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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

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Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 13, anno VII, gennaio 2010

"Malessere delle Culture"

 

   

FRAMMENTI DI ONTALOGIA PSICANALITICA. L'Inferno di Dante, La Vergogna di Ingmar Bergman, M'Palermu di Emma Dante

 

  di Cosimo Trono

 

 

 

 

   
 

Questo articolo è tratto dall'intervento che l'autore ha presentato il 18 settembre 2009 al convegno "Non c'è più vergogna nella cultura?" (Roma, 18 e 19 settembre 2009). Cosimo Trono è psicoanalista, docente all'Università Parigi 13 e fondatore della casa editrice Penta Editions.

 

 

I poeti, i creatori di linguaggio, gli artisti  « sono i nostri maestri » scriveva Freud. Perché dicono  «le cose prima degli altri » aggiungeva Lacan inaugurando il suo ritorno a Freud. Eppure non si tratta di una padronanza, né di un controllo da padrone come lo si ritrova nella dialettica hegeliana del signore e dello schiavo. Nè si tratta di una posizione di padronanza quale la rileva Lacan nei Quattro discorsi fondamentali della psicanalisi, discorso, quello del maestro, di un sapere totalitario sulla cosa, e quindi usurpatore di godimento... Un sapere al quale noi dovremmo riferirci ciecamente, venendo da colui-che-sa e che dovremmo reperire come delle oscure lucciole attirate dalla luce per risplendere di riflesso noi stessi. Non è di questo sapere esterno  al soggetto, che pure il discorso universitario fa suo, che si tratta in analisi. E’ piuttosto di un sapere-insaputo, l’insaputo che sa, come Lacan definisce l’inconscio, che è in questione nel creativo poetico o artistico.

Una breve sequenza clinica di un’analizzanda intrappolata fin dall’infanzia nelle reti del discorso del signore assoluto, maestro e padrone della sua identità, mi permetterà di congiungere clinica e arte. La vergogna servendo da 'trait d'union' tra le due. Senza soffermarmi sulla sua sintomatologia nevrotica, di tipo fobico, rileverò alcuni significanti. In particolare una frase pronunciata anni dopo l’inizio dell’analisi. « Ho avuto dei demoni che hanno determinato la mia vita : Hitler e mia nonna ». Hitler per aver scatenato l’inferno della seconda guerra mondiale con il suo corteo di drammi familiari, e personali di cui ancora oggi porta le tracce traumatiche. Sua nonna per aver dominato la famiglia con una barbarie e un autoritarismo fascista. Ricorda ancora con vergogna  una delle più umilianti punizioni inflitte dalla nonna dittatoriale ai suoi due fratelli. Essa li mandava a scuola con le mutande sporche dei loro escrementi, attaccate alle loro cartelle con delle mollette da bucato. L’analogia con la stella gialla cucita sugli abiti degli ebrei non  sfuggirà.

 Si tratta qui di due spazi psico-totalitari, l’uno politico, l’altro familiare. Ma entrambi utilizzano la stessa ferocia dalle ripercussioni traumatiche che l’analisi mette anni ad evidenziare. Decenni dopo è ancora questa vergogna inibitrice che l’attanaglia. I suoi desideri repressi, sottomessi all’arbitrario dell’altro dominante, il suo congiunto, intellettuale contorto, anzi perverso, la legano ancora a un torturatore come una preda al predatore, con una sottomissione quasi totale al potere del padrone. Come se portasse ancora e sempre attaccati al dorso, nella sua traiettoria esistenziale e ontalogica (nel senso che seguiva nella sua esistenza la logica inconscia della vergogna) queste mutande sporche di merda. Le fobie, per un certo verso, sono degli indumenti intimi troppo sporchi che pure il soggetto si obbliga ad indossare e a mostrare agli altri. Come dice Freud in una lettera a Fliess « anche il ricordo puzza » ! Ci son voluti anni di raccordo al simbolico della parola, articolata al terzo, l’analista,  affinché questa vergogna immaginaria si rielabori in un confronto  con la forza della legge del significante, e non si sottoponga più alla legge della forza insignificante, forza dell’imposizione dall’esterno, dell’impostura del signore, padrone. Fu in questo riconoscimento di una parola libera da ogni imposizione e impostura, libera del cosa-si- dirà-di-me che la mia analizzanda chiese e ottenne rapidamente il divorzio. Questo altro padrone, maestro assoluto, segue il fobico come fosse la sua ombra, fino a che l’ombra non si confonde più con la preda! La dimensione sadico-anale delle mutande sporche di merda è una costante della vergogna originaria. Il soggetto è ridotto al rango di spazzatura, di rifiuto: nel senso di essere lui stesso un oggetto-rifiuto e un soggetto-rifiutato dall’altro, dallo sguardo dell’altro. Ridotto ad essere un riflesso reale della dominazione anale, immaginaria, dunque, del dominatore. La stella gialla accollata agli ebrei durante la fine degli anni trenta e la seconda guerra mondiale non indicava forse, tramite la trasposizione dell’erotismo anale propria alle derive autoritarie e fasciste, questo essere votato alla « discarica » da un regime dove la « purezza » o la purificazione razziale altro non era che una proiezione a contrario dell’insudicia identificazione? Il padre del Presidente Schreber è a questo riguardo un precursore.

 

 

 

La Vergogna, di Ingmar Bergman

 

   Foto: locandina del film di Ingmar Bergman "La vergogna"

 

Nel film di Bergman, La Vergogna, Eva e Jan, una coppia di musicisti, vivono, si direbbe, felici su un’isola quasi deserta da qualche parte nel Nord. Il nome della protagonista, Eva, farebbe pensare a un paradiso, un luogo sferico di unità e fusione ideale. Lo spettatore  scopre, fin dalla prima scena del risveglio, la nudità di Eva, il suo perfetto adeguamento all’ideale femminile, rotonda di perfezione e di desiderio vitale. Mentre Jan si mostra  più rugginoso, più lento ad aderire al movimento dello spuntar del giorno. Di questo primo giorno che pare una metafora della Creazione. Al posto della biblica mela del giardino di Eden, Eva e Jan coltivano il loro orto per rivendere i prodotti agli altri abitanti dell’isola. Ecco l’inizio della vergogna, l’origine bergmaniana della storia che dà il titolo al film. La vergogna apparirà all’uscita del loro giardino. All’apparizione dell’altro. L’apparizione dell’altro è come un rivelatore di conflitto. Ed esso è la guerra. Conflitto evidenziato da Bergman tra i due amanti, ma anche guerra che cade loro addosso direttamente dal cielo. Un paracadutista isolato viene infatti a morire nel loro giardino. Da allora il film si snoda su due assi: quello della coppia fusionale, narcisisticamente chiusa sul proprio io, isolani e isolati, tragicamente prigionieri di un destino mortale per le loro identità; e come un riflesso nello specchio del conflitto interpsichico l’apparizione della guerra tra i popoli. Bergman, si sa, è un maestro del conflitto di coppia. Ed è questa esplosione della coppia, e poi la messa a fuoco, se posso dire, delle fratture interne a  Eva e a Jan che il regista si applica meglio ad evidenziare. La vergogna ci apparirà come l’elemento psicologico che mette in luce, come ho già detto, ciò che era latente, oscuro.  Non c’è pace che tenga nel soggetto singolo e isolato, alienato in se stesso, quando l’altro, il terzo, gli impone di rivelare la sua identità profonda, la più segreta. Certo per Sartre « l’enfer c’est l’autre ». Ma Alain risponde che « non c’è felicità da soli », senza l’altro. Quindi? Il dramma umano è tutto in questa ambivalenza dell’essere umano. Ciò che Lacan ha formulato con la celebre frase « il desiderio è il desiderio dell’Altro ».

 

Qui nel film di Bergman il nome del Malefico Maestro Assoluto, Hitler, non è mai pronunciato, eppure il riferimento alla sua follia distruttrice totale appare sottinteso. Anche se quello che Bergman sembra denunciare è la dittatura in se stessa, la dittatura di se stessi, direi, foss’anche quella dei sentimenti, nobili o amorosi che siano.

E’ così che la brutale discesa all' inferno di Eva e Jan a causa della guerra, produce e rivela ciò che è ognuno  nel suo stato affettivo-sentimentale: un infermo della vita e della vita un inferno. L’inesorabile decadenza di Eva (Liv Ullman, moglie, a quel tempo, di Bergman) e di Jan (Max von Sydow) prende avvio nella sessualità, come ogni psicanalista si accorda ad ammettere. Eva è obbligata ad offrirsi al tiranno locale in compenso di una somma di denaro, e per sfuggire alla deportazione e alla morte. Mentre Jan, accortosi del maneggio, non esita a sottrarre e a nascondere il denaro della vergogna. Lo spostamento sul denaro della collera di Jan ha tutte le caratteristiche della deportazione che Eva aveva voluto evitare per sé e per il suo uomo. Il denaro sottratto, investito immaginariamente come oggetto fallico di potere e di salvezza, si rivelerà per ciò che è, l’oro del diavolo1 che si trasforma in merda. Poiché per mantenerlo in suo possesso dovrà uccidere l’uomo che lo aveva rimesso alla sua donna, per poi, alla fine, darlo a un barcaiolo che dovrebbe portarli in salvo al di là dell’isola, ma la cui barca si perde in mare, circondata da cadaveri. E’ in questo contesto che Eva pronuncia la frase che dà un senso al dramma. In un momento di calma pulsionale Eva si rivolge a Jan e gli soffia all’orecchio: « E’ come se vivessi nel sogno di un altro. Vi partecipo. Quando si sveglierà, avrà lui vergogna? ».

La vergogna è appannaggio dell’altro. Il soggetto si ritrova ostaggio del desiderio distruttore di un altro, sottomesso alla sua volontà  più primitiva, più violenta, senza speranza di uscirne se non…Se non attraverso la vergogna che l’altro proverà al risveglio della sua coscienza di soggetto umano. Forse. La vergogna è quindi la speranza, l’attesa speranzosa di un’ipotetica apparizione del terzo simbolico che metterà fine al magma caotico, immaginario, quindi fusionale di una uniforme stessità, per dirla con un neologismo che confonde la vittima e l’aggressore, la loro fusione identitaria. Non v’è nella questione di Eva nessuna attesa di un rimorso da colpevolezza sentito dall’altro – il tiranno, ma anche Jan - per i crimini commessi, come ci si potrebbe aspettare. Né un desiderio di punizione, né di vendetta. Eva non pronuncia alcun sentimento di odio, come lo proverebbe una vittima della barbarie che lo distrugge. Anzi il negativo non si manifesta. Come se lei pronunciasse quella frase che si dice ai bambini che hanno commesso  qualcosa di riprovevole: « Ma non hai vergogna ? » Cosa che sembra poca cosa rispetto alla mostruosa violenza fisica, sessuale, psicologica, identitaria  che sta subendo. « Quando si sveglierà – quando il mostro si sveglierà – avrà forse vergogna? » Ecco la pena suprema che lei sembra invocare per la belva infame che l’ha incorporata, inghiottita nel suo sogno mostruoso, nel suo fantasma perverso, come in un corpo famelico. La vergogna dell’altro, quella provata dall’altro -  che non è la stessa cosa della vergogna che si prova nei riguardi dell’altro – sarebbe allora la suprema riparazione, la restaurazione ultima non dell’integrità del soggetto allo stato di prima del suo passaggio nel sogno mostruoso dell’altro, ma restaurazione dell’essere, soltanto per continuare, riprendere a riconoscersi come essere umano. Riprendere il corso della propria esistenza, riappropriarsi della propria storia su una via dove l’identità fracassata può ricostruirsi un viso, una vita interiore, una traiettoria di nuovo umana. Cioè simbolicamente liberata dalla vergognosa oppressione dell’altro immaginario. Siamo qui con Bergman, con Eva la prima donna, agli albori di una vergogna originaria, anteriore all’odio e alla costruzione della rivalità e della colpevolezza edipica. L’odio, che sarebbe anteriore all’amore, secondo Freud e Lacan, sono entrambi preceduti, comunque fondati su una vergogna originaria il cui riconoscimento - sembra affermare Bergman - ci rende umani, o semplicemente ci allontana dalla ferocia selvaggia  e ci tiene  nella civiltà e nella cultura. Nel desiderio erotico vero, insomma. A contrario è la perdita o il diniego di questo sentimento (magari più un affetto che un sentimento) di vergogna, fondamentale in quanto fondatore  dell’umanità, che è la causa del Male che si abbatte sull’isola, come su Jan e Eva. In questo Bergman non sarebbe d’accordo con Claude Janin, se vogliamo mettere in prospettiva, come questo convegno* ci invita a fare, gli psicanalisti e gli artisti e i creativi. Claude Janin (2003) scrive : « la vergogna è un legame negativo che cementa le relazioni inter-individuali ». Oppure quando lo stesso Janin scrive nello stesso articolo che la rimozione e il diniego della vergogna « avrebbero un ruolo nel lavoro di civilizzazione». Personalmente sarei più vicino alla « visione » di Bergman che all’analisi di Janin.

 

 

 

L’Inferno di Dante

 

 

 

Tratterò ora della visione poetica, dantesca, di una vergogna (poiché ci sono più versioni della vergogna) legata ad altre passioni umane, altrettanto mortali di quelle rilevanti dal discorso e dalla logica del dominatore, Maestro Assoluto, dall’altro immaginariamente onnipotente. Qui si tratterà, ogniqualvolta il tema della vergogna appare, ed appare spesso nei gironi infernali attraversati da Dante e dalla sua guida Virgilio, della vergogna provata dallo stesso Dante. Mai provata dai dannati. Ciò in quanto, si potrebbe dire riprendendo il desiderio di Eva, mai queste anime si sveglieranno nell’Inferno eterno in cui vanno. Salvo forse in un solo canto, il Canto quinto, in un solo personaggio, Francesca da Rimini, figura emblematica del desiderio femminile e della passione amorosa, la sola che Dante sembra osservare con indulgenza e compatimento. Ci ritornerò.

 Mi sembra di poter affermare che per Dante la vergogna sia un elemento determinante, essenziale per giudicare dell’altezza di intenti, della delicatezza dei sentimenti, della sensibilità e dell’intelligenza dei comportamenti di colui e colei che la provano. Mai la bassezza, l’ignominia, la perversità si accompagnano a vergogna. Allo stesso modo della pietà, la tristezza per le sofferenze altrui, nonché la gioia che prova all’avvicinarsi alle sfere superiori e luminose della coscienza (seguendo in ciò la concezione di San Tommaso d’Aquino, nel suo commento all’Etica di Nicomaco di Aristotele in cui parla della felicità come bene supremo : « Felicitas principium omnium bonorum humanorum »), sono sentimenti superiori che hanno un valore analogo alla vergogna. In questo senso possiamo dire che la vergogna per Dante è la vergogna di Dante. Quell’affetto che il poeta prova è proprio dell’uomo etico, anche dinanzi alle sofferenze e alle disgrazie delle anime dell’Inferno.

Fin dal Canto Primo, fin dal primo incontro con il sommo poeta Virgilio che gli servirà da guida, Dante afferma la sua esaltazione dinanzi a tal Maestro, nei confronti del quale egli riconosce il suo più grande debito po-etico (lo scrivo con un "trait d'union" prima di etico). Non si tratta qui del Maestro inteso nel senso precedente di dominatore, sovrano onnipotente e dittatoriale, ma del grande Altro sorgente di significanti (poetici). Colui che diffonde …di parlar si largo fiume (…si grand fleuve de langage) (Ch.1, v.80). Fin dalle prime parole pronunciate, Dante ci dà una testimonianza del grande valore etico che assume per lui la vergogna quando, indirizzandosi a Virgilio che ha appena riconosciuto, gli risponde : « …con vergognosa fronte » ( … avec la honte au front, v. 81) (traduzione di Jacqueline Risset). La funzione di Grande Altro di Virgilio, possiamo avanzare tale proposta, rappresenta insomma l’ideale dell’io di Dante. La vergogna dantesca sarebbe quindi un riconoscimento ideale dell’Altro. La sua assenza implicherebbe un livellamento immaginario del medesimo, la perdita dei valori supremi coi quali l’io si confronta.

Nel Canto Terzo, dinanzi a Virgilio che lo redarguisce severamente, come lo farebbe un maestro di scuola, chiedendogli di essere paziente nel suo desiderio di sapere, Dante prova vergogna per aver contrariato il suo illustre Maestro:

Allora con li occhi vergognosi e bassi…

Infino al fiume del parlar mi trassi (v.79)

(Alors les yeux baissés, honteux…

je m’abstins de parler jusqu’au fleuve)

Si tratta, beninteso, del fiume Acheronte, che Freud mette nell' esergo dell’Interpretazione dei sogni: « Si nequeo Superos Acheronta movebo ». Forse a conferma, se ve ne fosse ancora bisogno, che, come per Dante, l’ideale di Freud è Virgilio. L’ideale della psicanalisi è il Poeta…Cosa che Lacan afferma nella conferenza sull’RSI dell’8 luglio, di cui ho parlato in apertura del convegno*, e che precede di due mesi il famoso Discorso di Roma. Lacan dice : « …il sintomo (isterico) è equivalente ad una attività sessuale, ma mai un equivalente univoco. Al contrario esso è sempre plurimo, sovrapposto, sovradeterminato, e per dirla tutta, molto esattamente costruito alla maniera in cui le immagini sono costruite nei sogni, come rappresentanti di un concorrere, di un sovrapporsi di simboli, così complesso come lo è una frase poetica (miei grassetti) che vale per il suo tono, la sua struttura, i suoi calembours o giochi di parole, i suoi ritmi, la sua sonorità, quindi essenzialmente su molti piani, e dell’ordine e del registro del linguaggio».

         Ma ritorniamo all’episodio più celebre e celebrato dell’Inferno. L’episodio di Paolo e Francesca: potremmo dire di Francesca sola, poiché Paolo mai prende la parola nel dialogo tra Dante e la sua amante. Dicevo che mai Dante offre la vergogna alle parole dei Dannati. Troppo eticamente elevata per affidarla ai peccatori. Tranne forse che per Francesca, nei cui riguardi, e nei riguardi del suo peccato passionale, Dante sembra esitare, mostrando una certa indulgenza, una clemenza che resta unica in tutto il poema. La figura di Francesca sembra affascinarlo, come Freud lo fu nei riguardi di Anna O.. Dante prova un sentimento di « pietà » per lei, come lo afferma nel verso 139 :

…di pietade

 io venni men così com’io morisse (vv. 140-141)

(…de pitié

je m’évanouis comme si je mourais)

Il sentimento è così forte, come se andasse al di là della pietà e risvegliasse il suo desiderio passionale, sessuale, che le parole gli mancano, e il suo corpo si mette a parlare in maniera isterica, al punto da svenire. Il Canto termina con un verso che rammenta la petite mort, la piccola morte, come è chiamata l’orgasmo :

E caddi come corpo morto cade (v. 142)

(Et je tombai comme tombe un corps mort)

Cosa, a proposito di Francesca, lo mette in un tale stato orgasmico? Al punto da dargli in dono un sentimento che riserva solo a se stesso? Questa vergogna che non ha vergogna a esprimere in tante circostanze del suo viaggio nell’oscura umanità? Certo,  Francesca è stata punita per il suo « peccato carnale », come si è detto. Per essere stata l’amante del suo genero. La sua è quindi una colpa ben definita dal canone etico-religioso degli amori impossibili al quale Dante si ricollega. Cosa che resterà fino al XVII secolo, ed oltre, con Racine, per dare un esempio della sua longevità. Ora, se la colpevolezza è ben stabilita e non si discute, la passione di Francesca è però tradotta da Dante con una condiscendenza che ci fa avanzare la proposta che la vergogna esista quale che sia la colpa, che la vergogna non è un suddito della colpa, ma un sentimento a parte che ha a che vedere con l’amore, magari anche narcisistico. E’ così che Dante, anche se non attribuisce a Francesca un chiaro sentimento di vergogna, le offre lo stesso una variante, un Ersatz, un surrogato (come il sintomo lo è dell’opera d’arte), un succedaneo che ha nome pudore. Non glielo offre dicendolo o chiamandolo come tale esplicitamente. Bisogna leggere Dante tra le righe per ritrovarlo. Come se Dante non avesse voluto o potuto sporcarsi le mani, direi, agli occhi del suo Tempo dando a Francesca un attributo psicologico e affettivo riservato alle Grandi Figure, e all’amor puro. Ma i commentatori più titolati non si sono lasciati sfuggire che Dante dice in modo latente quello che non esprime in modo trasparente. Al momento del loro passionale incontro, Francesca e Paolo, ricordate, leggevano il libro "star" o culto per l’epoca, Lancillotto. Un bacio ne scaturì, diciamo pure un rapporto sessuale che il termine francese esprime meglio di quello italiano. Paolo le baciò la bocca « tutto tremante » (in francese « me baisa (la bouche) tout tremblant » , v. 136). E fu così che :

quel giorno più non vi leggemmo avante (v.138)

(ce jour-là nous ne lumes pas plus avant)

 E’ all’evocazione di questo rapporto sessuale appena travestito che Dante sviene. Ed è a questo momento cardine che  commentatori quali Umberto Bosco e Giovanni Reggio (2002)  riconoscono che: « Francesca interrompe il suo racconto stendendo un velo pudico sul proprio peccato, ed è questa un’altra connotazione - aggiungono i commentatori – della squisita delicatezza del personaggio ». Solo che il « velo pudico », il pudore per dirlo chiaramente, è quello di Dante. E’ lui che scrive il poema: come nei sogni,  in  analisi i personaggi vivono quello che l’analizzando ci mette di suo. Il pudore provato ed espresso in modo latente, come nel sogno, da Francesca è il suo, di Dante, come sua è altrove la vergogna.

Che tra vergogna e pudore ci sia un rapporto  di parentela connotativa, quasi una sinonimia, non è solo un dato scovato nel poema di Dante, e nel poeta  stesso. E’ una familiarità semantica che si ritrova anche nell’opera di Freud. La traduzione inglese delle Opere Complete (Gesammelte Werke) non distingue infatti le due accezioni in quanto, ci ricorda Claude Janin nell’articolo che chiamerei di base sulla vergogna (Pour une théorie psychanalytique de la honte (…) op.cit.), la lingua inglese ha lo stesso termine per indicare la vergogna e il pudore, shame. Mentre in tedesco, in francese e in italiano due parole diverse specificano vergogna e pudore. Il problema della traduzione dal tedesco di Freud è comunque stato pienamente rilevato 2 e non è qui il caso che mi attardi.

         Per concludere su questo Canto Quinto e sull’episodio di Paolo e Francesca - al punto che non lo chiamerei più che l’episodio di Dante e Francesca - Dante stesso stende un velo pudico sul suo canto, in quanto si accascia come un corpo morto, e chiude il poema.  In ciò penso che sia stato affetto dall’identificazione alienante e dalla confusione isterica con i suoi personaggi, così come lo afferma per noi psicanalisti all'inizio del Canto VI che segue, ove parla del ricordo e dell’oblio, diciamo della rimozione nella quale era caduto l’avvenimento che tanto l’aveva rattristato :

Di trestizia tutto mi confuse (C.VI, v. 3)

(en me confondant de tristesse).

Questo esplicita, si può dire,  l’analogia di cui parla Lacan, e che ho citato poc'anzi, tra il sintomo isterico e la poesia. La vergogna innalzando questo verso Quella.

         E’ il Canto XXX che porta più acqua al mulino della psicanalisi, per una sottile distinzione tra rimorso, colpevolezza e vergogna. In pochi versi Dante esprime la sua vergogna a due riprese. La prima volta quando il suo Maestro Virgilio si rivolge a lui con collera:

Quand’io ‘l senti’ a me parlar con ira,

Volsimi verso lui con tal vergogna,

Ch’ancor per la memoria mi si gira.

(vv.133-135)

Dante ci indica che le ferite della memoria legate alla vergogna ci tornano in mente in maniera indelebile. Come diceva Freud in una lettera a Fliess : « Il ricordo puzza ». A maggior ragione i ricordi di vergogna provata tempo addietro, e quale che sia la distanza dall’avvenimento. Come se la rimozione non funzionasse.

Ma a questo punto Virgilio, Gran Signore e non Potente Maestro, lo rassicura dicendogli che la vergogna che prova può lavare una colpa ben più grande di quella che ha commesso.

Maggior difetto men vergogna lava (v.142)

Alla stregua di Eva nel film di Bergman, Dante considera la vergogna, già sette secoli prima,  come un procedimento di espiazione e di purificazione della colpa commessa.  Sia questa reale o immaginaria. Come per l’applicazione della pena al colpevole di un delitto, Dante introduce un principio di proporzionalità che il diritto penale del suo tempo era lungi dal riconoscere. Più grave è la colpa, più profonda è la vergogna, ci dice. Solo che, lo si constata nel verso « Maggior difetto men vergogna lava », la vergogna immaginaria è slegata dalla colpa reale. La sua risonanza va al di là dell’avvenimento colpevole. Se la colpa, il sentimento di colpa è reale, la vergogna, il sentimento vergognoso è immaginario. Ma la distinzione non è così semplice. Per Dante si tratta di dare alla vergogna una struttura simbolica di redenzione attraverso la poesia, la parola vera, una sorta di evoluzione nella risoluzione dell’Edipo, diremmo in psicanalisi. Ciò nel senso in cui alcune correnti psicanalitiche pongono « l’Edipo al di là della vergogna » (cfr. Claude Janin, op.cit., p.1685). Io aggiungerei che la vergogna si trasforma e si simboleggia dopo la strutturazione edipica.

 

 

 
 

M’Palermu, di Emma Dante3

 

Foto: "M'Palermu" di Emma Dante  

Dopo la poesia e il cinema, il teatro interroga l’analista. Il teatro di Dante, Emma Dante, una omonima del grande poeta col suo cognome. Giovane autrice siciliana, già invitata molte volte a Parigi. Una sua pièce, M’Palermu (Dentro Palermo), rappresentata di nuovo quest’anno al théâtre du Rond Point, diretto da Jean-Michel Rives, racconta la storia di una famiglia siciliana che si appresta ad uscire di casa per una passeggiata, ma che non riesce a passare l’uscio. La vergogna glielo impedisce! Vergogna di non avere le scarpe che ci vogliono, le scarpe buone. A questa vergogna sintomatica se ne allacciano altre. Vergogna per non saper parlare il buon italiano, per non abitare al Nord, ma al Sud, per non aver l’acqua corrente ogni giorno, per non avere la cattedrale più grande del mondo, né la squadra di calcio che rivaleggi con le più quotate squadre del Nord. La vergogna di esser nudo come un feto prematuro, non ancora pronto ad uscire, la vergogna per essere una bocca famelica in questo gran ventre che è Palermo, che espelle i suoi vomiti e escrementi. La vergogna per una autenticità linguistica, dialettale - lo spettacolo teatrale è in dialetto siciliano – che scopre tutto del soggetto, che toglie agli interpreti, piuttosto straccioni, ogni ornamento di civiltà, alla maniera di uno scultore  che però toglie il marmo che ricopre la sua statua. Vergogna della loro incapacità a vestire di convenzioni il loro essere, a ricoprire le loro pulsioni di un velo di pudore, come un pittore che dipinge la sua tela. Poiché la verità umana che vuol trasmettere Emma Dante, la soggettività  più parlante, rischia di essere un grande urlo vergognoso alle orecchie di coloro che dalla loro umanità si  distolgono.

 Con questo spettacolo senza concessioni al buon pudore benpensante, ci ritroviamo nel cuore della scoperta freudiana. Quella scoperta che consiste essenzialmente nell' ascoltare, grazie al transfert,  il nostro « dialetto interiore ». Quel dialetto che ci permette di dire, parafrasando Lacan, che « l’inconscio è strutturato come un… dialetto ». Come lo afferma Andrea Camilleri nella sua prefazione, il dialetto è « lingua personale », « una voce che risuona di autenticità ».

 Per la famiglia Carollo si tratta di passare la soglia della sua intimità difettosa - necessariamente difettosa poiché l’uso della lingua dialettale è uno specchio dell’anima, cioè della psiche -  senza « vergogna né colpa » (p. 25), a testa alta, adornata della sola dignità umana, come un re della sua corona. Eppure ecco che, al momento di passare la soglia di casa, felici, e cercando il sole che li attende, un elemento apparentemente insignificante inceppa il meccanismo familiare, come l’apparizione di un sintomo in ogni nevrosi. Questo elemento impercettibile spalanca non l’uscio di casa, ma le porte della vergogna che, invece, lo richiudono sui suoi abitanti. Lo sguardo dell’altro appare prima che appaia l’altro. Quello che direbbe la gente, il chiacchiericcio immaginario degli altri passeggiatori, entra in casa loro, prima che loro ne escano. Ed anzi  impedisce loro di uscire. Questo perché Rosalia, che ha il marito che lavora al Nord, non ha scarpe ai piedi, ma solo le sue pantofole. Tutta la famiglia si inchina sui « tappini » di Rosalia e arrossisce di vergogna. Il silenzio cade come un verdetto su di loro. L’inibizione ad uscire è insormontabile. E la vergogna non li lascerà più fino al dramma finale. Di vergogna si può morire, purché sia a testa alta! Così finisce in tragedia un’uscita domenicale. La nonna "Nonna Citta"  (che poi citta vuol dire che tace) muore dritta. Si curva mentre esala l’ultimo respiro, ma non cade. La sua è una morte in dialetto. <<Assurda e volgare >> (op.cit. p. 70). Volgare forse, ma nel senso di Dante, l’Alighieri nel De vulgari eloquentia, un’impossibile rettitudine dell’eloquenza volgare. Quella dell’origine del linguaggio, quella lingua volgare che il fanciullo apprende fin dalla « balia », dice l’Alighieri. Intendiamo quella lingua originaria alla quale l’analista non cessa di riferirsi. Prima ancora della lingua grammaticale, la lingua perfetta - o supposta tale - dell’élite, è questa lingua paratassica e volgare – cioè del volgo, del popolo, che interessa la psicoanalisi, come già accennato in apertura del convegno*.

C’è in questa morte in piedi di Nonna Citta una specie di elogio della lingua moribonda che è il dialetto, come il timore che anch’essa diventi lingua morta. Come avviene al Gattopardo, di Tommaso di Lampedusa, nobile in via di estinzione. Del resto per Dante Alighieri  stesso, la  lingua nobile, la lingua illustre, cardine della porta del linguaggio, la sola che promuova l’uomo nella sua singolarità storico-familiare - e direi anche psicologica – è la lingua volgare4. Come per Freud la sola lingua che abbia  l’analista da riconoscere è il « dialetto interiore » del suo analizzando. Anche lui, dialetto interiore, minacciato di sparizione dalla rimozione.

 
 

Conclusioni

 

 

         Il percorso tra le opere poetiche, cinematografiche e teatrali della questione della vergogna mette in evidenza, a mio avviso, tre assi di lavoro :

1                                          La vergogna reale nel caso di avvenimenti esterni al soggetto, che riducono e a volte cancellano la dignità umana delle vittime. Che poi hanno una risonanza soggettiva, come avviene ai personaggi di Bergman, Eva e Jan.

2                                          La vergogna immaginaria, sintomatica, come nella situazione familiare descritta e messa in scena da Emma Dante in M’Palermu. Le pantofole (tappini) come metonimia dei fantasmi sessuali e incestuosi che dragano i conflitti all’interno di un nucleo familiare, narcisisticamente chiuso su se stesso, nel quale si alienano i vari componenti fino al soffocamento.

3                                          La vergogna simbolica, infine, quella che prende il linguaggio - poetico nella circostanza del poema di Dante - come supporto di una elaborazione psichica soggettiva, atta a dominare le passioni nel loro estremismo mortale e mortificante. La sola ad avere un effetto civilizzatore, cioè metaforico e strutturante dell’identità personale.

 

E’ così che il treppiedi lacaniano RSI, come quello della Sibilla,  offre tutta la misura, mi sembra di poterlo affermare, del suo valore operativo, non soltanto nell’approccio clinico della vergogna, ma anche - e questo non c'è senza quello - come basamento sul quale scrivere le nuove o rinnovate concezioni dei mutamenti dell’identità soggettiva.

 

 

 

 

Note dell'Autore:

1 Cfr C. Trono,  L’or du diable. Baudelaire et Caroline Dufays, Paris, L’Harmattan-Penta Editions, 2004.

2. A. Bourguignon, P. Cotet, J. Laplanche, F. Robert (1989),Traduire Freud, Paris, PUF.

3 In "Carnezzeria", Albano-Roma, Fazi Editore, 2007.

4 Tra tutti i volgari italiani, Dante Alighieri ne cerca uno che sia "illustre, cardinale, aulico e curiale."

0.        "Illustre" perché doveva dare lustro a chi lo parlava

0.        "cardinale" così come il cardine è il punto fisso attorno al quale gira la porta, allo stesso modo la lingua deve essere il fulcro attorno al quale tutti gli altri dialetti possono ruotare

0.        "aulico" e "curiale" perché dovrebbe essere degno di essere parlato in una corte e in tribunale.

In principio egli non ritiene nessuno dei volgari italiani degni di questo scopo, nonostante alcuni di essi, come il toscano (definisce insani i fiorentini, convinti a suo dire d'aver raggiunto l'apice con la loro lingua), il siciliano e il bolognese, abbiano un'antica tradizione letteraria. Infine giunge comunque a ritenere il fiorentino come una lingua che soddisfa i punti sopracitati. Considera invece il volgare romano come il peggiore (Dante dixit).

 

 

 

 Nota del Curatore:

* L'autore si riferisce al convegno internazionale "Non c'è più vergogna nella cultura?"(Roma, 18 e 19 settembre 2009) in cui Cosimo Trono ha presentato l'intervento da cui è tratto il presente testo. Il testo di apertura dello stesso convegno è disponibile al link http://web.tiscali.it/cepsidi/tronohonte.htm

 

 

 

 

 

 BIBLIOGRAFIA

 

Claude Janin, "Pour une théorie psychanalytique de la honte", in <<Revue Française de Psychanalyse>>, 2003/5, volume 67, PUF, p. 1665. Traduzione in italiano di Cosimo Trono.

Umberto Bosco  & Giovanni Reggio, "La Divina Commedia. Inferno", Mondadori, 2002.

 

 

 

 

 

 

 

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