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In questo lavoro, che trae origine da un lavoro congiunto all'interno
di un gruppo di lavoro della E.P.F., vogliamo ampliare la portata
della comprensione delle conseguenze del trauma estremo o grave.
Abbiamo scelto una cornice concettuale in cui i termini di resilienza
e di deplezione/devitalizzazione riflettano differenti decorsi di
sviluppo post-traumatico, e che sottolinei la vulnerabilità della
persona traumatizzata e la sua dipendenza dall'ambiente circostante
per dare soprattutto risposte adeguate ai messaggi complessi, spesso
enigmatici e contraddittori che emergono in un contesto terapeutico o
differente da esso, da cui si ci aspetta che rappresenti un contesto
di relazioni d'aiuto.
Mentre
la resilienza indica la capacità dell'individuo di usare le
risorse ambientali, in particolare le relazioni con gli altri e le
loro risorse e potenzialità interne, i concetti di deplezione/devitalizzazione
descrivono processi che portano ad uno stato mentale di mancanza;
mancanza di nutrimento proveniente da buoni oggetti interni, mancanza
di risorse interne ed esterne e di energia, ed uno stato di profonda e
massima disperazione.
Discuteremo le potenzialità e la possibile utilità di questi concetti
non solo per comprendere il paziente traumatizzato, ma anche per il
loro possibile valore nella gestione del processo terapeutico. Dato
che la resilienza designa un comportamento che promuove in modo
progressivo e potenziale la salute, possono emergere problemi di
controtransfert nei clinici che sono soliti focalizzarsi sulla
vulnerabilità e sulla patologia. Può essere una sfida il vedere ciò
che sembra essere un "acting out" in termini di positivi tentativi di
restaurare una capacità di azione.
La
resilienza nei bambini è stata definita come la capacità di
negoziare i compiti evolutivi ordinari nonostante le avversità
cumulative (Eisold, 2005). Si sono enumerati svariati fattori
protettivi, considerati come importanti per lo sviluppo della
resilienza, ad es., una buona intelligenza, una buona
comunicazione e buone capacità di "problem solving", la capacità di
stabilire relazioni con gli altri e quella di pianificare ed
organizzare il comportamento. Secondo il lavoro di Hauser e del suo
gruppo (Hauser, 2006; Hauser, 1999), basato su uno studio
longitudinale di un campione di bambini ospedalizzati in tenera età,
ci sarebbero tre capacità generali che caratterizzano il gruppo di
coloro che da adulti sembrano aver raggiunto uno standard di vita
relativamente soddisfacente nonostante gravi disfunzioni familiari
(spesso in termini di abuso) e prolungati periodi di ricovero in
ospedale; nel seguente modo lo studio mostrava gli esiti
caratterizzati da resilienza: la <<convinzione che si può influenzare
il proprio ambiente, la capacità di gestire i propri pensieri e
sentimenti, e la capacità di formare relazioni umane in grado di
prendersi cura degli altri e di se stessi>> (Hauser et al., 2005, pag.
262). Queste tre capacità non sono affatto dei fattori separati e
sono, come vedremo, espressioni di strutture e di processi
sottostanti sulla cui piena natura e sulle cui origini abbiamo ancora
una conoscenza limitata. Hauser e collaboratori sottolineano che
queste capacità rappresentano processi piuttosto che stati e che <<...
la resilienza non si trova né nella competenza né nella relazione; ma
risiede nello sviluppo della competenza o della relazione laddove non
esistevano prima>> (Hauser et al., 2006, pag. 261). Alayarian mette in
evidenza i fattori intrapsichici connessi con la resilienza, come ad
esempio la capacità di costruire uno spazio intrapsichico sicuro in
cui la persona possa <<parlare a se stesso per regolare la sofferenza
psichica e proteggersi dai troppi sentimenti di vulnerabilità>> (Alayarian,
2007).
Foto: Pavel Wolberg, "Fiume Giordano" (2005)
La
deplezione, dall'altra parte, non è stato un esplicito focus di
ricerca come lo è stato la resilienza. Aggiungendo il concetto di
devitalizzazione, questa dimensione si inscrive nelle due dimensioni
strutturali della traumatizzazione, la dimensione psico-economica e
quella della relazione oggettuale (Bohleber, 2000). La deplezione e la
devitalizzazione possono essere descritte come processi di graduale
perdita di energia. Da una prospettiva di relazioni oggettuali questo
processo si può descrivere come un deficit nella relazione finalizzata
alla cura e nel nutrirsi di oggetti interni. La persona traumatizzata
dimostra sempre meno capacità di mettere in atto compiti vitali quali
il prendersi cura degli altri e di se stesso, dimostra una mancanza di
risorse interne e di capacità di usare le risorse esterne, ossia gli
altri, per tali propositi. Abbiamo importanti conoscenze correlate
alla deplezione/devitalizzazione a partire dagli studi sui
sopravvissuti all'Olocausto e sulla vita nei campi di concentramento (Krystal,
2003; Krystal, 2001; Krystal, 1988; Krystal, 1971; Eitinger, 1973;
Eitinger e
Strøm,
1981; Levi, 1987; Niederland, 1981).
La
resilienza e la deplezione/devitalizzazione sono concetti che si
riferiscono a caratteristiche visibili del funzionamento della
personalità e sono concetti che non si riferiscono in modo diretto a
concetti psicoanalitici, ma nondimeno indicano una molteplicità di
fattori determinanti dei processi, ossia indicano un'eccesso di
fattori determinanti ed il bisogno di comprendere individualmente ogni
persona (Gabbard, 2006).
La
fenomenologia degli stati post-traumatici è, comunque, in un'ampia
misura caratterizzata dalla dialettica o dalla dinamica tra "vitalità"
e "mancanza" per cui è giustificata una discussione sull'eventualità
che questi concetti possano organizzare nuove scoperte sul trauma.
Nello
studio di Hauser e coll. era evidente che i giovani resilienti non
mostravano uno sviluppo nella norma. Le loro vite non erano state
facili; essi avevano fatto delle scelte apparentemente poco sagge e
spesso si erano imbattuti in grossi problemi. Quello che aveva
caratterizzato queste persone, comunque, era stato la capacità di
apprendere dall'esperienza.
In questo
mio lavoro ci concentreremo sulla popolazione dei rifugiati. Abbiamo
trovato la coppia di concetti resilienza e deplezione/devitalizzazione
come utile punto di partenza per riflettere su un gruppo di pazienti
che in grande misura bussano alla porta dei sistemi sanitari
occidentali, spesso ricevono un trattamento minimo, sono di regola non
ben capiti e di rado vengono visti da psicoanalisti.
I vari
studi longitudinali su questa popolazione rivelano un'alta prevalenza
di psicopatologia (Lie, 2003; Lie, 2002; Lie, 2001; Dahl, 2001;
Boehnlein, 2004), un grande rischio di ritiro in se stessi e sviluppo
di condizioni croniche come ad esempio durevoli cambiamenti della
personalità dopo un trauma estremo (W.H.O., 1993). Dall'altra parte, i
clinici che lavorano con questo gruppo di pazienti hanno anche visto
sorprendenti cambiamenti positivi persino dopo un lungo periodo di
ritiro, di confusione o di un pesante carico sintomatologico; e la
ricerca ha mostrato che la terapia psicoanalitica può dare risultati
positivi (Varvin, 2003).
Le
questioni salienti sono: cosa caratterizza coloro che vengono valutati
come resilienti? Prendendo in considerazione la ricerca sulla
resilienza, quali processi e quali tipi di interazione con l'ambiente
possono influenzare lo sviluppo nella direzione della resilienza o
della deplezione? Abbiamo la convinzione che la resilienza e la
deplezione/devitalizzazione siano esiti estremi; da una prospettiva
fenomenologica possono situarsi invece su un continuum. E un'altra
questione è quella di quali forze dinamiche siano in gioco in modo da
poter modellare la natura degli esiti individuali.
La resilienza e la deplezione si riferiscono agli stessi
processi della personalità ed alla sua relazione con l'ambiente?
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La
deplezione/devitalizzazione ovviamente si riferiscono a processi
patologici. E' come se la lotta contro la disperazione dell'esperienza
traumatizzante venga ad essere perduta o quasi. La persona si ritira
in se stessa e se non c'è alcun aiuto o qualcuno che si prenda cura di
lui, tale ritiro può diventare cronico, porta ad una diminuita
interazione col mondo, perturbazione dei processi vitali sia psichici
(mancanza di fantasie sul futuro) sia somatici, fino allo sviluppo
eventuale di una malattia e di una morte precoce (Eitinger, 1964) (si
veda anche il caso presentato da Gill Hinschelwood nello stesso
"panel" del congresso dell'I.P.A. di Berlino del 2007 in cui è stata
presentata una versione rivista del presente lavoro). La resilienza si
riferisce, dall'altra parte, a forze che mirano al cambiamento, alla
relazione ed all'apprendimento. Può essere ragionevole pensare che ciò
si riferisca ad aspetti della personalità che sono coinvolti con la
crescita e con lo sviluppo (Emde, 1991) e che quindi attivano un
dialogo interiore e delle fantasie rispetto ad un futuro.
In connessione con tutto ciò è
pertinente chiedersi quale ruolo possa giocare la psicoterapia o la
psicoanalisi. La psicoterapia psicoanalitica ha ciò che si deve avere
per fare la differenza? E cosa rende quei pazienti capaci di usare
questa opportunità di iniziare un nuovo porsi in relazione, un nuovo
desiderio di cambiamento e di imparare dall'esperienza?
Siamo interessati allo studio di
come la psicoterapia possa lavorare con pazienti che si trovino in una
situazione di esilio, spesso contraddistinto da circostanze avverse,
da condizioni di vita povere, da razzismo, da perdita o carenze
nell'ambiente culturale familiare. Ossia, molti dei fattori protettivi
che sono stati collegati con la resilienza sono deboli o assenti in
questi casi.
Ciò che possiamo fare nel presente
lavoro è sollevare queste questioni e cominciare a discutere se i
concetti di resilienza e di deplezione/devitalizzazione possano
essere fruttuosi.
Useremo del materiale proveniente
dalla pratica clinica e da una prospettiva di studio di trattamenti di
singoli casi di rifugiati gravemente traumatizzati (Varvin, 2003).
Prima vignetta clinica |
Sono stato in
grado di seguire quest'uomo per 16 anni, vedendolo per tutta la
sua adolescenza e giovane età adulta, quando venne in terapia ad
intervalli, ma sempre mantenendo il contatto con me.
Proveniva da
un paese del Medio Oriente ed arrivò in Norvegia all'età di 14
anni, insieme a sua madre ed a due sorelle più giovani. Suo padre
era restato nel suo paese continuando la lotta di resistenza. Un
fratello più grande era stato ammazzato. La sua infanzia dall'età
di 5 anni era stata caratterizzata da continue guerre; vivendo in
clandestinità in condizioni pericolose, con frequenti cambiamenti
di luogo di vita e frequenti interruzioni della scuola. Quando
iniziò il trattamento all'età di 15 anni, era un ragazzo depresso
ed a volte caotico, che viveva in una famiglia multi-problematica
con una madre malata di mente, in cui egli da subito aveva dovuto
assumersi la responsabilità, senza averne le necessarie capacità,
di compiti che era toccato a lui di adempiere. A volte egli aveva
avuto gravi comportamenti suicidari.
Egli mostrò
caratteristiche, precocemente emergenti anche se spesso non molto
visibili, che erano state sottolineate dalla ricerca sulla
resilienza. Ad esempio, credeva di essere capace di influenzare i
suoi vicini: cercava di aiutare la famiglia nonostante la sua
mancanza di cooperazione; lavorava duramente a scuola e faceva in
modo di portar bene avanti i compiti ricevuti. Aveva le sue idee
sulle relazioni con gli altri; e nonostante esse fossero in genere
molto poche e non intense, comunque egli ci provava a mantenerle.
Ora, dopo 16
anni, aveva completato il corso scolastico superiore e sta
cominciando un impegno accademico professionale. Mi ha detto di
essere stato nella nebbia per circa dieci anni, non sapendo cosa
sarebbe successo di se stesso. Quando aveva all'incirca 25 anni,
la sua traiettoria è drammaticamente cambiata, dato che allora
decise di creare una vita per se stesso. Lavorammo su alcuni sogni
nel corso della sua terapia, che egli collegava ad un suo
importante parente che era deceduto. Ci fu un sogno di transfert
in cui un dottore-zio gli dava il consiglio di seguire un cammino
di pace. A quel tempo egli era convinto che doveva tornare in
patria e lottare contro il regime oppressivo del suo Paese.
Sembrava come se il lavoro sul sogno lo facesse arrestare e desse
un nuovo indirizzo ai suoi piani futuri. Questo era naturalmente
il culmine di un lavoro terapeutico precedente. La sua mente
lottava con aggressività e violenza, e col bisogno di vendicarsi.
Il riconnettersi, attraverso il transfert, con precedenti oggetti
buoni, rappresentando la relazione in una parte pacifica della sua
vita precedente, sembrava aiutarlo su un percorso verso la salute.
Sembrò perciò
trarre beneficio dalla relazione terapeutica. La questione
consiste nel chiedersi come mai egli riuscì laddove molti altri
falliscono, ritirandosi in se stessi oppure assumendo l'identità
di vittime aggressive.
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Seconda vignetta clinica |
Durante la
somministrazione di una "Adult Attachment Interview", chiesi
ad un rifugiato dalla Cecenia, visibilmente depresso e
devitalizzato, di parlarmi della sua infanzia. Quando gli fu
chiesto di parlarmi della sua relazione col padre, improvvisamente
scoppiò a piangere. Quindi mi parlò delle sue prime esperienze col
padre e cambiò completamente espressione, il suo viso si
rasserenò, i suoi occhi si illuminarono e il suo sguardo cambiò. Mi
guardò in modo diretto e sorrise, sebbene con un'aria di
tristezza, rivelando il fatto che delle forze vitali fossero state
attivate. Questo breve incontro con una precoce relazione
oggettuale vitalizzante attivò un ampio spettro di emozioni non
evidenti prima, durante l'intervista. La questione è, ancora una
volta, cosa rese possibile questo cambiamento interno; ed anche il
cambiamento nell'atteggiamento di maggiore attività che esso
implicò.
Un'analoga
sequenza si poteva vedere nel corso di una lunga psicoterapia con
una donna molto più devitalizzata e con una maggiore "deplezione".
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Terza vignetta clinica |
Elena era una
donna magra e leggermente curva, vestita in modo ordinario e con
un foulard di tradizione mussulmana che le copriva i capelli. Al
primo incontro, era pallida e parlava a bassa voce. I suoi occhi
erano quasi sempre abbassati verso il tavolo o il pavimento, e di
tanto in tanto guardava in modo molto diretto il terapeuta. Dava
un'impressione allarmante di essere non solo molto depressa, ma
anche una persona che si era quasi del tutto arresa alla vita.
Proveniva da
una famiglia della fascia più bassa della classe media in una
grande città in un paese del Medio Oriente, l'unica femmina di
quattro figli. Descriveva la sua infanzia come abbastanza
confortevole, tranne che per aver dovuto vivere in un continuo
fuoco incrociato tra il padre conservatore, che credeva che le
ragazze potessero solo frequentare la scuola coranica e sposarsi,
e la madre più moderna che appoggiava il suo desiderio di
studiare. Ben presto sentì che l'atteggiamento paterno era molto
ingiusto, ma si abituò a tacere i suoi sentimenti, mentre comunque
perseguiva i propri obiettivi con una ostinazione tenace. Era
l'unica che si faceva carico dei problemi degli altri, ed aveva
terribilmente paura di offendere o ferire gli altri.
Mentre
lavorava in una organizzazione politica legale, si verificarono
degli arresti in massa subito dopo la nascita dei suoi figli. Fu
arrestato suo marito e parecchi membri della sua famiglia estesa.
Otto di loro furono ben presto uccisi o condannati a morte. Il
marito sopravvisse, sebbene sottoposto a pesanti torture. Anche
lei venne arrestata con i suoi due figli piccoli, allora di 4 mesi
e di due anni di età, e trascorsero due anni nelle più inumane
condizioni di prigionia.
Dapprima
Elena e i suoi due bambini dovettero vivere in una piccola cella,
in meno di un metro quadro di spazio. Dato che era impossibile
distendersi per dormire, Elena sviluppò una tecnica per cui
piegava le gambe all'indietro per riposare e dare più spazio ai
figli. All'inizio della terapia (circa dieci anni dopo), era
ancora obbligata a dormire in quella posizione per poter riposare.
Il cibo era scarso e le condizioni igieniche povere. Al tempo in
cui suo figlio più piccolo stava quasi per morire di fame e di
sete, la guardia carceraria portò del latte che conteneva una
sostanza nociva che quasi all'istante fece ammalare profondamente
il piccolo e lo portò ancora più vicino alla morte. Per lunghi
periodi di tempo Elena dovette stare in piedi, incappucciata,
contro un muro, senza che le fosse permesso di sedersi e di
prendersi cura dei bambini, che dovevano camminare a quattro zampe
sul pavimento. Essi potevano udire le grida delle persone che
venivano torturate, e la madre era scossa dal fatto che i bambini
potessero guardare tutto ciò.
Poi vennero
trasferiti in una prigione più grande dove vennero sistemati in
una cella grande ma superaffollata. I prigionieri compagni di
cella venivano regolarmente torturati, ed era consueta la vista di
persone sanguinanti e maltrattate. Molti avevano le dita amputate,
qualcuno divenne zoppo ed altri vennero uccisi di fronte a lei ed
ai suoi figli.
Quelli che
seguono sono dei brani tratti dalle sue affermazioni nel corso
della terapia. Questa è stata audio-registrata ed io ho
re-interpretato il materiale con la prospettiva in mente della
resilienza e della deplezione/devitalizzazione.
Paz.:<<Sì,
perché ne abbiamo viste tante, troppe di cose là, non ci saremmo
mai aspettati che degli esseri umani potessero fare cose del
genere>>.
Commento: usa
il pronome "noi" e dice "non ci saremmo mai aspettati", cioè
sembra una rappresentazione di una normalità collettiva in cui
cose del genere non si dovrebbero fare.
Paz.:
<<Abbiamo un vecchio proverbio che dice che ciò che vedi non è lo
stesso di ciò che senti>>.
Commento:
l'analista è un "outsider", ma comunque anche un potenziale
testimone con cui lei si può confidare, uno che può o non può
capire.
Paz.: <<Sì,
fu nel cuore della notte, erano andati a prelevare una donna dalla
cella in cui mi trovavo anch'io e la stuprarono>>.
(Pausa di 10
secondi)
Paz.: <<Sì,
eravamo tutti nella stessa stanza, ed essi arrivarono, potevano
venire in 1, 2 o 3 uomini. Erano tutti coperti con vestiti neri
così da non poter essere visti. Non potevamo vedere nessuno di
costoro, erano tutti coperti. E in ogni cella eravamo circa in 70
contemporaneamente. E allora arrivarono, si misero al centro della
stanza, si giravano continuamente puntando l'indice e poi
improvvisamente si fermarono, e indicarono una di noi. Le altre di
noi avevano quasi perso il respiro quando quest'uomo si girava,
ora sarà la mia volta, per caso. Quando una veniva indicata, noi
altre potevamo ancora respirare, ma eravamo disperate per la
persona che era stata scelta. Perché non sapevamo. E' tortura o
esecuzione?>>
(pausa)
<<E ricordo
le mie amiche, venivano portate via alle 4 del mattino per
l'esecuzione e non ci era permesso di alzarci e di ringraziarle e
di salutarle. Ed era come se le prigioniere mie compagne di cella,
con in grembo i miei bambini, venissero frustate>>.
Commento:
Questo avviene presto nella sua terapia. Sta parlando delle
relazioni e dei sentimenti nei confronti degli altri. Il focus è
ugualmente sulle relazioni come anche sulle atrocità subite.
Poteva parlare del dilemma del sopravvissuto, l'altro e non io, ed
esprimere la sofferenza in un modo da poter evocare risposte
empatiche nell'ascoltatore. Non era affatto, persino a questo
punto di esasperazione, del tutto demoralizzata.
Quindi,
abbastanza presto nella terapia, quando lei era in uno stato di
apparente deplezione e sembrava quasi completamente devitalizzata,
le emozioni erano presenti o rappresentate come dolore fisico, ma
anche talora contenute in se stessa, oppure sperimentate in modo
proiettivo da parte dell'analista. In seguito descrisse il suo
stato mentale in quel periodo nel modo seguente: <<Prima avevo
paura di tutto, sempre. Ora è tutto cambiato. Non la
dimenticherò mai>>. La sua esperienza cosciente era quindi fatta
soprattutto di spavento e, lei disse, non era stata consapevole
del suo essere spaventata.
Foto: Pavel Wolberg, "Check-point di Qualqiya" (2002)
Questioni di
spazio non consentono di raccontare la storia della sua
sofferenza. E' sufficiente dire che la permanenza in prigione fu
un'esperienza maligna, in cui il suo obbiettivo principale era
quello di prendersi cura e di proteggere i suoi bambini nel
contesto di condizioni degradate e di restare viva nonostante i
maltrattamenti. I cinque anni in cui era vissuta con i figli e la
madre nel suo Paese dopo l'uscita dalla prigione furono una lunga
lotta per la sopravvivenza con ripetuti arresti, maltrattamenti e
tormenti per sé e per la sua famiglia. Aveva intenzioni suicidarie e
soffriva degli esiti delle torture, ed a volte le mancava del
tutto l'energia, essendo a mala pena capace di camminare. <<Dovevo
quasi strisciare>>. In seguito affermò che, per molti versi, ciò
era peggio dell'essere in prigione. Viveva in un costante
sentimento di paura ed il senso di oppressione non cessò quando
fuggirono dal loro Paese. Le famiglie d'origine rimasero, e sono
ancora, nel loro Paese d'origine dove continuano ad essere
continuamente tormentate; e l'ambasciata mise sotto sorveglianza
gli esuli e riferì sulle loro attività alle autorità del Paese
d'origine e punì le loro famiglie d'origine in differenti modi.
Elena
soffriva di una moltitudine di sintomi post-traumatici, dolori
fisici e depressione, e la sua vita emotiva era gravemente
coartata. Era sospettosa e rifuggiva le relazioni con gli altri.
In terapia ci fu una prima fase di "luna di miele" in cui
riusciva a verbalizzare alcune sue esperienze, sperimentando un
immediato miglioramento e fiducia negli altri, ma questa fase fu
seguita da un prolungato periodo di svariati anni di sfiducia e di
negativismo, prima di una fase di iniziale integrazione in cui
divenne capace di operare delle connessioni mentali per conto
proprio; ed il lavoro con ciò che l'aveva terrorizzata nella vita
quotidiana le aveva fatto recuperare la capacità di riflettere e
quindi di apprendere dall'esperienza e di sperimentare una
maggiore capacità di attività nella sua vita.
Elena
dapprima mostrò un negativismo caratterizzato da ritiro in se
stessa e da diffidenza, mentre al contempo mostrava un'ostinata
ricerca di soluzioni con tanta attività, cercando trattamenti
alternativi, sabotando le sedute, ecc. Per periodi più lunghi
erano consuete le reazioni terapeutiche negative e la capacità di
auto-riflessione e di mentalizzazione era quasi del tutto assente,
rendendo la terapia un qualcosa di noioso e pressoché di
solitario per l'analista. Retrospettivamente, era possibile vedere
segni emergenti di una conseguente resilienza, ossia segni di
processi interiori che avevano contribuito a cambiamenti portatori
di resilienza, che erano già presenti ma in equilibrio precario con
tratti di deplezione e di devitalizzazione.
In una seduta
parlò della tortura ed iniziò a piangere. Sentiva di esser stata
resa impotente ed umiliata dall'analista, andò a casa e si
isolò per due settimane prima di tornare in terapia. La sua
esperienza terapeutica fu per lei una lunga marcia verso qualcosa
di meglio. Nonostante la sua tendenza a reazioni terapeutiche
negative e le ripetute rotture della cornice terapeutica (in
genere interpretate come "acting-out"), restò in terapia e
raggiunse la sua conclusione in modo da vivere una vita
ragionevole seppur sofferente per le sequele fisiche dopo le
torture subite.
La "scoperta"
di buoni oggetti precoci giocò anche qui un ruolo importante nella
sua guarigione. In una seduta riuscì a ri-scoprire una buona
relazione con sua nonna. La nonna era stata considerata,
all'inizio della terapia, come severa e non empatica. Era ovvio,
comunque, che questa immagine mentale di sua nonna era stata
colorata da successive esperienze di oppressione, che dunque
avevano distrutto retrospettivamente (
nachträglich
) una fonte libidica per lei.
Elena
mostrò allora un "pattern" di resilienza per cui riusciva a
fuoriuscire dal suo stato di devitalizzazione, ad usare le
relazioni con gli altri, specialmente la relazione terapeutica,
non rinunciando mai al desiderio di fare qualcosa da
protagonista della propria vita ( i cosiddetti "acting outs", in
questa prospettiva, potrebbero essere visti come tentativi di
guarigione ed un segno di essere attiva) e diventando sempre più
riflessiva e quindi capace di apprendere dall'esperienza.
Fuoriuscì così da una condizione di quasi totale deplezione e
mancanza di vitalità. Ancora si pone la questione: <<Cosa le fu di
beneficio nella speciale relazione della psicoterapia
psicoanalitica?>>
Tenendo in mente la costellazione materna (Stern, 1995), il tema
del tenere in vita ed assicurare la crescita dei suoi figli
probabilmente è stato un fattore importante connesso con la sua
resilienza. Lei sapeva che se si fosse arresa avrebbe fallito coi
figli. Il tenere dentro le emozioni ed il non reagire era stata
una strategia volta alla sopravvivenza durante la sua vita di
oppressione, che le aveva causato gravi dolori fisici e
probabilmente costituiva uno sfondo per molti dei suoi problemi
post-traumatici. Nella sua terapia aveva dovuto apprendere a modo
suo come poter riguadagnare l'accesso alle emozioni e quindi alla
vitalità.
Discussione
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Deplezione e devitalizzazione sono concetti correlati con gli
effetti del conflitto interno alle prese con l'impatto delle
esperienze traumatizzanti. Questo conflitto interiore è,
comunque, dipendente dal contesto emozionale, relazionale e
sociale del sopravvissuto. Numerosi studi hanno dimostrato che
la sopravvivenza e la resilienza sono dipendenti da come gli
altri incontrano il soggetto traumatizzato dopo l'esperienza
traumatica. Ne menzionerò solo uno, dato che questo mostra
chiaramente cosa è in gioco. Keilson e Sarpathie hanno
dimostrato, nei loro studi sui bambini ebrei di ritorno in
Olanda dai campi di concentramento e dai nascondigli dopo la
Seconda Guerra Mondiale, che il processo di traumatizzazione
fosse sequenziale. Sono state identificate tre sequenze: 1.
l'oppressione in Olanda; 2. le esperienze nei campi di
concentramento e nei nascondigli; e, 3. il ritorno. L'ultima
sequenza è stata la più determinante per la salute psichica 25
anni dopo e ci sono stati due aspetti che erano importanti:
l'affermazione di esperienze nel corso delle atrocità e
l'affermazione della loro identità come ebrei (Keilson e
Sarpathie, 1979).
Questo studio, come gli altri, dimostrano che ciò che accade
dopo il trauma è un complesso processo che coinvolge la
relazione del soggetto con gli altri e con il mondo su più
livelli. Il processo posttraumatico implica complesse
relazioni in cui lo sviluppo della resilienza non può solo, o
forse primariamente, essere visto come dipendente da fattori
individuali siano essi di personalità o genetici. I
ricercatori sulla resilienza concordano su questo punto, e
danno peso alla cultura, ai fattori etnici, alla rete sociale,
alle relazioni familiari, eccetera (Harvey, 2007;
Tummala-Narra, 2007; Eisold, 2005; Fonagy et al., 1994;
Crittenden, 1985).
Possiamo vedere nelle vignette presentate in precedenza che i
tre fattori riassunti da Hauser, ossia la convinzione che si
può modificare il proprio ambiente ("agency"), la capacità o
interesse ad avere relazioni strette e costruttive e la
riflessività, erano presenti. Penso, comunque, che si
potrebbero identificare in ogni trattamento ragionevolmente
riuscito. La questione è: cosa determina il fatto che
queste si svilupperanno in strategie per creare una vita
migliore nonostante la precedente sofferenza ed il
trauma? "Agency", riflettività e relazioni strette sono
dimensioni che coinvolgono svariati aspetti della personalità
e la sua relazione con gli altri e con il mondo. Le buone
relazioni precoci presenti nelle mie vignette cliniche sono
divenute evidenti come forza vitalizzante potenzialmente
capace di attivare le modalità resilienti di "coping". La
ricerca sull'attaccamento chiaramente dimostra la
interconnessione tra le relazioni, la capacità di
auto-riflessione e quella per l'"agency" (Crittenden, 2002;
Bowlby, 2001; Fonagy, 2001; Fonagy e Target, 1997; Crittenden,
1996; Fonagy et al., 1993; Crittenden, 1992; Crittenden,
1985). Altri clinici e ricercatori (ad es. Alayarian, 2007)
hanno fatto anche riferimento all'importanza delle esperienze
relazionali precoci, che suggeriscono di concettualizzare e di
studiare l'attaccamento come un possibile elemento di
mediazione nello sviluppo della resilienza. Dico fattori di
mediazione, dato che lo sviluppo di precoci relazioni
oggettuali buone può essere esattamente ciò che caratterizza
la resilienza. Schore afferma, ad esempio, che la resilienza
nei confronti del trauma o degli effetti deleteri del trauma
si fonda su un precoce attaccamento abbastanza buono nei
confronti dei dispensatori di cure parentali, che il trauma o
la trascuratezza in questa fase rende una persona vulnerabile
a successive esperienze traumatiche, e che questo in ampia
misura spiega perché solo una porzione di coloro che sono
stati esposti ad esperienze traumatizzanti sviluppano un PTSD
(disturbo post-traumatico da stress) (Schore, 2004).
Nel seguito descriverò brevemente un modello che può servire
come cornice di riferimento per il successivo sviluppo del
nostro pensiero in questo campo. In accordo con la visione che
il trauma sociale ed i suoi effetti successivi sono legati
alla relazione dell'individuo con gli altri e con il contesto
sociale, si possono identificare tre livelli di interazione
(Varvin e Rosenbaum, 2003; Rosenbaum, 2007):
1. Relazione soggetto/corpo-altro: Questa dimensione
concerne la relazione dell'individuo con l'altro ad un livello
diadico; questo è il livello della regolazione emozionale
mediata dal corpo degli stati affettivi. Il ritiro emozionale
diminuirà la possibilità di usare gli altri nel processo di
modulazione degli affetti negativi. Negli stati
disorganizzati, la persona può essere incapace di
concretizzare o di simbolizzare le sensazioni. Entro questa
dimensione, importanti processi di regolazione emozionale non
verbale avvengono tra il sé e gli altri e c'è una
auto-rassicurante capacità di far affidamento sulle relazioni
oggettuali internalizzate. La ricerca sui processi affettivi
di auto-regolazione (Schore, 1994) e sulle interazioni che
regolano il livello interpersonale ha dimostrato che questi
processi di auto- e di regolazione relazione sono dei fattori
chiave per mantenere la salvezza psicologica. Questo riguarda
in modo particolare la regolazione dell'attivazione delle
emozioni negative o spiavevoli, che dipende da sicure
relazioni precoci di attaccamento e da un precoce contenimento
sufficientemente buono da parte della madre o altro
dispensatore di cure parentali (Bion, 1967; Bion, 1962).
Queste relazioni, a loro volta, sono dipendenti da un contesto
culturale e sociale che promuove la crescita (Obeyesekere,
1990), compreso il supporto della rete familiare e sociale (Hauff
e Vaglum, 1995). Inoltre, è ragionevole considerare che ciò
che ad un livello di psicologia sociale è identificato come la
spinta a creare legami emotivi sia contingente ad una credenza
condivisa dai partecipanti di una diade e di un gruppo che le
emozioni possano essere regolate a questo livello.
2. La relazione dell'individuo con il gruppo: è
questo il livello della formazione dell'identità in cui si
trovala propria identità come membro di una famiglia, di un
gruppo, di una comunità e di una nazione, ma anche come essere
differente ed unico. Il gruppo funziona come una base di
sicurezza, un'arena per le relazioni emozionali intime come
nella famiglia, ma anche come fonte di conoscenza su ciò che
uno è e su ciò che dovrebbe/potrebbe fare. Nella famiglia ed
in altri gruppi caratterizzati da relazioni strette/intime
l'individuo impara dai suoi membri ed acquisisce la capacità
di empatizzare e di assumere la prospettiva altrui.
Un gruppo malfunzionante crea una base povera per ciò che può
essere un desiderio di cambiare, di mettersi in relazione e di
riflettere. In società in cui la famiglia e i raggruppamenti
più estesi correlati (ad es., il clan, la tribù) sono le unità
più importanti di organizzazione della società, ed in cui
l'appartenere ad un tale gruppo è di fondamentale importanza
sia per l'identità personale che per quella sociale, i
disturbi in questa dimensione possono avere gravi effetti
disorganizzanti.
3. Dimensione del discorso soggettivo: Questa
dimensione si riferisce alla relazione dell'individuo con le
componenti della propria cultura - con la religione, con le
narrazioni culturali come le leggende popolari, i testi
filosofici, i codici morali, le norme e così via. E' questo il
livello in cui si stabiliscono i significati condivisi, con
questo livello culturale che serve come una riserva utile a
trovare le modalità di comprensione dei temi esistenziali,
delle crisi della vita, delle sfide evolutive, dei riti di
passaggio, eccetera.
Il legare e lo slegare si riferiscono a tutti i livelli
evocando perciò il concetto di simbolizzazione da un lato, e
le funzioni della pulsione dall'altro, la forza slegante della
pulsione di Morte e la forza legante di Eros con la sua
connessione all'investimento oggettuale. La compulsione alla
ripetizione può funzionare a svariati livelli, ma senza il suo
legarsi al simbolico essa tende a diventare pura ripetizione.
La resilienza, da questa prospettiva, deve essere studiata
non solo in termini di caratteristiche personali o come
conseguenza di circostanze favorevoli, entrambe chiamate
fattori protettivi nella ricerca sulla resilienza (ad es.,
intelligenza, buone relazioni). La resilienza è un esito di un
complesso processo che coinvolge le relazioni
dell'individuo e del gruppo a differenti livelli e che
coinvolge anche probabilmente il gioco di questi livelli
tra di loro...
La deplezione o devitalizzazione dall'altro lato sembra
appartenere ai processi psicopatologici e coinvolge la
mancanza e la perdita delle risorse implicate nei processi
vitali del corpo-mente.
La questione del perché qualcuno sia capace di trarre
vantaggio da risorse disponibili, sia egli in terapia oppure
no, resta ancora aperta. Può darsi che questa non sia la
domanda giusta. La resilienza come insieme di molti processi
individuali e relazionali descrive solo uno sviluppo nel tempo
visto dalla prospettiva dello sviluppo sociale. Ci sono
probabilmente differenti risposte per ogni individuo che
riguardano le basi dei loro esiti resilienti. I tre fattori
menzionati da Hauser, generici per come sono, rappresentano
per me una finestra attraverso cui ogni processo può essere
studiato nella sua individualità tenendo a mente che
probabilmente ci sono processi generali correlati alla
resilienza ancora da essere identificati. La ricerca
sull'attaccamento può aprire il campo ad una comprensione di
un insieme di fattori di mediazione coinvolti nello sviluppo
della resilienza. Da un punto di vista clinico e pratico,
prendendo in considerazione le condizioni dei rifugiati
presenti nell'Europa odierna, sembra che probabilmente
sappiamo molto. Eppure allo stesso tempo abbiamo bisogno di
costruire più conoscenza interdisciplinare di tipo sistematico
- che comprenderà i campi individuali, interpersonali,
familiari e socioculturali - su come evitare di contrastare o
di distruggere le capacità di resilienza. Infine, la speranza
in un futuro migliore si costruisce sulla capacità di fare
fantasie e proiettare sul nostro schermo interno noi stessi in
una situazione differente.
Condizioni politiche totalitarie distruggono la fantasia. E'
triste notare che molti rifugiati provenienti da regimi
totalitari incontrino condizioni totalitarie quando chiedono
asilo. |
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