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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività | |||||||||||||||||||
Meno
di vent’anni intercorrono tra la morte di Cesare Lombroso, avvenuta
nell’ottobre del 1909, e la stipula dei Patti Lateranensi nel
febbraio 1929. Due date significative per l’officina intellettuale
psichiatrica [1]
e la storia della
cultura italiana, qui accettate pragmaticamente quali limiti di un
circoscritto lasso temporale denso di una batteria di histoire-problèmes
che ancor oggi, all’indagine dello storico della cultura [2]
e della medicina, si
pongono quali interrogazioni essenzialmente poco esplorate [3]. Se
il primo decennio del XX secolo aveva visto il maturare delle diverse e
sovente antitetiche strategie culturali vive nel contesto nazionale, sarà
solo nelle due successive decadi che le stesse strategie si confronteranno
concretamente [4]
nei luoghi accademici
e negli spazi istituzionali, non estranee, bensì partecipi, della più
generale crisi di consenso vissuta sul piano socio-politico ed economico
dall’architettura statuale liberale emersa dal Risorgimento. Sono
questi anni, coincidenti con la sopravvalutata crisi del positivismo [5]
– il cui
tramonto fu assai meno inarrestabile di quel comunemente creduto – a
sanzionare quella che Eugenio Garin ha indicato come definitiva frattura,
a tutt’oggi non ricomposta, tra ambienti scientifici e scuole
filosofiche [6].
Anni, dal punto di
vista della psichiatria e della psicologia, ancora in attesa di un’ampia
investigazione abile nel lasciarsi alle spalle sia i contraccolpi delle
battaglie ideologiche innescate dall’appartenenza culturale dei vari
autori, sia, come anticipato, quell’affrettata liquidazione del
positivismo italiano [7]
- recentemente
rinfocolata da libri e articoli [8]
- la quale deve poi
considerarsi vera e propria banalizzazione dell’enciclopedica opera
lombrosiana. Un’opera dallo spessore e dalla fortuna indiscutibilmente
internazionale, ridotta spesso ad esclusivo morfologismo fisico da
un’equivoca tendenza storiografica vòlta a rimuoverne le influenze e le
eredità ancora vigorose in larghi settori delle scienze mediche nazionali
fino ai primi anni ’50 del XX secolo. Come notava Carl Gustav Jung nel 1919 meditando sul più ampio panorama medico internazionale [9], non è adeguato né, nello stesso tempo, soddisfacente richiamarsi al superamento filosofico del positivismo per dedurne un sincronico ripiegamento tra gli adepti delle discipline delle patologie mentali.
Foto: C. G. Jung Appare chiaro da queste premesse che, pur non esaurendo il panorama positivista nostrano, il nome di Cesare Lombroso viene qui innalzato a campione di un più generale stato d’animo scientifico ed esempio paradigmatico di una consapevole opzione operativa medica. Opzione frutto di una maturata e precisa concezione dei rapporti correnti tra società, scienza e ruolo progressista degli intellettuali ascrivibile tout court ai pensatori positivisti [10].
Foto: Enrico
Ferri La scelta non è, del resto, né storicamente né storiograficamente arbitraria. E’ sufficiente valutare i coevi giudizi certo interessati ma, non a priori errati, sia di un ortodosso della scuola antropologica quale Enrico Ferri, sia di un suo radicale avversario quale Agostino Gemelli, convergenti da sponde conflittuali nell’individuare in Cesare Lombroso l’artefice dell’allora coscienza contemporanea [11] ed il rappresentante della mentalità di tutta un’epoca [12]. Pure Antonio Gibelli, scrivendo nel 1985 a proposito della condizione dei paradigmi lombrosiani-positivisti durante gli anni della Grande guerra, ne notava la persistente, più che sorprendente, vitalità, malgrado le sconvolgenti ed inaspettate realtà patologiche scaturite dal conflitto ne avessero esaltato antiche lacune [13]. Foto: A. Gemelli E
tuttavia, con
tutto ciò, non si vuol affatto cadere nell’errore opposto di chi ha
affrettatamente liquidato il positivismo italiano, immaginandone una
coerenza interna, una compattezza ed un favore accademico che, di fatto,
dimostra di non possedere con l’inizio del ‘900. I giudizi
d’ineluttabilità ed incomprensibilità riservati alla malattia mentale
insiti negli approcci positivisti [14] ad una popolazione manicomiale in
preoccupante aumento [15],
e la fallimentare
esperienza della terapeutica psichiatrica, avevano già allora denunciato
i limiti propri di una prassi scientifica più propensa a dominare i
problemi che non a risolverli. Del resto, da queste note carenze si
generava l’esigenza urgente di psicologi e psichiatri – si pensi alla
scuola gemelliana - di una severa revisione dei paradigmi allora dominanti
nelle due discipline [16]. La
crisi del modello medico-biologico della psichiatria antropologica celava
la lacuna vitale del positivismo nazionale: la sua incapacità di
ammettere un senso concreto dell’essere e dell’agire umano che non si
rovesciasse in posizioni di radicale fenomenismo o, tanto peggio, di
singolare idealismo [17].
Pur
ammantate del velo razionalista, le
teorizzazioni positiviste pagavano senza sconti un intrinseco caro prezzo
al loro desiderio di presentarsi quali ipotesi sperimentali chiare e
conchiuse [18],
dirette ad investigare dal vitro morfo-antropologico la
totalità dell’esistenza degli individui impazziti. E
proprio questa
estrema semplificazione del reale doveva facilmente prestare il fianco
alle severe censure degli avversari, cui, per altro, si rispondeva in due
forme. Sia assumendo orgogliosi atteggiamenti di difesa tanto più rigidi
e coerenti quanto maggiore era la sordità verso tali osservazioni
critiche. Sia volgendosi a cercare una via di fuga alle disapprovazioni
rinnovando uno sterile tecnicismo medico presuntuosamente impenetrabile al
senno di filosofi e non addetti ai lavori. Nemmeno
l’allora nascente psicologia, nonostante alcune volenterose prese di
posizione, fiaccava la dinamica che conduceva la psichiatria italiana ad
appiattirsi nella trincea di un obsoleto riduzionismo organicistico e
fisiologico [19].
Era la storia stessa della materia a presentarsi, nel caso, come una
pesante palla al piede. La
nascita della psicologia in Italia era infatti merito dell’impegno e
dello sforzo di numerosi e celebri psichiatri
[20], sì imbrigliati
nelle secche dell’evoluzionismo antropologico e dubbiosi di fronte ai
responsi di una realtà patologica proteiforme e sfuggente, ma non al
punto di rinunciare sic et simpliciter al vincolo della
subordinazione dell’elemento psichico (secondario) all’elemento
organico (dominante) [21].
In linea con la formazione accademica e la professionalità prevalentemente manicomiale degli alienisti, e nella prospettiva ultima di un’assimilazione della psicologia alla psichiatria - intesa la prima come tecnica diagnostica complementare della seconda [22] - l’ambizione conoscitiva dei primi psicologi non si spingeva oltre la raccolta, la descrizione e la catalogazione di fatti [23] positivisticamente intesi. Innervandosi alla psichiatria, ai suoi artifici teorici e alle sue istituzioni, la psicologia ritraeva un duplice vantaggio. Da un lato, ricavava uno spazio di manovra riconosciuto, per quanto circoscritto. Dall’altro, assicurava al suo capitale conoscitivo lo scudo da opporre agli attentati idealistici [24], come osservava con realismo Sante De Sanctis. Certo, l’apparentamento originario della psicologia alla psichiatria non era indolore. Con l’abdicazione della prima all’autonomia, essa rinunciava a svolgere quel ruolo di sferzante critica verso le matrici scientifiche della seconda che, al contrario, sorreggeva negli Stati Uniti ed in Germania [25] la ramificazione del nuovo insegnamento. Ma la giovane psicologia italiana non era certo pronta per dare battaglia su più fronti, nonostante gli anni precedenti la guerra ne sanzionassero il fugace consolidamento organizzativo in ambito militare [26]. In
un quadro più ampio, già segnato a fuoco vivo dal processo di revisione
delle filosofie razionaliste di fine ‘800, proprio il conflitto bellico
si abbatteva sul sistema positivista medico generando una duplice
conseguenza. Il tramonto dell’ingenua fiducia degli epigoni lombrosiani
nella scienza quale mezzo per la soluzione ultima dei problemi umani; e
l’azzeramento di quell’apertura universalistica insita nell’idea di
una attività conoscitiva unica ed unitaria, ponte di civiltà tra i
popoli e le nazioni [27],
che aveva corrisposto
concretamente alla possibilità per i giovani laureati italiani di lunghi
soggiorni nei più avanzati laboratori esteri. Il
declino del primordiale ottimismo positivista era da mettere, inoltre, in
relazione non solo al divenire interno - tra disorientamento e crisi –
dell’impresa scientifica nazionale e delle sue promesse, ma anche con un
generale mutamento di clima che si registrava nell’opinione pubblica e
nei governi di Roma. Mutamento capace di investire e scardinare con forza
le tradizionali relazioni allacciate dai gruppi dirigenti
post-risorgimentali con scienziati, igienisti, medici della tubercolosi ed
interpreti delle temibili patologie mentali. L’accelerazione
in senso nazionalista impressa al dinamismo politico dai governi italiani
(1910-12) alle prese col fallimento del riformismo giolittiano, col
problema dell’emersione delle masse politicizzate e con i deficit delle
strategie liberali, si rivelava la premessa necessaria per la messa in
mora dell’adesione di alienisti e psicologi verso quell’ambiguo
riformismo socialista che aveva assunto a ideologia il positivismo [28].
Ma se colpire il
riformismo socialista equivaleva, sul piano culturale, a mettere in
discussione la tradizione positivista, non meno vero si rivelava il
contrario. Anzi, le due battaglie, culturale e politica,
coesistevano sovrapponendosi. Soprattutto la frangia nazionalista, con
l’iterazione compulsiva di aggressive parole d’ordine rivolte ad una
nuova borghesia [29]
capace di ritagliare
per sé un nuovo ruolo nello Stato, e di scrivere un differente copione
per la nazione sul palcoscenico internazionale, si manifestava l’abile
grimaldello per fiaccare quell’ispirazione progressista della medicina
sociale che aveva guidato l’impegno di numerosi scienziati al cospetto
delle gravi lacune emerse dopo l’unità. Il
caratteristico rifiuto della società di massa, intesa quale espressione
di degenerazione del presente e sciagura per il futuro, del nazionalismo
italiano
[30], si nutriva nel
contesto psichiatrico di turbamenti comuni, e della possibilità
d’incontri proficui con un linguaggio scientifico fortemente marcato
all’origine da uno strutturale sociologismo antropologico prodigo di
avvertimenti circa il rischio imminente del collassamento fisio-morale
della razza italiana. Nella
sostanziale passività della dirigenza del partito socialista, stretta tra
incongruenze teoriche e condanne preventive, il migrare di alienisti e
psicologi verso i lidi ideologici nazionalisti apriva allora una nuova
fase nella storia della psichiatria. Dopo decenni, le masse popolari
apparivano alle scienze della mente prive di quell’estro ingenuamente
positivo che ne aveva favorito l’incontro con l’illuminata e
patriottica scienza, e aveva dato lustro alla filantropica azione di
medici, igienisti e psicologi. Non più italiani da fare, le masse
si capovolgevano nell’oscuro e confuso groviglio umano da sorvegliare e,
all’occorrenza, punire. Macchiato da dilanianti aporie e fraintendimenti sedimentatesi negli anni, il precedente umanitarismo socio-psichiatrico [31] cedeva il passo ad un esclusivistico sentimento, puntellato da una consapevole scelta classista tesa a porre un argine, per mezzo del credo nazionalista, al disorientamento provocato dalla crisi di quella dirigenza e di quella prassi politica che aveva patrocinato ai tempi di Andrea Verga, e favorito nell’età di Lombroso, Tamburini, Morselli e Venturi, la ramificazione asilare della scienza alienistica.
Foto: Andrea Verga Certo, occorre premettere che, quali intellettuali al servizio della nazione e parte attiva della cittadinanza, a psichiatri e psicologi non sono ascrivibili peculiari responsabilità nel definitivo affossamento della realtà statuale liberale. Nel tortuoso tracciato che, dalla fine della guerra condurrà al colpo di stato fascista, essi danno l’impressione più di attendere che di compartecipare agli eventi, al limite legittimando della loro autorità da laboratorio il sospetto dello sfacelo morale e biologico della nazione. Il Giulio Cesare Ferrari che pontifica di una «rivoluzione degli spiriti fascisti»; l’adulatorio Giacomo Pighini che scrive: «Tale Mussolini. Egli è il prototipo di quella costituzione ipertonica tiroideo-ipofisario-surreno-genitale che si riproduce in parecchie centinaia di esemplari nella nuova generazione dell’Italia fascista»; il Lorenzo Gualino che esalta «la terapia del manganello», sono più delle eccezioni che non la regola [32]. E tuttavia, al di là di posizioni ideologiche individuali spesso volubili e dalla complicata definizione, resta cifra di una biografia di gruppo degli scienziati della mente [33], quella loro disponibilità a porsi al servizio del potere, quel loro proverbiale saper di volta in volta destreggiarsi nelle situazioni contingenti senza urtare gli interessi dominanti che, alla metà degli anni ’20, autorizzerà Arturo Donaggio, futuro presidente della Società Italiana di Psichiatria e firmatario del Manifesto degli Scienziati Razzisti, ad irrobustire col sapere psichiatrico le diverse filosofie fasciste del lavoro, non ultima quella del «risveglio dell’artigianato» [34]. La
salvaguardia delle convenienze corporative e la ricerca di opportunistiche
garanzie a favore del ruolo degli alienisti nei meccanismi sociali
sterilizzava, insomma, l’eventuale capacità della stessa scienza di
farsi carico di istanze critiche verso il potere costituito. Non era
casuale che nemmeno lo spartiacque determinato dalla dichiarazione di
guerra all’Austria-Ungheria svelasse aree di pubblico dissenso. In uno
dei pochi casi documentati, quello dello psichiatra e neuropatologo romano
Giuseppe Mingazzini, le perplessità concernevano poi la scelta dello
schieramento – ostile agli Imperi Centrali – non l’opportunità o
l’inevitabilità del conflitto [35]. Era
questo lo scenario nel quale convivevano, non senza zone d’ombra,
incertezze ed emblematiche prove di equilibrismo dialettico, i fedeli
continuatori dell’opera lombrosiana, i positivisti critici volti ad un
ripensamento degli artifici teorici dall’interno, ed i nemici
dichiarati del positivismo e delle teorie del criminologo veneto, le
quali, conviene non dimenticare, rimanevano per tutti, psichiatri in
carriera, periti giudiziari, psicologi da laboratorio, medici di manicomio
e studenti universitari, un pregiudiziale capitolo ed un insopprimibile
momento di confronto nel cursus formativo. Non
è agevole ricostruire, anche solo schematicamente, i concetti essenziali
del pensiero lombrosiano e positivista. Un pensiero, al di là delle
aspirazioni dei suoi propugnatori, enciclopedico ma a-sistematico,
disperso in una sterminata produzione e tassonomia adusa, oggi come
allora, a lasciare campo libero a non lievi fraintendimenti. La brama positivista per un’indagine semplice, essenziale e chiara, ma nello stesso tempo capace di decifrare e penetrare le maglie complesse della realtà, rivelava in tale confronto la sua natura contraddittoria e manchevole. In ragione di ciò, ancora dieci anni dopo la morte del Lombroso, dalle cattedre di psichiatria si era costretti a richiamare l’attenzione su due convinzioni errate e pur tuttavia diffuse come luoghi comuni tra i critici del positivismo. Competeva ad Enrico Morselli, in uno sforzo esegetico, ricordare come l’antropologo veneto non avesse mai dichiarato né la monogenesi del delitto [36] né il parallelismo o la subordinazione dell’anomalia psichica ad una predominante somatica [37].
Foto: Enrico Morselli In
realtà, però, risultava vano negare, insieme al fenomenismo che indagava
segni e non cause [38] e
all’ateismo che
irrideva sdegnato le dottrine creazioniste, come il monismo
evoluzionistico [39]
mediato dall’haeckeliana gerarchia della materia quale primum del
tutto [40]
non rappresentasse
uno dei cardini della costruzione teorica lombrosiana e positivista. In
particolare, l’intelaiatura evoluzionista si prestava nel processo
diagnostico ad una duplice funzione. Da un lato, confermando la supremazia
nella meditazione patogenetica del retaggio ereditario rispetto ai fattori
ambientali [41]. Dall’altro,
autorizzando quel
tracimare logico che permetteva agli psichiatri di scostare lo sguardo
dagli accertamenti individuali alla condizione del corpo collettivo,
forzando l’interpretazione del principio della ricapitolazione della
filogenesi nell’ontogenesi alla luce di un improprio nesso
individuo/popolo/razza. Sguardo
(medico) e oggetto osservato (paziente): larga parte della storia del
positivismo antropologico italiano, almeno fino ai primi anni ‘20, può
essere analizzata come storia di uno sguardo accecato, tanto fuorviante
quanto indispensabile nel condurre alla radicale frattura - tipicamente
lombrosiana [42]
- fra soggetto
senziente e quella materia viva costituita da migliaia di esseri
umani spesso abbandonati e sempre sofferenti. Lo
iato umano, culturale ed economico che separava medico e paziente si
dischiudeva come precondizione necessaria allo sviluppo di un’azione
repressiva e discriminatoria che, se non esclusiva, contrassegnava
profondamente l’agire alienistico, giornalmente alle prese con
preoccupazioni di carattere disciplinare [43]
mentre, dialetticamente, credeva di muoversi lungo i sentieri delle
riforme sociali. L’aver
supposto la presenza di impronte organiche non eliminabili ma
trasmissibili tra le generazioni malate, la convinzione circa
l’esistenza di leggi deterministiche ineluttabilmente poste a dominio
delle singole volontà umane [44],
e lo scrupolo reiterato nell’accettare l’esistenza
di un libero arbitrio [45] che avrebbe potuto dotare il paziente di una
soggettività non completamente esposta al giudizio medico, erano chiavi
logiche tali da permettere agli
alienisti di porre in secondo piano ogni discorso relativo alla
terapeutica psichiatrica, in quegli anni, del resto, intrappolata in una
grave impotenza. Se, nel breve periodo e nella cornice del determinismo
dei fenomeni naturali, vana si presentava la possibilità del recupero
terapeutico delle deviazioni evolutive
[46], il riflesso
pratico di una concezione epistemologica accolta quale conoscenza
dimostrata [47]
spalancava la via
alla quantificazione – grammo per grammo, cm³ per cm³ - di
quelle anomalie originarie sfuggenti ad ogni trattamento riabilitante.
D’altro canto, il mondo misurato e classificato dell’antropologismo
psichiatrico nei laboratori manicomiali non pretendeva solo d’imitare
quel che la fisiologia aveva realizzato nella clinica medica [48].
Confessava almeno due esigenze fondamentali dell’aspettazione
alienistica. Sul piano analitico, il desiderio di inscrivere in una
dimensione falsamente rassicurante il sovrappiù di incomprensibilità che
si generava dalle manifestazioni anormali, e che giornalmente si poneva
come quesito alla riflessione psichiatrica. Sul piano metodologico,
esprimeva invece l’escamotage con cui corredare, dall’esterno,
il cosmo della follia di una sua sistematica coerenza ed intelligibilità. Di
questo sviluppo imboccato dalla scienza alienistica italiana Cesare
Lombroso fu tra i principali promotori, fin da quando, giovane medico
militare del Regio Esercito impegnato nella repressione del brigantaggio
calabro (1863) [49],
maturava il nucleo
originario del proprio pensiero in diretta relazione con la scoperta di
un prototipo umano della devianza. Nell’ottimistico
clima ideale seguito al Risorgimento, l’incomprensione verso la diversità
fisica, culturale e politica di chi mostrava sospetto verso le istituzioni
e la mentalità del Nord civilizzato, si concretizzava nelle vesti del brigante
[50],
un antitipo
semi-umano eletto, dall’indagine positivista, a contenitore privilegiato
della connessione criminalità-follia. Il legame costituzionale che univa
agli occhi del Lombroso e dei suoi seguaci anomalia mentale e attitudine
criminale [51]
era già in nuce
nelle iniziali prove dell’elaborazione lombrosiana, e con esso
l’equivoco reazionario di un pensiero che s’era proposto quale sommo
obiettivo proprio il tracciamento di quel limes che distingueva i
delinquenti nati e d’occasione dai pazzi pericolosi [52].
Questa
strutturale ambiguità del lombrosismo non era destinata solo ad essere
metabolizzata dagli psichiatri della generazione post-unitaria, o a
sopravvivere nelle forme di un’opinione indiscussa tra le classi
borghesi scosse dalla crisi di fine secolo. Portava a compromettere,
infatti, un’altra delle storiche battaglie progressiste
capitanate dal filone positivista italiano, quella per la
deresponsabilizzazione penale del criminale nato. Il tentativo di
decifrare la devianza quale effetto naturalistico ereditario
sur-determinato per l’individuo [53],
nonostante
le proposte per una eziologia complessa e mai ridotta al solo carico
bioantropologico [54],
se,
da un lato, spingeva ad
annullare (con i dovuti distinguo [55])
la volontà delinquenziale e l’imputabilità del soggetto, dall’altro,
dilatando indebitamente i confini della malattia mentale ed i perimetri
delle mura asilari [56],
sospendeva
l’essenza umana del reo, non più imputabile penalmente, ma ridotto a
null’altro che ad un arresto di sviluppo evolutivo [57]. Un Untermenschen
sottratto al carcere per essere segregato manicomialmente, poiché non
c’era posto nella società per individui di tal risma psicobiologica per
una scienza che non si faceva troppi scrupoli nell’estendere il campo
dell’analisi dal registro individuale all’essere sociale tout court,
il luogo ultimo dell’investigazione psichiatrica di tutti i particolari
modi della vita collettiva [58].
Prevenzione,
individuazione ed espulsione degli inutili sociali e dei tarati
incorreggibili: lungo questo triplice versante, che corrompeva
inevitabilmente i concetti di malattia mentale e di processo terapeutico,
e ratificava il definitivo declino dell’illuminato fervore sanitario di
metà Ottocento, si disegnavano i motivi ispiratori della via maestra
tracciata dal Lombroso alla medicina sociale nazionale
[59] e alla
psichiatria antropologica in particolare. Una via maestra non sorda ai contributi esterni. Infatti, la formulazione in ambito germanico di approcci innovativi alla malattia mentale e alla sua cura, ed il trascorrere di un tempo che non corrispondeva all’apoteosi sociologica della scienza alienistica profetizzata da Augusto Tamburini ancora tra 1906 e 1908 [60], suggeriva anche al Lombroso l’abbandono di quel semplicismo monocausale e di quella linearità logica che avevano soprasseduto alla redazione dei suoi primi lavori [61]. E un po’ tutta la corporazione psichiatrica era spinta a maturare posizioni scientifiche più articolate, senza per questo venir meno all’influenza delle moderne teorie evoluzioniste, delle quali se ne prospettavano letture meno meccaniche [62]. Il
poco elastico antropo-somatismo psichiatrico tendeva allora ad arricchirsi
con acquisizioni che, sull’onda lunga dell’heckelismo [63],
concepivano le opere
di Lamarck, Darwin e di Spencer come stadi progressivi di una sistematica
costruzione teoretica [64].
Se di Herbert Spencer
si riprendeva l’emozione propria ad una interpretazione della realtà
votata al pessimismo, di una Weltanschauung dove operavano forti analogie
fra organismi fisici e sociali, non ultimo il fato della sopravvivenza del
più adatto e della eliminazione naturale del più debole, di Charles
Darwin si raccoglieva la batteria di immagini e metafore naturalistiche,
pur ricusandone un’idea guida. L’dea di una selezione e di una spinta
al perfezionamento degli organismi viventi secondo moventi in ultima
analisi casuali, s’infrangeva contro il credito che, presso la comunità
scientifica, ancora godevano il mai discusso organicismo e la dottrina
delle eredità patologiche, concepita in forma pre-mendelliana. La stessa
darwiniana lotta per l’esistenza si disperdeva nelle tradizionali
certezze meccanicistiche della psichiatria, graduandosi, con tono
trasformista-lamarckiano, sui parametri della maggiore o minore
preparazione biopsichica degli individui abili alla vita a
confrontarsi con il ritmo serrato della civiltà [65].
In forme eterodosse, attraverso la rilettura aggiornata di Lamarck, di Haeckel – fautore dell’idea dello sviluppo individuale come esito finale dell’integrazione di fattori ereditari ed ambientali - o, spostando ancor più indietro le lancette della storia, ricorrendo ai testi di Pierre Cabanis, la psichiatria introduceva una nuova chiave diagnostica. Quella del potenziale energetico di adattamento dell’individuo alle forme sociali, dalla cui carenza nei casi gravi o latitanza in quelli meno disperati discendeva, nosologicamente, la possibilità di una anomalia non predeterminata bensì acquisibile ma, non per questo, a sua volta non trasmissibile alle generazioni future [66]. In
questa luce, sviscerando le polivalenti reazioni individuali alle cadenze
della vita sociale, e pur tra gli ennesimi nuovi dubbi interpretativi
sollevati dalle proteiforme patologie di guerra [67], nella
loro maggioranza non riconducibili alla pre-esistenza di tare originarie,
erano rilette e rivalutate [68]
le teorie di Bénédict-Auguste
Morel sulle degenerazioni, intese quali condizioni di negatività esito di
processi necessari instauratisi tra strutture e funzioni organiche e milieu
ambientale. Un
nucleo comune, nondimeno, nutriva le disparate teorizzazioni e revisioni
psichiatriche che confluivano nel cabotaggio culturale di un sapere alla
perenne ricerca di certezze. Un’intrinseca inquietudine a più facce,
proiezione emozionale del contraccolpo dovuto al crollo della fiducia
positivista in un futuro inarrestabile di progresso celebrato dal
sacerdote laico chiamato scienziato. Inquietudine che mascherava a stento
una triplice apprensione alienistica: il dubbio circa il proprio incarico
in una società percorsa da dinamiche disgreganti; la trepidazione per
l’implosione del sistema manicomiale il quale, a propria volta, scontava
l’incapacità riabilitativa e la progressiva marginalità cui era
relegato, in termini di ricerca e prestigio, dalla nascita delle cliniche
universitarie; infine, e non da ultimo, il timore per l’ascesa di
nuove correnti intellettuali capaci di estromettere dal proscenio
culturale la comunità positivista e di allontanarla dalla stanza dei
bottoni. Metaforicamente, il capitale culturale positivista sembrava destinato a smarrire irrimediabilmente la propria produttività sociale e politica. Nell’Italia nuova decantata dai nazionalisti, sarebbe stato ancora possibile vedere uno psichiatra e neurologo di fama come Leonardo Bianchi al vertice del ministero dell’Istruzione (Ministero Fortis, 1905)? Oppure una stagione culturale stava chiudendosi per sempre?
Foto: Leonardo Bianchi Conclusa
l’epoca nella quale l’intellettuale positivista aveva pensato e
presentato se stesso (con discreto successo, per altro) come demiurgo
nazionale, il secondo decennio del XX secolo vedeva l’insieme
psichiatrico costretto a ripiegare, a rinculare in spazi
istituzionali esclusivi ma limitati, sotto i colpi di un neoidealismo che
letteralmente irrideva i risultati di anni di ricerca e strenuo impegno
professionale [69].
A nulla serviva
riaffermare positivisticamente come valesse più un grammo di fatti che un
quintale di teorie campate in aria [70].
Sostenere, con
perfetto aplomb psichiatrico, come la condizione
materialistico-evolutiva dell’organo cervello rappresentasse la più
grande confutazione che la storia naturale avesse predisposto a scapito
dei sistemi metafisici [71].
Denunciare
l’irrazionalismo culturale quale complice della distruzione bellica [72].
Infine, scorgere
nell’idealismo e nel neomisticismo stati collettivi patologici, i cui
sintomi originavano da un disagio intellettuale e da un malessere dello
spirito figli dell’incertezza dominante in un’epoca di transizione
[73].
A
livello di egemonia culturale, a livello d’immagine e di visibilità, la
partita era irrimediabilmente perduta, nonostante ancora nel 1927 il grande
vecchio del positivismo italiano, Enrico Morselli, si affannasse a
gridare ai quattro venti «presunte
[le] vittorie di un idealismo molle e vacuo, anche se attuale (Gentile)
(...)» [74].
Sintomatico che la vasta ed encomiabile impresa dell’Enciclopedia Italiana potesse affidare le voci Psichiatria e Lombroso a studiosi di vaglia come Ernesto Lugaro – in polemica con Lombroso nel 1907 – e Ugo Spirito, noti non certo per simpatie eccessive verso il positivismo e la psichiatria antropologica, riservando – sempre alla voce Psichiatria - un breve cenno all’imponente corpus morselliano ma solo per denunciarne la «critica acerba» all’anatomia istologica [75].
Foto: Ernesto Lugaro Eppure,
ciò premesso, se si sposta l’attenzione dai centri ufficiali della
cultura verso realtà localizzate, anche se periferiche, se si tralascia
la dimensione del successo presso il grande pubblico per focalizzare
l’analisi sulle singole discipline scientifiche, sui singoli istituti
manicomiali e universitari, è difficile dar torto al Morselli critico del
Gentile. E non constatare la vitalità di un flusso magmatico lombrosiano
e positivista nemmeno troppo sotterraneo, capace di suscitare ancora
solida adesione accademica e raccogliere ampio sostegno presso gli allievi
alienisti. Per questi medici ed intellettuali engagement alle prese
quotidianamente con i vissuti di uomini e donne sofferenti, con famiglie,
infermieri, sindaci e fin anche agenti della pubblica sicurezza
disorientati e da loro in attesa di un giudizio direttivo, risuonava
indubbiamente valida la sentenza del Ferri per cui nulla, alle
cognizioni e alla prassi della scienza, avevano aggiunto sia il ritorno in
forze dell’idealismo sia, tanto peggio, il revival del misticismo [76]. Misurare
la forza della resistenza psichiatrica verso le nuove correnti
culturali equivale, così, nello spazio di tempo circoscritto al ventennio
1909-1929, a fare ancora la storia della fortuna lombrosiana e
antropologica nel campo psichiatrico. Per
quanto titubante e scossa, la psichiatria italiana non sembrava
intenzionata né ad abbandonare il nucleo duro positivista né a subire
passivamente esagerate mortificazioni dell’opera e dell’uomo-simbolo a
cui si sentiva, consapevolmente o inconsapevolmente, legata. Del resto,
tra il 1915 ed il 1916, un acceso fuoco di sbarramento dei maggiori nomi
del positivismo italiano, quali Giuseppe Antonini, Enrico Morselli,
Giuseppe Sergi e Sante De Sanctis, accoglieva le interpretazioni che a
seguito della celebre inchiesta di Goring svolta nelle carceri inglesi, ne
leggeva la rilevanza in ambito nazionale nella definitiva liquidazione
delle tesi del Lombroso e della sua scuola criminologica [77]. Ovviamente,
non si verificavano semplicistiche quanto lineari riproposizioni teoriche.
Ogni autore tendeva a setacciare gli insegnamenti positivistici e
lombrosiani al filtro della propria formazione, esperienza e sensibilità,
e sulla base delle oggettive difficoltà che responsabili universitari e
amministratori provinciali frapponevano al regolare corso della loro opera
[78]
di ricerca e manicomiale. Questo
processo, non mancava poi negli autori più informati, di rivelare un vero
e proprio tentativo di aggiornamento paradigmatico. E non di meno, esso
procedeva lungo itinerari tutti interni al canone scientifico, alla
tradizione e alla sensibilità dalla quale era germogliata l’avventura
della psichiatria positivista antropologica. Nel
corso del 1914, la pubblicazione di un libro dovuto alla penna di un
allievo di Enrico Morselli, Umberto Masini [79],
segnava, a giudizio
del redattore dei “Quaderni di Psichiatria”, Giuseppe Vidoni, un
duplice risultato. Il ritorno indiscusso alle teorie del Lombroso [80],
«alle
dottrine costruite dal suo genio»; e
l’ennesima scientifica conferma, auspice la biochimica, di un caposaldo
lombrosiano: la parentela di epilessia, degenerazione e criminalità [81].
Sulla
stessa lunghezza d’onda del Vidoni si situava Cesare Agostini, durante
il conflitto mondiale consulente psichiatrico per la zona di guerra
carnica, secondo il quale inutile era dubitare ancora dell’efficacia del
modello criminologico elaborato dalla scuola italiana [82]. Dal canto suo, Giuseppe Antonini, direttore del rinomato manicomio milanese di Mombello, chiosava che, se correttamente si poteva parlare di parentela fra epilessia, follia morale e criminalità, non era conveniente dedurne una identità, così come fatto dal Lombroso [83]. E tuttavia l’affondo critico non impediva all’Antonini di annoverarsi tra i maggiori sostenitori del positivismo, e di fare largo uso, nelle analisi e nella pratica alienistica, degli artifici lombrosiani [84], il cui indice di gradimento restava così elevato e pregnante che, per fare un solo banale esempio, una loro sottovalutazione determinerebbe l’incomprensibilità fattuale del dibattito medico svoltosi in quegli anni relativo all’abuso delle sostanze alcoliche e delle pertinenti ripercussioni in campo sociale [85].
Foto: le mura
dell'O.P. di Mombello Negli
scritti dei maggiori alienisti militari, l’adesione al positivismo
antropologico riscuoteva, se possibile, ancor più credito. Tutte le
indagini di Gaetano Funaioli, almeno fino ai primi anni ‘20, si
strutturavano dentro un’intelaiatura lombrosiana [86].
Placido Consiglio,
ufficiale di sanità e alienista dell’ospedale militare di Roma,
considerava Lombroso e la sua opera l’apice ultimo di un’atmosfera
scientifica che aveva regalato all’Europa i lavori di Auguste Comte,
Karl Marx, Charles Darwin e Herbert Spencer [87].
E ribaltando lo
stereotipo secondo il quale al positivismo psichiatrico aveva nuociuto
l’eccessiva estensione delle categorie patologiche realizzata dal
Lombroso, Consiglio coglieva nell’incerta delimitazione dei quadri
nosologici il contributo migliore fornito alla scienza alienistica dal
geniale veneto. Prevenzione e difesa della collettività
sana dagli individui anomali e criminali avevano tratto sicuro giovamento
dalla forzatura lombrosiana, altrimenti costrette nelle maglie di
interpretazioni burocratiche scarsamente affidabili nella quotidiana sfida
dei medici alle manifestazioni della follia [88]. Questo
slittamento semantico, che dal piano discorsivo teorico approdava senza
eccessive remore alla valutazione dell’esercizio sociale della
disciplina, riassumeva un’opinione comunemente condivisa dagli
psichiatri. Perché se non pochi tra loro ammettevano il carattere
affrettato della fondazione teorica lombrosiana, rare erano le voci spinte
a discuterne il valore di efficace risposta ai problemi della quotidianità
manicomiale e criminale [89].
Al limite, avrebbe
chiosato il Consiglio recependo la lezione di Enrico Ferri, se un difetto
v’era da rimarcare nella messe delle indagini positiviste e lombrosiane,
questo era da rilevare nell’elementare metodo statistico, con l’inizio
del secolo corretto con un superiore procedimento seriale [90].
Il
dibattito relativo alle fallaci proposte lombrosiane suscitava,
naturalmente, l’interesse di Enrico Morselli [91],
figura di spicco
della medicina nazionale, e per quanto meno indagato dalla storiografia,
studioso probabilmente non inferiore per statura scientifica, acribia
ermeneutica ed originalità di pensiero al Lombroso. Proprio
la meditazione e l’attività di Morselli inducono, in sede di
comprensione storica, a sgombrare il campo psichiatrico dalle facili
semplificazioni. La
frequenza con la quale venivano sollevati dubbi circa l’impianto teorico
lombrosiano nella stampa specializzata, e la statura delle voci
alienistiche impegnate nell’impresa, erano solo una delle facce visibili
di un universo culturale costretto a fare i conti scopertamente, per
quanto in forme esitanti, con i ripetuti smacchi che l’avevano visto
protagonista. Sotto
gli occhi di medici e scienziati stava la sconfitta dell’utopia della
misurazione, con la sua estrema proiezione pratica craniometrica in
grado di far rivivere, nel moderno Ottocento, idee e concetti della
fisiognomica cinque-seicentesca [92]. Certo, non mancava chi, impratichito
da decenni di esperienza, ancora durante la guerra s’attardava in
siffatte pratiche, impegnando una battaglia di retroguardia senza futuro
[93]. D’altro canto, la discussione accademica generale mostrava il
volto di una scienza alienistica decisa a ripensarsi, senza per questo
migrare dai territori conosciuti alla maggioranza degli psichiatri. Abbandonate
le spiegazioni monocausali fondate sulla quantificazione di particolari
aspetti ed organi del corpo, la psichiatria tentava un aggiornamento degli
artifici teorici alla
luce delle nuove acquisizioni istologiche, biochimiche e neurologiche,
conservando la vocazione di fondo positivista e l’ancoraggio al
fondamentale apporto organicistico [94],
il
quale, fin dall’esordio nazionale della disciplina con Andrea Verga,
Carlo Livi e Serafino Biffi, aveva fatto sentire tutta la sua rilevanza. Ecco
perché, meno paradossalmente di quel che potrebbe apparire, troviamo i
nomi dei maggiori psichiatri positivisti a indirizzare
questo lavoro di revisione paradigmatica. Ed era Enrico
Morselli, già fondatore nel 1891 della Rivista di Filosofia
Scientifica, ad esprimere questa originale esigenza con maggior
consapevolezza. Probabilmente
rivivendo quelle atmosfere personalmente partecipate quando, sul finire
dell’Ottocento, la scienza alienistica aveva ottimisticamente creduto di
poter giungere alla cura definitiva della follia, per Morselli il
superamento delle dottrine positiviste e lombrosiane poteva avvenire come
conseguenza indiretta di un intervento focalizzato sulla dimensione
asilare del lavoro alienistico. Segnatamente, il direttore dei “Quaderni
di Psichiatria”, collegando in relazione univoca teoria e prassi,
suggeriva di mitigare le preponderanti funzioni custodialistiche dei
manicomi [95] mirando ad un duplice obiettivo. Ricondurre attraverso la
rivalorizzazione del momento terapeutico della malattia mentale la
psichiatria nell’alveo della medicina e della sua storia [96],
negando le persuasioni di Enrico Ferri che eleggevano gli asili a
strumenti paracarcerari di difesa dell’organismo sociale. Rilanciare,
dopo una fisiologica crisi [97]
e grazie a questa
depurazione funzionale del manicomio e della connotazione alienistica i
capisaldi dell’opera lombrosiana. Per
Enrico Morselli la renaissance del positivismo psichiatrico doveva
transitare obbligatoriamente per un rifiuto dei facili entusiasmi dei
dilettanti dell’antropologia alla Nordau [98];
per il
riallacciamento del cordone ombelicale che legava medicina e psichiatria,
e per la riscoperta letterale dei sacri testi del Lombroso riletti
alla luce della casistica patologica individuale [99]. Scartata
l’unilateralità del morfologismo fisico di fine secolo, i nuovi
paradigmi alienistici volgevano lo sguardo ad una concezione integrata
dell’uomo e multifattoriale della malattia. Una concezione totale dove,
in sede di anamnesi e diagnosi, i contributi dell’organicismo e della
fisiologia (predominanti) dovevano avvantaggiarsi della corretta
conoscenza psichiatrica della storia, della cultura e del milieu familiare
ed ambientale dell’individuo affetto da sofferenza neuropsichica [100].
Una concezione, soprattutto, in cui nulla significativamente poteva essere
letto in contrapposizione aperta ai concetti del Lombroso e della
tradizione antropologica che a lui si richiamava. La
modernità alienistica invocata dal Morselli era la logica conseguenza
della sua lettura del determinismo lombrosiano. In un volume celebrativo
del 1906, prospettando e riassumendo il pensiero dell’antropologo veneto
nel riguardo delle causali patogenetiche, Morselli aveva commentato: «Il
determinismo lombrosiano è a due facce che si integrano a vicenda: il
fattore interno è il più potente ed efficace, ma anche il fattore
esterno ha la sua parte, e non piccola, e non difficile a scoprire» [101]. A
beffa degli sbrigativi affossatori, Lombroso permaneva così precursore
e faro dell’ulteriore evoluzione scientifica. Con parole perentorie,
Morselli affermava come il compito primario di alienisti e neurologi della
nuova generazione fosse semplicemente quello di «corregerne
le idee con una più profonda investigazione della patogenesi e della
anatomia patologica (...) [perché] il lombrosismo permane vitale in un
tale numero de’ suoi principi direttivi e delle sue applicazioni sociali
e giuridiche, da costituire un titolo non perituro di gloria per il
positivismo italiano» [102]. L’aspirazione
morselliana ad una parziale revisione delle dottrine lombrosiane alla luce
della triplice griglia: maggior collegamento psichiatrico con la medicina;
più intensa attenzione all’elemento psichico [103];
sua decisa inscrizione entro le leggi della degenerazione umana del Morel,
poteva pure dare l’occasione a brevi screzi polemici, spesso generati,
in intellettuali dalle idee sostanzialmente non dissimili, da una diversa
interpretazione della farraginosa e aperta a più letture tassonomia
lombrosiana. In
questa casistica ricade la disputa sopravvenuta nelle pagine dei
“Quaderni di Psichiatria” tra lo stesso Enrico Morselli e Giuseppe
Pellacani, esperto eugenista del manicomio veneziano. Sul
declinare del 1916 uno spazientito Pellacani scriveva alla direzione del
periodico genovese, che aveva in precedenza recensito il volume Il
problema della istintività nelle condotte umane, lamentando
d’essere stato frainteso nel suo tentativo di correggere l’artificio
psichiatrico vago e falsamente onnicomprensivo dell’atavismo, con
un più deciso orientamento del medico a soppesare i concreti processi
morbosi individuali [104].
Pellacani
era lungi dall’affondare il coltello nella piaga di una categoria
lombrosiana che prestava il fianco alle facili critiche. E pur affermando
l’insufficienza di alcune deduzioni della scuola antropologica, non
esitava a collocare la propria riflessione nella scia di ricerca
inaugurata da Lombroso, cui non erano addebitabili le forzature teoriche
degli allievi, incauti nel generalizzare semplici effetti e substrati
organici in reattivi criminogeni [105]. Come
si intuisce, ripensando alle proposte morselliane e alle scarne
annotazioni del Pellacani, la controversia non aveva validi motivi di
sussistenza. Di fatto, mancavano alla base della singolar tenzone quei
motivi discordanti e quelle opinioni rigidamente contrapposte che erano, e
sono, il sale delle serie dispute scientifiche. Ed infatti, un ironico ma
conciliante Morselli, facendo a piene mani sfoggio del proprio tipico
equilibrismo dialettico, rispondeva sia dichiarando la propria
approvazione per i chiarimenti del Pellacani, sia associandosi
all’opinione secondo la quale c’era parecchio da escludere e rifare
nel complesso delle dottrine lombrosiane
[106], sia, in conclusione, riaffermando
la validità scientifica della scuola antropologica italiana che, non solo
non era mai entrata in crisi, ma, pure, nel cristallizzarsi del primo
conflitto mondiale, scovava motivi per una eterodossa conferma delle
proprie teorie. La bestialità austro-tedesca contrapposta al fulgido
sacrificio italiano per il diritto delle nazionalità, si chiedeva
Morselli, non era forse la migliore rappresentazione in corso d’opera
della verità di una storia naturale del genere umano scandita da
animalesche regressioni [107]? La
consonanza del Pellacani col consesso positivista era poi talmente
radicata che lo stesso psichiatra del manicomio veneziano era chiamato a
fronteggiare, meno di dieci anni dopo l’incomprensione col Morselli, una
nuova polemica proveniente da ben altri bastioni del pensiero alienistico
che non fossero quelli presidiati dalla direzione dei “Quaderni di
Psichiatria”. Polemica,
sia detto per inciso, che aveva il merito, all’interno di una
sonnecchiante e apparentemente compatta psichiatria, di risvegliare il
dibattito teorico relativo alle radici filosofiche della disciplina, e la
mai sopita querelle circa la natura delle malattie mentali. In
sintesi: dall’asilo di Macerata il dottor Alberto Ziveri, sfiorando le
posizioni del neovitalismo d’inizio ‘900 propenso a porre
all’origine della vita gli atti non conoscibili di una superiore volontà,
stigmatizzava il tentativo del Pellacani di riproporre all’attenzione
della medicina, per mezzo di saggi apparsi nella stampa specializzata,
paradigmi pervicacemente dogmatici. Paradigmi ancora in linea con quel
gretto positivismo biologico ottocentesco che aveva preteso spiegare le
manifestazioni del reale come prodotto proiettivo di processi
bio-fisio-chimici. Per Ziveri era tempo che la psichiatria riponesse nel
cassetto dei ricordi le teorie antropologico-positiviste, sostituendole
con una pragmatica interpretazione della vita nei suoi aspetti normali e
patologici filosoficamente fondata sulla riscoperta dello scetticismo
dell’antica Grecia: «nelle
scienze medico-biologiche», concludeva il medico del manicomio di
Macerata, «i fatti non li possiamo negare ma l’interpretazione di essi
sarà sempre arbitraria. Si ricorrerà volontariamente e anche
involontariamente a un finalismo quando si pretende una spiegazione (...)
le nostre spiegazioni obiettive non sono che o petizioni di principio o
diallelismo (...) La spiegazione della Natura è una illusione
antropomorfa (...)» [108]. Ora,
al
di là del merito della risposta del Pellacani - spinto prima a
distinguere tra verità assoluta e verità scientifica «sempre
relativa ed affatto definitiva ma dato inoppugnabile di esperimento»,
quindi a rimproverare al medico di Macerata come nessuna affermazione
fosse più dogmatica dell’assunto scettico-pragmatico secondo cui la
verità non esisteva od era irraggiungibile
[109] - le note
critiche dello Ziveri conservano oggi una peculiare rilevanza
storiografica, testimoniando del mancato incontro della scienza
alienistica italiana col più genuino pragmatismo novecentesco. Quel
pragmatismo incarnato da un Giovanni Vailati sul piano generale, e da un
Giulio Cesare Ferrari nel campo delle scienze del comportamento. Un
incontro potenzialmente vòlto a fruttare interessanti sviluppi se
coltivato e portato alle sue estreme conseguenze, esaminando come il
pragmatismo rifiutasse quella centralità e assolutezza del soggetto posto
di fronte all’oggetto che non solo caratterizzava tipicamente il
positivismo medico, ma che, altresì, poteva risultare una palla al piede
per l’esigenza alienistica di ristrutturazione del rapporto
psichiatra-disturbo-paziente [110].
Ma
non solo questo senso relativo dell’agire psichiatrico, questa
ipotizzata differente predisposizione all’ascolto nei confronti
dell’umanità sofferente mancava di raccogliere seguaci tra gli
alienisti italiani. Estranea permaneva la consapevolezza dei pragmatisti,
e di nuovo, con particolare cognizione del Vailati, circa la crisi ontologica
dell’impianto positivista [111].
Disattesa, nelle
consequenziali conclusioni, restava la straordinaria forza critica che
scaturiva dall’affermazione della storicità delle forme del sapere -
premessa propedeutica per un rinnovamento dei canoni scientifici.
Inascoltati, infine, risuonavano gli appelli di riforma lanciati verso un milieu
culturale auto-condannatosi nelle maglie strette di una inusuale
metafisica dei segni e delle impronte biologiche [112] come già intuito
da Carlo Cattaneo agli albori del positivismo nazionale. Lo scarso favore incontrato dagli apporti del pragmatismo tra la corporazione psichiatrica, induce alla cautela quando, focalizzando l’analisi storica sulla figura di Giulio Cesare Ferrari - contemporaneamente celebre psichiatra della seconda generazione, padre della psicologia italiana, traduttore dei Principles of Psychology di William James e amico personale del Vailati - si individua nella sua esperienza professionale il tentativo, realizzato, di revisione dei modelli positivistici in campo psichiatrico [113]. Revisione, al contrario, che denunciava un doppio scacco, poiché parzialmente inefficace se commisurata attraverso gli occhi ed i vissuti dell’oggetto dell’alienismo, i folli [114], e largamente sterile se valutata nella sua capacità di penetrare, orientare e riformare il pensiero comune medico.
Foto: William James La psichiatria italiana, nella parallela incomprensione delle sollecitazioni psicoanalitiche che provenivano allora da Trieste con Weiss [115] e, più tardi, con Levi Bianchini, restava aggrappata come un naufrago al proprio salvagente a concezioni meccanicistiche e statiche sia della malattia sia, soprattutto, della sua ordinaria condotta asilare.
Foto: E. Weiss Per
quanto concerne poi il Ferrari, la cui originalità nel panorama
psichiatrico nazionale è fuor di discussione, non solo il suo legame con
l’universo alienistico andrà negli anni sfilacciandosi, sostituito da
un maggior impegno nei campi della psicologia e della pedagogia
dell’infanzia anormale. Ma la sua stessa concezione del pragmatismo
perdeva molto dell’onere problematico vestendo spesso i panni del
semplice utilitarismo funzionale. Accordare valore alle applicazioni
scientifiche a ragione di un giudizio di loro maggiore o minore
convenienza sociale [116] non era piattaforma teorica sufficiente per
sostenere un serio tentativo di revisione delle dottrine lombrosiane,
delle quali Ferrari poteva considerarsi, ancora nei primi anni del secolo,
un convinto sostenitore [117]. Fondamentalmente,
era tutta una mentalità scientifica che doveva essere posta in dubbio -
ciò che avverrà, non senza esitazioni, dopo la fine della Seconda guerra
mondiale [118]
- per autorizzare il
definitivo superamento del sapere positivista antropologico. Sapere che
nemmeno il più rigido e sistematizzato organicismo con venature costituzionaliste
tratte del De Giovanni e dal Pende, mediate alla psichiatria dalla
riflessione di Francesco del Greco, riusciva a corrodere. Verso
un’altra direzione di ricerca spingevano, invece, i poco apprezzati
suggerimenti di autori come Erminio Troilo, Giuseppe Tarozzi - incaricato
della redazione delle pagine di filosofia nella ferrariana “Rivista di
Psicologia” – e Mario Calderoni [119] –
collaboratore dell’
“Archivio di Psichiatria e Scienze Penali” fondato da Lombroso.
Pensatori diligenti nel cimentarsi con un aggiornamento costruttivo dei
modelli scientifici ricusando contemporaneamente
i superficiali distinguo della critica neoidealista. Lungo
questo versante del riformismo positivista intenzionato a riscoprire le
matrici ideali comtiane [120], rimaste largamente infeconde nel pensiero
scientifico italiano, si procedeva battendo vie nuove. Abbandonando
l’interpretazione meccanica e rigidamente predeterminata
dell’evoluzione naturale [121]; negando la possibilità al
descrittivismo positivista di trarre da rapporti di concomitanza rapporti
di causalità - per adottare la terminologia gemelliana [122]; criticando
l’induttivismo privo di originalità di criminologi e psichiatri;
ponendo, infine, sotto accusa la meditazione spenceriana, la cui
componente metafisica ed evoluzionista Erminio Troilo riteneva
responsabile di quelle sciagurate dilatazioni concettuali regolarmente
rimproverate allo strutturalismo antropologico [123]. Per
quanto non pregiudizialmente sfavorevoli all’intellettualità
scientifica, le proposizioni del positivismo critico fallivano il loro
obiettivo. Emblematico l’esito del duplice tentativo di Giuseppe Tarozzi
di «depurare
il positivismo del suo sottofondo metafisico» [124]
e di associare in una
nuova calzante lettura le opere dello straniero Comte con quelle
dell’italiano Roberto Ardigò. Sostanzialmente infruttuose
nell’elaborazione psichiatrica, le argomentazioni del Tarozzi
suscitavano all’opposto vivo consenso quando, aggressivamente,
rimbeccavano a spron battuto le critiche neoidealiste, tacciate come
misere allorché s’arrischiavano ad affermare la morte del positivismo
[125]. Una
trattazione a sé, in questo sintetico catalogo dei progetti di revisione
delle dottrine lombrosiane e positiviste meritano, per l’eterogeneità
degli elementi unificati la prima, e per la completa corrispondenza con la
tradizione patriottica della medicina italiana la seconda, le
proposte avanzate rispettivamente dalla figlia di Lombroso, Gina, e dallo
psichiatra e psicologo direttore del manicomio dell’Aquila Francesco Del
Greco. In
uno scritto del 1916 Gina Lombroso Ferrero s’era misurata col tentativo
di tamponare le lacune evidenti del pensiero psichiatrico rifondandone le
classificazioni patologiche alla luce del dualismo bergsoniano
dell’intelligenza e dell’istinto. Accogliendo l’opinione del
filosofo francese circa la loro irriducibilità in quanto componenti
autonome e prive di nessi causali, perché «secondo
il Bergson non sono l’evoluzione di una stessa facoltà, ma due
attitudini ben distinte e differenti, ciascuna delle quali può essere
portata separatamente ad un altissimo grado senza influire
sull’evoluzione dell’altra», era
possibile sia preservare intatta la categoria lombrosiana dell’atavismo,
sia razionalizzare moltitudini di classificazioni psichiatriche
avvitatesi in casi e sottocasi. Le
attitudini dell’intelligenza e dell’istinto erano i termini
discriminanti di una semplificazione dello spettro patologico che
desiderava, non da ultimo, recuperare alla psichiatria maggior efficienza
operativa, suddividendo le malattie mentali in tre macrogruppi: -
le malattie
dell’istinto, come l’isteria, la genialità, la pazzia morale e la
delinquenza congenita, includenti quelle svariate forme di alienazioni
dove l’abilità di risolvere i problemi della vita pratica era nulla pur
al confronto di una capacità individuale integra di concepire, astrarre e
ragionare; -
le malattie
dell’intelligenza, come il mattoidismo, la paranoia,
l’ipocondria e la monomania rudimentale che, al contrario del gruppo
precedente, contrapponevano a facoltà integre di coordinamento dei mezzi
in vista di fini nella vita minuta capacità di ideazione completamente
nulle; -
per ultime, le
malattie miste, quali la mania, la demenza e l’idiozia,
disturbi in grado di rivelare la totale incapacità dell’individuo sia
di connettere e ragionare in termini astratti, sia di dirigersi nella vita
pratica [126]. Di
quale fortuna e credito abbiano goduto le proposte revisioniste della
figlia del Lombroso è presto detto ponderando il diffuso silenzio loro
riservato nelle pagine di quella stampa neuropsichiatrica e psicologica
generalmente attenta alle novità non solo nazionali che s’avanzano in
un panorama psichiatrico devitalizzato. Senza eccessivi patemi d’animo,
il mondo psichiatrico fece mostra di dimenticare agevolmente Bergson ed il
suo dualismo dell’intelligenza e dell’istinto. Opposte,
viceversa, le reazioni che accoglievano le meditazioni dei primi anni
’20 di Francesco Del Greco raccolte nei due saggi:
Una idea direttiva nei recenti studii medico-psicologici
(“Il Manicomio”) e L’idea di “costituzione” nella Psichiatria
clinica (“Quaderni di Psichiatria”)
[127].
Sinossi di una volontà riformatrice che traeva origine dagli inviti morselliani ad una più stretta connessione con la medicina generale, le proposte di Del Greco puntavano a correggere le forzature positiviste mediante i contributi della scuola costituzionalista italiana di Nicola Pende, Achille De Giovanni e Giacinto Viola, nuove stelle comete del firmamento psichiatrico accanto ai nomi di Lombroso, Leonardo Bianchi, Augusto Tamburini ed Emile Kraepelin.
Foto: E. Kraepelin Del Greco muoveva da una considerazione indiscutibile: la propensione psichiatrica all’anatomismo istologico coltivato nei laboratori e nelle cliniche universitarie aveva menomato quasi allo zero la ricerca terapeutica, derubricandola dall’agenda alienistica. Mentre il danno arrecato all’armamentario curativo era stato profondo, inesorabilmente i manicomi erano decaduti a luoghi di semplice deposito dell’umanità malata. La scienza aveva dimenticato che «fra la malattia, e le condizioni etiologiche e patogenetiche, generatrici di essa, vi è di mezzo l’individuo»; e solo una scorciatoia permetteva ora il recupero del tempo perduto. Questa scorciatoia transitava obbligatoriamente per la valorizzazione del concetto di individualità così come immaginato da Nicola Pende nello sforzo di pervenire ad una sintesi organica del «composto umano».
Foto: Nicola Pende L’attenzione
per il dato strettamente individuale correttamente inteso, a giudizio del
medico dell’asilo aquilano, avrebbe ricollocato l’investigazione
psichiatrica dentro l’orizzonte della medicina clinica. Da un lato,
spingendola a meglio ripensare i fattori strutturanti il sostrato
costituzionale nelle
sue successive ripartizioni interne di originario, ereditario ed evoluto,
ed esterne di normale e patologico. Dall’altro, cassando fra i ferri
vecchi del mestiere le pasticciate ed onnicomprensive teorie
evoluzioniste, in cambio di uno sguardo orientato a meglio comprendere il
paziente concreto nei suoi limiti e bisogni immediati [128]. L’onesto
eclettismo scientifico proposto da Del Greco non cadrà nel vuoto [129].
La maggioranza di quella corporazione medica che
aveva ignorato il contributo alla discussione di Gina Ferrero Lombroso,
presto lo farà proprio,
per una serie di motivi che illuminano caratteristicamente i compositi
percorsi ed interessi della cultura alienistica nazionale. Il
sentiero indicato alla psichiatria da Del Greco prometteva, in primo
luogo, di riequilibrare lo sbilanciamento tacito che aveva osservato i
medici universitari relegare in un teatro di periferia i medici
manicomiali, preservando la Società Italiana di Psichiatria da ulteriori
fratture traumatiche in tempi di fragile identità disciplinare.
Secondariamente, offriva un comodo appiglio a quella componente della
comunità scientifica non disposta a rinunciare al tradizionale know
how positivista
ed antropologico [130],
avendo questo un
solido comune denominatore con l’impostazione di Del Greco
nell’abitudine all’indirizzo organicista e nella aspirazione
ad una diagnosi multifattoriale dove gli elementi psichici, organici,
costituzionali-ereditari e biochimici s’integravano vicendevolmente. In
terzo luogo, nel clima vorticosamente nazionalista di un Paese
sopravvissuto alla mortale sfida bellica, ma segnato, per dirla col
Morselli, «dall’arruffo
indescrivibile in ogni cosa pubblica e privata» del dopoguerra [131],
otteneva di assopire il disorientamento psichiatrico rimandando la messa
in mora spregiudicata dell’opera del patriota Lombroso, radicando il
futuro della disciplina in un rinnovato humus medico-teorico
orgogliosamente nazionale grazie al primato di Pende, De Giovanni e Viola. Certo,
non tutto l’ambiente psichiatrico era prono al desiderio della
maggioranza di rimuovere il confronto serrato con l’esperienza
antropologico-positivista. Voci minoritarie ma vive ritenevano, anzi,
inane insistere nella difesa di un canone scientifico che aveva fallito
nell’approccio ai vissuti dei mentecatti e come strumento d’indagine.
Erano queste voci a costituire la vera alternativa alla psichiatria
antropologica. Alberto
Vedrani non aveva temuto d’incorrere nello sdegno dei colleghi quando,
dalle colonne de “La Voce”, ricusando la messe di lodi e celebrazioni
seguite alla morte del Lombroso, aveva asserito con una valutazione
successivamente diffusa al grande pubblico da Agostino Gemelli: «l’opera
di Lombroso come clinico psichiatra è misera e non esce dalla grigia
mediocrità comune della psichiatria italiana. La quale (non ostante la
presenza di alcuni uomini d’intelligenza elevata che per altro
dispersero la loro attività in altri campi sì da riuscire, più che
psichiatri, neurologi o anatomici o filosofi senza psichiatria) non ha di
suo e di originale che poco o nulla di buono» [132].
E tuttavia, malgrado
l’uso polemico e, in parte, strumentale che delle parole del Vedrani
avrebbe fatto il fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
nel suo celebre pamphlet Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di
una dottrina, non è scontato osservare come, ad una lettura più
attenta, lo stesso Vedrani, dovendo riconoscere un merito al positivismo
psichiatrico, lo ravvisasse propriamente in uno dei capisaldi teorici e
motivi di vanto dell’antropologismo lombrosiano. L’aver cioè
trasmesso alla collettività scientifica la presunzione di una certa qual affinità
tra delitto e pazzia, tra soggetto criminale e individuo folle [133].
Le
stesse ambiguità teoriche non si presentavano però negli scritti di
colui che, per la giovanile formazione e militanza positivista [134]
e per
il contenuto concreto di una scelta professionale condotta con coerenza
per decenni, ancor più dei neoidealisti – sterili censori di una
scienza che male conoscevano e poco comprendevano - può
considerarsi il maggior critico italiano del positivismo medico, e
l’artefice di una vera e propria demolizione sistemica dell’opera
lombrosiana: Agostino Gemelli. Infruttuoso
è, in questo contesto, avviare un’analisi a ritroso dell’intero cursus
professionale gemelliano, tanto vasto quanto poliedrico. Più
proficuo, invece, è concentrare lo sguardo verso alcune sue idee
direttive, per misurare l’incisività e la forza con la quale sferzavano
le certezze bio-antropologiche della comunità psichiatrica nazionale
materialista ed atea. Alla
base della stroncatura gemelliana si situava una precisa interpretazione
della storia nazionale della scienza e della filosofia [135].
Consapevolezza storica spesa a motivare, nei tempi presenti, la scelta di
una lotta senza quartiere contro le posizioni del monismo materialista
[136]
e del determinismo
bio-antropologico, avvertiti dal Gemelli sacerdote-scienziato quali
posizioni sovvertitrici dell’ordine naturale e sociale instaurato da Dio
[137].
Forse
sopravvalutando il favore del positivismo presso l’opinione pubblica [138]
e, sicuramente,
mostrando di ignorare la vocazione elitaria ed antipopolare del moribondo
socialismo positivistico, in Gemelli la lotta scientifica si colorava
esplicitamente di enfasi ideologica, precorrendo i tempi della piena
partecipazione cattolica alla vita politica nazionale. Più
timoroso del confronto con una massa acculturatasi al di fuori
dell’influenza ecclesiastica che non del reale successo positivista, del
resto, percepito in fase declinante, l’antilombrosismo gemelliano
impegnava lo scontro in bilico tra una duplice direttrice. Da un lato,
dimostrando l’insostenibilità dell’analogia supposta dai circoli
criminologici tra degenerazione fisica ed imbastardimento morale.
Dall’altro, minando alle fondamenta l’onnicomprensiva costruzione
evoluzionista e determinista di psichiatri e psicologi, per insistere
sull’esistenza di un libero arbitrio [139]
completamente autonomo dalla condizione fisio-antropologica
degli individui. Affondando
il coltello critico negli anelli teorici deboli del sistema haeckeliano
passati in dote alla psichiatria, Gemelli aveva gioco facile
nell’esporre a severa disapprovazione le irrisolte contraddizioni
presenti nel tableau delle ricerche psichiatriche e criminologiche
di due generazioni di intellettuali [140].
Ad una scienza
alienistica che annaspava tra le false certezze delle sue definitive
conclusioni e l’ossessiva riproposizione delle tradizionali formule
ermeneutiche, il Gemelli obiettava la validità di concetti cardine come
quello che aveva stabilito l’equivalenza tra epilessia, criminalità e
delinquenza [141]
o quello che aveva
sussunto quale dato di fatto il parallelismo pazzia/criminalità. Né, a
salvare quest’ultima ipotesi, era valsa la successiva revisione
lombrosiana tesa a circoscrivere il potenziale criminogeno alla sola
pazzia morale [142]. Per Gemelli, scientificamente ragionando, la celebre
analogia che legava lungo un continuum biologico-comportamentale «i
caratteri speciali degli uomini di genio alienati con quelli dei geni non
alienati e dei pazzi criminali» [143]
era una pura fantasticheria, mentre il
preteso tipo criminale, concetto denominatore delle successive
ricerche di Benigno Di Tullio, modulo falso che non aveva
semplicemente ragione d’esistere quale categoria razionale [144].
Della stessa dottrina
delle degenerazioni per vie ereditarie non si possedevano conferme
obiettive [145],
laddove, al contrario, nessuno nella comunità scientifica internazionale
s’azzardava a negare che «la
degenerazione ha certamente un’importanza molto minore, per esempio, dei
fattori sociali, etici e degli elementi psichici individuali» nella
gestazione delle condizioni patologiche collegabili – lungo reti
trasmissive eterodosse - alla criminalità [146].
Con
acume Gemelli,
censore non banale, interrogandosi tuttavia sulle ragioni del revival
di una teoria che reggeva ben oltre la morte dei suoi maggiori
propugnatori, Morel e Lombroso, era ricondotto ad un discorso lucido e
acconcio a non escludere il testo scientifico dal contesto sociale. Per il
fraticello di Rezzato la vera forza della dottrina delle
degenerazioni risiedeva nel nesso bidirezionale che stabiliva tra
l’episodio pato-criminologico individuale a valle, ed i timori e le
paure inconsce dell’aggregato sociale a monte. Apprensione culturale e
senso di smarrimento politico proprio di una classe dirigente e di una
borghesia non solo ulteriormente messe in allarme dalla crisi di fine
secolo, ma indotte ad affidarsi a piene mani ai tecnici della normalità.
Intellettuali-funzionari come gli psichiatri, gli psicologi ed i
criminologi, a loro volta messi in grado sia di
occupare nuovi spazi
della pubblica discussione, sia di evadere dai luoghi istituzionali
deputati alla custodia dei malati pericolosi a sé e agli altri [147]. I
rilievi gemelliani non offrivano nell’immediato solo una sponda alla
critica neoidealista, ma ottenevano sul lungo periodo attento ascolto tra
i ranghi dell’intellettualità cattolica, preformando opinioni e giudizi
sul positivismo italiano mai venuti meno [148], e tracciando un indirizzo
alla ricerca psicotecnica in grado di rendere peculiari contributi ancora
durante la Seconda Guerra mondiale [149]. I
disegni del futuro fondatore dell’Università Cattolica di Milano di denaturalizzare
l’uomo e di riformare la scienza psichiatrica subordinandone la
riflessione e l’azione agli sviluppi coevi della psicologia sperimentale
[150]
non erano del resto passati inosservati fin dal loro primo apparire. Nello
stesso anno della ristampa ampliata del discorso gemelliano in morte di
Lombroso, il 1911, dalle colonne della prestigiosa “Rivista
d’Italia” si erano definite mostruose le concezioni
dell’antropologia criminale, e tassativo era giunto l’invito a medici
e psichiatri di considerare «la
preminenza qualitativa delle attività psichiche sulle forme quantitative
cerebrali» [151]. In
un mix tutt’altro che estemporaneo, le disapprovazioni dei gabinetti
scientifici cattolici ed il biasimo neoidealista, propenso a squalificare
le meditazioni della scienza al campo degli pseudo-concetti, portavano un
duro colpo alla capacità di psichiatri, criminologi e antropologici di
influenzare la pubblica opinione e le élite della nazione. Non per questo, il fortino positivista, incapace di abbandonare la propria usuale concezione del rapporto uomo/natura [152] e di far fronte comune alle supplementari polemiche provenienti dalla nascente cultura marxista, vedeva il ripiegamento in atto trasformarsi in una rotta per ordine sparso. Anzi, a fronte dell’instancabile azione degli ambienti anti-positivisti di denunciare come puro sofisma il concetto della derivazione dalla materia del pensiero [153] e di depennare fra gli arnesi vecchi della scienza l’evoluzionismo materialista [154], studiosi come Giuseppe Sergi [155] od Enrico Morselli non perdevano nulla del prestigio accumulato presso la corporazione medica in anni d’investigazioni antropologiche. E non è superfluo ricordare ciò che Antonio Gramsci, nei primi anni ’30, osservava a proposito delle dottrine psicoanalitiche. Deciso a rimbeccare Sigmund Freud, al pari del Lombroso, per aver eretto una filosofia universale del genere umano sulla base di alcuni criteri empirici d’osservazione [156], Gramsci era costretto a ricorrere all’esperienza lombrosiana e alla diffusa conoscenza che di essa si aveva tra le masse acculturate per inquadrare, e spiegarsi, il fenomeno relativamente nuovo della psicoanalisi. Una volta di più, insomma, anche se per via indiretta e con paragoni in negativo, le parole del fondatore del comunismo nazionale provano come fosse arduo parlare di scienze umane in Italia senza fare i conti con lo spessore e l’influenza a raggiera dell’opera del poligrafo veneto.
Foto: Antonio
Gramsci Per
il campo positivista, più
costruttive
delle critiche neoidealiste e gemelliane
potevano rivelarsi le osservazioni di Luigi Baroncini e Francesco De Sarlo,
studiosi prossimi a quella cultura antropologica che intendevano mettere
sotto esame. Assistente di Giulio Cesare Ferrari nel Manicomio di Imola [157], Luigi Baroncini coglieva l’opportunità di una recensione ad una antologia lombrosiana sulla follia apparsa nel 1914, per magnificarne le sintesi meravigliose e la potente azione riformatrice, ma anche, senza troppi giri di parole, per invitare i settori psichiatrici più moderni ad abbandonarne definitivamente le categorie interpretative, valide unicamente ai fini di una storia della medicina [158]. Seguito
con minor perizia teorica dallo psichiatra dell’asilo di Cagliari
Adelchi Baratono [159],
si misurava col tentativo di un accomodamento non incoerente tra le
ipotesi idealistiche e le necessità di sperimentazione e verifica sul
campo della scienza [160] Francesco De Sarlo,
medico e alienista già allievo di Franz Brentano a Firenze. La
proposta di De Sarlo faceva un passo deciso verso lo spiritualismo, in
cambio dell’attenuazione del pregiudiziale antievoluzionismo
neoidealista, senza tuttavia riscuotere grandi consensi né tra gli adepti
di Croce e Gentile, né nel variegato consorzio positivista. Velleitaria,
a giudizio di Enrico Morselli l’impostazione desarliana falliva proprio
per non aver fatto una scelta di campo netta, semplicemente limitandosi ad
invertire i temi del dibattere, e cioè sostituendo alla materializzazione
dello spirito imputata ai positivisti, una spiritualizzazione della
materia in forme così ardite da risultare indigeribile alla maggioranza
dei medici italiani delle malattie mentali [161]. Considerando
le proposte di Troilo, Tarozzi e Calderoni poco approfondite, inascoltate
quelle di Baroncini e De Sarlo, e semplicemente ignorata quella di Gina
Lombroso, l’insidia apparentemente maggiore per le dottrine lombrosiane
nella loro declinazione psichiatrica proveniva da un gruppo tutto interno,
per formazione, professionalità e codice linguistico, alla comunità
psichiatrica italiana. Con meno chiasso, ma con maggior probabilità di lasciare il segno, erano quei settori attivi prevalentemente nel campo dell’acculturazione universitaria clinica e neurologica, che non nella gestione dell’universo manicomiale, a mettere in discussione le ipotesi eziologiche del Lombroso e della sua scuola. Guidavano il gruppo Eugenio Tanzi ed Ernesto Lugaro, autori del più volte ristampato Trattato delle malattie mentali, vera e propria bibbia delle giovani classi psichiatriche italiane [162]. In realtà, però, ancora una volta il discorso pur non negandosi valenze critiche esplicite a riguardo delle forzature positiviste, si snodava fondamentalmente tutto nella logica dei tradizionali punti di riferimento organicisti della scienza psichiatrica, i quali non avevano visto nel Lombroso e nella sua scuola né dei critici accaniti, né degli affossatori.
Foto: Tanzi e Lugaro Parafrasando
le categorie interpretative suggerite da Robert Castel nei primi anni
’80 [163], l’analisi storica può dire di trovarsi di fronte
all’ennesimo tentativo di aggiornamento paradigmatico di un sapere
vòlto sì a chiarire e a correggere gli eccessi positivisti nel campo
della diagnostica e della patologia pura; e tuttavia aggiornamento da solo
non sufficiente, per presunto automatismo, a convalidare l’opinione
circa la prematura scomparsa dell’influenza lombrosiana nel complesso
della cultura psichiatrica dominante.
Della
sottile trama critica a lui ostile intrecciata dal drappello di studiosi
concordi con Tanzi e Lugaro aveva avuto sentore lo stesso Lombroso,
giudice severo del Trattato delle malattie mentali, manuale «più
ricco di spirito che di verità » [164].
Per nulla intimidito e tutt’altro che disimpegnato rispetto ai temi
dell’alienismo, un Lombroso settuagenario coglieva l’occasione della
pubblicazione del volume di Ernesto Lugaro I problemi odierni della
psichiatria (Palermo 1907), per impegnarsi nel chiarimento delle
posizioni sue e della scuola che al suo nome si richiamava. Lombroso
considerava le accuse rivoltegli non solo errate, ma anche scorrette ed
insostenibili al vaglio dello sperimentalismo medico, poiché come ogni
positivista alle prime armi ben sapeva, «quando
si vuol abbattere una teoria, si adoperano fatti», non presunzioni
[165].
Ritorcendo un’obbiezione fin troppo nota ai positivisti, e
aprendo il varco ai successivi rilievi polemici di Placido Consiglio e
Francesco Del Greco in difesa della suola antropologica, Lombroso
individuava nell’esagerata accentuazione del dato anatomico il punto
debole metodologico che, a Tanzi e Lugaro, impediva a priori di cogliere
le linee d’insieme dell’universo-follia. Un universo ben
differente dal placido mondo delle cattedre e delle aule universitarie,
costellato da pazzi, criminali, manicomi e milieu familiari e
ambientali dove la malattia si generava e si auto-alimentava [166]. Il
cenno alla valenza operativa della disciplina assume, a mio avviso, un
significato pregnante. Esso non rivela solo della predisposione mentale di
un pensatore, Cesare Lombroso, figura di primo piano di quell’impresa
positivista ottocentesca condotta a rimarcare con forza il tratto unitario
che associava teoria, sperimentazione sociale e prassi asilare. Fornisce,
inoltre, una precisa chiave interpretativa del disaccordo in atto nel
cuore della cultura psichiatrica, mostrando all’esterno il nodo del
contendere tra la vecchia generazione e le nuove leve alienistiche. Leve
cresciute vedendo decantare le ottimistiche promesse fatte proprie dagli
scienziati del comportamento negli anni successivi all’unità politica e
alla fondazione nazionale della disciplina, e toccate con mano in prima
persona dalla lenta decadenza della forza egemonica positivista nella
cultura italiana. Fondamentalmente,
l’atteggiamento psichiatrico che faceva mostra di voler autonomizzarsi
dall’ispirazione lombrosiana e antropologica, inseguiva, ai confini del minimalismo,
un diverso ruolo per lo psichiatra nella società e nell’intellighenzia
nazionale. Invano si cercherebbero tra i fautori di un contegno
psichiatrico meno scoperto le meditazioni sociali onnicomprensive di un
Tamburini, Morselli o Venturi, il quale ultimo aveva aperto la X assise
della Società Italiana di Freniatria (Napoli, 1899) con la significativa
relazione: Come
la psichiatria debba elevarsi allo studio dell’individuo e delle sue
attività nei rapporti colla società ed indicarne i vari corollari nei
riguardi individuali e sociali [167]. Il volgare j’accuse
antitedesco del 1916-17 di Ernesto Lugaro altro non sarà che il corrotto
bagliore residuale di una vocazione socio-politica della scienza
alienistica esacerbata dall’efferato clima bellico [168]. La strada
tracciata si chiariva, al contrario, nella scelta di un ripiegamento
strategico, ancora in grado però di lasciar negoziare alle giovani
generazioni abdicazioni e contropartite. In sintesi, l’indebolimento
della volontà di potenza sociale della psichiatria, se, da un
lato, sbiadiva l’immagine dell’alienista come demiurgo -
irrinunciabile per le classi dirigenti per la corretta gestione
dell’aggregato nazionale [169] - chiamato ad operare negli interstizi di
follia, criminologia e teratologia,
dall’altro, precisando meglio l’oggetto ed i luoghi del suo
agire, comportava una minor esposizione pubblica sul banco degli imputati
nel processo intentato al positivismo dal neoidealismo, e la possibilità
di consolidare quelle posizioni di prestigio e potere reale – in una
società via via resa più diffidente verso le scienze - conquistate
grazie anche all’apporto determinante di Cesare Lombroso. Di
nuovo, la pretesa modernità psichiatrica non si presentava come negazione
esplicita del lombrosianesimo e del positivismo materialista laicista
[170]. Non
c’era nessun padre intellettuale da, freudianamente, uccidere; nessun
ceppo generazionale da infrangere [171]; nessuna scienza normale da
abbattere rivoluzionariamente.
La modernità psichiatrica era, piuttosto, sulle indistruttibili
fondamenta organicistiche, la ricombinazione gerarchica di due diversi
fattori: la rinuncia dei medici delle malattie mentali a fare di una
filosofia naturale del genere umano il totem onnicomprensivo per
l’interpretazione delle manifestazioni sociali, patologiche e criminali,
con l’ostentato disinteresse per le più ampie problematiche popolari -
quella incapacità di cogliere le linee d’insieme, per dirla col
Lombroso - che induceva la psichiatria ad auto-esiliarsi in un’isola, se
non felice, comunque protetta ed inaccessibile ai non addetti ai lavori
[172]. Era il fallimento stesso dei buoni propositi
medico-illuministici di metà Ottocento e la diffusa diffidenza di un
contesto politico e culturale il quale, se da un lato, non poteva recedere
dai manicomi e dalle pratiche alienistiche, dall’altro, era memore delle
mancate promesse positiviste e non tollerava più le aspirazioni
egemoniche dell’imperialismo psichiatrico, a suggerire ad
alienisti e psicologi di assumere un profilo sociologico più basso ma,
nello stesso, tempo più tecnicistico. Mortificata,
costretta in abiti dimessi, intrappolata da un miope arroccamento
corporativo e, nondimeno, la psichiatria, come d’abitudine, claudicante
nella sua capacità di scassinare la cassaforte positivista-antropologica.
Non molto, infatti, anche dei propositi di Tanzi e Lugaro, nonostante i
manifesti attriti polemici del passato, riusciva debordante nei confronti
della fatica lombrosiana e della prassi manicomiale annessa. Il
tono inflessibilmente organicista delle nuove leve psichiatriche maturate
sul Trattato delle malattie mentali
[173] non poteva essere recepito dalla comunità scientifica come
una discriminante antilombrosiana, perché diverso, tra gli uni e gli
altri, era solo il grado di fiducia accordato ad una tale impostazione
scientifica nell’espletamento dell’azione diagnostica. Né
l’affermazione di Lugaro secondo la quale «l’opera
di Lombroso fu bensì uno stimolo fecondo a ricerche e discussioni, ma non
segnò (...) un vero progresso in confronto alle vedute del Morel (...)»
[174];
né l’intenzione di Tanzi di respingere «i
dettami rumorosi ed inconcludenti d’una pretesa antropologia della
degenerazione» da sostituire con il ripescaggio della «teoria originaria
del Morel, che nacque dalla patologia (...)» [175],
suonavano rivoluzionarie nel dibattito psichiatrico italiano,
essendo, negli stessi anni, sulla bocca di studiosi come Ferrari,
Baroncini, Antonini e Del Greco, non associabili ai circoli
antipositivistici. Che Ernst Haeckel si fosse trasformato nella caricatura
farsesca di Charles Darwin [176];
che risultasse urgente depurare e circoscrivere il concetto di
degenerazione ereditaria, «A
meno di ritenere che tutti i pazzi siano degenerati, ipotesi non
dimostrata, inutile e perciò inopportuna (...)» [177];
che bisognasse negare l’identificazione di epilessia e deficienza
di senso morale; che fosse intrinseco all’abituale agire psichiatrico la
sottovalutazione dei dati psichici, ritenuti secondari rispetto ai
sostrati organici; che si potesse leggere nell’ascesa
dell’endocrinologia una nuova fonte d’ispirazione per la psichiatria e
la sua caratterizzazione medico-clinica; che, complessivamente, si volesse
intendere la disciplina come «sentinella
avanzata della biologia nel campo della speculazione (...)» [178], non
erano e sono prese di principio tali da legittimare storiograficamente il
ridimensionamento dell’influsso positivista nella cultura psichiatrica.
Lo stesso richiamo di Tanzi e Lugaro ad una maggiore attenzione alle leggi
del Morel rilette alla luce della patologia individuale, ricalcava quasi
alla lettera la via d’uscita al disorientamento scientifico indicata
alla psichiatria negli stessi anni da un positivista convinto come Enrico
Morselli. Se si esclude il lucido contributo gemelliano, diretto per altro in direzione opposta a quella ammissibile per la maggioranza dei medici delle malattie mentali, integrando e subordinando le conquiste psichiatriche ai recenti progressi della psicologia [179], non pare si possano cogliere nel panorama italiano post-prima guerra mondiale quei segnali di vivacità intellettuale discussi, al contrario, nell’orizzonte europeo grazie alle opere di Freud, Ferenczi e Simmel, e che, in Germania, fin dal 1913, sbocciavano con Karl Jaspers in una articolata psicopatologia generale.
Foto: Karl Jaspers Altri
erano gli approdi ed i temi dibattuti dalla psichiatria italiana. In
ambito teorico, le certezze del determinismo biologico, senza smussare
l’afflato volontaristico dello scienziato-tecnico [180],
si riqualificavano in un meno pretenzioso eclettismo [181]
che mirava ad integrare in forme confuse l’elemento somatico
con l’elemento psichico [182].
La meccanica concezione naturalistica dell’uomo e delle sue
condizioni morbose [183]
circoscrivibili e indagabili negli spazi neutri delle corsie
manicomiali e dei reparti clinici universitari non sarebbe venuta meno.
Così operando, scrisse Cassinelli, «La
psichiatria italiana torna alla purezza dell’osservazione clinica,
tradizione italianissima - da Chiarugi a Verga, da Morselli a De Sanctis -
per confermare che la pazzia è un’affezione dei centri corticali e
delle loro connessioni cerebrali, che trasforma e altera la personalità,
cioè l’individualità pensante, senziente ed operante» [184]. Nel
campo metodologico, come esemplificano le migliaia di cartelle cliniche
redatte, le diagnosi continuavano ad essere l’effetto cumulativo dei
risultati di indagini antropometriche, morfologiche, organicistiche,
psicologiche e funzionali [185], pur riconvertendosi
il peso soggettivo dei vari approcci a favore degli ultimi tre.
L’azione terapeutica permaneva sostanzialmente incapace di raggiungere
esiti soddisfacenti. Le limitate novità
[186] introdotte sperimentalmente con i primi anni ‘20 si
circoscrivevano a rare e qualificate realtà istituzionali [187]. Compatto
restava il dissenso medico verso i sistemi dell’open door e del no
restraint, mentre il sogno di una terapeutica individuale nello stesso
tempo generalizzabile a beneficio delle masse manicomiali si dileguava
dall’ordine del giorno psichiatrico. Certo,
per una componente medica da decenni ridotta più alla gestione
custodialistica che alla cura della popolazione asilare, tutto ciò non
doveva rappresentare una contraddizione mortale. Il perimetro manicomiale,
fallimentare e rovinoso, se non altro rimaneva pur sempre lo sbocco
abituale dei giovani laureati al debutto nella galassia alienistica ed il
domicilio finale del proletariato psichiatrico. D’altro canto, di
pari passo con le idee direttive della disciplina, il pessimismo
terapeutico non subiva ripensamenti nemmeno nell’incontro con le
enunciazioni della scuola costituzionalista. Infatti, pur prescindendo
dalla strumentale auto-interpretazione psichiatrica che leggeva a monte
delle ricerche di De Giovanni e Pende l’applicazione integrale alla
medicina generale delle rigorose intuizioni di Lombroso [188],
l’eccessiva messa in valore dell’elemento ereditario, comune a
positivismo antropologico e costituzionalismo, apriva un canale di
comunicazione dove aride erano le possibilità di far fruttare tale
dialogo. All’occhio medico l’immodificabilità sul breve periodo delle
biotipologie umane se non vanificava l’investigazione clinica
individuale, giustificava però la debole curiosità terapeutica, tanto più
spuntata nei confronti di una popolazione manicomiale senza voce e senza
diritti, raramente descritta come umanità sofferente e più spesso
dipinta alla pari delle bestie pericolose [189]. Inoltre,
solo con ritardo la comunità scientifica seppe far propria, sulla
scia della meditazione costituzionalista, e trascurando il lascito
evoluzionista lombrosiano, un’interpretazione del vulnus ereditario non
come malattia in sé ma come soggettiva «candidatura
alla pazzia» [190]. Tutto
sommato, i movimenti che osservavano la psichiatria emergere dalla tutela
del lombrosismo, del materialismo monista haeckeliano e della dottrina
delle degenerazioni alla Morel, erano passi ancora lenti. Se è vero, come
ha osservato Ferruccio Giacanelli, che sia l’empiria sia la
ricerca teorica neuropsichiatrica, dopo la Grande guerra, svoltarono verso
mete lontane dagli interessi del Lombroso, volgendosi
all’approfondimento della neuropatologia e della clinica nosografia [191],
altrettanto vero è che, a tali percorsi, la psichiatria italiana
era indirizzata per la via maestra dell’empirismo positivista e per il
tramite delle «provvidenziali
esagerazioni» lombrosiane, come annotava in presa diretta il
Cassinelli nella sua informata Storia della follia del 1936 [192]. Involontariamente,
anticipando un’accezione positiva del vocabolo errore che ricorrerà con
frequenza nelle discussioni relative alla storia astronomica (Koyré), fin
anche gli insuccessi del Lombroso si rivelavano agli occhi di
alcuni alienisti come abbagli necessari, fraintendimenti benefici
per la crescita della disciplina. E tuttavia, sarebbe un grosso errore di
sottovalutazione restringere la presenza di Lombroso nella scienza
post-bellica nelle vesti esclusive dell’utile idiota, poiché
resisteva ben altro del suo enciclopedico e cinquantenario magistero.
Quando Enrico Morselli, commentando le più avanzate produzioni della
scienza tedesca un tempo modello e faro della medicina italiana, scriveva
che i concetti lombrosiani rappresentavano «la
spina dorsale della Psichiatria» [193],
non si limitava al classico e anche un po’ stantio rituale
dell’omaggio dovuto ai vecchi luminari – e del resto, il
criminologo veneto era defunto da un decennio. Riassumeva, invece, le
convinzioni di un cenacolo scientifico pubblicamente quasi invisibile
forse, ma per il quale le definizioni lombrosiane di uomo come «un
tutto organico, le cui diverse parti sono indissolubilmente legate»
[194],
e di malattia mentale quale «deviazione
dell’attività evolutiva psichica dal tipo normale medico, cioè dal
comune regime psichico degli individui»
[195], serbavano ancora principi di assoluta attualità e validità. Tra
le macerie e le mancate promesse del progetto lombrosiano di una sintesi
scientifica integrale, frutto dell’incontro della psichiatria con
altrettante discipline ausiliarie [196],
non tutto era destinato ad essere rigettato. E solo comprendendo
appieno oggi l’irriducibile contrapposizione lombrosiana tra normalità
ed anormalità, tra chi aveva il potere di pensare e la presunzione di
sapere e chi, invece, doveva solo mostrarsi nelle sue debolezze al
giudizio dell’intellettuale-funzionario, è possibile comprendere
l’azione epistemologica della psichiatria positivista. Un’azione tanto
scientifica quanto spesso refrattaria al dolore degli uomini sofferenti.
Esitante nel riconoscere la continuità che associava normale e
patologico, ma senza scrupoli nel preferire l’osservazione e la
manipolazione del corpo del folle alla sua effettiva scoperta di
essere bisognoso d’aiuto. La
vitalità lombrosiana era poi tastabile con ancor maggior cognizione di
cause se, dalla numericamente ridotta comunità psichiatrica, si
contabilizza la sua influenza nell’insieme delle mentalità e delle
sensibilità espresse circa i temi della follia, della criminalità e
della diversità - erroneamente elevata a sinonimo d’ineguaglianza –
da politici, amministratori municipali e provinciali, funzionari
dell’amministrazione periferica dello Stato [197], opinione pubblica
[198] e medici di altre specialità [199].
Perché era soprattutto in questi eterogenei ambienti per cultura,
formazione, condizione economica, tenore di vita e ideologia politica che,
una ricezione lineare filtrata da superflui intellettualismi dell’opera
di Cesare Lombroso, metteva radici, dotando – vero punto di forza del
lombrosismo – tradizionali pregiudizi ed inconsci timori di una fondata giustificazione
scientifica, manifestamente consona col razionalismo del pensiero
della civiltà moderna. Evidentemente
i paradigmi lombrosiani, nelle versione più rigidamente antipopolari,
sembravano sfondare una porta aperta con la loro capacità di
rappresentare aforisticamente la rotta del sentire dominante di un’epoca
prima ottimisticamente illusasi, quindi, di fronte all’inesorabile
tramonto del mito del progresso, spinta a dubitare radicalmente di sé
quasi al nichilismo. L’idea
che la follia e la criminalità avessero un sostrato comune; la tendenza a
pensare patologicamente i comportamenti altri; la certezza che
dietro le diversità fisiche e psichiche si celassero segnali di disordine
morale; la convinzione che l’asocialità del folle preludesse ad una sua
antisocialità: tutto questo non era invenzione lombrosiana,
trovando riscontro in sedimentazioni culturali e atteggiamenti quotidiani
di antica data [200].
Ma con Lombroso ed il positivismo di fine secolo, queste stesse
idee perdevano il loro carattere caotico ed il loro fondamento eteronomo,
per codificarsi in un sistema conchiuso capace di sopravvivere al proprio legislatore.
Sistema forte, infine, di una parvenza di scientificità che, nutrendosi
della diffusa insicurezza sociale e di un sotterraneo nichilismo politico
utile per rimandare sine die i conti con la modernità, prometteva
d’immettere quasi inavvertitamente nelle pieghe della coscienza degli
italiani false certezze antiumanistiche, come quella che riteneva dati di
fatto certi l’esistenza di una gerarchia razziale tra bianchi gialli e negri,
ed evidente la presenza di una varia subumanità malata, pericolosa a sé
ed agli altri, inutile economicamente ed indegna di vivere libera nella
società, come già preannunciato alla cultura italiana dall’ex
direttore dell’ “Avanti” (1900-05) Enrico Ferri nel lontano 1884
[201]. Quando
Roberto Maiocchi, sintetizzando gli esiti di una ricerca ampia, scrive che
«il
razzismo italiano fu, in parte, l’esito obbligato di processi di lunga
durata in atto ben prima del 1938 nella nostra cultura scientifica (...)»
[202]
coglie, a mio modo di vedere, un punto nodale della nostra storia
contemporanea sul quale non si rifletterà mai abbastanza. Ecco: grazie
anche e soprattutto all’apporto della psichiatria antropologica
positivista, nello scaffale delle potenzialità sociali e politiche
nazionali, l’ulteriore scivolamento verso un sentimento di superiorità
etnica fondato scientificamente, l’antisemitismo di nuovo conio e
l’assassinio dell’umanità inutile, se non era certamente automatico
[203],
non rappresentava nemmeno più un’opzione imprescrittibile del fare
politico. Il
processo culturale di costruzione e propaganda di valori e convinzioni
razziste del fascismo, a propria volta esito di un instabile equilibrio
all’interno del regime tra linee d’attuazione politica differenti nel
quadro di una strategia discriminatoria condivisa, non sarebbe germogliato
in un vuoto pneumatico [204].
Se davvero lunga durata e bassa intensità [205]
caratterizzano l’approdo italiano all’intolleranza razziale,
uguali ritmi e medesimo vigore già marchiano a fuoco vivo l’epopea
lombrosiana e positivista, nata e maturata quando la giovane nazione
rigenerata e risorta cercava sé stessa dopo l’Unità [206] incocciando
nell’altro in casa del nostro Meridione. Per queste ragioni, il
lavoro storiografico non può semplicisticamente attendere il punto di non
ritorno delle leggi varate nel 1938 dalla dittatura mussoliniana [207],
limitandosi a criminalizzare l’opportunismo o la malafede di frazioni
consistenti delle élite scientifiche, per fare i conti apertamente col
passato dell’illusione a tinte neoilluministe del positivismo medico
fine ottocentesco, politicamente prossimo ad un socialismo evoluzionista
non marxista.
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