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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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      PSICOANALISI E LUOGHI DELLA NEGAZIONE

 

 

 

 Recensione-intervista di Daniela Scotto di Fasano

 

Siamo molto grati a Daniela Scotto di Fasano, psicoanalista e membro ordinario della SPI, per aver acconsentito alla pubblicazione all'interno di Frenis Zero non di una semplice recensione del libro "Psicoanalisi e luoghi della negazione" (Edizioni Frenis Zero, 2011), ma di un testo integrato con interviste ai curatori, al prof. Salomon Resnik (che è uno degli autori del libro) e a Sverre Varvin (psicoanalista norvegese dell'I.P.A.).

Psicoanalisi e luoghi della negazione

 

Ambra Cusin e Giuseppe Leo (a cura di), Psicoanalisi e luoghi della negazione, Scritti di J. Altounian, S. Amati Sas, M.  e M. Avakian, W.  A. Cusin,  N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini  Scalmati,  G. Schneider,  M. Šebek, F. Sironi, L. Tarantini  Collana Id-entità mediterranee, Edizioni Frenis Zero, Lecce, 2011, pagg. 400, ISBN 978-88-903710-4-2, € 38,00.

 

            

 

 

  

 

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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EDIZIONI FRENIS ZERO

 

Ultima uscita/New issue:

AA.VV., "Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana: Cordoglio e pregiudizio

Anno/Year: 2012 

Pagine/Pages: 136

ISBN: 978-88-903710-7-3

Prezzo/Price: € 23,00

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AA.VV., "Lo spazio  velato.   Femminile e discorso psicoanalitico"                             a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)

Writings by: A. Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B. Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S. Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L. Tarantini, A. Zurolo.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana: Confini della psicoanalisi

Anno/Year: 2012 

Pagine/Pages: 382

ISBN: 978-88-903710-6-6

Prezzo/Price: € 39,00

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AA.VV., Psychoanalysis and its Borders, a cura di G. Leo (Editor)


Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jimenez, O.F. Kernberg,  S. Resnik.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis

Anno/Year: 2012 

Pagine/Pages: 348

ISBN: 978-88-974790-2-4

Prezzo/Price: € 19,00

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AA.VV., "Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A. Cusin e G. Leo
Psicoanalisi e luoghi della negazione

Writings by:J. Altounian, S. Amati Sas, M.  e M. Avakian, W.  A. Cusin,  N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini  Scalmati,  G.  Schneider,  M. Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana/Collection: Id-entità mediterranee

Anno/Year: 2011 

Pagine/Pages: 400

ISBN: 978-88-903710-4-2

Prezzo/Price: € 38,00

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"The Voyage Out" by Virginia Woolf 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-97479-01-7

Anno/Year: 2011 

Pages: 672

Prezzo/Price: € 25,00

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"Psicologia dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 41,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Edizione: 2a

ISBN: 978-88-903710-5-9

Anno/Year: 2011

Prezzo/Price: € 34,00

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OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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Psicoanalisi e luoghi della negazione è un imponente volume di circa quattrocento pagine curato da Ambra Cusin e Giuseppe Leo. Esso è in gran parte l’esito del Convegno “Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della negazione” (Lecce, 30 ottobre 2010), organizzato dalla Rivista Psicoanalitica Frenis Zero.

Non solo di Atti si tratta, però, in quanto il volume è arricchito da contributi di altri, che hanno aderito, con i loro scritti, al progetto editoriale e alla collana intitolata “Id-entità mediterranee”, in base ai quali la Psicoanalisi e la Storia del Mediterraneo dovrebbero costituirsi come i due poli di una riflessione ‘al confine’ - come si legge nella quarta di copertina – tra psicologia e sociologia, tra psicoterapia degli individui e dei gruppi e clinica delle psicopatologie sociali.

 

“Sono le dieci di sera di una domenica. Squilla il telefono a casa di un’analista. A chiamare è una vecchia paziente, che ha concluso da più di dieci anni la sua lunga analisi” (7). Questo l’incipit, nella Prefazione di Ambra Cusin, che precipita il lettore nel vivo del tumulto emotivo connesso a vicende traumatiche che, per come le si esplora nelle pagine del volume, hanno come inevitabile correlato i luoghi della negazione. In questi luoghi non si può piangere, come vediamo accadere a Dora, Milena e alla loro madre nel romanzo di Lia Levi La notte dell’oblio: “«Ha avuto il coraggio di negare?» […] «No», aveva risposto Dora, Italo non aveva negato. Si era negato. Lui non era in grado di dire parole perché non esisteva come essere umano, era solo un confuso impasto di materiali di scarto” (2012, 187).

Dora, Milena ed Elsa, la madre, non avevano potuto piangere la morte del padre perché non avevano potuto parlarne, dal momento che farlo obbliga a restare connessi all’inaudito, all’impensabile, all’insopportabile.

Anche “La generazione di armeni che è scampata al genocidio […] si è negata il diritto di piangere, di urlare. Era un lutto troppo grande da elaborare per cui era meglio rimuovere […] rinnegando la lingua, rischiando quella che la glottodidattica chiama ‘morte linguistica’, mutilando i propri cognomi togliendoci il ‘marchio’…ian (Aznavour, Arslan), svanendo nel limbo della non-identità” (Avakian M. e M., 242).

Ecco perché la ‘vecchia paziente’ chiama la sua analista: ha scoperto cose che aveva taciuto a sua stessa insaputa perché, dice, non le poteva pensare e sente, per tale ragione, di aver fatto “un’analisi finta” (8); riparlarne, farà comprendere a entrambe che emergeranno nella seconda tranche d’analisi “non ricordi, ma collegamenti tra singoli ricordi spezzettati” (ibidem).

 

Ad Ambra Cusin, curatrice, con Giuseppe Leo, del libro, chiedo di spiegare perché i ‘collegamenti tra singoli ricordi spezzettati’ non hanno valenza di ‘ricordi’ e quindi in che modo potranno funzionare poi come strumenti di senso nei confronti delle esperienze traumatiche vissute dalla paziente.

Cusin: <<Che bella osservazione e che bella richiesta! Grazie… mi stai aiutando a pensare. Io scrivo molto d’impulso, le cose mi vengono da dentro, spiegarle è successivo. La paziente telefona all’analista anni dopo aver finito l’analisi (una lunghissima analisi), dove mai aveva trattato il tema delle origini ebraiche della sua famiglia. E’ vero che più volte in analisi aveva accennato a tanti fatti, ma mai era riuscita a pensare ai collegamenti tra questi fatti. Per esempio, il fatto che i genitori erano andati, nel 1942, in Alto Adige, dando per scontato che fosse stato per lavoro. Contemporaneamente, sapeva che negli stessi anni una significativa parte della sua famiglia (i due nonni, degli zii, alcune cugine, degli amici di famiglia) erano scappati per nascondersi e che la bisnonna e uno zio di sua madre erano stati deportati e mai più erano tornati. Queste due informazioni mai si erano collegate tra loro per farle venire il dubbio sul fatto che forse, se i genitori erano in uno sperduto paesino di montagna, questo era avvenuto per evitare le persecuzioni che a Trieste erano state devastanti: la comunità ebraica vi è stata quasi distrutta…

In quegli stessi anni la madre (e lo sapeva benissimo) era stata costretta a battezzarsi, così come i suoi nonni materni, che, in più, hanno fatto nel 1939 un matrimonio cattolico per “mettersi a posto”. Aveva, mi disse, sempre conosciuto questi fatti. Mai però si era potuta chiedere quali emozioni li impregnavano, per così dire: farsi queste domande era impensabile, nonostante una lunghissima analisi!

Ebbene, più di dieci anni fa un conoscente (intellettuale triestino molto conosciuto) le comunica che sta facendo una ricerca sui figli dei perseguitati dal nazismo, quelli che erano bambini piccolissimi all’epoca, per dotarli di una pensione che riconosca il danno da loro subìto, da un lato, ma, anche, per capire cosa fosse rimasto  nella loro memoria delle violenze subite dalla famiglia. Ne discute a lungo con lui, entrambi colpiti dal fatto che tutte queste persone sminuiscono… non hanno particolari ricordi…, ma per dieci anni mai, e dico mai con particolare angoscia, pensa che sua sorella è una di quei bambini….

Solo circa 4 anni fa comincia a pensarlo e ci vuole un anno prima che si ricordi di parlarne con il conoscente. Ogni volta che lo incontra questa richiesta “le sfugge di mente”.....

È una rimozione? Una vera e propria negazione?

Comprenderemo che è come se il ricordo di questa domanda da fare, improvvisamente, venisse chiuso a chiave in un sottoscala, al buio e non potesse neanche gridare per farsi sentire. E’ un pensiero che “veniva sparito” (è l’errore grammaticale/sintattico con il quale me ne parla): desaparecido....

Per questo ho trovato utile la parola “nascondimento” utilizzata da Semi.... Per dire come si possa scoprire d’aver vissuto nel nascondimento...” un ”nascondimento” che ha coinvolto anche l’analista, un nascondimento estremamente potente, che rende incapaci di pensare, che interrompe i fili logici del pensiero... e quelli emotivi. Che li scollega. E’ una sorta di obnubilamento, di stupidità. Ancora oggi la paziente non riesce a capacitarsene: “COME NON HO POTUTO VEDERE???”.

Ci si sente veramente stupidi, eppure si rende dolorosamente conto che è proprio così che accade. Ne ho parlato anche con Jorge Corrente, esperto di queste cose, e lui mi ha detto che era un bene che la paziente non lo avesse potuto pensare, perché in tal modo in analisi ha potuto sviluppare quelle strutture indispensabili, anni dopo, a sostenere l’angoscia di questa presa di coscienza. Prima sarebbe stato troppo presto. Come dire che l’analisi può dare i suoi frutti anche dopo molti anni dalla sua conclusione.

Dei rifugi della mente parla John Steiner (1996); li chiama  rifugi - ci dice Mirella Curi Novelli che lo cita ampiamente in un suo lavoro presentato al Centro Ricerche Psicoanalisi di gruppo a Milano nel marzo 2012 - “perché forniscono al paziente un luogo dove, attraverso la fantasia,  può stare relativamente tranquillo, protetto dalle tensioni e per questo possono bloccare l’analisi evitando il contatto con l’analista  che viene mantenuto  estraneo a queste aree” (sottolineatura mia).

Nel caso seguito da Mirella lei afferma che non sono una problematica in sé, visto che attingono alla fantasia, ma la problematicità si riferisce alla produzione eccessiva e all’uso  difensivo che viene fatto di questi “rifugi” rispetto a qualcosa sentito come più drammatico e difficile. Nel caso della mia paziente non si tratta di qualcosa che attiene alla fantasia, ma di qualcosa di reale, che però non è mai stato veramente detto - i genitori non parlavano approfonditamente di questi fatti, li raccontavano come si raccontano le storie ai bambini, per questo penso che si fossero stabilizzati nella sua mente come “fantasie”. Quello che relegava nel rifugio della mente, con il “nascondimento”, erano i collegamenti tra questi “racconti/fantasie”.

Così dunque, circa quattro anni fa, comincia ad affrontare questa cosa; a ricordare tanti piccoli fatti – di cui avevamo parlato mille volte – che riemergono e cominciano a creare una fitta rete che dà forma ad un ricordo significativo: la sua famiglia aveva vissuto con paura la persecuzione nazista e aveva cercato di proteggere la propria bambina, che porterà molti segni della memoria rimossa dai genitori di questi fatti: l’ansia, la tendenza a somatizzare nel corpo cose indicibili, il bisogno di prevedere ogni cosa nei minimi particolari, la costante incertezza e il bisogno di tenere tutto sotto controllo. Questi sono i segni caratteristici dei figli dei sopravissuti alla persecuzione nazista. Nella paziente questi sintomi avevano bloccato alcuni aspetti significativi della vita.

Capisci perché quando affermo che ci sono “non ricordi, ma collegamenti tra singoli ricordi spezzettati” intendo dire come sono i legami tra i fatti ad essere attaccati, distrutti o resi impossibili. I ricordi sono così come frammentati, slegati uno dall’altro, tenuti separati, non scissi, perché lei sapeva che quelle storie avevano a che fare con la guerra ed erano pezzi di una stessa storia, ma le impedivano di farsi delle domande in merito, domande che scoprissero il vero fil rouge che legava quei fatti tra loro.

Iniziò a ricordare (ed è sconvolgente per lei) a capire, che quando la madre la portava dalla vicina non era perché lei doveva lavorare, ma perché aveva paura che qualcuno venisse e portasse via – deportasse – la figlioletta piccolissima mentre lei era al lavoro. Cominciò a dare significato ad una frase che aveva sentito dire dalla madre ma alla quale non aveva mai dato peso… (in sessant’anni!!!): “Se qualcuno viene e le chiede di chi è questa bambina (aveva allora un anno o poco più), dica che è una vostra parente…”. Perché la madre aveva avuto il bisogno di chiedere questo alla vicina di casa… tedesca e alto atesina??? Si tratta di un perché che si può porre solo oggi. E’ questo quello che era stato nascosto nel rifugio della mente, la paura della madre che la sua bambina potesse essere presa dai nazisti. Una paura che non è mai stata parlata, detta, ma era reale, dal momento che la bisnonna fu realmente deportata. Solo in questi anni ha scoperto che è morta ad Auschwitz. Che a più di ottant’anni ha vissuto ad Auschwitz per ben sette giorni dopo un viaggio terribile e qualche giorno in Risiera (a Trieste, unico campo di concentramento in Italia). Tutta la sua famiglia aveva sempre sostenuto che era morta subito in Risiera perché molto anziana. Invece su un libro che raccoglie tutte le informazioni su i deportati italiani ha trovato il suo nome… Come ha vissuto quei giorni? Quanta sofferenza ha dovuto attraversare? Solo ora la paziente si può porre queste domande e solo ora può indossare un suo anello che le aveva lasciato in eredità e che per anni non ha mai messo… perché non riusciva ad indossarlo?

Dunque per rispondere alla tua domanda, la frase “emergono non ricordi, ma collegamenti tra singoli ricordi spezzettati” esplicita quello che la paziente Miriam porta all’analista nella telefonata, non è il ricordo di un fatto specifico, ma il collegamento, il legame significativamente nuovo, perché sdoganato da un rifugio della mente, tra due cose che erano state già ricordate e portate in analisi, ma come fatti tra loro separati, indipendenti, che mai avevano interpellato la paziente su un possibile legame tra loro. Sono domande nuove che compaiono e che sono significative. Domande che creano legami tra i ricordi.  Non è il ricordo di un fatto traumatico in sé, è il collegamento che è traumatico e che deve essere “nascosto”. Il collegamento per esempio tra l’essere affidata ad una vicina, la paura della persecuzione nazista e la consapevolezza che alcuni parenti molto vicini (i due padri della madre e del papà, cioè i nonni della paziente) erano fuggiti per nascondersi (ed erano stati via alcuni anni!)

Spero di essere stata chiara in merito. Mi sono dilungata proprio per farti comprendere, anche emotivamente, il significato importante, a mio parere, della negazione sottostante. Una negazione così potente che si manifesta con un “nascondimento” dei collegamenti tra i fatti in una zona della mente dalla quale è impossibile farli uscire. Per 65 anni questa donna non ha potuto parlarne! Nonostante l’analisi….>>.

 

Infatti, nei luoghi della negazione non si può parlare perché non si può ricordare, o, meglio, non si possono sperimentare emotivamente i collegamenti tra i ricordi: come ha mostrato Bion (1959), sono i legami tra i significati ad essere attaccati quando non se può reggere l’urto. Si tratta del “disinnesco” del dispositivo di “legame” emozionale (cfr. Britton, 1989, 121).

Mi è stato raccontato alcuni anni fa, da una collega, che a Savona, la città in cui vive, ogni giorno, alle 18.00, al rintocco di alcune campane, per un minuto l’intera città si ferma. Si tratta del suono di campane speciali, fuse con il bronzo delle armi usate nel corso della seconda guerra mondiale. Non monumenti ai caduti, ma qualcosa di vivo – l’intera città che osserva un minuto di pausa e silenzio - che interagisce quotidianamente con una realtà viva, in continuo cambiamento, ma sa, ricorda. Un segno vivente alimenta una memoria viva in funzione di più identità: quella dei caduti, da un lato, quella dei viventi, dall’altro.

A proposito della damnatio memoriae (Bodei, 2009), dell’impossibilità di dimenticare per non poter ricordare, penso al lavoro di una giovane laureata in Psicologia, Paola Garbarini (2008), che per la stesura della sua tesi è andata a Buenos Aires per incontrare l’Associazione delle Abuelas de Plaza de Mayo e quella dei figli dei desaparecidos, la Agrupación H.I.J.O.S., con le quali ha lavorato per sei mesi intervistandoli. Il dramma degli H.I.J.O.S. è stato quello di non sapere la verità sul fatto che gli assassini dei loro genitori, militari, membri del regime e poliziotti, li avevano adottati trattandoli però come propri figli biologici. Garbarini ha esaminato la letteratura raccolta da psicologi e psicoanalisti in Argentina sui danni provocati dal fatto di non aver potuto capire ‘macchie cieche’ della propria storia in tali giovani, sui dilemmi identitari causati da tale damnatio memoriae. Infatti, contro l’obbligo all’oblio la Agrupación H.I.J.O.S. fa delle gran feste intorno alle case dove abitano gli omicidi coperti dall’anonimato, in modo che tutti sappiano che lì abita qualcuno che ha nei confronti del paese delle responsabilità pesanti: solo musica, balli, teatro di strada perché nessuno sfugga alle proprie responsabilità. A me pare questo un invito etico perché non basato su catene vendicative ma nemmeno su un oblio mortifero, dal momento che non consente di cancellare la memoria con un’operazione di diniego ma neppure di restare incollati a una memoria che non può cambiare, come nelle tragiche catene vendicative di stampo mafioso: “Restituire [i figli dei desaparecidos alle loro radici] non rappresenta solo un loro diritto ma un dovere etico […]: il regime, attraverso l’appropriazione di minori, voleva ottenere la pulizia ideologica, voleva che la desaparición si perpetrasse più in là della desaparición stessa dato che gli appropriatori rubando questi bambini e iscrivendoli come propri, attuarono un’altra forma di sterminio, un assassinio della memoria” (Garbarini, 2008, 83).

È noto come “Negli stati totalitari […] non può esistere sfera pubblica [e è imposta] la cancellazione delle memorie individuali” (Turnaturi, 2005, 45).

Altounian, a tale proposito, evoca il “dovere che ci viene dettato da Paul Ricoeur: «dove passa la linea di demarcazione tra l’amnistia e l’amnesia»“ (211).

Si possono evocare a tale proposito gli studi di Bruna Bianchi (2005), che si è occupata del lavoro obbligatorio della dimenticanza imposto dai regimi dittatoriali. Esemplare il caso di Redipuglia. La storica (2005) ricorda che, prima dell’avvento del fascismo, in Italia “l’Inchiesta sui fatti di Caporetto (Relazione, 1919) aveva mosso accuse pesanti alle gerarchie militari sul modo di conduzione della guerra. Nel 1925, anno di inizio della dittatura fascista, […] il generale Badoglio pose fine a ogni discussione sulla conduzione del conflitto. «Questo non è più tempo di storia, ma di miti», rispose Mussolini ad Angelo Gatti, ex ufficiale del comando supremo, quando gli manifestò l’intenzione di scrivere un’opera su Caporetto. […] Possiamo individuare un analogo processo di costruzione del mito nei monumenti e nei cimiteri di guerra degli anni trenta. Il 24 maggio 1923 si era inaugurato a Redipuglia, sul Carso, il ‘cimitero degli invitti della III Armata’. [Sulle tombe di ciascun soldato] numerose epigrafi tratte dalle grandi opere della letteratura italiana. [Le tombe] erano state disposte in grandi cerchi, come i gironi dell’inferno. […] Prevaleva l’aspetto privato del lutto. Nel 1936 il cimitero fu smantellato, i corpi di 30.000 soldati riesumati per essere trasferiti al sacrario di Redipuglia. Al posto delle epigrafi [con i nomi], centinaia di iscrizioni si ripetevano, tutte uguali («presente!»), su una bianca gradinata, simbolo dell’ascesa mistica al regno dell’immortalità (Todero, 2002)” (Bianchi, 2005, 114-115). In Italia, “A partire dagli anni ottanta, la storia ha incontrato la memoria” (Bianchi, 115).

“Questa riflessione sul futuro contenuto nel passato […] ha delle importanti conseguenze epistemologiche, in quanto spezza il determinismo storico per cui « gli eventi accaduti procedono sempre nella direzione che comunque e inevitabilmente avrebbero dovuto prendere» (Bodei, 2004, XIII) e fornisce un’interessante chiave di lettura per meglio comprendere la costruzione delle memorie ufficiali” (Turnaturi, 2005, 48). Non a caso il già citato contributo di Manuela e Mary Avakian a Psicoanalisi e luoghi della negazione titola Dalla rimozione al negazionismo. Dove scrivono, riferendosi agli adulti nei quali ai bambini armeni scampati al massacro era impossibile identificarsi: “E tutti parlavano sottovoce, e bisbigliavano parole misteriose […] e invocavano il silenzio con sguardi severi scambiasti tra di loro non appena entrava in stanza un piccolo” (242). Ma il regime del silenzio ammutolisce la domanda, scrive Silvia Vegetti Finzi (2005) nel rammentare la propria esperienza di bambina ebrea di sette anni alla fine della guerra e delle sue atrocità delle quali “nessuno mi aveva parlato: […] profughi in fuga, improvvise sparizioni. Per noi bambini non c’erano né parole né ascolto […] solo immagini sporadiche, frammenti di suoni, rumori… Difficili da decifrare, impossibili da comprendere. […] Dalla cucina, il locale in cui i miei si radunavano la sera per ascoltare «Radio Londra» i più piccoli erano bruscamente spediti fuori […]”. Il ritornello […] era “Ragazzi, uscite, che noi dobbiamo parlare”. Né lei, né il fratellino osavano domande su parenti scomparsi […] Traumi “senza parole, incistati nel corpo, come elementi beta non alfabetizzati. D’altra parte nessuno pensa e parla da solo: il pensiero è sempre un dialogo e, se non ci sono interlocutori, si ripiega su se stesso e si chiude nel vuoto e nel silenzio. […] Al termine del suo scavo analitico Freud ha trovato, come sedimento ultimo, irraggiungibile, irrecuperabile, l’angoscia, traccia estrema del non detto, del non dicibile. […] In fondo l’angoscia - un sentimento che non inganna – è la memoria del silenzio, la sua verità. […] Come nel peccato originale, l’umanità soffre anche di quel che non sa” (Vegetti Finzi, 2005).

Mi chiedo se in tal senso “incontrare la memoria” – nel trattamento psicoanalitico tanto quanto a livello sociale -  non permetta di situare il passato in una prospettiva di profondità: “rifletterlo”.

 

È la domanda che rivolgo a Giuseppe Leo, che prego di rispondere anche alla luce degli approfondimenti metapsicologici che ha condotto per il capitolo da lui scritto nel volume che sono qui a presentare.

Leo: <<Nel libro Psicoanalisi e luoghi della negazione, e ancora più nel libro in preparazione Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione (a cura di G. Leo & G. Riefolo, Edizioni Frenis Zero, Lecce, in press), memoria e negazione sono posti come i due poli dialettici e antitetici di un nuovo paradigma della psicoanalisi, che affianca gli altri due tradizionali, quello basato sul conflitto e quello basato sulla carenza (si veda Amadei G., Come si ammala  la mente, Il Mulino, 2005). Psicoanalisi intersoggettiva ed evidenze provenienti dall’Infant research e dalle neuroscienze convergono nell’evidenziare l’importanza del riconoscimento come processo alla base della memoria. Ma “riconoscere” in molte lingue ha un duplice significato: è sia “ri-identificare” qualcosa o qualcuno, sia “accordare/concedere un determinato status” a qualcosa o qualcuno. L’attuale psicoanalisi intersoggettiva accorda un posto centrale al riconoscimento, soprattutto nel secondo significato. Per Sander nell’Infant  Observation l’individualità emerge dentro un sistema evolutivo in cui esiste una complementarietà specifica e sincronizzata tra gli stati interni del bambino e la capacità materna di riconoscerli. Punti di non riconoscimento nel percorso evolutivo del bambino in termini di mancanza di regolazione affettiva (Schore) o di sintonizzazione affettiva (Stern) possono costituire altrettanti punti di ancoraggio di dis-sintonie e dis-conoscimenti (corrispondenti ai concetti di negazione e diniego della psicoanalisi classica) che, se protratti nel tempo e reiterati in “loops” amplificantisi, porterebbero a disfunzioni e disregolazioni in molteplici sistemi motivazionali (Lichtenberg), in primis in quello dell’intersoggettività, con possibili prodromi psicopatologici>>.

 

Come ricorda Hannah Arendt, invece, “Il male […] non possiede profondità. Questa è la sua ‘banalità’: si espande come un fungo.” (1986, 227, in Rossi-Doria, 2005, 91). Rimando, a tale proposito, all’importante rivisitazione della ‘banalità del male’ effettuata da Roberta Guarnieri (2006) a partire dagli scritti di Sebald.

Come nota Ambra Cusin nella Prefazione, è interessante notare che nel volume da lei curato con Giuseppe Leo, “molti autori, che hanno contribuito a questo libro, citino esperienze personali: Amati, Altounian, Avakian, Cusin, Janigro, Resnik, Šebek, Tarantini. Quasi che questa tematica della negazione abbia così bisogno di declinarsi nella verità” (12).

A tale proposito, trovo esemplare il seguente episodio, dove è la curda Leyla Zana a dare prova di una creatività capace di paradossare gli eventi e i loro protagonisti per mezzo dell’ironia, come nel caso poco sopra ricordato dell’Agrupación H.I.J.O.S, che solo con musica, balli e teatro di strada denunciano gli assassini dei loro genitori e combattono l’oblio perché nessuno sfugga alle proprie responsabilità.

Leyla Zana, essendo stata eletta in Parlamento e dovendo giurare fedeltà alla Costituzione turca che nega i diritti kurdi (mentre nei poligoni di tiro della polizia e delle unità speciali turche la sua foto è usata come bersaglio in quanto ‘incarnazione del nemico da abbattere’), in Aula dichiarerà solennemente: “Sono stata obbligata ad adempiere la formalità richiesta. Io lotto per la fraterna convivenza dei due popoli in un quadro democratico” (2001). Una dichiarazione che lei sottoscrive paradossandola e rendendola materia: intreccia tra i capelli tre nastri con i colori della bandiera kurda: giallo, rosso, verde. L’immagine fu così materica che, pur essendo stato il suo discorso liquidato come ‘incomprensibile’, suscitò un dibattito politico sull’opportunità di cambiare i colori dei semafori, per non ribadire ad ogni crocicchio l’identità nazionale kurda da Leyla evocata con tanta sapiente e burlesca maestria.

Psicoanalisi e luoghi della negazione è una ricca, coerente per quanto caleidoscopica, preziosa occasione di incontro con molti fatti di una certa importanza.  

●In primo luogo, con vicende ‘ora faro ora mare’ (Beckett), come ad esempio nel caso della parola ‘nascondimento’, nella Prefazione, che, considerabile ‘un luogo della negazione’ (11), che ‘rimanda a qualcosa di segreto’ (13), può però funzionare anche, come è stato per Cusin, come una ‘parola concava’, come un contenitore che protegge (17), come è stato per il piccolo protagonista del romanzo In fuga di Anne Michaels (1998), Jacob Beer, che emerge dalla palude che l’ha ‘nascosto’ e quindi protetto, per settimane, dopo la strage della sua famiglia ad opera dei nazisti. Jacob è costretto per un lungo periodo a sopravvivere in balia di una solitudine assoluta, e si sa che il fatto di non poter “mettere in parole” e condividere con qualcuno il peso di ricordi traumatici fa sì che si resti come “impregnati delle tracce dell’orrore” vissuto (Varvin, 1999, 804).

Come mostrano tutti gli autori di Psicoanalisi e luoghi della negazione,  ciò che rende un trauma più traumatico è il carattere di “violenta interruzione del processo di sviluppo normale, attraverso la rottura del legame con l’altro, inteso come presenza empatica e significativa” (Varvin, 1999, 800). Come nota l’autore, ciò che va in frantumi in guerra è “anche l’assunzione di base che il mondo sia un luogo sicuro e ordinato” (Varvin, 1999, 801 ).

 

A Sverre Varvin chiedo se può dirci in che modo il trattamento psicoanalitico contribuisce anche in funzione del setting a rifare del mondo, nella percezione del soggetto traumatizzato, un ‘luogo sicuro e ordinato’.

Varvin: <<Si tratta di una domanda molto importante, alla quale è difficile rispondere in breve. Approssimativamente, direi che i soggetti traumatizzati, in particolare coloro che hanno subito traumi estremi, come la tortura o altre forme severe di atrocità, sperimentano nella vita una insicurezza di base (basic), una esperienza di frammentazione, un senso del tempo disturbato e la paura che in qualunque momento possa capitare qualcosa di terribile. La Psicoanalisi è caratterizzata da un setting e da una cornice all’interno dei quali gli incontri sono regolari e avvengono nello stesso luogo: un luogo prevedibile, caratterizzato da continuità, stabile. L’analista stesso è una persona stabile, emotivamente disponibile nei confronti del paziente, empatico, teso a capirne e ad accettarne lo stato mentale. Il paziente può far proprio, prendere in sé (take in) e interiorizzare l’insieme di fattori descritti (che possiamo intendere come il setting), e ciò gli fornisce gradualmente un vissuto (feeling) di sicurezza di base, che per molti, dalla traumatizzazione in poi, è quasi totalmente assente>>.

 

Traumi terribili generano infatti modi anomali di organizzare l’esperienza, modi che allontanano l’individuo dal mondo condiviso, mancando un modello di “ragione ospitale” (Bodei, 2001) da interiorizzare e umani significativi di cui fidarsi. Un bel lavoro di Jole Oberti (1999) si intitola proprio “Please, believe me”, a indicare come risulti difficile, per le vittime e i sopravvissuti, credere di poter essere creduti.

● E qui è introdotto un altro dei temi importanti affrontati dal questa raccolta di saggi. Di quanto conti in analisi l’importanza di essere creduti e che l’analista si configuri come un reale ‘testimone’ dicono molti bei contributi, per ragioni di spazio ne cito uno a caso, quello di Altounian, che sottolinea quanto per l’erede dei sopravvissuti sia importante la presenza di “un altro suscettibile di intendere la verità sulla sua storia. […] perché la storia dei miei antenati sterminati trovi spazio nella storia del mondo, ho bisogno di incontrare un’istanza politico-culturale esterna alla mia storia la quale, trovando essa stessa un qualche interesse proprio da intendere, le offra una camera di risonanza e si costituisca come mediatore per ‘raccontarla/tradurla’ agli altri. Ora, questo incontro diviene possibile in quanto l’esperienza politica presenta di fatto un punto di giunzione con l’esperienza analitica di un tale individuo che cerca di liberarsi dall’influenza che il diniego della sua esistenza, della sua autonomia o della sua storia esercitano su di lui” (218-219).

Si tratta di un essere porta-parola dell’analista al servizio di aspetti del paziente scissi e rimossi che, dall’esilio cui erano stati confinati, possono tornare a essere parte attiva in un più democratico parlamento interno. Con Chianese (2010), anch’io penso che “Si costruisce su ‘tracce’ portate dal paziente che possono riattualizzarsi in un determinato contesto (associativo e/o relazionale)”. Ho scritto (2003) come spesso, soprattutto con alcuni pazienti (traumatizzati, borderline, psicotici) “non si possa parlare di ricordi, tanto meno immediatamente suscettibili di diventare coscienti, quanto, piuttosto, di tracce, che necessitano di un lavoro di costruzione (Freud S., 1937; Chianese D., 1997) e di co-narrazione (Ferro A., 1999; 2002) per arrivare a un significato mentale condiviso”. Dicevo (ibidem) che, “Se si tien conto del fatto che la costruzione della mente è in continua formazione nel corso della vita, tali tracce diventano pensabili come Fiori Cinesi (nota 1) grumi accartocciati di insensatezza orbitanti intorno al Sé, testimonianza di esperienze originarie, primitive, che non hanno trovato ancora accesso alla mentalizz-azione e, quindi, al  significato condiviso, non potendo di conseguenza accordarsi né con ciò che nel frattempo il soggetto è diventato né con le persone del contesto in cui egli vive”.

Scrive Bion: “quello che un musicista potrebbe descrivere come un’incapacità di ‘sentire’ o di ‘accordarsi’ rispetto a quanto è stato detto, in modo tale che l’asserzione enunciata non può essere ‘sentita’ a meno che non sia esattamente e precisamente sintonizzata al ricettore […] un bersaglio mancato soltanto di pochissimo è comunque mancato del tutto” (1996). Con altre parole, il soggetto non può che “continuare a cercare quell’evento del suo passato di cui non ha potuto ancora fare esperienza. Questa ricerca assume la forma di una attesa dell’evento nel futuro.” (Winnicott, 1974).

Il problema allora è come recuperare al senso tali frammenti, permettendo loro di trovare un posto nella possibilità di autodefinizione del soggetto. Altrimenti, restano grumi insensati, perturbanti portatori di non senso, come nel caso dei bambini adottati descritti da Janigro in Psicoanalisi e luoghi della negazione. Brenman afferma: “E’ mia opinione che la conoscenza delle proprie origini fornisca senso di continuità e significato. Solo se ha un senso di appartenenza l’individuo può raggiungere una propria identità. La ricostruzione ha valore in quanto mezzo per riscoprire le radici, gli oggetti del passato e le parti del sé perdute”. (1980, 35) (nota 2).

Come ha mostrato spesso Silvia Amati Sas, è vero quanto afferma Chianese (2010), e cioè  che “I nostri racconti hanno anche un valore di testimonianza, se non di riscatto”.

Come nota ancora Varvin (1999), “ciò che il sopravvissuto vive, in misura più o meno intensa, è una estrema alienazione da se stesso, dalla sua storia e dall’altro, in cui è compresa l’esperienza di essere al di fuori della comunità umana normale” (802 segg). In tal modo, come mostra Silvia Amati Sas, si crea nei soggetti uno stato di indifferenza e di accettazione, in cui i valori e i principi della morale condivisa sono messi fuori gioco.

●È questo un altro dei temi molto importanti affrontati in Psicoanalisi e luoghi della negazione, poiché si rivela in grado di condizionare l’esito dei trattamenti psicoterapici, che possono risultare inficiati quando effettuati in un contesto che nella realtà dei fatti si dimostra ostile al soggetto ‘ospite’. Si pensi, ad esempio, alla “legittimazione museale” riservata a Washington all’Enola Gay, il Boeing B-29 che il 6 agosto del 1945 ha sganciato l’atomica su Hiroshima. Legittimazione effettuata, nota nel suo contributo (nota 3) Sabatini Scalmati, “Con arrogante negazione di ogni forma di riparazione, con un abuso politico della memoria” (259). È qui evocato uno stato mentale che non consente più di discriminare, di conservare una “bussola” psichica,  poiché risulta difficile individuare una forma particolare di ‘neutralizzazione’ dell’alterità, che si esprime in un apparente accordo e in un’accoglienza di superficie che, in realtà, sono nella sostanza tesi a impedire un contatto - e un ‘contagio’ - autentici. A mio parere, si tratta di misure difensive in azione in modo pervasivo (e poco identificabile perché ambiguo (nota 4) in un momento storico particolarmente caratterizzato dall’incertezza. Poiché pervasivi e poco identificabili, tali meccanismi difensivi finiscono per ‘impregnare’ le mentalità, non consentendo a chi vi ricorre di esserne consapevole, come se si agisse, in base allo Zeitgeist, in “assenza di coscienza”.

Inoltre, “Uno dei primi effetti che la società globalizzata produce sull’individuo è la connotazione di estraneità. [...] la mobilità del post-moderno genera repulsione e ribrezzo per tutto ciò che è altro ed estraneo” (Menatti, Bonesio, 2004). Assistiamo di conseguenza o alla presa di derive totalitarie o “alla planetaria affermazione dell’homo democraticus” (Cacciari, 1997, 123), entrambe - le  une esplicitamente, l’altra mediante l’apparente e superficiale eliminazione delle differenze - cancellando nei fatti la ‘realtà’ dello straniero (nota 5). Si tratta di una sorta di “metodologia immunitaria” (Esposito, 2002; Menatti, Bonesio, 2004), che diviene la chiave interpretativa del rapporto interattivo tra noi e l’altro. “Il tentativo, vano, di creare un vaccino contro la diversità […] Distrugge lo statuto ontologico del soggetto. Roberto Esposito ha affermato che non è più possibile procedere sulla via del monoteismo immunitario, ma che occorre pensare tale forma nel suo rovescio comunitario, praticando il mondo come unità di differenze. L’esempio più importante non viene dal corpus delle dottrine politiche del passato, ma dal nostro stesso corpo, umano e materno. Nel corpo della madre che nutre il feto, è il sistema immunitario a diventare canale per l’accoglienza del nascituro. [...]  E, cosa rara, quanto più il DNA del feto è estraneo a quello materno, tanto più questo attecchisce nel corpo della madre. Importante metafora, questa di Esposito (2002a) (nota 6) per evidenziare un possibile modo di essere politico fondato sulla differenza degli elementi che lo formano. Questa prospettiva dovrebbe, a nostro avviso, essere tenuta in considerazione quando la politica elabora una praxis comunitaria. Possibilità alternativa ai numerosi fenomeni difensivi che la società elabora contro la domanda ontologica dell’alterità” (Menatti, Bonesio, 2004).

Evoco a tale proposito un’osservazione di Francesconi (2010), che notava come si sia affermato l’uso del termine ‘migranti’; perso lo statuto definitivo garantito dal tempo ‘fermo’ del participio passato, ci si riferisce a chi arriva come al migrante, a proposito dei quali Ambra Cusin (2012, 184) si interroga sulla loro difficoltà a progettarsi a causa di un’angoscia sconosciuta.

Certo, può essere, ma mi pare molto pertinente anche interrogarsi, con Francesconi, decentrandosi dal soggetto e ponendo l’accento sul contesto che non vuole/può garantire ospitalità stabile: come si può far casa del paese ospitante che ti giudica ‘di passaggio’, transeunte, ‘migrante’ appunto, oltre che ‘extracomunitario’? Si tratta della “metodologia immunitaria” di cui parlano Esposito (2002) e Menatti, Bonesio (2004) contro gli S.D.F. (‘senza domicilio fisso’) di cui parla Altounian (209)?

D’altronde, “la negazione dell’umanità dell’altro che viene sterminato – e i diversi mezzi utilizzati per raggiungere questo scopo, possono mettere in luce alcuni dei meccanismi nascosti sottesi alla malignità umana” (Heritier, 1996, 14-15)”; “per i gruppi primitivi, l’umanità finisce alle frontiere della famiglia, della banda o dell’etnia; il nome che danno a se stessi significa sempre semplicemente «gli uomini»“ (Heritier, 1996, 18-19). Problema più che mai attuale oggi, data quella che Ogilivie (1994) chiama la produzione dell’uomo usa e getta, cioè la presenza di milioni di uomini superflui, privi di utilità e di utilizzazione, nei cui confronti, nota Balibar (1996), “si profilano prospettive di eliminazione e di sterminio che non sono soltanto violente, ma particolarmente crudeli” (58) al cui servizio, dice, è utile la funzione di cassa di risonanza svolta dai mass media nel consentirne l’esibizione, parte della crudeltà stessa: “…è alla fin fine strano che ci si stupisca tanto dell’estrema crudeltà dell’epurazione etnica in un universo culturale in cui, nonostante la pace e il suo comfort, una crescente produzione di scritti e di immagini privilegia l’uso sadico della sessualità nelle rappresentazioni estetiche” (Nahoum-Grappe, 1996, 190).

Ai curatori del volume chiedo un loro parere sul fatto che in effetti si assiste a “una crescente produzione di scritti e di immagini [che] privilegia l’uso sadico della sessualità nelle rappresentazioni estetiche”.

Cusin: <<“Tu poni questa domanda portando una citazione presa da Nahoum-Grappe (autore che non conosco).  Personalmente mi sono interpellata su questa affermazione che tu fai seguire ad una citazione di  Varvin (1999), “ciò che il sopravvissuto vive, in misura più o meno intensa, è una estrema alienazione da se stesso, dalla sua storia e dall’altro, in cui è compresa l’esperienza di essere al di fuori della comunità umana normale” (802 segg). In tal modo, come mostra Silvia Amati Sas , “si crea nei soggetti uno stato di indifferenza e di accettazione, in cui i valori e i principi della morale condivisa sono messi fuori gioco”.Come dice Marco Francesconi, bisogna “decentrarsi dal soggetto e porre l’accento sul contesto”. Credo infatti che nel nostro contesto sociale attuale questo aspetto, che viene notato, di un privilegio dell’uso sadico della sessualità nelle rappresentazioni estetiche, serva a mascherare (o forse proprio “negare”), in maniera quasi “orrorifica” una incapacità a vivere in maniera vitale la sessualità, non solo in senso procreativo, ma per l’aspetto “germinativo” della medesima. La sessualità coincide con la conoscenza. Sto curando con Leo un libro su questo tema grazie agli studi di un mio zio che sta analizzando il rapporto tra cabbalà, pensiero di Bion e la coincidenza tra l’eros e la conoscenza. In esso la sessualità viene intesa come forza vitale di cui credo abbiamo veramente paura, oggi più di ieri, più che al tempo di Freud, perché la sessualità implica un entrare in una relazione molto intima, coinvolgente comunque, anche se “si fa solo sesso” – come si usa dire oggi, pensando di esorcizzare l’emozione che inevitabilmente viene messa in scena. Il sadismo espresso nei racconti o soprattutto nelle immagini (penso semplicemente a tante fotografie che hanno uno sfondo di sadismo e che appaiono anche sui giornali di moda femminile e maschile) avrebbe secondo me lo scopo di mettere una distanza con la vitalità implicita nel rapporto sessuale. La sessualità è intrisa di vitalità e distruttività (mi pare che sia Marco Francesconi l’esperto sui temi della distruttività, ricordo un suo lavoro portato qualche anno fa al gruppo di lavoro sulla violenza, coordinato a Bologna da Maria Chiara Risoldi e Patrizia Brunori, al quale lui, tu ed io partecipiamo). Che significato ha oggi esibire modelli emaciati, fotografati in fabbriche dismesse, con abiti sicuramente firmati e di valore che però sono indossati come fossero stracci? Oppure immagini di donne dagli atteggiamenti violenti o aggressivi abbinate ad automobili di lusso, sfavillanti. Centinaia di romanzi e film dove vengono descritti, con dovizia di particolari, aspetti profondamente perversi (tra essi penso all’interessante The Cell, un film in cui viene ben descritta la mente perversa di un sadico serial killer). Ha ragione Silvia Amati Sas: tutto questo ci porta ad uno stato mentale protettivo di indifferenza e di accettazione acritica, con l’illusione di evitare il moralismo, che invece contribuisce a dar vita a una realtà che vede svilupparsi lentamente e inesorabilmente una incapacità di critica, una impossibilità di indignazione e l’accettazione passiva di qualunque atteggiamento de-umanizzante.

Forse mi allargo troppo, ma a volte penso che tanto disagio nei bambini e negli adolescenti (tanti loro gesti violenti gravi) stiano a segnalare la totale incapacità degli adulti a contenere le spinte – le pulsioni sessuali vitali e al contempo distruttive - dove il contenimento ha anche lo  scopo di differenziarle tra di loro. E’ come se l’adulto negasse al proprio figlio lo sviluppo della capacità di vivere il conflitto con i propri aspetti ambivalenti e ambigui. Conflitto che a mio parere è indispensabile per la crescita mentale.

Quanto questo contesto sociale fondato sulla negazione del conflitto (che eventualmente viene unicamente agito) potrebbe condizionare l’esito dei trattamenti psicoterapici e analitici (e tu accenni a questo nel tuo scritto) e potrebbe essere nelle fondamenta della crisi attuale della psicoanalisi?

Quanto l’immagine sadica, rappresentata esteticamente, compare nei nostri studi attraverso pericolose seduzioni messe in atto dai pazienti, che non seducono più con la sessualità implicita negli innamoramenti transferali, ma lo fanno con agiti anche violenti, miranti a distruggere la coppia terapeutica che tenta di produrre pensieri nuovi, che vorrebbe essere “germinativa” e “generativa”?

Stiamo agendo un sadismo distruttivo. Il fatto che compaia nelle immagini e negli scritti è segno che ci stiamo nutrendo di questa mentalità che non riusciamo a mettere in discussione, perché ci siamo immersi, la respiriamo: è inodore e incolore… perciò non la “sentiamo”, ne neghiamo l’esistenza e ci illudiamo che sia “arte” e con ciò giustifichiamo tutto. Qualsiasi schifezza!

Pochi sembrano avere il coraggio di dire “il re è nudo”….>>

 

Leo: <<Colgo la domanda soprattutto in relazione al cinema, in particolare laddove questo si occupa di psicoanalisi, ed in particolar luogo di “psicoanalisi al femminile”. Il film di David Cronenberg “A dangerous method” (2011) è emblematico in tal senso: l’uso di scene sado-maso tra Jung e la Spielrein ha lo scopo di banalizzare questioni serissime quali quelle dello sconfinamento del setting o  dell’amore in psicoterapia. L’accanimento voyeuristico di certe produzioni estetiche raggiunge poi le sue vette quando il personaggio centrale è una donna, ed una pioniera della psicoanalisi per giunta, come Sabina Spielrein. Il film non ci lascia nulla di costei, dei suoi lasciti umani e professionali : l’interesse per la dimensione spirituale della vita umana, per i conflitti etici nel rapporto di cura. Il film lascia nello spettatore unicamente un interesse pettegolo che dal buco della serratura, al posto dei dilemmi della psicoanalisi, si occupa di scudisciate sulle natiche della povera Spielrein. La storia della psicoanalisi al femminile viene spesso letta da “pseudo-studiosi” con una lente distorta fatta, nel peggior dei casi, di “pruderie” e voyeurismo e, nel migliore dei casi, come agiografie di analiste-vestali che rimangono per tutta la vita fedeli divulgatrici delle idee dei loro maestri-maschi. All’uscita del film io e Laura Montani, psicoanalista della SPI e curatrice dello “Spazio Rosenthal”, fingemmo, in un gioco letterario a due, di immaginare come si sarebbe sentita Sabina a essere trattata in questo modo da Cronenberg. “Cara Sabina ti scrivo” è accessibile su internet nello “Spazio Rosenthal”>>.

 

● Un’altra preziosa occasione di riflessione ha a che fare con la bugia, che, come nota Resnik (171), può rivelarsi in terapia una “forma di verità mascherata”, laddove compito dell’analisi consiste nel permettere “d’introdurre i non-detti (l’anonimato o il principio di omertà) in modo adeguato” (ibidem).

Altrimenti, si tende “ad ‘agire’ il nascosto o a ‘metterlo in scena’, ma in modo ben diverso da una sua rappresentazione manifesta, magari di tipo isterico, che, teatralizzando il sintomo, lo rende, per quanto ignoto al soggetto, quasi trasparente per l’osservatore, oppure sta probabilmente affermandosi la tendenza a far convivere parti disconnesse, lasciandole, come in Alice nel Paese delle Me­raviglie, tutte vincitrici e meritevoli di un premio (Per gli addetti ai lavori occorrerebbe parlare di processi di dis-integrazione, che alcuni hanno indicato come frattura dell’oggetto interno).  Oggi forse ha perso significatività la relazione bioculare figura/sfondo che, ponendo  in risalto una configurazione identitaria, un funzionamento, eventualmente anche una problematica, lasciava in secondo piano un aspetto complementare che, così rimosso, per quanto apparente­mente assente, era in realtà substrato di aspetti trasformati o, appunto, sublimati, a favore della socia­lità e della civiltà” (Francesconi, 2006). L’autore, in tal senso, si chiede se “sia possibile parlare di una nuova forma di paura dell’inconscio (nel doppio senso di paura che possiamo avere di ciò che è inconscio, ma anche di paura provata dall’inconscio) che ricorre all’immobilizzazione o alla distruzione piuttosto che ai meccanismi di scissione/proiezione (nel solco del pensiero di Pichon Riviere e di Bleger), contribuendo a mettere in scacco quella capacità di fare le­gami fra gli oggetti psichici, costituendo così le basi di quel che indichiamo (non sempre a proposito) come ‘umano’” (ivi).

 

A Salomon Resnik chiedo di spiegare cosa intenda con l’affermazione che la bugia può rivelarsi in terapia una ‘forma di verità mascherata’.

Resnik: <<Antonin Artaud, il grande poeta e attore francese, diceva del sogno che si tratta di una serie di menzogne “vere”. Questo significa che il sogno è una verità mascherata, quindi un’apparente menzogna vera per quello che è capace di “svelare” (aretè nel pensiero greco). Socrate aveva la capacità di svelare la verità intrinseca di quello che viene mascherato nell’apparire.

In un capitolo del mio libro Biografie dell’inconscio, dico metaforicamente ma anche veramente che l’inconscio è visivo ma che viene mascherato o velato dalle proiezioni inconsce del soggetto. Dopo una buona interpretazione spesso il paziente dirà: “è vero, come mai non l’ho visto prima?”. Quello che Freud chiama “sogno manifesto” è l’espressione realistica ma al tempo stesso mascherata da quelle menzogne vere di Artaud, che sono lo svelamento e il contatto con il contenuto latente che si avvicina alla “verità” del messaggio. Io ho messo verità tra virgolette perché credo che mai sia assoluta: se la si considera tale, sarebbe una “vera menzogna” che non chiede di essere smascherata. Questo si trova nelle persone ossessive o troppo rigide che non tollerano il minimo di ambiguità riflessiva (vedere il dubbio categorico in Cartesio o piuttosto l’ambiguità pre-riflessiva con i termini del grande filosofo francese M. Merleau-Ponty). Quando un bambino dice una menzogna formale alla mamma o al papà è perché ha paura di dire le cose direttamente e ha bisogno di un’alternativa indiretta che sarebbe la maschera dell’apparente non verità che è anche la sua verità.

Non voglio dilungarmi oltre perché il tema della menzogna e della verità appare in diversi saggi e lavori miei. E’ il tema che mi appassiona di più rispetto ad ogni tipo di ricerca su tutto quello che è sottostante o sostanziale in ogni discorso metafisico o quotidiano>>.

 

Un’altra questione che chiedo a Resnik di approfondire riguarda la ragione per la quale intende con ‘non-detti’ l’anonimato o il principio di omertà. Inoltre, gli chiederei di spiegare perché distingue nel testo l’‘anonimato’ dal ‘principio di omertà’, concetti che infatti separa con una ‘o’.

Resnik: <<Con anonimato intendiamo una realtà o una certa “verità”, che non ha nome, o il cui nome o autore è ignoto. Bion parla del “nameless dread”, cioè di un’esperienza di paura, di panico o di scoperta impattante, che provoca una paura senza nome, una sensazione paurosa senza nome o che è priva di espressione diretta di un’esperienza impattante e quasi impossibile da esprimere. Nel principio di omertà, c’è un nome dietro a ciò che manifestamente è nascosto o mascherato, ma che non deve essere pronunciato perché potrebbe scatenare uno scandalo, un terrore innominabile, e soprattutto un tradimento alla cosiddetta “famiglia” o clan che si protegge con l’omertà>>.

 

● Non c’è qui lo spazio per rendere il dovuto merito ai due tanto poderosi quanto preziosi contributi di Leo e Litowitz, che possono a ben vedere essere definiti tra le ricapitolazioni più efficaci ed esaustive dell’evoluzione e delle possibili declinazioni dei concetti di negazione, diniego, disconoscimento, rigetto.

Ricapitolazioni non solo nell’opera di Freud ma, anche, nel pensiero a lui successivo, con le diramazioni nel pensiero di Anna Freud (nota 7), di Melanie Klein, di Wilfred Bion (ad esempio tratteggiando l’evoluzione dalla “negazione della realtà e dell’inibizione della fantasia” della Klein [1929, 227] all’attacco al legame - cioè al pensiero - descritto da Bion); nominando l’eredità problematica per gli allievi della Klein derivante dal fatto che l’autrice usa “termini diversi – repudiation, denial, negation – per intendere il diniego della realtà esterna, nel senso della Verleugnung freudiana” (Leo, 51); descrivendo la rivoluzione compiuta dalla Klein (1935) rispetto a Freud quando fa del “diniego della realtà psichica” una della “primissime difese”, “riferendo in modo più aderente al mondo interno questa ‘scotomizzazione’, unicamente dalla quale può derivare il diniego del mondo esterno di cui Freud si era maggiormente occupato” (Leo, 53). Nel contributo di Leo, importante anche la disamina della negazione nei gruppi terapeutici ed istituzionali; in queste pagine, prezioso il riferimento (73) all’“Assunto di base di Omertà” proposto da Riccardo Romano (2006) e molto utile la descrizione del destino dei temi del diniego e della negazione nella psicoanalisi istituzionale francese (82 e segg) e quella della negazione nell’Infant Research (89 segg) e nelle neuroscienze. Mi piace invitare l’autore ad approfondire tale questione anche nel ricco materiale messo ai nostri giorni a disposizione dall’Infant Observation, metodo che in Italia ha avuto, grazie al pensiero di Lina Generali Clements, Dina Vallino, Suzanne Maiello, Gina Ferrara Mori ed altri che non posso nominare per ragioni di spazio, una declinazione particolare oltre che particolarmente fertile. In rapporto alle neuroscienze, ho gradito l’ammonimento di Leo rispetto al “rischio di errori epistemologici che possono nascere dall’’unificare’ il campo della psicoanalisi con quello delle neuroscienze, o forse meglio sarebbe dire dall’’annettere’ la psicoanalisi al dominio delle neuroscienze” (96).

Litowitz non è da meno. Per dire del suo contributo, preferisco affidarmi a quanto lui stesso scrive nella Conclusione del suo lavoro: “Ho cercato di mostrare che i dati provenienti dalla psicolinguistica dello sviluppo forniscono una spiegazione che è coerente con gli stadi di sviluppo secondo Freud, ma che anche li espande. Questo articolo tenta un riesame della negazione alla luce di questi dati successivi, ed esplora le distinzioni provenienti dalla filosofia del linguaggio per suggerire i modi in cui la negazione performativa entra negli scambi psicoanalitici. La mia conclusione è che una linea ampliata di sviluppo per la negazione – comprendente il rigetto (rejection ), il rifiuto così come la negazione (denial) – fornisce modalità aggiuntive di ascolto e di lettura delle variegate e mutevoli posizioni difensive incontrate nelle interazioni cliniche” (140). In effetti, Litowitz prosegue ed approfondisce quello che era probabilmente l’intento originario di Freud quando scrisse il lavoro sulla negazione: “esplorarla come un tipo di difesa” (138). Interessanti in tal senso i preziosi riferimenti clinici contenuti nel testo, in particolare quello concernente un (bioniano) capovolgimento di prospettiva inerente il setting analitico, che permette all’autore di mostrare come il rifiuto di una paziente di Novick (1990, pp.335-349) di usare a un certo punto del trattamento il lettino possa essere interpretato non solo nel modo proposto da Novick stesso (1990, p.346), ma, anche, come “un passo avanti nello sviluppo, reso possibile dal lavoro analitico precedente” (127). Infatti, Litowitz propone di pensare al setting analitico come a un contenitore delle “introiezioni materne maligne che sono state rigettate, sputate via” (127); questa espressione potrebbe evocare il concetto di J. Kristeva di “abiezione” (1980).

● Proprio a proposito del setting e delle sue necessarie ‘rivisitazioni’, molto significative le riflessioni di Tarantini sui tempi e i modi dei suoi incontri con pazienti da lei seguiti nel 2002 a Tunisi su richiesta dell’IAAP (International Association of Analytic Psychology) allo scopo di formare un primo nucleo di analisti junghiani tunisini: “tre giorni ogni mese, durante i quali li incontravo due o tre volte di seguito” (381). Osserva l’autrice: “Diventavo, durante quel quasi-mese di separazione, una figura assente-presente […] una figura di morte con cui credo ogni analisi, anche la più ortodossa, debba abituarci a convivere. Altrimenti il rischio è di diventare interminabile” (382).

● Sulla valenza imprevedibilmente e paradossalmente ‘positiva’ del diniego interessantissimo il contributo di Šebek, che obbliga a decentrarsi dalla sicurezza dei nostri studi occidentali, per immaginare (e mi chiedo quanto davvero riescano simili operazioni di immedesimazione) di lavorare in clandestinità, come nella Cecoslovacchia degli anni dal 1939 al 1989…. In clandestinità il diniego del pericolo esterno, da un lato, quanto quello del totalitarismo, dall’altro (come, in balia di oggetti totalitari, permettersi libere associazioni?), si è rivelato un valido supporto della psicoanalisi. Ne conseguono ulteriori significative riflessioni su quello che l’autore chiama l’’oggetto totalitario’  nella sua relazione con la ‘situazione totalitaria’, nella quale “Un certo grado di sfiducia e di paranoia […] è parte” (301). Interessante in quest’area il riferimento alle esperienze dell’analista iraniana Gohar Homayounpour (2012) e dell’analista tedesca Annette Simon (2008).

● Significativo anche l’invito ad approfondire il rischio, presente nel trattamento di pazienti gravemente traumatizzati, per i quali, come fa osservare Schneider, il cambiamento ottenuto nella cura può costituirsi come “una catastrofe mortale” (311). L’autore infatti si concentra sui rischi connessi alla rimozione di una scissione, “che può essere parte di una cura, ma può anche ritorcersi come un pericolo, e persino una minaccia mortale. Come diceva Freud: «la guarigione stessa è trattata dall’Io alla stregua di un nuovo pericolo» (Freud, 1937, 521)” (310).

Innumerevoli le altre occasioni di riflessione offerte dal volume: le osservazioni sulle traduzioni, sia sul piano metapsicologico - sul versante del modo in cui possono addirittura inficiare il contenuto di un modello (Leo, 61); su quello per cui i traduttori possono creare dei ‘bias’ in grado di condizionare pesantemente la teorizzazione (Leo, 43) -, sia su quello clinico, come nel caso di quel paziente “che poteva piangere sul divano solo nella sua lingua originaria. […] Il paziente sentiva che c’erano alcune parti della sua esperienza traumatica che non era possibile tradurre” (Šebek, 304).

A tale proposito, mi chiedo quanto il francese, la lingua scelta da Tarantini per comunicare con i suoi pazienti tunisini, fosse realmente, come lei dice, “una lingua straniera per entrambi, […] una specie di terra di nessuno […] una terra neutra” (374-375) nell’accezione positiva che in questo specifico caso l’autrice dà a questo termine, dal momento che la Tunisia fu colonia francese dal 1830… A tale proposito, interessante il confronto con l’esperienza narrata da Assia Djebar (2002) e l’evocazione di ciò di cui parla Elisabeth Bing in …Ho nuotato fino alla riga, ponendo in esergo queste parole di Beckett:  “Follia, dover parlare e non potere, tranne che di cose che non mi riguardano… di cui mi hanno ingozzato per impedirmi di dire chi sono, dove sono, di fare quel che devo fare – io sono nelle parole, sono fatto delle parole di altri […] E io le lascio dire, le mie parole, che non sono mie… […] Ecco la parola che mi hanno dato” (Beckett, in Bing, 1976, 39).

Per concludere: un libro da leggere e rileggere; da meditare; da utilizzare per ascoltare chi si rivolge alla psicoanalisi dopo aver vissuto esperienze estreme; da utilizzare nei corsi di laurea e nelle specializzazioni in Psicologia, in Neuropsichiatria Infantile, in Psichiatria e nelle Scuole di formazione psicoterapeutica.  

 


   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

(1) “Se mi è permesso vorrei usare […] un’analogia: talvolta compriamo minuscoli pezzetti di carta apparentemente privi di colore e di forma. Messi in acqua, essi si aprono assumendo forme definite, affascinanti e vivacemente colorate: si chiamano Fiori Cinesi” (Heimann P., 1992). Metafora oltremodo pertinente a illustrare, come nota Racalbuto (1997), il ruolo dell’apparato psichico, o contenitore, che fa assumere significato psicologico alle ‘memorie somatiche’ depositate nella psiche. Contenitore che, a sua volta, necessita dell’altra mente per accedere al mondo dei significati condivisi.

(2) A Claudia Artoni (2003) devo la segnalazione del fatto che Bion, riprendendo Freud a proposito delle esperienze molto precoci, scrive (1984): “Ma, pur dimenticate, queste cose continuano ad esistere in un qualche modo arcaico nella nostra mente, così continuano ad operare, a farsi sentire. Non ne siamo consapevoli anche se forse altre persone possono esserlo. Dato che operano in questo modo arcaico esse continuano ad agire.” A Claudia Artoni (1997a, 1997b, 1999, 2006) rimando per importanti approfondimenti di questi argomenti.

(3) L’autrice fa opportunamente molto riferimento al pensiero di Bleger in funzione del concetto relativo allo stato di indifferenziazione primitiva, che, come in altri contributi (Leo, Amati, Cusin), risulta essenziale per descrivere sia modalità evolutive fisiologiche sia manovre difensive patologiche. Il concetto è da Bleger riferito alla posizione glischro-caria, da ‘glischros’ (vischioso, agglutinato) e ‘karuon’ (nucleo). Peccato che Sabatini Scalmati citi tale posizione nella scorretta traduzione italiana, purtroppo ubiquitariamente prevalente, cioé glischro-carica, mentre quella corretta è glischro-caria.

(4) Condivido quanto scriveva Silvia Amati Sas (1997): “Il mondo tecnologico di oggi ci offre maggiori possibilità di essere trattati come delle cose anziché come persone, e questo succede al di là della nostra capacità di percepirlo, conoscerlo, pensarlo...Ci affacciamo a un dilemma identitario che (come dice Hanna Arendt) è quello di chiederci se siamo dei chi o dei che cosa”. Rimando, per un approfondimento, agli scritti dell’autrice e alle ulteriori riflessioni che ha sviluppato su questi temi, in particolare al fatto di abituarsi difensivamente all’inumano (tortura, stragi, eccidi, olocausti) come rientrasse nella categoria dell’ovvio. E’ una questione importante poiché, come rileva anche Bodei (2001, 41), “I disagi non sono maggiori o minori del passato: siamo però diventati più insensibili a essi: il malessere circola clandestinamente, come qualcosa che, spesso, non desideriamo guardare da vicino”.

(5) Tarantini cita Nancy, che, ne L’intruso, “paragonando i riflessi psicologici legati alla tecnica dei trapianti d’organo con l’etica dell’ospitalità e del rapporto con lo straniero, dice che in tutti i casi la possibilità dell’incontro con l’altro si ottiene a condizione, da un lato, di rompere la cerchia dell’intimità e dell’identità e, dall’altro, a patto che lo straniero conservi i tratti dell’intruso e del non assimilabile” (378).

(6) Si veda sull’argomento anche Esposito, 2002b, 9 e sgg.

(7) Nota Leo: “Interessanti sono i rimandi fatti da Anna Freud ad una serie di opere oggi difficilmente accessibili sul tema della negazione […] …significativamente ‘negando’ qualsiasi contributo su questo tema da parte di Melanie Klein!” (47).

 

 
 
 
 
   

 

 

 

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