e delle teorie del criminologo veneto, le quali, conviene non dimenticare, rimanevano per tutti, psichiatri in carriera, periti giudiziari, psicologi da laboratorio, medici di manicomio e studenti universitari, un pregiudiziale capitolo ed un insopprimibile momento di confronto nel cursus formativo.

Non è agevole ricostruire, anche solo schematicamente, i concetti essenziali del pensiero lombrosiano e positivista. Un pensiero, al di là delle aspirazioni dei suoi propugnatori, enciclopedico ma a-sistematico, disperso in una sterminata produzione e tassonomia adusa, oggi come allora, a lasciare campo libero a non lievi fraintendimenti.

La brama positivista per un’indagine semplice, essenziale e chiara, ma nello stesso tempo capace di decifrare e penetrare le maglie complesse della realtà, rivelava in tale confronto la sua natura contraddittoria e manchevole. In ragione di ciò, ancora dieci anni dopo la morte del Lombroso, dalle cattedre di psichiatria si era costretti a richiamare l’attenzione su due convinzioni errate e pur tuttavia diffuse come luoghi comuni tra i critici del positivismo. Competeva ad Enrico Morselli, in uno sforzo esegetico, ricordare come l’antropologo veneto non avesse mai dichiarato né la monogenesi del delitto [36] né il parallelismo o la subordinazione dell’anomalia psichica ad una predominante somatica [37]

  Foto: Enrico Morselli

In realtà, però, risultava vano negare, insieme al fenomenismo che indagava segni e non cause [38] e all’ateismo che irrideva sdegnato le dottrine creazioniste, come il monismo evoluzionistico [39] mediato dall’haeckeliana gerarchia della materia quale primum del tutto [40] non rappresentasse uno dei cardini della costruzione teorica lombrosiana e positivista. In particolare, l’intelaiatura evoluzionista si prestava nel processo diagnostico ad una duplice funzione. Da un lato, confermando la supremazia nella meditazione patogenetica del retaggio ereditario rispetto ai fattori ambientali [41]. Dall’altro, autorizzando quel tracimare logico che permetteva agli psichiatri di scostare lo sguardo dagli accertamenti individuali alla condizione del corpo collettivo, forzando l’interpretazione del principio della ricapitolazione della filogenesi nell’ontogenesi alla luce di un improprio nesso individuo/popolo/razza.

Sguardo (medico) e oggetto osservato (paziente): larga parte della storia del positivismo antropologico italiano, almeno fino ai primi anni ‘20, può essere analizzata come storia di uno sguardo accecato, tanto fuorviante quanto indispensabile nel condurre alla radicale frattura - tipicamente lombrosiana [42] - fra soggetto senziente e quella materia viva costituita da migliaia di esseri umani spesso abbandonati e sempre sofferenti.

Lo iato umano, culturale ed economico che separava medico e paziente si dischiudeva come precondizione necessaria allo sviluppo di un’azione repressiva e discriminatoria che, se non esclusiva, contrassegnava profondamente l’agire alienistico, giornalmente alle prese con preoccupazioni di carattere disciplinare [43] mentre, dialetticamente, credeva di muoversi lungo i sentieri delle riforme sociali.

L’aver supposto la presenza di impronte organiche non eliminabili ma trasmissibili tra le generazioni malate, la convinzione circa l’esistenza di leggi deterministiche ineluttabilmente poste a dominio delle singole volontà umane [44], e lo scrupolo reiterato nell’accettare l’esistenza di un libero arbitrio [45] che avrebbe potuto dotare il paziente di una soggettività non completamente esposta al giudizio medico, erano chiavi logiche tali da permettere agli alienisti di porre in secondo piano ogni discorso relativo alla terapeutica psichiatrica, in quegli anni, del resto, intrappolata in una grave impotenza. Se, nel breve periodo e nella cornice del determinismo dei fenomeni naturali, vana si presentava la possibilità del recupero terapeutico delle deviazioni evolutive [46], il riflesso pratico di una concezione epistemologica accolta quale conoscenza dimostrata [47] spalancava la via alla quantificazione – grammo per grammo, cm³ per cm³ - di quelle anomalie originarie sfuggenti ad ogni trattamento riabilitante. D’altro canto, il mondo misurato e classificato dell’antropologismo psichiatrico nei laboratori manicomiali non pretendeva solo d’imitare quel che la fisiologia aveva realizzato nella clinica medica [48]. Confessava almeno due esigenze fondamentali dell’aspettazione alienistica. Sul piano analitico, il desiderio di inscrivere in una dimensione falsamente rassicurante il sovrappiù di incomprensibilità che si generava dalle manifestazioni anormali, e che giornalmente si poneva come quesito alla riflessione psichiatrica. Sul piano metodologico, esprimeva invece l’escamotage con cui corredare, dall’esterno, il cosmo della follia di una sua sistematica coerenza ed intelligibilità.

Di questo sviluppo imboccato dalla scienza alienistica italiana Cesare Lombroso fu tra i principali promotori, fin da quando, giovane medico militare del Regio Esercito impegnato nella repressione del brigantaggio calabro (1863) [49], maturava il nucleo originario del proprio pensiero in diretta relazione con la scoperta di un prototipo umano della devianza.

Nell’ottimistico clima ideale seguito al Risorgimento, l’incomprensione verso la diversità fisica, culturale e politica di chi mostrava sospetto verso le istituzioni e la mentalità del Nord civilizzato, si concretizzava nelle vesti del brigante [50], un antitipo semi-umano eletto, dall’indagine positivista, a contenitore privilegiato della connessione criminalità-follia. Il legame costituzionale che univa agli occhi del Lombroso e dei suoi seguaci anomalia mentale e attitudine criminale [51] era già in nuce nelle iniziali prove dell’elaborazione lombrosiana, e con esso l’equivoco reazionario di un pensiero che s’era proposto quale sommo obiettivo proprio il tracciamento di quel limes che distingueva i delinquenti nati e d’occasione dai pazzi pericolosi [52].

Questa strutturale ambiguità del lombrosismo non era destinata solo ad essere metabolizzata dagli psichiatri della generazione post-unitaria, o a sopravvivere nelle forme di un’opinione indiscussa tra le classi borghesi scosse dalla crisi di fine secolo. Portava a compromettere, infatti, un’altra delle storiche battaglie progressiste capitanate dal filone positivista italiano, quella per la deresponsabilizzazione penale del criminale nato. Il tentativo di decifrare la devianza quale effetto naturalistico ereditario sur-determinato per l’individuo [53], nonostante le proposte per una eziologia complessa e mai ridotta al solo carico bioantropologico [54], se, da un lato, spingeva ad annullare (con i dovuti distinguo [55]) la volontà delinquenziale e l’imputabilità del soggetto, dall’altro, dilatando indebitamente i confini della malattia mentale ed i perimetri delle mura asilari [56], sospendeva l’essenza umana del reo, non più imputabile penalmente, ma ridotto a null’altro che ad un arresto di sviluppo evolutivo [57]. Un Untermenschen sottratto al carcere per essere segregato manicomialmente, poiché non c’era posto nella società per individui di tal risma psicobiologica per una scienza che non si faceva troppi scrupoli nell’estendere il campo dell’analisi dal registro individuale all’essere sociale tout court, il luogo ultimo dell’investigazione psichiatrica di tutti i particolari modi della vita collettiva [58].

Prevenzione, individuazione ed espulsione degli inutili sociali e dei tarati incorreggibili: lungo questo triplice versante, che corrompeva inevitabilmente i concetti di malattia mentale e di processo terapeutico, e ratificava il definitivo declino dell’illuminato fervore sanitario di metà Ottocento, si disegnavano i motivi ispiratori della via maestra tracciata dal Lombroso alla medicina sociale nazionale [59] e alla psichiatria antropologica in particolare.

Una via maestra non sorda ai contributi esterni. Infatti, la formulazione in ambito germanico di approcci innovativi alla malattia mentale e alla sua cura, ed il trascorrere di un tempo che non corrispondeva all’apoteosi sociologica della scienza alienistica profetizzata da Augusto Tamburini ancora tra 1906 e 1908 [60], suggeriva anche al Lombroso l’abbandono di quel semplicismo monocausale e di quella linearità logica che avevano soprasseduto alla redazione dei suoi primi lavori [61]. E un po’ tutta la corporazione psichiatrica era spinta a maturare posizioni scientifiche più articolate, senza per questo venir meno all’influenza delle moderne teorie evoluzioniste, delle quali se ne prospettavano letture meno meccaniche [62].

 Il poco elastico antropo-somatismo psichiatrico tendeva allora ad arricchirsi con acquisizioni che, sull’onda lunga dell’heckelismo [63], concepivano le opere di Lamarck, Darwin e di Spencer come stadi progressivi di una sistematica costruzione teoretica [64]. Se di Herbert Spencer si riprendeva l’emozione propria ad una interpretazione della realtà votata al pessimismo, di una Weltanschauung dove operavano forti analogie fra organismi fisici e sociali, non ultimo il fato della sopravvivenza del più adatto e della eliminazione naturale del più debole, di Charles Darwin si raccoglieva la batteria di immagini e metafore naturalistiche, pur ricusandone un’idea guida. L’dea di una selezione e di una spinta al perfezionamento degli organismi viventi secondo moventi in ultima analisi casuali, s’infrangeva contro il credito che, presso la comunità scientifica, ancora godevano il mai discusso organicismo e la dottrina delle eredità patologiche, concepita in forma pre-mendelliana. La stessa darwiniana lotta per l’esistenza si disperdeva nelle tradizionali certezze meccanicistiche della psichiatria, graduandosi, con tono trasformista-lamarckiano, sui parametri della maggiore o minore preparazione biopsichica degli individui abili alla vita a confrontarsi con il ritmo serrato della civiltà [65].

In forme eterodosse, attraverso la rilettura aggiornata di Lamarck, di Haeckel – fautore dell’idea dello sviluppo individuale come esito finale dell’integrazione di fattori ereditari ed ambientali - o, spostando ancor più indietro le lancette della storia, ricorrendo ai testi di Pierre Cabanis, la psichiatria introduceva una nuova chiave diagnostica. Quella del potenziale energetico di adattamento dell’individuo alle forme sociali, dalla cui carenza nei casi gravi o latitanza in quelli meno disperati discendeva, nosologicamente, la possibilità di una anomalia non predeterminata bensì acquisibile ma, non per questo, a sua volta non trasmissibile alle generazioni future [66]

In questa luce, sviscerando le polivalenti reazioni individuali alle cadenze della vita sociale, e pur tra gli ennesimi nuovi dubbi interpretativi sollevati dalle proteiforme patologie di guerra [67], nella loro maggioranza non riconducibili alla pre-esistenza di tare originarie, erano rilette e rivalutate [68] le teorie di Bénédict-Auguste Morel sulle degenerazioni, intese quali condizioni di negatività esito di processi necessari instauratisi tra strutture e funzioni organiche e milieu ambientale.

Un nucleo comune, nondimeno, nutriva le disparate teorizzazioni e revisioni psichiatriche che confluivano nel cabotaggio culturale di un sapere alla perenne ricerca di certezze. Un’intrinseca inquietudine a più facce, proiezione emozionale del contraccolpo dovuto al crollo della fiducia positivista in un futuro inarrestabile di progresso celebrato dal sacerdote laico chiamato scienziato. Inquietudine che mascherava a stento una triplice apprensione alienistica: il dubbio circa il proprio incarico in una società percorsa da dinamiche disgreganti; la trepidazione per l’implosione del sistema manicomiale il quale, a propria volta, scontava l’incapacità riabilitativa e la progressiva marginalità cui era relegato, in termini di ricerca e prestigio, dalla nascita delle cliniche universitarie; infine, e non da ultimo, il timore per l’ascesa di nuove correnti intellettuali capaci di estromettere dal proscenio culturale la comunità positivista e di allontanarla dalla stanza dei bottoni.

Metaforicamente, il capitale culturale positivista sembrava destinato a smarrire irrimediabilmente la propria produttività sociale e politica. Nell’Italia nuova decantata dai nazionalisti, sarebbe stato ancora possibile vedere uno psichiatra e neurologo di fama come Leonardo Bianchi al vertice del ministero dell’Istruzione (Ministero Fortis, 1905)? Oppure una stagione culturale stava chiudendosi per sempre?

  Foto: Leonardo Bianchi

Conclusa l’epoca nella quale l’intellettuale positivista aveva pensato e presentato se stesso (con discreto successo, per altro) come demiurgo nazionale, il secondo decennio del XX secolo vedeva l’insieme psichiatrico costretto a ripiegare, a rinculare in spazi istituzionali esclusivi ma limitati, sotto i colpi di un neoidealismo che letteralmente irrideva i risultati di anni di ricerca e strenuo impegno professionale [69]. A nulla serviva riaffermare positivisticamente come valesse più un grammo di fatti che un quintale di teorie campate in aria [70]. Sostenere, con perfetto aplomb psichiatrico, come la condizione materialistico-evolutiva dell’organo cervello rappresentasse la più grande confutazione che la storia naturale avesse predisposto a scapito dei sistemi metafisici [71]. Denunciare l’irrazionalismo culturale quale complice della distruzione bellica [72]. Infine, scorgere nell’idealismo e nel neomisticismo stati collettivi patologici, i cui sintomi originavano da un disagio intellettuale e da un malessere dello spirito figli dell’incertezza dominante in un’epoca di transizione [73].

A livello di egemonia culturale, a livello d’immagine e di visibilità, la partita era irrimediabilmente perduta, nonostante ancora nel 1927 il grande vecchio del positivismo italiano, Enrico Morselli, si affannasse a gridare ai quattro venti «presunte [le] vittorie di un idealismo molle e vacuo, anche se attuale (Gentile) (...)» [74].

Sintomatico che la vasta ed encomiabile impresa dell’Enciclopedia Italiana potesse affidare le voci Psichiatria e Lombroso a studiosi di vaglia come Ernesto Lugaro – in polemica con Lombroso nel 1907 – e Ugo Spirito, noti non certo per simpatie eccessive verso il positivismo e la psichiatria antropologica, riservando – sempre alla voce Psichiatria - un breve cenno all’imponente corpus morselliano ma solo per denunciarne la «critica acerba» all’anatomia istologica [75]. 

  Foto: Ernesto Lugaro

Eppure, ciò premesso, se si sposta l’attenzione dai centri ufficiali della cultura verso realtà localizzate, anche se periferiche, se si tralascia la dimensione del successo presso il grande pubblico per focalizzare l’analisi sulle singole discipline scientifiche, sui singoli istituti manicomiali e universitari, è difficile dar torto al Morselli critico del Gentile. E non constatare la vitalità di un flusso magmatico lombrosiano e positivista nemmeno troppo sotterraneo, capace di suscitare ancora solida adesione accademica e raccogliere ampio sostegno presso gli allievi alienisti. Per questi medici ed intellettuali engagement alle prese quotidianamente con i vissuti di uomini e donne sofferenti, con famiglie, infermieri, sindaci e fin anche agenti della pubblica sicurezza disorientati e da loro in attesa di un giudizio direttivo, risuonava indubbiamente valida la sentenza del Ferri per cui nulla, alle cognizioni e alla prassi della scienza, avevano aggiunto sia il ritorno in forze dell’idealismo sia, tanto peggio, il revival del misticismo [76].

Misurare la forza della resistenza psichiatrica verso le nuove correnti culturali equivale, così, nello spazio di tempo circoscritto al ventennio 1909-1929, a fare ancora la storia della fortuna lombrosiana e antropologica nel campo psichiatrico.

Per quanto titubante e scossa, la psichiatria italiana non sembrava intenzionata né ad abbandonare il nucleo duro positivista né a subire passivamente esagerate mortificazioni dell’opera e dell’uomo-simbolo a cui si sentiva, consapevolmente o inconsapevolmente, legata. Del resto, tra il 1915 ed il 1916, un acceso fuoco di sbarramento dei maggiori nomi del positivismo italiano, quali Giuseppe Antonini, Enrico Morselli, Giuseppe Sergi e Sante De Sanctis, accoglieva le interpretazioni che a seguito della celebre inchiesta di Goring svolta nelle carceri inglesi, ne leggeva la rilevanza in ambito nazionale nella definitiva liquidazione delle tesi del Lombroso e della sua scuola criminologica [77].

Ovviamente, non si verificavano semplicistiche quanto lineari riproposizioni teoriche. Ogni autore tendeva a setacciare gli insegnamenti positivistici e lombrosiani al filtro della propria formazione, esperienza e sensibilità, e sulla base delle oggettive difficoltà che responsabili universitari e amministratori provinciali frapponevano al regolare corso della loro opera [78] di ricerca e manicomiale.

Questo processo, non mancava poi negli autori più informati, di rivelare un vero e proprio tentativo di aggiornamento paradigmatico. E non di meno, esso procedeva lungo itinerari tutti interni al canone scientifico, alla tradizione e alla sensibilità dalla quale era germogliata l’avventura della psichiatria positivista antropologica.

Nel corso del 1914, la pubblicazione di un libro dovuto alla penna di un allievo di Enrico Morselli, Umberto Masini [79], segnava, a giudizio del redattore dei “Quaderni di Psichiatria”, Giuseppe Vidoni, un duplice risultato. Il ritorno indiscusso alle teorie del Lombroso [80], «alle dottrine costruite dal suo genio»; e l’ennesima scientifica conferma, auspice la biochimica, di un caposaldo lombrosiano: la parentela di epilessia, degenerazione e criminalità [81].

Sulla stessa lunghezza d’onda del Vidoni si situava Cesare Agostini, durante il conflitto mondiale consulente psichiatrico per la zona di guerra carnica, secondo il quale inutile era dubitare ancora dell’efficacia del modello criminologico elaborato dalla scuola italiana [82].

Dal canto suo, Giuseppe Antonini, direttore del rinomato manicomio milanese di Mombello, chiosava che, se correttamente si poteva parlare di parentela fra epilessia, follia morale e criminalità, non era conveniente dedurne una identità, così come fatto dal Lombroso [83]. E tuttavia l’affondo critico non impediva all’Antonini di annoverarsi tra i maggiori sostenitori del positivismo, e di fare largo uso, nelle analisi e nella pratica alienistica, degli artifici lombrosiani [84], il cui indice di gradimento restava così elevato e pregnante che, per fare un solo banale esempio, una loro sottovalutazione determinerebbe l’incomprensibilità fattuale del dibattito medico svoltosi in quegli anni relativo all’abuso delle sostanze alcoliche e delle pertinenti ripercussioni in campo sociale [85].

  Foto: le mura dell'O.P. di Mombello

Negli scritti dei maggiori alienisti militari, l’adesione al positivismo antropologico riscuoteva, se possibile, ancor più credito. Tutte le indagini di Gaetano Funaioli, almeno fino ai primi anni ‘20, si strutturavano dentro un’intelaiatura lombrosiana [86]. Placido Consiglio, ufficiale di sanità e alienista dell’ospedale militare di Roma, considerava Lombroso e la sua opera l’apice ultimo di un’atmosfera scientifica che aveva regalato all’Europa i lavori di Auguste Comte, Karl Marx, Charles Darwin e Herbert Spencer [87]. E ribaltando lo stereotipo secondo il quale al positivismo psichiatrico aveva nuociuto l’eccessiva estensione delle categorie patologiche realizzata dal Lombroso, Consiglio coglieva nell’incerta delimitazione dei quadri nosologici il contributo migliore fornito alla scienza alienistica dal geniale veneto. Prevenzione e difesa della collettività sana dagli individui anomali e criminali avevano tratto sicuro giovamento dalla forzatura lombrosiana, altrimenti costrette nelle maglie di interpretazioni burocratiche scarsamente affidabili nella quotidiana sfida dei medici alle manifestazioni della follia [88].

Questo slittamento semantico, che dal piano discorsivo teorico approdava senza eccessive remore alla valutazione dell’esercizio sociale della disciplina, riassumeva un’opinione comunemente condivisa dagli psichiatri. Perché se non pochi tra loro ammettevano il carattere affrettato della fondazione teorica lombrosiana, rare erano le voci spinte a discuterne il valore di efficace risposta ai problemi della quotidianità manicomiale e criminale [89]. Al limite, avrebbe chiosato il Consiglio recependo la lezione di Enrico Ferri, se un difetto v’era da rimarcare nella messe delle indagini positiviste e lombrosiane, questo era da rilevare nell’elementare metodo statistico, con l’inizio del secolo corretto con un superiore procedimento seriale [90].

Il dibattito relativo alle fallaci proposte lombrosiane suscitava, naturalmente, l’interesse di Enrico Morselli [91], figura di spicco della medicina nazionale, e per quanto meno indagato dalla storiografia, studioso probabilmente non inferiore per statura scientifica, acribia ermeneutica ed originalità di pensiero al Lombroso.

Proprio la meditazione e l’attività di Morselli inducono, in sede di comprensione storica, a sgombrare il campo psichiatrico dalle facili semplificazioni.

La frequenza con la quale venivano sollevati dubbi circa l’impianto teorico lombrosiano nella stampa specializzata, e la statura delle voci alienistiche impegnate nell’impresa, erano solo una delle facce visibili di un universo culturale costretto a fare i conti scopertamente, per quanto in forme esitanti, con i ripetuti smacchi che l’avevano visto protagonista.

Sotto gli occhi di medici e scienziati stava la sconfitta dell’utopia della misurazione, con la sua estrema proiezione pratica craniometrica in grado di far rivivere, nel moderno Ottocento, idee e concetti della fisiognomica cinque-seicentesca [92]. Certo, non mancava chi, impratichito da decenni di esperienza, ancora durante la guerra s’attardava in siffatte pratiche, impegnando una battaglia di retroguardia senza futuro [93]. D’altro canto, la discussione accademica generale mostrava il volto di una scienza alienistica decisa a ripensarsi, senza per questo migrare dai territori conosciuti alla maggioranza degli psichiatri.

Abbandonate le spiegazioni monocausali fondate sulla quantificazione di particolari aspetti ed organi del corpo, la psichiatria tentava un aggiornamento degli artifici teorici alla luce delle nuove acquisizioni istologiche, biochimiche e neurologiche, conservando la vocazione di fondo positivista e l’ancoraggio al fondamentale apporto organicistico [94], il quale, fin dall’esordio nazionale della disciplina con Andrea Verga, Carlo Livi e Serafino Biffi, aveva fatto sentire tutta la sua rilevanza.

Ecco perché, meno paradossalmente di quel che potrebbe apparire, troviamo i nomi dei maggiori psichiatri positivisti a indirizzare questo lavoro di revisione paradigmatica. Ed era Enrico Morselli, già fondatore nel 1891 della Rivista di Filosofia Scientifica, ad esprimere questa originale esigenza con maggior consapevolezza.

Probabilmente rivivendo quelle atmosfere personalmente partecipate quando, sul finire dell’Ottocento, la scienza alienistica aveva ottimisticamente creduto di poter giungere alla cura definitiva della follia, per Morselli il superamento delle dottrine positiviste e lombrosiane poteva avvenire come conseguenza indiretta di un intervento focalizzato sulla dimensione asilare del lavoro alienistico. Segnatamente, il direttore dei “Quaderni di Psichiatria”, collegando in relazione univoca teoria e prassi, suggeriva di mitigare le preponderanti funzioni custodialistiche dei manicomi [95] mirando ad un duplice obiettivo. Ricondurre attraverso la rivalorizzazione del momento terapeutico della malattia mentale la psichiatria nell’alveo della medicina e della sua storia [96], negando le persuasioni di Enrico Ferri che eleggevano gli asili a strumenti paracarcerari di difesa dell’organismo sociale. Rilanciare, dopo una fisiologica crisi [97] e grazie a questa depurazione funzionale del manicomio e della connotazione alienistica i capisaldi dell’opera lombrosiana.

Per Enrico Morselli la renaissance del positivismo psichiatrico doveva transitare obbligatoriamente per un rifiuto dei facili entusiasmi dei dilettanti dell’antropologia alla Nordau [98]; per il riallacciamento del cordone ombelicale che legava medicina e psichiatria, e per la riscoperta letterale dei sacri testi del Lombroso riletti alla luce della casistica patologica individuale [99].

Scartata l’unilateralità del morfologismo fisico di fine secolo, i nuovi paradigmi alienistici volgevano lo sguardo ad una concezione integrata dell’uomo e multifattoriale della malattia. Una concezione totale dove, in sede di anamnesi e diagnosi, i contributi dell’organicismo e della fisiologia (predominanti) dovevano avvantaggiarsi della corretta conoscenza psichiatrica della storia, della cultura e del milieu familiare ed ambientale dell’individuo affetto da sofferenza neuropsichica [100]. Una concezione, soprattutto, in cui nulla significativamente poteva essere letto in contrapposizione aperta ai concetti del Lombroso e della tradizione antropologica che a lui si richiamava.

La modernità alienistica invocata dal Morselli era la logica conseguenza della sua lettura del determinismo lombrosiano. In un volume celebrativo del 1906, prospettando e riassumendo il pensiero dell’antropologo veneto nel riguardo delle causali patogenetiche, Morselli aveva commentato: «Il determinismo lombrosiano è a due facce che si integrano a vicenda: il fattore interno è il più potente ed efficace, ma anche il fattore esterno ha la sua parte, e non piccola, e non difficile a scoprire» [101].

A beffa degli sbrigativi affossatori, Lombroso permaneva così precursore e faro dell’ulteriore evoluzione scientifica. Con parole perentorie, Morselli affermava come il compito primario di alienisti e neurologi della nuova generazione fosse semplicemente quello di «corregerne le idee con una più profonda investigazione della patogenesi e della anatomia patologica (...) [perché] il lombrosismo permane vitale in un tale numero de’ suoi principi direttivi e delle sue applicazioni sociali e giuridiche, da costituire un titolo non perituro di gloria per il positivismo italiano» [102].

L’aspirazione morselliana ad una parziale revisione delle dottrine lombrosiane alla luce della triplice griglia: maggior collegamento psichiatrico con la medicina; più intensa attenzione all’elemento psichico [103]; sua decisa inscrizione entro le leggi della degenerazione umana del Morel, poteva pure dare l’occasione a brevi screzi polemici, spesso generati, in intellettuali dalle idee sostanzialmente non dissimili, da una diversa interpretazione della farraginosa e aperta a più letture tassonomia lombrosiana.

In questa casistica ricade la disputa sopravvenuta nelle pagine dei “Quaderni di Psichiatria” tra lo stesso Enrico Morselli e Giuseppe Pellacani, esperto eugenista del manicomio veneziano.

Sul declinare del 1916 uno spazientito Pellacani scriveva alla direzione del periodico genovese, che aveva in precedenza recensito il volume Il problema della istintività nelle condotte umane, lamentando d’essere stato frainteso nel suo tentativo di correggere l’artificio psichiatrico vago e falsamente onnicomprensivo dell’atavismo, con un più deciso orientamento del medico a soppesare i concreti processi morbosi individuali [104].

Pellacani era lungi dall’affondare il coltello nella piaga di una categoria lombrosiana che prestava il fianco alle facili critiche. E pur affermando l’insufficienza di alcune deduzioni della scuola antropologica, non esitava a collocare la propria riflessione nella scia di ricerca inaugurata da Lombroso, cui non erano addebitabili le forzature teoriche degli allievi, incauti nel generalizzare semplici effetti e substrati organici in reattivi criminogeni [105].

Come si intuisce, ripensando alle proposte morselliane e alle scarne annotazioni del Pellacani, la controversia non aveva validi motivi di sussistenza. Di fatto, mancavano alla base della singolar tenzone quei motivi discordanti e quelle opinioni rigidamente contrapposte che erano, e sono, il sale delle serie dispute scientifiche. Ed infatti, un ironico ma conciliante Morselli, facendo a piene mani sfoggio del proprio tipico equilibrismo dialettico, rispondeva sia dichiarando la propria approvazione per i chiarimenti del Pellacani, sia associandosi all’opinione secondo la quale c’era parecchio da escludere e rifare nel complesso delle dottrine lombrosiane [106], sia, in conclusione, riaffermando la validità scientifica della scuola antropologica italiana che, non solo non era mai entrata in crisi, ma, pure, nel cristallizzarsi del primo conflitto mondiale, scovava motivi per una eterodossa conferma delle proprie teorie. La bestialità austro-tedesca contrapposta al fulgido sacrificio italiano per il diritto delle nazionalità, si chiedeva Morselli, non era forse la migliore rappresentazione in corso d’opera della verità di una storia naturale del genere umano scandita da animalesche regressioni [107]?

La consonanza del Pellacani col consesso positivista era poi talmente radicata che lo stesso psichiatra del manicomio veneziano era chiamato a fronteggiare, meno di dieci anni dopo l’incomprensione col Morselli, una nuova polemica proveniente da ben altri bastioni del pensiero alienistico che non fossero quelli presidiati dalla direzione dei “Quaderni di Psichiatria”.

Polemica, sia detto per inciso, che aveva il merito, all’interno di una sonnecchiante e apparentemente compatta psichiatria, di risvegliare il dibattito teorico relativo alle radici filosofiche della disciplina, e la mai sopita querelle circa la natura delle malattie mentali.

In sintesi: dall’asilo di Macerata il dottor Alberto Ziveri, sfiorando le posizioni del neovitalismo d’inizio ‘900 propenso a porre all’origine della vita gli atti non conoscibili di una superiore volontà, stigmatizzava il tentativo del Pellacani di riproporre all’attenzione della medicina, per mezzo di saggi apparsi nella stampa specializzata, paradigmi pervicacemente dogmatici. Paradigmi ancora in linea con quel gretto positivismo biologico ottocentesco che aveva preteso spiegare le manifestazioni del reale come prodotto proiettivo di processi bio-fisio-chimici. Per Ziveri era tempo che la psichiatria riponesse nel cassetto dei ricordi le teorie antropologico-positiviste, sostituendole con una pragmatica interpretazione della vita nei suoi aspetti normali e patologici filosoficamente fondata sulla riscoperta dello scetticismo dell’antica Grecia: «nelle scienze medico-biologiche», concludeva il medico del manicomio di Macerata, «i fatti non li possiamo negare ma l’interpretazione di essi sarà sempre arbitraria. Si ricorrerà volontariamente e anche involontariamente a un finalismo quando si pretende una spiegazione (...) le nostre spiegazioni obiettive non sono che o petizioni di principio o diallelismo (...) La spiegazione della Natura è una illusione antropomorfa (...)» [108].

Ora, al di là del merito della risposta del Pellacani - spinto prima a distinguere tra verità assoluta e verità scientifica «sempre relativa ed affatto definitiva ma dato inoppugnabile di esperimento», quindi a rimproverare al medico di Macerata come nessuna affermazione fosse più dogmatica dell’assunto scettico-pragmatico secondo cui la verità non esisteva od era irraggiungibile [109] - le note critiche dello Ziveri conservano oggi una peculiare rilevanza storiografica, testimoniando del mancato incontro della scienza alienistica italiana col più genuino pragmatismo novecentesco. Quel pragmatismo incarnato da un Giovanni Vailati sul piano generale, e da un Giulio Cesare Ferrari nel campo delle scienze del comportamento.

Un incontro potenzialmente vòlto a fruttare interessanti sviluppi se coltivato e portato alle sue estreme conseguenze, esaminando come il pragmatismo rifiutasse quella centralità e assolutezza del soggetto posto di fronte all’oggetto che non solo caratterizzava tipicamente il positivismo medico, ma che, altresì, poteva risultare una palla al piede per l’esigenza alienistica di ristrutturazione del rapporto psichiatra-disturbo-paziente [110].

Ma non solo questo senso relativo dell’agire psichiatrico, questa ipotizzata differente predisposizione all’ascolto nei confronti dell’umanità sofferente mancava di raccogliere seguaci tra gli alienisti italiani. Estranea permaneva la consapevolezza dei pragmatisti, e di nuovo, con particolare cognizione del Vailati, circa la crisi ontologica dell’impianto positivista [111]. Disattesa, nelle consequenziali conclusioni, restava la straordinaria forza critica che scaturiva dall’affermazione della storicità delle forme del sapere - premessa propedeutica per un rinnovamento dei canoni scientifici. Inascoltati, infine, risuonavano gli appelli di riforma lanciati verso un milieu culturale auto-condannatosi nelle maglie strette di una inusuale metafisica dei segni e delle impronte biologiche [112] come già intuito da Carlo Cattaneo agli albori del positivismo nazionale.

Lo scarso favore incontrato dagli apporti del pragmatismo tra la corporazione psichiatrica, induce alla cautela quando, focalizzando l’analisi storica sulla figura di Giulio Cesare Ferrari - contemporaneamente celebre psichiatra della seconda generazione, padre della psicologia italiana, traduttore dei Principles of Psychology di William James e amico personale del Vailati - si individua nella sua esperienza professionale il tentativo, realizzato, di revisione dei modelli positivistici in campo psichiatrico [113]. Revisione, al contrario, che denunciava un doppio scacco, poiché parzialmente inefficace se commisurata attraverso gli occhi ed i vissuti dell’oggetto dell’alienismo, i folli [114], e largamente sterile se valutata nella sua capacità di penetrare, orientare e riformare il pensiero comune medico.

   Foto: William James

La psichiatria italiana, nella parallela incomprensione delle sollecitazioni psicoanalitiche che provenivano allora da Trieste con Weiss [115] e, più tardi, con Levi Bianchini, restava aggrappata come un naufrago al proprio salvagente a concezioni meccanicistiche e statiche sia della malattia sia, soprattutto, della sua ordinaria condotta asilare. 

   Foto: E. Weiss

Per quanto concerne poi il Ferrari, la cui originalità nel panorama psichiatrico nazionale è fuor di discussione, non solo il suo legame con l’universo alienistico andrà negli anni sfilacciandosi, sostituito da un maggior impegno nei campi della psicologia e della pedagogia dell’infanzia anormale. Ma la sua stessa concezione del pragmatismo perdeva molto dell’onere problematico vestendo spesso i panni del semplice utilitarismo funzionale. Accordare valore alle applicazioni scientifiche a ragione di un giudizio di loro maggiore o minore convenienza sociale [116] non era piattaforma teorica sufficiente per sostenere un serio tentativo di revisione delle dottrine lombrosiane, delle quali Ferrari poteva considerarsi, ancora nei primi anni del secolo, un convinto sostenitore [117].

Fondamentalmente, era tutta una mentalità scientifica che doveva essere posta in dubbio - ciò che avverrà, non senza esitazioni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale [118] - per autorizzare il definitivo superamento del sapere positivista antropologico. Sapere che nemmeno il più rigido e sistematizzato organicismo con venature costituzionaliste tratte del De Giovanni e dal Pende, mediate alla psichiatria dalla riflessione di Francesco del Greco, riusciva a corrodere.

Verso un’altra direzione di ricerca spingevano, invece, i poco apprezzati suggerimenti di autori come Erminio Troilo, Giuseppe Tarozzi - incaricato della redazione delle pagine di filosofia nella ferrariana “Rivista di Psicologia” – e Mario Calderoni [119] collaboratore dell’ “Archivio di Psichiatria e Scienze Penali” fondato da Lombroso. Pensatori diligenti nel cimentarsi con un aggiornamento costruttivo dei modelli scientifici ricusando contemporaneamente  i superficiali distinguo della critica neoidealista.

Lungo questo versante del riformismo positivista intenzionato a riscoprire le matrici ideali comtiane [120], rimaste largamente infeconde nel pensiero scientifico italiano, si procedeva battendo vie nuove. Abbandonando l’interpretazione meccanica e rigidamente predeterminata dell’evoluzione naturale [121]; negando la possibilità al descrittivismo positivista di trarre da rapporti di concomitanza rapporti di causalità - per adottare la terminologia gemelliana [122]; criticando l’induttivismo privo di originalità di criminologi e psichiatri; ponendo, infine, sotto accusa la meditazione spenceriana, la cui componente metafisica ed evoluzionista Erminio Troilo riteneva responsabile di quelle sciagurate dilatazioni concettuali regolarmente rimproverate allo strutturalismo antropologico [123].

Per quanto non pregiudizialmente sfavorevoli all’intellettualità scientifica, le proposizioni del positivismo critico fallivano il loro obiettivo. Emblematico l’esito del duplice tentativo di Giuseppe Tarozzi di «depurare il positivismo del suo sottofondo metafisico» [124] e di associare in una nuova calzante lettura le opere dello straniero Comte con quelle dell’italiano Roberto Ardigò. Sostanzialmente infruttuose nell’elaborazione psichiatrica, le argomentazioni del Tarozzi suscitavano all’opposto vivo consenso quando, aggressivamente, rimbeccavano a spron battuto le critiche neoidealiste, tacciate come misere allorché s’arrischiavano ad affermare la morte del positivismo [125].

Una trattazione a sé, in questo sintetico catalogo dei progetti di revisione delle dottrine lombrosiane e positiviste meritano, per l’eterogeneità degli elementi unificati la prima, e per la completa corrispondenza con la tradizione patriottica della medicina italiana la seconda, le proposte avanzate rispettivamente dalla figlia di Lombroso, Gina, e dallo psichiatra e psicologo direttore del manicomio dell’Aquila Francesco Del Greco.

In uno scritto del 1916 Gina Lombroso Ferrero s’era misurata col tentativo di tamponare le lacune evidenti del pensiero psichiatrico rifondandone le classificazioni patologiche alla luce del dualismo bergsoniano dell’intelligenza e dell’istinto. Accogliendo l’opinione del filosofo francese circa la loro irriducibilità in quanto componenti autonome e prive di nessi causali, perché «secondo il Bergson non sono l’evoluzione di una stessa facoltà, ma due attitudini ben distinte e differenti, ciascuna delle quali può essere portata separatamente ad un altissimo grado senza influire sull’evoluzione dell’altra», era possibile sia preservare intatta la categoria lombrosiana dell’atavismo, sia razionalizzare moltitudini di classificazioni psichiatriche avvitatesi in casi e sottocasi.

Le attitudini dell’intelligenza e dell’istinto erano i termini discriminanti di una semplificazione dello spettro patologico che desiderava, non da ultimo, recuperare alla psichiatria maggior efficienza operativa, suddividendo le malattie mentali in tre macrogruppi:

-        le malattie dell’istinto, come l’isteria, la genialità, la pazzia morale e la delinquenza congenita, includenti quelle svariate forme di alienazioni dove l’abilità di risolvere i problemi della vita pratica era nulla pur al confronto di una capacità individuale integra di concepire, astrarre e ragionare;

-        le malattie dell’intelligenza, come il mattoidismo, la paranoia, l’ipocondria e la monomania rudimentale che, al contrario del gruppo precedente, contrapponevano a facoltà integre di coordinamento dei mezzi in vista di fini nella vita minuta capacità di ideazione completamente nulle;

-        per ultime, le malattie miste, quali la mania, la demenza e l’idiozia, disturbi in grado di rivelare la totale incapacità dell’individuo sia di connettere e ragionare in termini astratti, sia di dirigersi nella vita pratica [126].

Di quale fortuna e credito abbiano goduto le proposte revisioniste della figlia del Lombroso è presto detto ponderando il diffuso silenzio loro riservato nelle pagine di quella stampa neuropsichiatrica e psicologica generalmente attenta alle novità non solo nazionali che s’avanzano in un panorama psichiatrico devitalizzato. Senza eccessivi patemi d’animo, il mondo psichiatrico fece mostra di dimenticare agevolmente Bergson ed il suo dualismo dell’intelligenza e dell’istinto.

Opposte, viceversa, le reazioni che accoglievano le meditazioni dei primi anni ’20 di Francesco Del Greco raccolte nei due saggi: Una idea direttiva nei recenti studii medico-psicologici (“Il Manicomio”) e L’idea di “costituzione” nella Psichiatria clinica (“Quaderni di Psichiatria”) [127].

Sinossi di una volontà riformatrice che traeva origine dagli inviti morselliani ad una più stretta connessione con la medicina generale, le proposte di Del Greco puntavano a correggere le forzature positiviste mediante i contributi della scuola costituzionalista italiana di Nicola Pende, Achille De Giovanni e Giacinto Viola, nuove stelle comete del firmamento psichiatrico accanto ai nomi di Lombroso, Leonardo Bianchi, Augusto Tamburini ed Emile Kraepelin. 

   Foto: E. Kraepelin

Del Greco muoveva da una considerazione indiscutibile: la propensione psichiatrica all’anatomismo istologico coltivato nei laboratori e nelle cliniche universitarie aveva menomato quasi allo zero la ricerca terapeutica, derubricandola dall’agenda alienistica. Mentre il danno arrecato all’armamentario curativo era stato profondo, inesorabilmente i manicomi erano decaduti a luoghi di semplice deposito dell’umanità malata. La scienza aveva dimenticato che «fra la malattia, e le condizioni etiologiche e patogenetiche, generatrici di essa, vi è di mezzo l’individuo»; e solo una scorciatoia permetteva ora il recupero del tempo perduto. Questa scorciatoia transitava obbligatoriamente per la valorizzazione del concetto di individualità così come immaginato da Nicola Pende nello sforzo di pervenire ad una sintesi organica del «composto umano». 

   Foto: Nicola Pende

L’attenzione per il dato strettamente individuale correttamente inteso, a giudizio del medico dell’asilo aquilano, avrebbe ricollocato l’investigazione psichiatrica dentro l’orizzonte della medicina clinica. Da un lato, spingendola a meglio ripensare i fattori strutturanti il sostrato costituzionale nelle sue successive ripartizioni interne di originario, ereditario ed evoluto, ed esterne di normale e patologico. Dall’altro, cassando fra i ferri vecchi del mestiere le pasticciate ed onnicomprensive teorie evoluzioniste, in cambio di uno sguardo orientato a meglio comprendere il paziente concreto nei suoi limiti e bisogni immediati [128].

L’onesto eclettismo scientifico proposto da Del Greco non cadrà nel vuoto [129]. La maggioranza di quella corporazione medica che aveva ignorato il contributo alla discussione di Gina Ferrero Lombroso, presto lo farà proprio, per una serie di motivi che illuminano caratteristicamente i compositi percorsi ed interessi della cultura alienistica nazionale.

Il sentiero indicato alla psichiatria da Del Greco prometteva, in primo luogo, di riequilibrare lo sbilanciamento tacito che aveva osservato i medici universitari relegare in un teatro di periferia i medici manicomiali, preservando la Società Italiana di Psichiatria da ulteriori fratture traumatiche in tempi di fragile identità disciplinare. Secondariamente, offriva un comodo appiglio a quella componente della comunità scientifica non disposta a rinunciare al tradizionale know how positivista ed antropologico [130], avendo questo un solido comune denominatore con l’impostazione di Del Greco nell’abitudine all’indirizzo organicista e nella aspirazione ad una diagnosi multifattoriale dove gli elementi psichici, organici, costituzionali-ereditari e biochimici s’integravano vicendevolmente. In terzo luogo, nel clima vorticosamente nazionalista di un Paese sopravvissuto alla mortale sfida bellica, ma segnato, per dirla col Morselli, «dall’arruffo indescrivibile in ogni cosa pubblica e privata» del dopoguerra [131], otteneva di assopire il disorientamento psichiatrico rimandando la messa in mora spregiudicata dell’opera del patriota Lombroso, radicando il futuro della disciplina in un rinnovato humus medico-teorico orgogliosamente nazionale grazie al primato di Pende, De Giovanni e Viola.

Certo, non tutto l’ambiente psichiatrico era prono al desiderio della maggioranza di rimuovere il confronto serrato con l’esperienza antropologico-positivista. Voci minoritarie ma vive ritenevano, anzi, inane insistere nella difesa di un canone scientifico che aveva fallito nell’approccio ai vissuti dei mentecatti e come strumento d’indagine. Erano queste voci a costituire la vera alternativa alla psichiatria antropologica.

Alberto Vedrani non aveva temuto d’incorrere nello sdegno dei colleghi quando, dalle colonne de “La Voce”, ricusando la messe di lodi e celebrazioni seguite alla morte del Lombroso, aveva asserito con una valutazione successivamente diffusa al grande pubblico da Agostino Gemelli: «l’opera di Lombroso come clinico psichiatra è misera e non esce dalla grigia mediocrità comune della psichiatria italiana. La quale (non ostante la presenza di alcuni uomini d’intelligenza elevata che per altro dispersero la loro attività in altri campi sì da riuscire, più che psichiatri, neurologi o anatomici o filosofi senza psichiatria) non ha di suo e di originale che poco o nulla di buono» [132]. E tuttavia, malgrado l’uso polemico e, in parte, strumentale che delle parole del Vedrani avrebbe fatto il fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nel suo celebre pamphlet Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, non è scontato osservare come, ad una lettura più attenta, lo stesso Vedrani, dovendo riconoscere un merito al positivismo psichiatrico, lo ravvisasse propriamente in uno dei capisaldi teorici e motivi di vanto dell’antropologismo lombrosiano. L’aver cioè trasmesso alla collettività scientifica la presunzione di una certa qual affinità tra delitto e pazzia, tra soggetto criminale e individuo folle [133].

Le stesse ambiguità teoriche non si presentavano però negli scritti di colui che, per la giovanile formazione e militanza positivista [134] e per il contenuto concreto di una scelta professionale condotta con coerenza per decenni, ancor più dei neoidealisti – sterili censori di una scienza che male conoscevano e poco comprendevano - può considerarsi il maggior critico italiano del positivismo medico, e l’artefice di una vera e propria demolizione sistemica dell’opera lombrosiana: Agostino Gemelli.

Infruttuoso è, in questo contesto, avviare un’analisi a ritroso dell’intero cursus professionale gemelliano, tanto vasto quanto poliedrico. Più proficuo, invece, è concentrare lo sguardo verso alcune sue idee direttive, per misurare l’incisività e la forza con la quale sferzavano le certezze bio-antropologiche della comunità psichiatrica nazionale materialista ed atea.

Alla base della stroncatura gemelliana si situava una precisa interpretazione della storia nazionale della scienza e della filosofia [135]. Consapevolezza storica spesa a motivare, nei tempi presenti, la scelta di una lotta senza quartiere contro le posizioni del monismo materialista [136] e del determinismo bio-antropologico, avvertiti dal Gemelli sacerdote-scienziato quali posizioni sovvertitrici dell’ordine naturale e sociale instaurato da Dio [137].

Forse sopravvalutando il favore del positivismo presso l’opinione pubblica [138] e, sicuramente, mostrando di ignorare la vocazione elitaria ed antipopolare del moribondo socialismo positivistico, in Gemelli la lotta scientifica si colorava esplicitamente di enfasi ideologica, precorrendo i tempi della piena partecipazione cattolica alla vita politica nazionale.

Più timoroso del confronto con una massa acculturatasi al di fuori dell’influenza ecclesiastica che non del reale successo positivista, del resto, percepito in fase declinante, l’antilombrosismo gemelliano impegnava lo scontro in bilico tra una duplice direttrice. Da un lato, dimostrando l’insostenibilità dell’analogia supposta dai circoli criminologici tra degenerazione fisica ed imbastardimento morale. Dall’altro, minando alle fondamenta l’onnicomprensiva costruzione evoluzionista e determinista di psichiatri e psicologi, per insistere sull’esistenza di un libero arbitrio [139] completamente autonomo dalla condizione fisio-antropologica degli individui.

Affondando il coltello critico negli anelli teorici deboli del sistema haeckeliano passati in dote alla psichiatria, Gemelli aveva gioco facile nell’esporre a severa disapprovazione le irrisolte contraddizioni presenti nel tableau delle ricerche psichiatriche e criminologiche di due generazioni di intellettuali [140]. Ad una scienza alienistica che annaspava tra le false certezze delle sue definitive conclusioni e l’ossessiva riproposizione delle tradizionali formule ermeneutiche, il Gemelli obiettava la validità di concetti cardine come quello che aveva stabilito l’equivalenza tra epilessia, criminalità e delinquenza [141] o quello che aveva sussunto quale dato di fatto il parallelismo pazzia/criminalità. Né, a salvare quest’ultima ipotesi, era valsa la successiva revisione lombrosiana tesa a circoscrivere il potenziale criminogeno alla sola pazzia morale [142]. Per Gemelli, scientificamente ragionando, la celebre analogia che legava lungo un continuum biologico-comportamentale «i caratteri speciali degli uomini di genio alienati con quelli dei geni non alienati e dei pazzi criminali» [143] era una pura fantasticheria, mentre il preteso tipo criminale, concetto denominatore delle successive ricerche di Benigno Di Tullio, modulo falso che non aveva semplicemente ragione d’esistere quale categoria razionale [144]. Della stessa dottrina delle degenerazioni per vie ereditarie non si possedevano conferme obiettive [145], laddove, al contrario, nessuno nella comunità scientifica internazionale s’azzardava a negare che «la degenerazione ha certamente un’importanza molto minore, per esempio, dei fattori sociali, etici e degli elementi psichici individuali» nella gestazione delle condizioni patologiche collegabili – lungo reti trasmissive eterodosse - alla criminalità [146].

Con acume Gemelli, censore non banale, interrogandosi tuttavia sulle ragioni del revival di una teoria che reggeva ben oltre la morte dei suoi maggiori propugnatori, Morel e Lombroso, era ricondotto ad un discorso lucido e acconcio a non escludere il testo scientifico dal contesto sociale. Per il fraticello di Rezzato la vera forza della dottrina delle degenerazioni risiedeva nel nesso bidirezionale che stabiliva tra l’episodio pato-criminologico individuale a valle, ed i timori e le paure inconsce dell’aggregato sociale a monte. Apprensione culturale e senso di smarrimento politico proprio di una classe dirigente e di una borghesia non solo ulteriormente messe in allarme dalla crisi di fine secolo, ma indotte ad affidarsi a piene mani ai tecnici della normalità. Intellettuali-funzionari come gli psichiatri, gli psicologi ed i criminologi, a loro volta messi in grado sia di occupare nuovi spazi della pubblica discussione, sia di evadere dai luoghi istituzionali deputati alla custodia dei malati pericolosi a sé e agli altri [147].

I rilievi gemelliani non offrivano nell’immediato solo una sponda alla critica neoidealista, ma ottenevano sul lungo periodo attento ascolto tra i ranghi dell’intellettualità cattolica, preformando opinioni e giudizi sul positivismo italiano mai venuti meno [148], e tracciando un indirizzo alla ricerca psicotecnica in grado di rendere peculiari contributi ancora durante la Seconda Guerra mondiale [149].

I disegni del futuro fondatore dell’Università Cattolica di Milano di denaturalizzare l’uomo e di riformare la scienza psichiatrica subordinandone la riflessione e l’azione agli sviluppi coevi della psicologia sperimentale [150] non erano del resto passati inosservati fin dal loro primo apparire. Nello stesso anno della ristampa ampliata del discorso gemelliano in morte di Lombroso, il 1911, dalle colonne della prestigiosa “Rivista d’Italia” si erano definite mostruose le concezioni dell’antropologia criminale, e tassativo era giunto l’invito a medici e psichiatri di considerare «la preminenza qualitativa delle attività psichiche sulle forme quantitative cerebrali» [151].

In un mix tutt’altro che estemporaneo, le disapprovazioni dei gabinetti scientifici cattolici ed il biasimo neoidealista, propenso a squalificare le meditazioni della scienza al campo degli pseudo-concetti, portavano un duro colpo alla capacità di psichiatri, criminologi e antropologici di influenzare la pubblica opinione e le élite della nazione.

Non per questo, il fortino positivista, incapace di abbandonare la propria usuale concezione del rapporto uomo/natura [152] e di far fronte comune alle supplementari polemiche provenienti dalla nascente cultura marxista, vedeva il ripiegamento in atto trasformarsi in una rotta per ordine sparso. Anzi, a fronte dell’instancabile azione degli ambienti anti-positivisti di denunciare come puro sofisma il concetto della derivazione dalla materia del pensiero [153] e di depennare fra gli arnesi vecchi della scienza l’evoluzionismo materialista [154], studiosi come Giuseppe Sergi [155] od Enrico Morselli non perdevano nulla del prestigio accumulato presso la corporazione medica in anni d’investigazioni antropologiche. E non è superfluo ricordare ciò che Antonio Gramsci, nei primi anni ’30, osservava a proposito delle dottrine psicoanalitiche. Deciso a rimbeccare Sigmund Freud, al pari del Lombroso, per aver eretto una filosofia universale del genere umano sulla base di alcuni criteri empirici d’osservazione [156], Gramsci era costretto a ricorrere all’esperienza lombrosiana e alla diffusa conoscenza che di essa si aveva tra le masse acculturate per inquadrare, e spiegarsi, il fenomeno relativamente nuovo della psicoanalisi. Una volta di più, insomma, anche se per via indiretta e con paragoni in negativo, le parole del fondatore del comunismo nazionale provano come fosse arduo parlare di scienze umane in Italia senza fare i conti con lo spessore e l’influenza a raggiera dell’opera del poligrafo veneto.

  Foto: Antonio Gramsci

Per il campo positivista, più costruttive delle critiche neoidealiste e gemelliane potevano rivelarsi le osservazioni di Luigi Baroncini e Francesco De Sarlo, studiosi prossimi a quella cultura antropologica che intendevano mettere sotto esame.

Assistente di Giulio Cesare Ferrari nel Manicomio di Imola [157], Luigi Baroncini coglieva l’opportunità di una recensione ad una antologia lombrosiana sulla follia apparsa nel 1914, per magnificarne le sintesi meravigliose e la potente azione riformatrice, ma anche, senza troppi giri di parole, per invitare i settori psichiatrici più moderni ad abbandonarne definitivamente le categorie interpretative, valide unicamente ai fini di una storia della medicina [158]. 

Seguito con minor perizia teorica dallo psichiatra dell’asilo di Cagliari Adelchi Baratono [159], si misurava col tentativo di un accomodamento non incoerente tra le ipotesi idealistiche e le necessità di sperimentazione e verifica sul campo della scienza [160] Francesco De Sarlo, medico e alienista già allievo di Franz Brentano a Firenze. La proposta di De Sarlo faceva un passo deciso verso lo spiritualismo, in cambio dell’attenuazione del pregiudiziale antievoluzionismo neoidealista, senza tuttavia riscuotere grandi consensi né tra gli adepti di Croce e Gentile, né nel variegato consorzio positivista. Velleitaria, a giudizio di Enrico Morselli l’impostazione desarliana falliva proprio per non aver fatto una scelta di campo netta, semplicemente limitandosi ad invertire i temi del dibattere, e cioè sostituendo alla materializzazione dello spirito imputata ai positivisti, una spiritualizzazione della materia in forme così ardite da risultare indigeribile alla maggioranza dei medici italiani delle malattie mentali [161].

Considerando le proposte di Troilo, Tarozzi e Calderoni poco approfondite, inascoltate quelle di Baroncini e De Sarlo, e semplicemente ignorata quella di Gina Lombroso, l’insidia apparentemente maggiore per le dottrine lombrosiane nella loro declinazione psichiatrica proveniva da un gruppo tutto interno, per formazione, professionalità e codice linguistico, alla comunità psichiatrica italiana.

Con meno chiasso, ma con maggior probabilità di lasciare il segno, erano quei settori attivi prevalentemente nel campo dell’acculturazione universitaria clinica e neurologica, che non nella gestione dell’universo manicomiale, a mettere in discussione le ipotesi eziologiche del Lombroso e della sua scuola. Guidavano il gruppo Eugenio Tanzi ed Ernesto Lugaro, autori del più volte ristampato Trattato delle malattie mentali, vera e propria bibbia delle giovani classi psichiatriche italiane [162]. In realtà, però, ancora una volta il discorso pur non negandosi valenze critiche esplicite a riguardo delle forzature positiviste, si snodava fondamentalmente tutto nella logica dei tradizionali punti di riferimento organicisti della scienza psichiatrica, i quali non avevano visto nel Lombroso e nella sua scuola né dei critici accaniti, né degli affossatori.

   Foto: Tanzi e Lugaro

Parafrasando le categorie interpretative suggerite da Robert Castel nei primi anni ’80 [163], l’analisi storica può dire di trovarsi di fronte all’ennesimo tentativo di aggiornamento paradigmatico di un sapere vòlto sì a chiarire e a correggere gli eccessi positivisti nel campo della diagnostica e della patologia pura; e tuttavia aggiornamento da solo non sufficiente, per presunto automatismo, a convalidare l’opinione circa la prematura scomparsa dell’influenza lombrosiana nel complesso della cultura psichiatrica dominante.

Della sottile trama critica a lui ostile intrecciata dal drappello di studiosi concordi con Tanzi e Lugaro aveva avuto sentore lo stesso Lombroso, giudice severo del Trattato delle malattie mentali, manuale «più ricco di spirito che di verità » [164]. Per nulla intimidito e tutt’altro che disimpegnato rispetto ai temi dell’alienismo, un Lombroso settuagenario coglieva l’occasione della pubblicazione del volume di Ernesto Lugaro I problemi odierni della psichiatria (Palermo 1907), per impegnarsi nel chiarimento delle posizioni sue e della scuola che al suo nome si richiamava. Lombroso considerava le accuse rivoltegli non solo errate, ma anche scorrette ed insostenibili al vaglio dello sperimentalismo medico, poiché come ogni positivista alle prime armi ben sapeva, «quando si vuol abbattere una teoria, si adoperano fatti», non presunzioni [165]. Ritorcendo un’obbiezione fin troppo nota ai positivisti, e aprendo il varco ai successivi rilievi polemici di Placido Consiglio e Francesco Del Greco in difesa della suola antropologica, Lombroso individuava nell’esagerata accentuazione del dato anatomico il punto debole metodologico che, a Tanzi e Lugaro, impediva a priori di cogliere le linee d’insieme dell’universo-follia. Un universo ben differente dal placido mondo delle cattedre e delle aule universitarie, costellato da pazzi, criminali, manicomi e milieu familiari e ambientali dove la malattia si generava e si auto-alimentava [166].

Il cenno alla valenza operativa della disciplina assume, a mio avviso, un significato pregnante. Esso non rivela solo della predisposione mentale di un pensatore, Cesare Lombroso, figura di primo piano di quell’impresa positivista ottocentesca condotta a rimarcare con forza il tratto unitario che associava teoria, sperimentazione sociale e prassi asilare. Fornisce, inoltre, una precisa chiave interpretativa del disaccordo in atto nel cuore della cultura psichiatrica, mostrando all’esterno il nodo del contendere tra la vecchia generazione e le nuove leve alienistiche. Leve cresciute vedendo decantare le ottimistiche promesse fatte proprie dagli scienziati del comportamento negli anni successivi all’unità politica e alla fondazione nazionale della disciplina, e toccate con mano in prima persona dalla lenta decadenza della forza egemonica positivista nella cultura italiana.

Fondamentalmente, l’atteggiamento psichiatrico che faceva mostra di voler autonomizzarsi dall’ispirazione lombrosiana e antropologica, inseguiva, ai confini del minimalismo, un diverso ruolo per lo psichiatra nella società e nell’intellighenzia nazionale. Invano si cercherebbero tra i fautori di un contegno psichiatrico meno scoperto le meditazioni sociali onnicomprensive di un Tamburini, Morselli o Venturi, il quale ultimo aveva aperto la X assise della Società Italiana di Freniatria (Napoli, 1899) con la significativa relazione: Come la psichiatria debba elevarsi allo studio dell’individuo e delle sue attività nei rapporti colla società ed indicarne i vari corollari nei riguardi individuali e sociali [167]. Il volgare j’accuse antitedesco del 1916-17 di Ernesto Lugaro altro non sarà che il corrotto bagliore residuale di una vocazione socio-politica della scienza alienistica esacerbata dall’efferato clima bellico [168]. La strada tracciata si chiariva, al contrario, nella scelta di un ripiegamento strategico, ancora in grado però di lasciar negoziare alle giovani generazioni abdicazioni e contropartite. In sintesi, l’indebolimento della volontà di potenza sociale della psichiatria, se, da un lato, sbiadiva l’immagine dell’alienista come demiurgo - irrinunciabile per le classi dirigenti per la corretta gestione dell’aggregato nazionale [169] - chiamato ad operare negli interstizi di follia, criminologia e teratologia, dall’altro, precisando meglio l’oggetto ed i luoghi del suo agire, comportava una minor esposizione pubblica sul banco degli imputati nel processo intentato al positivismo dal neoidealismo, e la possibilità di consolidare quelle posizioni di prestigio e potere reale – in una società via via resa più diffidente verso le scienze - conquistate grazie anche all’apporto determinante di Cesare Lombroso.

Di nuovo, la pretesa modernità psichiatrica non si presentava come negazione esplicita del lombrosianesimo e del positivismo materialista laicista [170]. Non c’era nessun padre intellettuale da, freudianamente, uccidere; nessun ceppo generazionale da infrangere [171]; nessuna scienza normale da abbattere rivoluzionariamente. La modernità psichiatrica era, piuttosto, sulle indistruttibili fondamenta organicistiche, la ricombinazione gerarchica di due diversi fattori: la rinuncia dei medici delle malattie mentali a fare di una filosofia naturale del genere umano il totem onnicomprensivo per l’interpretazione delle manifestazioni sociali, patologiche e criminali, con l’ostentato disinteresse per le più ampie problematiche popolari - quella incapacità di cogliere le linee d’insieme, per dirla col Lombroso - che induceva la psichiatria ad auto-esiliarsi in un’isola, se non felice, comunque protetta ed inaccessibile ai non addetti ai lavori [172]. Era il fallimento stesso dei buoni propositi medico-illuministici di metà Ottocento e la diffusa diffidenza di un contesto politico e culturale il quale, se da un lato, non poteva recedere dai manicomi e dalle pratiche alienistiche, dall’altro, era memore delle mancate promesse positiviste e non tollerava più le aspirazioni egemoniche dell’imperialismo psichiatrico, a suggerire ad alienisti e psicologi di assumere un profilo sociologico più basso ma, nello stesso, tempo più tecnicistico.

Mortificata, costretta in abiti dimessi, intrappolata da un miope arroccamento corporativo e, nondimeno, la psichiatria, come d’abitudine, claudicante nella sua capacità di scassinare la cassaforte positivista-antropologica. Non molto, infatti, anche dei propositi di Tanzi e Lugaro, nonostante i manifesti attriti polemici del passato, riusciva debordante nei confronti della fatica lombrosiana e della prassi manicomiale annessa.

Il tono inflessibilmente organicista delle nuove leve psichiatriche maturate sul Trattato delle malattie mentali [173] non poteva essere recepito dalla comunità scientifica come una discriminante antilombrosiana, perché diverso, tra gli uni e gli altri, era solo il grado di fiducia accordato ad una tale impostazione scientifica nell’espletamento dell’azione diagnostica. Né l’affermazione di Lugaro secondo la quale «l’opera di Lombroso fu bensì uno stimolo fecondo a ricerche e discussioni, ma non segnò (...) un vero progresso in confronto alle vedute del Morel (...)» [174]; né l’intenzione di Tanzi di respingere «i dettami rumorosi ed inconcludenti d’una pretesa antropologia della degenerazione» da sostituire con il ripescaggio della «teoria originaria del Morel, che nacque dalla patologia (...)» [175], suonavano rivoluzionarie nel dibattito psichiatrico italiano, essendo, negli stessi anni, sulla bocca di studiosi come Ferrari, Baroncini, Antonini e Del Greco, non associabili ai circoli antipositivistici. Che Ernst Haeckel si fosse trasformato nella caricatura farsesca di Charles Darwin [176]; che risultasse urgente depurare e circoscrivere il concetto di degenerazione ereditaria, «A meno di ritenere che tutti i pazzi siano degenerati, ipotesi non dimostrata, inutile e perciò inopportuna (...)» [177]; che bisognasse negare l’identificazione di epilessia e deficienza di senso morale; che fosse intrinseco all’abituale agire psichiatrico la sottovalutazione dei dati psichici, ritenuti secondari rispetto ai sostrati organici; che si potesse leggere nell’ascesa dell’endocrinologia una nuova fonte d’ispirazione per la psichiatria e la sua caratterizzazione medico-clinica; che, complessivamente, si volesse intendere la disciplina come «sentinella avanzata della biologia nel campo della speculazione (...)» [178], non erano e sono prese di principio tali da legittimare storiograficamente il ridimensionamento dell’influsso positivista nella cultura psichiatrica. Lo stesso richiamo di Tanzi e Lugaro ad una maggiore attenzione alle leggi del Morel rilette alla luce della patologia individuale, ricalcava quasi alla lettera la via d’uscita al disorientamento scientifico indicata alla psichiatria negli stessi anni da un positivista convinto come Enrico Morselli.

Se si esclude il lucido contributo gemelliano, diretto per altro in direzione opposta a quella ammissibile per la maggioranza dei medici delle malattie mentali, integrando e subordinando le conquiste psichiatriche ai recenti progressi della psicologia [179], non pare si possano cogliere nel panorama italiano post-prima guerra mondiale quei segnali di vivacità intellettuale discussi, al contrario, nell’orizzonte europeo grazie alle opere di Freud, Ferenczi e Simmel, e che, in Germania, fin dal 1913, sbocciavano con Karl Jaspers in una articolata psicopatologia generale.

  Foto: Karl Jaspers

Altri erano gli approdi ed i temi dibattuti dalla psichiatria italiana.

In ambito teorico, le certezze del determinismo biologico, senza smussare l’afflato volontaristico dello scienziato-tecnico [180], si riqualificavano in un meno pretenzioso eclettismo [181] che mirava ad integrare in forme confuse l’elemento somatico con l’elemento psichico [182]. La meccanica concezione naturalistica dell’uomo e delle sue condizioni morbose [183] circoscrivibili e indagabili negli spazi neutri delle corsie manicomiali e dei reparti clinici universitari non sarebbe venuta meno. Così operando, scrisse Cassinelli, «La psichiatria italiana torna alla purezza dell’osservazione clinica, tradizione italianissima - da Chiarugi a Verga, da Morselli a De Sanctis - per confermare che la pazzia è un’affezione dei centri corticali e delle loro connessioni cerebrali, che trasforma e altera la personalità, cioè l’individualità pensante, senziente ed operante» [184].

Nel campo metodologico, come esemplificano le migliaia di cartelle cliniche redatte, le diagnosi continuavano ad essere l’effetto cumulativo dei risultati di indagini antropometriche, morfologiche, organicistiche, psicologiche e funzionali [185], pur riconvertendosi il peso soggettivo dei vari approcci a favore degli ultimi tre. L’azione terapeutica permaneva sostanzialmente incapace di raggiungere esiti soddisfacenti. Le limitate novità [186] introdotte sperimentalmente con i primi anni ‘20 si circoscrivevano a rare e qualificate realtà istituzionali [187]. Compatto restava il dissenso medico verso i sistemi dell’open door e del no restraint, mentre il sogno di una terapeutica individuale nello stesso tempo generalizzabile a beneficio delle masse manicomiali si dileguava dall’ordine del giorno psichiatrico.

Certo, per una componente medica da decenni ridotta più alla gestione custodialistica che alla cura della popolazione asilare, tutto ciò non doveva rappresentare una contraddizione mortale. Il perimetro manicomiale, fallimentare e rovinoso, se non altro rimaneva pur sempre lo sbocco abituale dei giovani laureati al debutto nella galassia alienistica ed il domicilio finale del proletariato psichiatrico. D’altro canto, di pari passo con le idee direttive della disciplina, il pessimismo terapeutico non subiva ripensamenti nemmeno nell’incontro con le enunciazioni della scuola costituzionalista. Infatti, pur prescindendo dalla strumentale auto-interpretazione psichiatrica che leggeva a monte delle ricerche di De Giovanni e Pende l’applicazione integrale alla medicina generale delle rigorose intuizioni di Lombroso [188], l’eccessiva messa in valore dell’elemento ereditario, comune a positivismo antropologico e costituzionalismo, apriva un canale di comunicazione dove aride erano le possibilità di far fruttare tale dialogo. All’occhio medico l’immodificabilità sul breve periodo delle biotipologie umane se non vanificava l’investigazione clinica individuale, giustificava però la debole curiosità terapeutica, tanto più spuntata nei confronti di una popolazione manicomiale senza voce e senza diritti, raramente descritta come umanità sofferente e più spesso dipinta alla pari delle bestie pericolose [189]. Inoltre, solo con ritardo la comunità scientifica seppe far propria, sulla scia della meditazione costituzionalista, e trascurando il lascito evoluzionista lombrosiano, un’interpretazione del vulnus ereditario non come malattia in sé ma come soggettiva «candidatura alla pazzia» [190].

Tutto sommato, i movimenti che osservavano la psichiatria emergere dalla tutela del lombrosismo, del materialismo monista haeckeliano e della dottrina delle degenerazioni alla Morel, erano passi ancora lenti. Se è vero, come ha osservato Ferruccio Giacanelli, che sia l’empiria sia la ricerca teorica neuropsichiatrica, dopo la Grande guerra, svoltarono verso mete lontane dagli interessi del Lombroso, volgendosi all’approfondimento della neuropatologia e della clinica nosografia [191], altrettanto vero è che, a tali percorsi, la psichiatria italiana era indirizzata per la via maestra dell’empirismo positivista e per il tramite delle «provvidenziali esagerazioni» lombrosiane, come annotava in presa diretta il Cassinelli nella sua informata Storia della follia del 1936 [192].

Involontariamente, anticipando un’accezione positiva del vocabolo errore che ricorrerà con frequenza nelle discussioni relative alla storia astronomica (Koyré), fin anche gli insuccessi del Lombroso si rivelavano agli occhi di alcuni alienisti come abbagli necessari, fraintendimenti benefici per la crescita della disciplina. E tuttavia, sarebbe un grosso errore di sottovalutazione restringere la presenza di Lombroso nella scienza post-bellica nelle vesti esclusive dell’utile idiota, poiché resisteva ben altro del suo enciclopedico e cinquantenario magistero. Quando Enrico Morselli, commentando le più avanzate produzioni della scienza tedesca un tempo modello e faro della medicina italiana, scriveva che i concetti lombrosiani rappresentavano «la spina dorsale della Psichiatria» [193], non si limitava al classico e anche un po’ stantio rituale dell’omaggio dovuto ai vecchi luminari – e del resto, il criminologo veneto era defunto da un decennio. Riassumeva, invece, le convinzioni di un cenacolo scientifico pubblicamente quasi invisibile forse, ma per il quale le definizioni lombrosiane di uomo come «un tutto organico, le cui diverse parti sono indissolubilmente legate» [194], e di malattia mentale quale «deviazione dell’attività evolutiva psichica dal tipo normale medico, cioè dal comune regime psichico degli individui» [195], serbavano ancora principi di assoluta attualità e validità.

Tra le macerie e le mancate promesse del progetto lombrosiano di una sintesi scientifica integrale, frutto dell’incontro della psichiatria con altrettante discipline ausiliarie [196], non tutto era destinato ad essere rigettato. E solo comprendendo appieno oggi l’irriducibile contrapposizione lombrosiana tra normalità ed anormalità, tra chi aveva il potere di pensare e la presunzione di sapere e chi, invece, doveva solo mostrarsi nelle sue debolezze al giudizio dell’intellettuale-funzionario, è possibile comprendere l’azione epistemologica della psichiatria positivista. Un’azione tanto scientifica quanto spesso refrattaria al dolore degli uomini sofferenti. Esitante nel riconoscere la continuità che associava normale e patologico, ma senza scrupoli nel preferire l’osservazione e la manipolazione del corpo del folle alla sua effettiva scoperta di essere bisognoso d’aiuto.

La vitalità lombrosiana era poi tastabile con ancor maggior cognizione di cause se, dalla numericamente ridotta comunità psichiatrica, si contabilizza la sua influenza nell’insieme delle mentalità e delle sensibilità espresse circa i temi della follia, della criminalità e della diversità - erroneamente elevata a sinonimo d’ineguaglianza – da politici, amministratori municipali e provinciali, funzionari dell’amministrazione periferica dello Stato [197], opinione pubblica [198] e medici di altre specialità [199]. Perché era soprattutto in questi eterogenei ambienti per cultura, formazione, condizione economica, tenore di vita e ideologia politica che, una ricezione lineare filtrata da superflui intellettualismi dell’opera di Cesare Lombroso, metteva radici, dotando – vero punto di forza del lombrosismo – tradizionali pregiudizi ed inconsci timori di una fondata giustificazione scientifica, manifestamente consona col razionalismo del pensiero della civiltà moderna.

Evidentemente i paradigmi lombrosiani, nelle versione più rigidamente antipopolari, sembravano sfondare una porta aperta con la loro capacità di rappresentare aforisticamente la rotta del sentire dominante di un’epoca prima ottimisticamente illusasi, quindi, di fronte all’inesorabile tramonto del mito del progresso, spinta a dubitare radicalmente di sé quasi al nichilismo.

L’idea che la follia e la criminalità avessero un sostrato comune; la tendenza a pensare patologicamente i comportamenti altri; la certezza che dietro le diversità fisiche e psichiche si celassero segnali di disordine morale; la convinzione che l’asocialità del folle preludesse ad una sua antisocialità: tutto questo non era invenzione lombrosiana, trovando riscontro in sedimentazioni culturali e atteggiamenti quotidiani di antica data [200]. Ma con Lombroso ed il positivismo di fine secolo, queste stesse idee perdevano il loro carattere caotico ed il loro fondamento eteronomo, per codificarsi in un sistema conchiuso capace di sopravvivere al proprio legislatore. Sistema forte, infine, di una parvenza di scientificità che, nutrendosi della diffusa insicurezza sociale e di un sotterraneo nichilismo politico utile per rimandare sine die i conti con la modernità, prometteva d’immettere quasi inavvertitamente nelle pieghe della coscienza degli italiani false certezze antiumanistiche, come quella che riteneva dati di fatto certi l’esistenza di una gerarchia razziale tra bianchi gialli e negri, ed evidente la presenza di una varia subumanità malata, pericolosa a sé ed agli altri, inutile economicamente ed indegna di vivere libera nella società, come già preannunciato alla cultura italiana dall’ex direttore dell’ “Avanti” (1900-05) Enrico Ferri nel lontano 1884 [201].

Quando Roberto Maiocchi, sintetizzando gli esiti di una ricerca ampia, scrive che «il razzismo italiano fu, in parte, l’esito obbligato di processi di lunga durata in atto ben prima del 1938 nella nostra cultura scientifica (...)» [202] coglie, a mio modo di vedere, un punto nodale della nostra storia contemporanea sul quale non si rifletterà mai abbastanza. Ecco: grazie anche e soprattutto all’apporto della psichiatria antropologica positivista, nello scaffale delle potenzialità sociali e politiche nazionali, l’ulteriore scivolamento verso un sentimento di superiorità etnica fondato scientificamente, l’antisemitismo di nuovo conio e l’assassinio dell’umanità inutile, se non era certamente automatico [203], non rappresentava nemmeno più un’opzione imprescrittibile del fare politico.

Il processo culturale di costruzione e propaganda di valori e convinzioni razziste del fascismo, a propria volta esito di un instabile equilibrio all’interno del regime tra linee d’attuazione politica differenti nel quadro di una strategia discriminatoria condivisa, non sarebbe germogliato in un vuoto pneumatico [204]. Se davvero lunga durata e bassa intensità [205] caratterizzano l’approdo italiano all’intolleranza razziale, uguali ritmi e medesimo vigore già marchiano a fuoco vivo l’epopea lombrosiana e positivista, nata e maturata quando la giovane nazione rigenerata e risorta cercava sé stessa dopo l’Unità [206] incocciando nell’altro in casa del nostro Meridione. Per queste ragioni, il lavoro storiografico non può semplicisticamente attendere il punto di non ritorno delle leggi varate nel 1938 dalla dittatura mussoliniana [207], limitandosi a criminalizzare l’opportunismo o la malafede di frazioni consistenti delle élite scientifiche, per fare i conti apertamente col passato dell’illusione a tinte neoilluministe del positivismo medico fine ottocentesco, politicamente prossimo ad un socialismo evoluzionista non marxista.

        

       

   

NOTE:

 

1)               Riprendo tale definizione da G. Portigliotti, Il Maestro. La vita, le opere [Enrico Morselli], in “Quaderni di Psichiatria”, 1929, p.14, che così sintetizzava, metaforicamente, la condizione di continua ricerca di una salda identità della scienza psichiatrica.

2)               Scriveva B. Cassinelli, Storia della follia, Torino 1936, p.438: “Il dilemma di tutta la filosofia: spirito o materia, si riflette nel dualismo psichiatrico: psicologismo o somatismo. Si può dire che il destino della psichiatria è condizionato dalla storia della filosofia”.

3)               Ancora recentemente, il panel dedicato alla storia della psichiatria dalla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (Cantieri di Storia SISSCO, Bologna, 22-24 settembre, 2005) ha purtroppo mancato il bersaglio grosso promesso dall’invitante titolo: Culture e pratiche psichiatriche nella società italiana del Novecento.

4)               M. Quaranta, Letture di Giovanni Vailati nella cultura italiana (1911-1986), in G. Vailati, Scritti, vol.I, a cura di M. Quaranta, Sala Bolognese 1987, p.VIII.

5)               Cfr. C. Pogliano, Prefazione a P. Guarnieri, Individualità difformi. La psichiatria antropologica di Enrico Morselli, Milano 1986, pp.7-14.

6)               E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943, Roma-Bari 1975, pp.7-8. A mio parere, tuttavia, il termine rottura è eccessivo, mentre si dovrebbe parlare propriamente di una compartimentazione delle varie discipline.

7)               Cfr. R. Canosa, Storia del manicomio dall’Unità ad oggi, Milano 1979, pp.70-77.

8)               Cfr. la recensione del volume di L. Guarnieri, L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso, Milano 1999, apparsa nel quotidiano “la Repubblica” del 21 gennaio 2000 a firma di F. Marcoaldi.

9)               C. G. Jung, Psicogenesi della malattia mentale (1919), in La malattia mentale, Roma 1971, pp.199-200.

10)             G. Parlato, Polemiche lombrosiane di ieri e di oggi, in “Note e Riviste di Psichiatria”, 1965, p.785. Inoltre M. Portigliatti-Barbos, Medicina ed antropologia criminale nella cultura positivista, in E. R. Papa, a cura di, Il positivismo e la cultura italiana, Milano 1985, p.428, che ricorda: “trattare, come si compete, dell’apporto medico alla cultura positivista significa parlare di Lombroso e del lombrosismo”.

11)             E. Ferri, Cesare Lombroso e la funzione sociale della scienza, in “Rivista Italiana di Sociologia”, 1909, p.550.

12)             A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, Firenze 1911, p.VIII: “La figura di Cesare Lombroso ha una importanza assai più grande di quella di un qualsiasi scienziato. Essa è rappresentativa della mentalità di tutta un’epoca, e precisamente di quella della seconda metà del secolo XIX (...)”; e p.4: “realmente con Lombroso è scomparso un caposcuola e con la sua morte si chiude un’epoca (...)”.

13)             A. Gibelli, L’esperienza di guerra. Fonti medico-psichiatriche e antropologiche, in D. Leoni, C. Zadra, La Grande guerra: esperienza, memoria, immagini, Bologna 1986, p.69.

14)             F. Basaglia, Scritti II, 1968-1980. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, Torino 1982, p.43.

15)             Rimando alle compilazioni statistiche riportate in G. Modena, a cura di, Le malattie mentali in Italia, Roma 1928.

16)             M. Quaranta, Letture di Giovanni Vailati nella cultura italiana (1911-1986), op. cit., p.IX.

17)             E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943, op. cit., p.9.

18)             G. Parlato, Polemiche lombrosiane di ieri e di oggi, op. cit., pp.827-828.

19)             C. Pogliano, La Grande guerra e l’orologio della psiche, in “Belfagor”, n.4, 1986, p.395.

20)             Basterà ricordare i nomi di Giulio Cesare Ferrari, Enrico Morselli, Augusto Tamburini, Leonardo Bianchi, Placido Consiglio, ecc.: esponenti di primo piano non solo della psichiatria ma del positivismo italiano in genere. Non casualmente, in un interessante volume S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, Firenze 1992, p.28 e seg., definisce gli anni tra 1870 e 1905 come quelli della psicologia sotto tutela di filosofi, antropologi, fisiologi e psichiatri.

21)             C. Pogliano, La Grande guerra e l’orologio della psiche, op. cit., p.403.

22)             A. Tamburini, G. C. Ferrari, G. Antonini, L’assistenza degli alienati in Italia e nelle varie nazioni, Torino 1918, p.666.

23)             Estendo a tutta la psicologia, e non solo a quella militare, l’osservazione di V. Labita, La psicologia militare italiana (1915-1918), in D. Leoni, C. Zadra, La Grande guerra: esperienza, memoria, immagini, op. cit., p.237.

24)             S. De Sanctis, L’isterismo di guerra, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1917 (1918), p.467.

25)             A. Gemelli, Cesare Lombroso, op. cit., p.39.

26)             A. Gibelli, L’esperienza di guerra. Fonti medico-psichiatriche e antropologiche, op. cit., p.53.

27)             S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, op. cit., p.89.

28)             F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari 1981, p.109. Inoltre, La svolta di Giolitti, a cura di A. A. Mola, Bastoni, Foggia 2000.

29)             Ibidem, p.94.

30)             F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, op. cit., p.93.

31)             Si leggano, a proposito del pensiero socialista, gli interventi di psichiatri come P. Amaldi, G. C. Ferrari, C. Lombroso, E. Morselli, A. Tamburini e S. Venturi pubblicati in G. Macchi, a cura di, Socialismo giudicato, Milano 1894; inoltre, nella prospettiva dei medici condotti, il saggio di T. Detti, Medicina, democrazia e socialismo in Italia tra ‘800 e ‘900, in “Movimento operaio e socialista”, n.1, 1979.

32)             G. C. Ferrari, La psicologia della Rivoluzione fascista, in “Rivista di Psicologia”, 1922, pp.145-60; G. Pighini, Le basi biologiche della democrazia e dell’imperialismo, in “Rivista di Psicologia”, 1926, pp.49-78; L. Gualino, Saggi di medicina storica, Torino 1930.

33)             S. Manente, A. Scartabellati, Ipotesi e tracce per lo studio di una biografia di gruppo tra scienza ed identità della politica (1894 - 1927), in “Teorie e Modelli”, in corso di pubblicazione.

34)             A. Donaggio, Effetti psichiatrici del lavoro macchinale. Considerazioni sulla necessità del risveglio dell’artigianato, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1926, pp.278-94.

35)             E. Forcella, A. Monticone, Plotone d’esecuzione, Bari 1972, pp.LIV-LV e nota n.8.

36)             E. Morselli, Le condizioni presenti delle dottrine lombrosiane, in “La Scuola Positiva”, 1914, p.310. Lo scritto, nato come prefazione al volume di U. Masini, Epilessia e delitto, Genova 1914, si segnala, inoltre, per l’interpretazione e per la periodizzazione in tre fasi dell’intera opera lombrosiana proposte dal Morselli.

37)             G. Vidoni, Intorno alla “Psicologia del nostro Soldato”, in “Quaderni di Psichiatria”, 1919, pp.36-37. Lo stesso Lombroso s’era lamentato per le distorte interpretazioni del proprio pensiero fin dalla prefazione alla quinta edizione de L’uomo delinquente, Torino 1896-1897, p.VI e seg.

38)             P. Guarnieri, Individualità difformi. La psichiatria antropologica di Enrico Morselli, op. cit., p.52.

39)             S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, op. cit., p.102.

40)             G. Cosmacini, Gemelli, Milano 1985, p.25.

41)             G. Berlinguer, Medicina, in C. Stajano, a cura di, La cultura italiana del Novecento, vol.II, Bari-Roma 1996, p.448.

42)             L’atteggiamento espresso dal Lombroso verso l’oggetto dei suoi studi, al di là di un’illusoria e vantata vicinanza, attesta un particolare tipo di sensibilità espressione di un tentativo di conoscenza premesso sulla radicale irriducibilità umana, culturale, fisica, ecc., di soggetto (lo psichiatra) e oggetto (il folle).

43)             B. Bianchi, Predisposizione, commozione o emozione? Natura e terapia delle neuropsicosi di guerra (1915-1918), in “Movimento operaio e socialista”, n.3, 1983, p.385; inoltre, della stessa autrice La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzioni e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma 2001.

44)             E. Morselli, Prefazione a U.Angeli, La guerra inevitabile. L’evoluzione politica dei prossimi 50 anni, Roma 1912, pp.VIII-X.

45)             Sul tema, le fondamentali e direi “classiche” osservazioni di Enrico Ferri contenute rispettivamente in La teoria dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio, Firenze 1878, ed in Sociologia Criminale, Torino 1929, pp.6-26.

46)             P. Consiglio, Studi di Psichiatria Militare, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1912, p.379.

47)             R. Viale, Medicina e positivismo, in E. R. Papa, a cura di, Il positivismo e la cultura italiana, op. cit., p.453.

48)             C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, in “Archivio di Antropologia Criminale”, 1908, p.164.

49)             Sulla consapevolezza lombrosiana circa i pesanti retaggi storici e materiali che si ripercuotevano negativamente nella società calabrese cfr. A. Baldi, Antropologia italiana della seconda metà dell’Ottocento, in F. Fedele, A. Baldi, a cura di, Alle origini dell’antropologia italiana, Napoli 1988, pp.162-165.

50)             L. Bulferetti, Cesare Lombroso, Torino 1975, p.120.

51)             P. Consiglio, La medicina sociale nell’Esercito, in “Rivista Militare Italiana”, 1914, p.2912.

52)             G. Lombroso Ferrero, Cesare Lombroso soldato, in “Archivio di Antropologia Criminale”, 1914, p.397.

53)             Per il positivismo medico-criminologico l’evoluzione individuale ripercorreva, in logicamente minor tempo, le fasi dell’evoluzione naturale dell’umanità. La maturità dell’individuo coincideva, quindi, con la sua perfetta corrispondenza e adesione alle forme della civiltà dell’epoca; mancando tale coincidenza, si era in presenza di un disadattamento che poteva scadere nello stato patologico, a sua volta innesco per una reazione criminale. In questa dinamica individuale, con la quale si ripercorrevano le fasi dell’evoluzione umana, centrale importanza rivestiva il cervello, “organo che accumula tutte le forze, tutte le esperienze millenarie della stirpe, tutte le tendenze, le debolezze i dolori e le fortune (...)”; cfr. L. Bianchi, Iperpopolazione ed Eugenica, in “Annali di Neurologia”, 1927, p.19.

54)             L. B., recensione a C. Lombroso, L’Uomo alienato, in “Rivista di Psicologia”, 1914, pp.471-472.

55)             Lombroso, riaffermerà più volte, specie negli ultimi anni della propria vita, che totalmente errata era l’opinione secondo la quale la sua scuola avrebbe negato l’esistenza del libero arbitrio; cfr. C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, op. cit., p.165. Sul problema del libero arbitrio, per una posizione più articolata si veda M. Calderoni, I postulati della scienza positiva e il diritto penale, Firenze 1901.

56)             P. Consiglio, Alcune note di psicologia militare, in “Rivista Militare Italiana”, 1906, p.22.

57)             E. Morselli, La psicogenesi e l’evoluzionismo, in “Quaderni di Psichiatria”, 1920, p.74.

58)             P. Consiglio, La medicina sociale nell’Esercito, op. cit., p.2906.

59)             Idem, Studi di Psichiatria Militare, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1915 (1916), p.50.

60)             Scriveva A. Tamburini, L’indirizzo e le finalità dell’odierna psichiatria, in “Rivista d’Italia”, 1906, p.777, che il “corretto” uso della psichiatria avrebbe condotto “alla interpretazione di molti avvenimenti dapprima inesplicabili nel dominio della storia”. Inoltre, delle stesso Tamburini: La pazzia nell’evoluzione della civiltà, in “Rivista Italiana di Sociologia”, 1908.

61)             Cfr. il volume di F. Giacanelli, D. Frigessi, L. Mangoni, a cura di, Delitto genio follia. Scritti scelti di C.Lombroso, Torino 1995.

62)             G. Vailati, Scritti, vol.I, a cura di M.Quaranta, op. cit., p.6.

63)             F. Mondella, Biologia e filosofia, in L.Geymonat, a cura di, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.VI, Milano 1970-72, p.282.

64)             L’osservazione circa l’apparentamento originario del pensiero di Darwin con Lamarck era stata espressa, tra i primi, dal craniologo A. De Quatrefages, Darwin et ses précurseurs français, Paris 1870.

65)             P. Consiglio, Studi di Psichiatria Militare (1912), op. cit., p.374.

66)             E’ evidente che un tale tipo di scienza si muoveva in un’ottica ancora pre-mendeliana; cfr. A.Jacquard, Elogio della differenza. La genetica e gli uomini, Bologna 1982, pp.8-11 e pp.82-85.

67)             A. Scartabellati, L’esplorazione castrense degli psichiatri italiani: continuità o discontinuità della Grande guerra?, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, n.2, 2005, pp.149-168.

68)             Cfr. i saggi di F. Cazzamalli Guerra e degenerazione etnica, in “Quaderni di Psichiatria”, 1916; Guerra, follia, degenerazione, Milano 1920 e La guerra come avvenimento storico degenerogeno e la necessità di provvidenze riparatrici, in “Giornale della Reale Società Italiana d’Igiene”, 1925.

69)             Tra gli altri G. Gentile, Cesare Lombroso e la scuola italiana di antropologia criminale, in “La Critica”, 1909, e G. Papini, G. Prezzolini, La cultura italiana, Firenze 1906.

70)             P. Consiglio, La delinquenza militare in guerra, in “Rivista Militare Italiana”, 1913, p.1173.

71)             L. Bianchi, Gli orizzonti della Psichiatria, in “Annali di Neurologia”, 1927, p.45.

72)             N. Bennati, La etiologia determinante nella nevrosi traumatica di guerra, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1917 (1918), p.55.

73)             P. Consiglio, Saggi di psicosociologia e di scienza criminale nei militari, in “Rivista Militare Italiana”, 1907, p.1908.

74)             E. Morselli, Psiche e soma. Considerazioni retrospettive di psicopatologia generale, in “Quaderni di Psichiatria”, 1927, p.89.

75)             E. Servadio, U. Spirito, Lombroso, in “Enciclopedia Italiana”, vol. XXI, Roma 1934, p.442; E. Lugaro, S. De Sanctis, Psichiatria, in “Enciclopedia Italiana”, vol. XXVIII, Roma 1935, p.446-48.

76)             E. Ferri, Cesare Lombroso e la funzione della scienza, op. cit., p.554.

77)             Cfr. Enrico Morselli, Ancora del Lombrosismo di fronte alla Scienza Antropologica, in “Quaderni di Psichiatria”, 1916, pp.56-58.

78)             Com’è noto, i manicomi italiani, pur godendo di una direzione scientifica autonoma, dipendevano economicamente dalle Amministrazioni Provinciali che, non raramente, sollevavano proteste per gli eccessivi carichi di spesa. Il trattamento inumano cui era costretto il folle, come troppo frequentemente si dimentica, spesso dipendeva assai più dalla volontà politica delle varie amministrazioni locali che non dalla scelte strettamente psichiatriche.

79)             U. Masini, Epilessia e delitto, Genova 1914.

80)             Ritorno a Lombroso ciclico, emblematicamente invocato ancora più di trent’anni dopo da L. Lattes, Ritorno a Lombroso, in “Minerva Medicolegale”, 1956.

81)             G. Vidoni, recensione a U.M.Masini, Epilessia e delitto, in “Quaderni di Psichiatria”, 1914, p.374. Per un approfondimento del problema epilessia nell’ottica lombrosiana, rimando a L. Roncoroni, Trattato clinico dell’epilessia, Milano 1894.

82)             Cfr. P. Giovannini, Psichiatria e criminalità nella prima guerra mondiale, in “Storia e problemi”, n.1-2, 1988, pp.90-91.

83)             G. Antonini, Relazione sul primo anno d’esercizio del reparto Ospedale militare di riserva di Mombello, Busto Arsizio, 1917, p.13.

84)             Idem, Nell’attesa ansiosa. Note di un interventista 1914-1915, Varallo 1915, p.23; da notare quel che l’autore afferma riguardo la pace: “per raggiungere all’infuori dell’utopia questo ideale, occorrerà attendere che gli uomini si siano trasformati in una uniformità di struttura anatomica, che si compia la livellazione delle condizioni ambientali, e forse, anzi senza forse, che si sappiano eliminare le influenze telluriche, cosmiche, fisiche, e siano scomparse o affievolite quelle ereditarie”. Giuseppe Antonimi fu, infine, l’autore del manuale Hoepli titolato: I principi fondamentali dell’Antropologia criminale, Milano 1906.

85)             Cfr. P. Consiglio, La delinquenza dei minorenni, in “Rivista d’Italia”, maggio 1913, p.733; inoltre A. Cottino, L’ingannevole sponda. L’alcol fra tradizione e trasgressione, Roma 1991.

86)             G. Funaioli: Contributo all’osservazione dei caratteri antropologici dei militari delinquenti, con speciale riguardo al delinquente occasionale, Roma 1912; I criminaloidi nell’esercito, Roma 1915; Contributo clinico alla Neuropsichiatria ed alla Criminologia di guerra, in “Quaderni di Medicina Legale”, 1917-18; inoltre La Redazione, recensione a G. Funaioli, I criminaloidi nell’Esercito, in “Quaderni di Psichiatria”, 1915, p.447.

87)             Autori accomunati, nella riduttiva lettura positivista, dalla volontà di individuare “leggi necessarie” in grado di fornire prevedibilità al processo storico.

88)             P. Consiglio, La medicina militare nei suoi rapporti con le dottrine lombrosiane, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1924, p.409 e, dello stesso autore: La recidiva militare e la delinquenza dei minorenni, in “Rivista Militare Italiana”, 1912, p.977.

89)             B. Bianchi, Predisposizione, commozione o emozione? Natura e terapia delle neuropsicosi di guerra (1915-1918), op. cit., p.403.

90)             P. Consiglio, Alcune note di psicologia militare, op. cit., pp.12-13; metodo che autorizzava “distinzioni di gruppi di individui che si avvicinano per qualità morali, per tendenze, per attitudini mentali, per potenzialità psichiche (...)”.

91)             E. Morselli, L’Eugenica e le previsioni sulla eredità neuro-psicopatica, in “Quaderni di Psichiatria”, 1915, p.327.

92)             F. Cairoli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Milano 1995.

93)             Vedi P. Nicola, “Snidare l’anormale”: psichiatria e masse combattenti nella prima guerra mondiale, op. cit., pp.77-79.

94)             F. Giacanelli, Giulio Cesare Ferrari nella storia della psichiatria italiana, in G. Mucciarelli, a cura di, Giulio Cesare Ferrari nella storia della psicologia italiana, Bologna 1984, p.161.

95)             La Direzione, La funzione sociale del Manicomio, in “Quaderni di Psichiatria”, 1920, p.133.

96)             In questo tardivo senso morselliano della funzione manicomiale va letto pure l’intervento di G. Muggia, Per l’avvenire della Psichiatria e dell’assistenza Psichiatrica, apparso sempre nei “Quaderni di Psichiatria” nel 1923.

97)             E. Morselli, Le condizioni presenti delle dottrine lombrosiane, op. cit., p.309.

98)             Per Nordau, cfr. gli atti del convegno Max Nordau (1849-1923). Critique de la dégénérescence, médiateur franco-allemand, père fondateur du sionisme, Paris 1996.

99)             E. Morselli, L’Eugenica e le previsioni sulla eredità neuro-psicopatica, op. cit., pp.323-324.

100)           Idem, Prefazione a U. Angeli, La guerra inevitabile, op. cit., p.VIII-XIV.

101)           Idem, Cesare Lombroso e l’antropologia generale, in Aa. Vv., L’opera di Cesare Lombroso, Torino 1906, p.25.

102)           Idem, Le condizioni presenti delle dottrine lombrosiane, op. cit., pp.314-316.

103)           La Redazione, recensione a S. Ottolenghi, L’Antropologia Criminale e il Diritto penale in formazione, in “Quaderni di Psichiatria”, 1916, p.288.

104)           A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, op. cit., pp.92-93, sintetizzava: “Si chiama atavismo il fatto che alcuni organismi presentano la tendenza a ritornare verso il tipo primitivo ricalcando le orme del processo evolutivo. Questa tendenza è manifestata dalla comparsa di caratteri che la specie a cui quell’individuo appartiene non ha più e che appartenevano ai suoi antenati. La dottrina dell’atavismo è una filiazione diretta della concezione darwiniana”.

105)           G. Pellacani, In tema di Condotta e di Istinti, in “Quaderni di Psichiatria”, 1916, pp.256- 259.

106)           E. Morselli, Due parole di risposta, in “Quaderni di Psichiatria”, 1916, pp.259-262.

107)           Psichiatria e guerra, in “Quaderni di Psichiatria”, 1917, p.225.

108)           A. Ziveri, Vitalismo, positivismo e scetticismo, in “Quaderni di Psichiatria”, 1925, pp.70-77.

109)           G. Pellacani, Positivismo e metafisica, in “Quaderni di Psichiatria”, 1925, pp.159-160.

110)           Più precisamente riferito al piano scientifico, scrive F. Baldini, Vailati-Freud: un incontro mancato, in M. De Zan, a cura di, I mondi di carta di Giovanni Vailati, Milano 2000: “entrambi [Vailati e Freud] si resero conto che mentre il punto di vista esternalista era sufficiente ad assicurare l’oggettivazione scientifica di una patologia organica, per le patologie psichiche esso non bastava, esso non era che la base da cui partire per attuare un’oggettivazione scientifica internalista della patologia (intendendo con ciò che la ricostruzione teorica delle varie psicopatologie deve includere e spiegare anche il punto di vista del paziente su di essa) (...)”.

111)           E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma 1996, p.76.

112)           Significativamente nella ricostruzione di L. Geymonat, Il pensiero scientifico, Milano 1954, il V capitolo porta il seguente titolo: Il pericolo di trasformare la scienza in metafisica: il positivismo.

113)           M. Quaranta, Letture di Giovanni Vailati nella cultura italiana (1911-1986), op. cit., p.XII; inoltre G. Mucciarelli, a cura di, Giulio Cesare Ferrari nella storia della psicologia italiana, op. cit., con particolare attenzione al saggio di M. Quaranta, G. C. Ferrari critico di C. Lombroso; inoltre, A. Santucci, Giovanni Vailati e la psicologia, in M. De Zan, a cura di, I mondi di carta di Giovanni Vailati, Milano 2000.

114)           Cfr. la testimonianza di Cesare Musatti, Giulio Cesare Ferrari, in G. Mucciarelli, a cura di, Giulio Cesare Ferrari nella storia della psicologia italiana, op. cit., pp.11-16, dove è detto che la grande umanità espressa dal Ferrari verso i propri ricoverarti rappresentava un’eccezione nel panorama nazionale.

115)           C. Musatti, La psicoanalisi arriva da Trieste, in La cultura psicoanalitica, Atti del Convegno, Trieste 5-8 dicembre 1985, Pordenone 1987, pp.192-195.

116)           S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, op. cit., p.182.

117)           Ibidem. Sintetizza il Mahraba che “Ferrari, in chiave esplicitamente antipositivistica, segue James nell’affermazione della tesi volontaristica (...) Tuttavia, sarebbe altrettanto sbagliato ritenere che in Ferrari, a causa delle sue adesioni jamesiane, non vi sia alcuna traccia dell’influenza positivistica. Semplicemente, le istanze positivistiche presenti in Ferrari non sono le stesse presenti in Vailati e Calderoni. Per esempio, il Ferrari dei primi anni del secolo è un convinto sostenitore della costruzione positivistica di Cesare Lombroso (...)”.

118)           La riflessione che S. Puccini, L’antropologia italiana negli anni di Nicolucci, in F. Fedele, A. Baldi, a cura di, Alle origini dell’antropologia italiana, op. cit., p.113, dedica all’antropologia generale è a mio avviso da recepire anche per quanto riguarda la psichiatria.

119)           Cfr. M. Calderoni, I postulati della scienza positiva ed il diritto penale, cit.

120)           S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, op. cit., p.106.

121)           Cfr. F. Barbano, Sociologia e positivismo in Italia: 1850-1910. Un capitolo di sociologia storica, in E. R. Papa, a cura di, Il positivismo e la cultura italiana, op. cit., pp.194-195.

122)           Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, op. cit., p.150.

123)           E. Troilo, Il darwinismo sociale, la sociologia di Comte e di Spencer e la guerra, in “Rivista Italiana di Sociologia”, 1917, pp.430-453.

124)           E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943, op. cit., p.109.

125)           G. Tarozzi, Roberto Ardigò, in “Rivista di Psicologia”, pp.355-357.

126)           G. Lombroso Ferrero, Il dualismo bergsoniano dell’intelligenza e dell’istinto applicato ai criminali, ai pazzi e ad una nuova classificazione delle malattie mentali, in “Archivio di Antropologia Criminale”, 1916, pp.1-11.

127)           Cfr. M. Kobylinsky, G. Vidoni, La Costituzione in Psichiatria, in “Quaderni di Psichiatria”, 1925.

128)           Cfr. F. Del Greco, Una idea direttiva nei recenti studii medico-psicologici, in “Il Manicomio”, 1922, e L’idea di “costituzione” nella Psichiatria clinica, in “Quaderni di Psichiatria”, 1923. La citazione è tratta da quest’ultimo articolo, p.201.

129)           Cfr. B. Cassinelli, Storia della follia, op. cit., pp.445-446.

130)           Si noti che endocrinologia e costituzionalismo, al di là delle tarde distinzioni del Pende, I fattori biotipologici della criminalità, in “La Scuola Positiva”, 1935, permettevano un revival delle teorie lombrosiane anche nel campo propriamente criminologico. Al riguardo, segnalo: N. Pende, Le applicazioni della endocrinologia allo studio dei criminali, in “La Scuola Positiva”, 1923; B. Di Tullio, Manuale di antropologia e psicologia criminale, Roma 1931; G. Montalbano, Valore e limiti del concetto di costituzione delinquenziale, in “La Giustizia Penale”, 1935.

131)           E. Morselli, Ultime produzioni della psichiatria tedesca, in “Quaderni di Psichiatria”, 1919, pp.270-275.

132)           Citato da A. Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, op. cit., p.64.

133)           Ibidem, p.3.

134)           G. Cosmacini, Gemelli, op. cit., pp.13-53.

135)           Cfr. la ricostruzione di A. Gemelli, I rapporti di scienza e filosofia nella storia del pensiero italiano, in G. Bargagli Petrucci, a cura di, L’Italia e la scienza, Firenze 1932.

136)           V. Labita, Un libro-simbolo: “Il nostro Soldato” di padre Agostino Gemelli, in “Rivista di Storia Contemporanea”, n.3, 1986, pp.405-406.

137)           Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, op. cit., p.9.

138)           Val forse la pena di sottolineare come anche Prezzolini e Papini, citati dal Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, op. cit., p.21, analogamente osservassero ancora per il 1906: “Questi signori celebri si chiamano per esempio Lombroso, Mantegazza, Sergi, Morselli, Loria, Mosso, Ferri. Occupano delle cattedre nelle grandi Università, dirigono delle riviste, fanno anche delle lezioni. Vale a dire che non si distinguono troppo da altri professori universitari che fanno precisamente le stesse cose. Ma se ne distinguono per questo: che i loro oracoli e i loro discorsi non vengono letti e ascoltati soltanto da quel pubblico molto ristretto, per quanto poco scelto, composto di scienziati amici, di assistenti ambiziosi e di relatori di accademie, ma son letti ed ascoltati da un pubblico molto più largo, dove entrano le signore, i dilettanti, i maestri elementari, i così detti uomini colti e perfino i giornalisti (...)”.

139)           S.Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, op. cit., p.13

140)           In evidente continuità, la critica gemelliana si forma riprendendo e rilanciando, certo con nuovo vigore, i temi tradizionali della polemica antipositivista ed antievoluzionista maturati negli ambienti della scienza cattolica; cfr. A. R. Leone, La Chiesa, i cattolici e le scienze dell’uomo, in Aa.Vv., L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Roma Bari 1985, in particolare le pp.63-65.

141)           Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, op. cit., p.118.

142)           Ibidem, p.119.

143)           Ibidem, p.144.

144)           Ibidem p.87.

145)           Ibidem, p.47.

146)           Ibidem, p.76.

147)           Ibidem, p.60.

148)           Forse non è un caso che le accuse riservate al Lombroso e alle sue ricerche di metapsichica (o spiritismo), ancor oggi ripetute siano già presenti, ed in tale forma, negli scritti di Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, op. cit., p.13.

149)           Cfr. i Contributi del Laboratorio di Psicologia, Milano 1944.

150)           A. Gemelli, Psicologia e psichiatria e i loro rapporti, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1921. Con questo scritto, il Gemelli invertiva il tradizionale ordine di preminenza nel rapporto fra le due scienze.

151)           N. R. D’Alfonso, La psicologia speculativa e l’unità delle razze, in “Rivista d’Italia”, giugno 1911, p.941

152)           V. Lazzeroni, La psicologia scientifica in Italia, in L.Ancona, Nuove Questioni di Psicologia, vol.I, Brescia 1972, p.77.

153)           N. Checchia, Senso e psiche, in “Rivista d’Italia”, novembre 1914, p.639.

154)           F. Vairo, La morale dell’energia e la guerra, in “Rivista Militare Italiana”, 1911, p.1425: “L’opera che sembrava dovesse essere immortale, la teoria dell’evoluzione di Ebert Spencer, corre pericolo di sgretolarsi, insieme alla monogenesi dell’umanità”.

155)           G. Mucciarelli, a cura di, Giuseppe Sergi nella storia della psicologia e della antropologia in Italia, Bologna 1987.

156)           G. Fiori, a cura di, Antonio Gramsci. Vita attraverso le lettere, Torino 1994, p.264.

157)           P. Guarnieri, Individualità difformi. La psichiatria di Enrico Morselli, op. cit., p.118.

158)           L. B., recensione a C.Lombroso, L’uomo alienato, a cura di G. Ferrero Lombroso, Torino 1913, pp.471-472.

159)           A. Baratono, Il positivismo di Enrico Morselli, in “Quaderni di Psichiatria”, 1929, pp.29-32.

160)           Cfr. F. De Sarlo, Psicologia e filosofia. Studi e ricerche, Firenze 1918.

161)           E. M., recensione a F. De Sarlo, Psicologia e Filosofia, in “Quaderni di Psichiatria”, 1920, p.276: “Quale ragione può dare una Psicologia teleologica, metafisica, al problema della pazzia, che mostra in modo inconfutabile la “unità psico-fisica” di spirito + cervello? Si ha un bel dire che i medici alienisti materializzano lo spirito; ma finché non sarà chiarito il come avvenga che un “spirito” si perverte o impazzisce ogni qual volta c’è un dissesto anche minimo del suo organo, sarà vano parlarci di una “Esperienza” o di un “Io individualizzato”, in cui si pretende per contro di spiritualizzare la materia. E la bella opera del De Sarlo sta là proprio a provare che il porsi in bilico fra il positivismo e l’idealismo può parere un modo felice di sfuggire al dilemma, ma non contenta nessuno”.

162)           Prima edizione, a cura del solo Tanzi, Milano 1905; seconda ediz. Milano 1914; terza ediz. Milano 1923, ecc.

163)           Cfr. R. Castel, L’ordine psichiatrico. L’epoca d’oro dell’alienismo, Milano 1980.

164)           C. Lombroso, recensione a E. Lugaro, I problemi odierni della psichiatria, op. cit., pp.163-165.

165)           Ibidem, p.164.

166)           Ibidem, p.163.

167)           Cfr. “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1901. Di Augusto Tamburini, segnalo Le conquiste della Psichiatria nel secolo XIX e il suo avvenire nel secolo XX, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1902, pp.1-22.

168)           A. Scartabellati, La psichiatria tra scienza e propaganda bellica, in Intellettuali nel conflitto. Alienisti e patologie attraverso la Grande guerra (1909-1921), Bagnaria Arsa – Urbino 2001, pp.91-95.

169)           Non senza ragioni, commentando la seconda ristampa del manuale di Tanzi e Lugaro, Ottolenghi, fondatore della polizia scientifica nazionale, deprecava il sostanziale silenzio riservato in quelle pagine all’azione esercitata dal Lombroso nel campo della teoria e della pratica penalistica; cfr. La Redazione, recensione a S. Ottolenghi, L’Antropologia Criminale e il Diritto penale in formazione, op. cit., p.288.

170)           Cfr. la recensione positiva del manuale di E. Tanzi e E. Lugaro, Trattato delle malattie mentali, in “Quaderni di Psichiatria”, 1916, pp.59-60, di Enrico Morselli, il quale non si poteva certo dire avversario scientifico del Lombroso.

171)           Forse, rispetto al tema della continuità dei paradigmi positivisti, è qualcosa di più di una curiosità e qualcosa di meno di un indizio convincente, il fatto che la giovane generazione psichiatrica annoverasse tra i suoi componenti la figlia del Lombroso, Gina, ed i figli di Leonardo Bianchi, Vincenzo, e di Enrico Morselli, Arturo.

172)           In questa prospettiva è possibile inscrivere la straordinaria vicenda basagliana nelle storia profonda della psichiatria italiana. Ma non solo – come capita di leggere – per aver raccolto insegnamenti da esperienze di psichiatria libertaria del primo ‘900, esperienze assolutamente minoritarie e con ben poco seguito nel panorama alienistico nazionale. Bensì per aver ripreso e rilanciato il ruolo dello psichiatra come attore sociale a tutto tondo, e aver ricollocato nel cuore della società nazionale il problema della malattia mentale e delle sofferenze ad essa collegate.

173)           S. Marhaba, Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1945, op. cit., p.74.

174)           E. Lugaro, La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità, in “Rivista di Patologia nervosa e mentale”, 1916, p.491.

175)           E. Tanzi, E. Lugaro, Trattato delle Malattie Mentali, Milano 1923, vol.I, p.XIII. La citazione è tratta dalla Prefazione alla seconda edizione, ivi riportata integralmente.

176)           E. Lugaro, La psichiatria tedesca nella storia e nell’attualità, in “Rivista di Patologia nervosa e mentale”, 1917, p.288.

177)           E. Tanzi, E. Lugaro, Trattato delle Malattie Mentali, vol.II, op. cit., p.155.

178)           Idem, vol.I, p.VIII. (Prefazione alla prima edizione).

179)           Vedi A. Gemelli, Psicologia e psichiatria e i loro rapporti, op. cit., pp.251-314. Per il futuro organizzatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, la crisi irreversibile dell’alienismo biologico, che “sperò di poter dare di tutti i fenomeni morbosi mentali l’equivalente istologico e l’equivalente biochimico” (p.252), dimostrava una volta di più il bisogno di fondare una nuova psichiatria su basi psicologiche, mantenendosi in questo modo fedeli al vero metodo positivo.

180)           Osserva T. Todorov, Il secolo delle tenebre, in “I viaggi di Erodoto”, marzo-settembre 2000, p.76, “Non vi è alcuna contraddizione tra il determinismo integrale del mondo (che esclude la libertà) e il volontarismo dello scienziato-tecnico (che la presuppone): quest’ultimo non può agire se non perché crede nel primo”.

181)           R. Maiocchi, La scienza italiana ed il razzismo fascista, Firenze 1999, p.144.

182)           E. Morselli, Di due recenti trattati tedeschi di psichiatria, in “Quaderni di Psichiatria”, 1920, p.122.

183)           C. Pogliano, La Grande guerra e l’orologio della psiche, op. cit., p.403.

184)           B. Cassinelli, Storia della follia, op. cit., p.447.

185)           F. Giacchi, recensione a G. Funaioli, I criminaloidi nell’esercito, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1918, p.554.

186)           R. Canosa, Storia del manicomio dall’unità ad oggi, op. cit., p.151.

187)           Cfr. A. De Bernardi, a cura di, Follia psichiatria e società. Istituzioni manicomiali, scienza psichiatrica e classi sociali nell’Italia moderna e contemporanea, Milano 1982.

188)           E. Morselli, Psiche e soma. Considerazioni retrospettive di psicopatologia generale, in “Quaderni di Psichiatria”, 1927, p.82.

189)           Eugenio Tanzi, recensione a S. Venturi, Le degenerazioni psico-sessuali, in “Rivista Sperimentale di Freniatria” 1892, p.195, scriveva: “Gli sguardi degli alienisti, se vogliono esser biologi davvero, devono rivolgersi piuttosto in giù, verso la zoologia, che non in su, verso la sociologia”, faceva eco il giurista B.Franchi, La nuova legge sui manicomii e i rapporti giuridici, in “La Scuola Positiva”, 1904, p.223, stabilendo un’identità tra la responsabilità di chi quotidianamente si confrontava con i folli e “la responsabilità di chi tiene in consegna un animale pericoloso (...)”.

190)           M. Kobylinsky, G. Vidoni, La Costituzione in Psichiatria, op. cit., p.204.

191)           F. Giacanelli, Il medico, l’alienista, in F. Giacanelli, D. Frigessi, L. Mangoni, Delitto genio follia. Scritti scelti di Cesare Lombroso, op. cit., pp.24-25.

192)           B. Cassinelli, Storia della follia, op. cit., p.439

193)           E. Morselli, Ultime produzioni della psichiatria tedesca, op. cit., p.271.

194)           L. B., recensione a C.Lombroso, L’Uomo alienato, op. cit., p.471.

195)           B. Cassinelli, Storia della follia, op. cit., p.447.

196)           Del Greco, La sintesi clinica di E.Kraepelin dal punto di vista della Storia della Medicina, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1909, pp.284-286.

197)           Da questo punto di vista, pur non trattando affatto di follia o criminalità, risultano a mio parere letture di estrema utilità le relazioni che, alla voce “aspetto fisico dei contadini”, compongono l’inchiesta agraria presieduta da Stefano Jacini. Cfr. anche Inchiesta Romilli. L’agricoltura e le classi agricole nel manotovano (1879), a cura di R. Salvatori, Torino 1979, pp.110-113.

198)           Per G. Berlinguer, Medicina, op. cit., p.448, l’opera di Lombroso “per molti decenni influenzò la scienza ed il senso comune di molti italiani, ed ebbe un’ampia diffusione in Europa e nelle Americhe, soprattutto nei paesi di cultura latina”.

199)           Scrive, tra l’altro, alla data del 17 febbraio 1917 nel proprio diario di guerra il medico G. Soldani, Dal fronte del sangue e della pietà, Udine 2000: “Ho visitato la cittadella. Oggi carcere militare, ergastolo sotto gli austriaci. (…) Quando stavo per uscire vidi entrare due nuovi ospiti: due veri aborti di natura, e pensai a quanta verità sta nella vetrina di Lombroso”.

200)           Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano 1963.

201)           E. Ferri, L’omicidio-suicidio. Responsabilità giuridica, Torino 1884, p.31.

202)           R. Maiocchi, La scienza italiana ed il razzismo fascista, op. cit., p.6.

203)           Dev’essere ribadito che Lombroso, Tamburini, Bianchi, Morselli ed in genere tutti gli psichiatri italiani dell’epoca, non possono essere ritenuti responsabili di quello che altri, decenni dopo, anche seguendo una loro pretesa ispirazione, hanno commesso. In questo senso, mi sembra francamente eccessivo quello che afferma M. Foucault, Gli anormali, Milano 2000, quando scrive, p.283: “Il nuovo razzismo, il neo-razzismo, quello che è specifico del XX secolo come mezzo di difesa interna di una società contro i suoi anormali, è nato dalla psichiatria”.

204)           G. L. Mosse, Il razzismo in Europa, Roma Bari 1992, p.93: “Non vi è alcun dubbio che i nazisti e i fascisti abbiano in genere respinto Freud e accolto invece la psicologia lombrosiana”.

205)           Cfr. i saggi raccolti in A. Burgio, a cura di, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Bologna 2000.

206)           Cfr. A. Scartabellati, La Nazione delle Scienze. Antropologi, psichiatri e psicologi tra definizione dell’identità italica e razzismo, relazione letta in occasione del Seminario Dottorandi Nazionale, Dipartimento di Storia dell’Università di Padova, 07-09 febbraio 2005.

207)           A. Gussot, Razzismo e antirazzismo nella storia del socialismo italiano prima del primo conflitto mondiale, in “Marxismo oggi”, n.2-3, 1994.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

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