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  "TRAUMA E RESILIENZA"

 

 

 

 di Sverre Varvin

 

  Questo articolo è una rielaborazione di un intervento dell'autore ad un "panel" nel corso del 45° Congresso dell'I.P.A. (Berlino, 2007). La traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.

Nota iconografica: le foto a corredo di questo articolo sono tratte dalla mostra "As Is", tenutasi a Roma al Complesso del Vittoriano, nel 2008 in occasione del 60° dalla fondazione dello Stato di Israele.

Sverre Varvin è psicoanalista dell'I.P.A. e vive ad Oslo in Norvegia. Si ringrazia sentitamente l'autore per aver accordato il permesso alla pubblicazione su Frenis Zero della versione italiana del suo articolo.

  Foto: Nir Hod, "Ragazza del Sinai" (2007)


In questo lavoro, che trae origine da un lavoro congiunto all'interno di un gruppo di lavoro della E.P.F., vogliamo ampliare la portata della comprensione delle conseguenze del trauma estremo o grave. Abbiamo scelto una cornice concettuale in cui i termini di resilienza e di deplezione/devitalizzazione riflettano differenti decorsi di sviluppo post-traumatico, e che sottolinei la vulnerabilità della persona traumatizzata e la sua dipendenza dall'ambiente circostante per dare soprattutto risposte adeguate ai messaggi complessi, spesso enigmatici e contraddittori che emergono in un contesto terapeutico o differente da esso, da cui si ci aspetta che rappresenti un contesto di relazioni d'aiuto.

Mentre la resilienza indica la capacità dell'individuo di usare le risorse ambientali, in particolare le relazioni con gli altri e le loro risorse e potenzialità interne, i concetti di deplezione/devitalizzazione descrivono processi che portano ad uno stato mentale di mancanza; mancanza di nutrimento proveniente da buoni oggetti interni, mancanza di risorse interne ed esterne e di energia, ed uno stato di profonda e massima disperazione.

Discuteremo le potenzialità e la possibile utilità di questi concetti non solo per comprendere il paziente traumatizzato, ma anche per il loro possibile valore nella gestione del processo terapeutico. Dato che la resilienza designa un comportamento che promuove in modo progressivo e potenziale la salute, possono emergere problemi di controtransfert nei clinici che sono soliti focalizzarsi sulla vulnerabilità e sulla patologia. Può essere una sfida il vedere ciò che sembra essere un "acting out" in termini di positivi tentativi di restaurare una capacità di azione.

La resilienza nei bambini è stata definita come la capacità di negoziare i compiti evolutivi ordinari nonostante le avversità cumulative (Eisold, 2005). Si sono enumerati svariati fattori protettivi, considerati come importanti per lo sviluppo della resilienza, ad es., una buona intelligenza, una buona  comunicazione e buone capacità di "problem solving", la capacità di stabilire relazioni con gli altri e quella di pianificare ed organizzare il comportamento. Secondo il lavoro di Hauser e del suo gruppo  (Hauser, 2006; Hauser, 1999), basato su uno studio longitudinale di un campione di bambini ospedalizzati in tenera età, ci sarebbero tre capacità generali che caratterizzano il gruppo di coloro che da adulti sembrano aver raggiunto uno standard di vita relativamente soddisfacente nonostante gravi disfunzioni familiari (spesso in termini di abuso) e prolungati periodi di ricovero in ospedale; nel seguente modo lo studio mostrava gli esiti caratterizzati da resilienza: la <<convinzione che si può influenzare il proprio ambiente, la capacità di gestire i propri pensieri e sentimenti, e la capacità di formare relazioni umane in grado di prendersi cura degli altri e di se stessi>> (Hauser et al., 2005, pag. 262). Queste tre capacità non sono affatto dei fattori separati e sono, come vedremo, espressioni di strutture  e di processi sottostanti sulla cui piena natura e sulle cui origini abbiamo ancora una conoscenza limitata. Hauser e collaboratori sottolineano che queste capacità rappresentano processi piuttosto che stati e che <<... la resilienza non si trova né nella competenza né nella relazione; ma risiede nello sviluppo della competenza o della relazione laddove non esistevano prima>> (Hauser et al., 2006, pag. 261). Alayarian mette in evidenza i fattori intrapsichici connessi con la resilienza, come ad esempio la capacità di costruire uno spazio intrapsichico sicuro in cui la persona possa <<parlare a se stesso per regolare la sofferenza psichica e proteggersi dai troppi sentimenti di vulnerabilità>> (Alayarian, 2007).

Foto: Pavel Wolberg, "Fiume Giordano" (2005)

La deplezione, dall'altra parte, non è stato un esplicito focus di ricerca come lo è stato la resilienza. Aggiungendo il concetto di devitalizzazione, questa dimensione si inscrive nelle due dimensioni strutturali della traumatizzazione, la dimensione psico-economica e quella della relazione oggettuale (Bohleber, 2000). La deplezione e la devitalizzazione possono essere descritte come processi di graduale perdita di energia. Da una prospettiva di relazioni oggettuali questo processo si può descrivere come un deficit nella relazione finalizzata alla cura e nel nutrirsi di oggetti interni. La persona traumatizzata dimostra sempre meno capacità di mettere in atto compiti vitali quali il prendersi cura degli altri e di se stesso, dimostra una mancanza di risorse interne e di capacità di usare le risorse esterne, ossia gli altri, per tali propositi. Abbiamo importanti conoscenze correlate alla deplezione/devitalizzazione a partire dagli studi sui sopravvissuti all'Olocausto e sulla vita nei campi di concentramento (Krystal, 2003; Krystal, 2001; Krystal, 1988; Krystal, 1971; Eitinger, 1973; Eitinger e Strøm, 1981; Levi, 1987; Niederland, 1981).

La resilienza e la deplezione/devitalizzazione sono concetti che si riferiscono a caratteristiche visibili del funzionamento della personalità e sono concetti che non si riferiscono in modo diretto a concetti psicoanalitici, ma nondimeno indicano una molteplicità di fattori determinanti dei processi, ossia indicano un'eccesso di fattori determinanti ed il bisogno di comprendere individualmente ogni persona (Gabbard, 2006).

La fenomenologia degli stati post-traumatici è, comunque, in un'ampia misura caratterizzata dalla dialettica o dalla dinamica tra "vitalità" e "mancanza" per cui è giustificata una discussione sull'eventualità che questi concetti possano organizzare nuove scoperte sul trauma.

Nello studio di Hauser e coll. era evidente che i giovani resilienti non mostravano uno sviluppo nella norma. Le loro vite non erano state facili; essi avevano fatto delle scelte apparentemente poco sagge e spesso si erano imbattuti in grossi problemi. Quello che aveva caratterizzato queste persone, comunque, era stato la capacità di apprendere dall'esperienza.

In questo mio lavoro ci concentreremo sulla popolazione dei rifugiati. Abbiamo trovato la coppia di concetti resilienza e deplezione/devitalizzazione come utile punto di partenza per riflettere su un gruppo di pazienti che in grande misura bussano alla porta dei sistemi sanitari occidentali, spesso ricevono un trattamento minimo, sono di regola non ben capiti e di rado vengono visti da psicoanalisti.

I vari studi longitudinali su questa popolazione rivelano un'alta prevalenza di psicopatologia (Lie, 2003; Lie, 2002; Lie, 2001; Dahl, 2001; Boehnlein, 2004), un grande rischio di ritiro in se stessi e sviluppo di condizioni croniche come ad esempio durevoli cambiamenti della personalità dopo un trauma estremo (W.H.O., 1993). Dall'altra parte, i clinici che lavorano con questo gruppo di pazienti hanno anche visto sorprendenti cambiamenti positivi persino dopo un lungo periodo di ritiro, di confusione o di un pesante carico sintomatologico; e la ricerca ha mostrato che la terapia psicoanalitica può dare risultati positivi (Varvin, 2003).

Le questioni salienti sono: cosa caratterizza coloro che vengono valutati come resilienti? Prendendo in considerazione la ricerca sulla resilienza, quali processi e quali tipi di interazione con l'ambiente possono influenzare lo sviluppo nella direzione della resilienza o della deplezione? Abbiamo la convinzione che la resilienza e la deplezione/devitalizzazione siano esiti estremi; da una prospettiva fenomenologica possono situarsi invece su un continuum. E un'altra questione è quella di quali forze dinamiche siano in gioco in modo da poter modellare la natura degli esiti individuali.

                

La resilienza e la deplezione si riferiscono agli stessi processi della personalità ed alla sua relazione con l'ambiente?

 

                    

 La deplezione/devitalizzazione ovviamente si riferiscono a processi patologici. E' come se la lotta contro la disperazione dell'esperienza traumatizzante venga ad essere perduta o quasi. La persona si ritira in se stessa e se non c'è alcun aiuto o qualcuno che si prenda cura di lui, tale ritiro può diventare cronico, porta  ad una diminuita interazione col mondo, perturbazione dei processi vitali sia psichici (mancanza di fantasie sul futuro) sia somatici, fino allo sviluppo eventuale di una malattia e di una morte precoce (Eitinger, 1964) (si veda anche il caso presentato da Gill Hinschelwood nello stesso "panel" del congresso dell'I.P.A. di Berlino del 2007 in cui è stata presentata una versione rivista del presente lavoro). La resilienza si riferisce, dall'altra parte, a forze che mirano al cambiamento, alla relazione ed all'apprendimento. Può essere ragionevole pensare che ciò si riferisca ad aspetti della personalità che sono coinvolti con la crescita e con lo sviluppo (Emde, 1991) e che quindi attivano un dialogo interiore e delle fantasie rispetto ad un futuro.

In connessione con tutto ciò è pertinente chiedersi quale ruolo possa giocare la psicoterapia o la psicoanalisi. La psicoterapia psicoanalitica ha ciò che si deve avere per fare la differenza? E cosa rende quei pazienti capaci di usare questa opportunità di iniziare un nuovo porsi in relazione, un nuovo desiderio di cambiamento e di imparare dall'esperienza?

Siamo interessati allo studio di come la psicoterapia possa lavorare con pazienti che si trovino in una situazione di esilio, spesso contraddistinto da circostanze avverse, da condizioni di vita povere, da razzismo, da perdita o carenze nell'ambiente culturale familiare. Ossia, molti dei fattori protettivi che sono stati collegati con la resilienza sono deboli o assenti in questi casi.

Ciò che possiamo fare nel presente lavoro è sollevare queste questioni e cominciare a discutere se i concetti di resilienza e di deplezione/devitalizzazione  possano essere fruttuosi.

Useremo del materiale proveniente dalla pratica clinica e da una prospettiva di studio di trattamenti di singoli casi di rifugiati gravemente traumatizzati (Varvin, 2003).

Prima vignetta clinica

Sono stato in grado di seguire quest'uomo per 16 anni, vedendolo per tutta la sua adolescenza e giovane età adulta, quando venne in terapia ad intervalli, ma sempre mantenendo il contatto con me.

Proveniva da un paese del Medio Oriente ed arrivò in Norvegia all'età di 14 anni, insieme a sua madre ed a due sorelle più giovani. Suo padre era restato nel suo paese continuando la lotta di resistenza. Un fratello più grande era stato ammazzato. La sua infanzia dall'età di 5 anni era stata caratterizzata da continue guerre; vivendo in clandestinità in condizioni pericolose, con frequenti cambiamenti di luogo di vita e frequenti interruzioni della scuola. Quando iniziò il trattamento all'età di 15 anni, era un ragazzo depresso ed a volte caotico, che viveva in una famiglia multi-problematica con una madre malata di mente, in cui egli da subito aveva dovuto assumersi la responsabilità, senza averne le necessarie capacità, di compiti che era toccato a lui di adempiere. A volte egli aveva avuto gravi comportamenti suicidari.

Egli mostrò caratteristiche, precocemente emergenti anche se spesso non molto visibili, che erano state sottolineate dalla ricerca sulla resilienza. Ad esempio, credeva di essere capace di influenzare i suoi vicini: cercava di aiutare la famiglia nonostante la sua mancanza di cooperazione; lavorava duramente a scuola e faceva in modo di portar bene avanti i compiti ricevuti. Aveva le sue idee sulle relazioni con gli altri; e nonostante esse fossero in genere molto poche e non intense, comunque egli ci provava a mantenerle.

Ora, dopo 16 anni, aveva completato il corso scolastico superiore  e sta cominciando un impegno accademico professionale. Mi ha detto di essere stato nella nebbia per circa dieci anni, non sapendo cosa sarebbe successo di se stesso. Quando aveva all'incirca 25 anni, la sua traiettoria è drammaticamente cambiata, dato che allora decise di creare una vita per se stesso. Lavorammo su alcuni sogni nel corso della sua terapia, che egli collegava ad un suo importante parente che era deceduto. Ci fu un sogno di transfert in cui un dottore-zio gli dava il consiglio di seguire un cammino di pace. A quel tempo egli era convinto che doveva tornare in patria e lottare contro il regime oppressivo del suo Paese. Sembrava come se il lavoro sul sogno lo facesse arrestare e desse un nuovo indirizzo ai suoi piani futuri. Questo era naturalmente il culmine di un lavoro terapeutico precedente. La sua mente lottava con aggressività e violenza, e col bisogno di vendicarsi. Il riconnettersi, attraverso il transfert, con precedenti oggetti buoni, rappresentando la relazione in una parte pacifica della sua vita precedente, sembrava aiutarlo su un percorso verso la salute.

Sembrò perciò trarre beneficio dalla relazione terapeutica. La questione consiste nel chiedersi come mai egli riuscì laddove molti altri falliscono, ritirandosi in se stessi oppure assumendo l'identità di vittime aggressive.

 

Seconda vignetta clinica

 

Durante la somministrazione di una "Adult Attachment Interview", chiesi  ad un rifugiato dalla Cecenia, visibilmente depresso e devitalizzato, di parlarmi della sua infanzia. Quando gli fu chiesto di parlarmi della sua relazione col padre, improvvisamente scoppiò a piangere. Quindi mi parlò delle sue prime esperienze col padre e cambiò completamente espressione, il suo viso si rasserenò, i suoi occhi si illuminarono e il suo sguardo cambiò. Mi guardò in modo diretto e sorrise, sebbene con un'aria di tristezza, rivelando il fatto che delle forze vitali fossero state attivate. Questo breve incontro con una precoce relazione oggettuale vitalizzante attivò un ampio spettro di emozioni non evidenti prima, durante l'intervista. La questione è, ancora una volta, cosa rese possibile questo cambiamento interno; ed anche il cambiamento nell'atteggiamento di maggiore attività che esso implicò.

Un'analoga sequenza si poteva vedere nel corso di una lunga psicoterapia con una donna molto più devitalizzata e con una maggiore "deplezione".

 

Terza vignetta clinica

 

Elena era una donna magra e leggermente curva, vestita in modo ordinario e con un foulard di tradizione mussulmana che le copriva i capelli. Al primo incontro, era pallida e parlava a bassa voce. I suoi occhi erano quasi sempre abbassati verso il tavolo o il pavimento, e di tanto in tanto guardava in modo molto diretto il terapeuta. Dava un'impressione allarmante di essere non solo molto depressa, ma anche una persona che si era quasi del tutto arresa alla vita.

Proveniva da una famiglia della fascia più bassa della classe media in una grande città in un paese del Medio Oriente, l'unica femmina di quattro figli. Descriveva la sua infanzia come abbastanza confortevole, tranne che per aver dovuto vivere in un continuo fuoco incrociato tra il padre conservatore, che credeva che le ragazze potessero solo frequentare la scuola coranica e sposarsi, e la madre più moderna che appoggiava il suo desiderio di studiare. Ben presto sentì che l'atteggiamento paterno era molto ingiusto, ma si abituò a tacere i suoi sentimenti, mentre comunque perseguiva i propri obiettivi con una ostinazione tenace. Era l'unica che si faceva carico dei problemi degli altri, ed aveva terribilmente paura di offendere o ferire gli altri.

Mentre lavorava in una organizzazione politica legale, si verificarono degli arresti in massa subito dopo la nascita dei suoi figli. Fu arrestato suo marito e parecchi membri della sua famiglia estesa. Otto di loro furono ben presto uccisi o condannati a morte. Il marito sopravvisse, sebbene sottoposto a pesanti torture. Anche lei venne arrestata con i suoi due figli piccoli, allora di 4 mesi e di due anni di età, e trascorsero due anni nelle più inumane condizioni di prigionia.

Dapprima Elena e i suoi due bambini dovettero vivere in una piccola cella, in meno di un metro quadro di spazio. Dato che era impossibile distendersi per dormire, Elena sviluppò una tecnica per cui piegava le gambe all'indietro per riposare e dare più spazio ai figli. All'inizio della terapia (circa dieci anni dopo), era ancora obbligata a dormire in quella posizione per poter riposare. Il cibo era scarso e le condizioni igieniche povere. Al tempo in cui suo figlio più piccolo stava quasi per morire di fame e di sete, la guardia carceraria portò del latte che conteneva una sostanza nociva che quasi all'istante fece ammalare profondamente il piccolo e lo portò ancora più vicino alla morte. Per lunghi periodi di tempo Elena dovette stare in piedi, incappucciata, contro un muro, senza che le fosse permesso di sedersi e di prendersi cura dei bambini, che dovevano camminare a quattro zampe sul pavimento. Essi potevano udire le grida delle persone che venivano torturate, e la madre era scossa dal fatto che i bambini potessero guardare tutto ciò.

Poi vennero trasferiti in una prigione più grande dove vennero sistemati in una cella grande ma superaffollata. I prigionieri compagni di cella venivano regolarmente torturati, ed era consueta la vista di persone sanguinanti e maltrattate. Molti avevano le dita amputate, qualcuno divenne zoppo ed altri vennero uccisi di fronte a lei ed ai suoi figli.

Quelli che seguono sono dei brani tratti dalle sue affermazioni nel corso della terapia. Questa è stata audio-registrata ed io ho re-interpretato il materiale con la prospettiva in mente della resilienza e della deplezione/devitalizzazione.

Paz.:<<Sì, perché ne abbiamo viste tante, troppe di cose là, non ci saremmo mai aspettati che degli esseri umani potessero fare cose del genere>>.

Commento: usa il pronome "noi" e dice "non ci saremmo mai aspettati", cioè sembra una rappresentazione di una normalità collettiva in cui cose del genere non si dovrebbero fare.

Paz.: <<Abbiamo un vecchio proverbio che dice che ciò che vedi non è lo stesso di ciò che senti>>.

Commento: l'analista è un "outsider", ma comunque anche un potenziale testimone con cui lei si può confidare, uno che può o non può capire.

Paz.: <<Sì, fu nel cuore della notte, erano andati a prelevare una donna dalla cella in cui mi trovavo anch'io e la stuprarono>>.

(Pausa di 10 secondi)

Paz.: <<Sì, eravamo tutti nella stessa stanza, ed essi arrivarono, potevano venire in 1, 2 o 3 uomini. Erano tutti coperti con vestiti neri così da non poter essere visti. Non potevamo vedere nessuno di costoro, erano tutti coperti. E in ogni cella eravamo circa in 70 contemporaneamente. E allora arrivarono, si misero al centro della stanza, si giravano continuamente puntando l'indice e poi improvvisamente si fermarono, e indicarono una di noi. Le altre di noi avevano quasi perso il respiro quando quest'uomo si girava, ora sarà la mia volta, per caso. Quando una veniva indicata, noi altre potevamo ancora respirare, ma eravamo disperate per la persona che era stata scelta. Perché non sapevamo. E' tortura o esecuzione?>>

(pausa)

<<E ricordo le mie amiche, venivano portate via alle 4 del mattino per l'esecuzione e non ci era permesso di alzarci e di ringraziarle e di salutarle. Ed era come se le prigioniere mie compagne di cella, con in grembo i miei bambini, venissero frustate>>.

Commento: Questo avviene presto nella sua terapia. Sta parlando delle relazioni e dei sentimenti nei confronti degli altri. Il focus è ugualmente sulle relazioni come anche sulle atrocità subite. Poteva parlare del dilemma del sopravvissuto, l'altro e non io, ed esprimere la sofferenza in un modo da poter evocare risposte empatiche nell'ascoltatore. Non era affatto, persino a questo punto di esasperazione, del tutto demoralizzata.

Quindi, abbastanza presto nella terapia, quando lei era in uno stato di apparente deplezione e sembrava quasi completamente devitalizzata, le emozioni erano presenti o rappresentate come dolore fisico, ma anche talora contenute in se stessa, oppure sperimentate in modo proiettivo da parte dell'analista. In seguito descrisse il suo stato mentale in quel periodo nel modo seguente: <<Prima avevo paura di tutto, sempre. Ora è tutto cambiato.  Non la dimenticherò mai>>. La sua esperienza cosciente era quindi fatta soprattutto di spavento e, lei disse, non era stata consapevole del suo essere spaventata.

  Foto: Pavel Wolberg, "Check-point di Qualqiya" (2002)

Questioni di spazio non consentono di raccontare la storia della sua sofferenza. E' sufficiente dire che la permanenza in prigione fu un'esperienza maligna, in cui il suo obbiettivo principale era quello di prendersi cura e di proteggere i suoi bambini nel contesto di condizioni degradate e di restare viva nonostante i maltrattamenti. I cinque anni in cui era vissuta con i figli e la madre nel suo Paese dopo l'uscita dalla prigione furono una lunga lotta per la sopravvivenza con ripetuti arresti, maltrattamenti e tormenti per sé e per la sua famiglia. Aveva intenzioni suicidarie e soffriva degli esiti delle torture, ed a volte le mancava del tutto l'energia, essendo a mala pena capace di camminare. <<Dovevo quasi strisciare>>. In seguito affermò che, per molti versi, ciò era peggio dell'essere in prigione. Viveva in un costante sentimento di paura ed il senso di oppressione non cessò quando fuggirono dal loro Paese. Le famiglie d'origine rimasero, e sono ancora, nel loro Paese d'origine dove continuano ad essere continuamente tormentate; e l'ambasciata mise sotto sorveglianza gli esuli e riferì sulle loro attività alle autorità del Paese d'origine e punì le loro famiglie d'origine in differenti modi.

Elena soffriva di una moltitudine di sintomi post-traumatici, dolori fisici e depressione, e la sua vita emotiva era gravemente coartata. Era sospettosa e rifuggiva le relazioni con gli altri. In terapia ci fu una prima fase di  "luna di miele" in cui riusciva a verbalizzare alcune sue esperienze, sperimentando un immediato miglioramento e fiducia negli altri, ma questa fase fu seguita da un prolungato periodo di svariati anni di sfiducia e di negativismo, prima di una fase di iniziale integrazione in cui divenne capace di operare delle connessioni mentali per conto proprio; ed il lavoro con ciò che l'aveva terrorizzata nella vita quotidiana le aveva fatto recuperare la capacità di riflettere e quindi di apprendere dall'esperienza e di sperimentare una maggiore capacità di attività nella sua vita.

Elena dapprima mostrò un negativismo caratterizzato da ritiro in se stessa e da diffidenza, mentre al contempo mostrava un'ostinata ricerca di soluzioni con tanta attività, cercando trattamenti alternativi, sabotando le sedute, ecc. Per periodi più lunghi erano consuete le reazioni terapeutiche negative e la capacità di auto-riflessione e di mentalizzazione era quasi del tutto assente, rendendo la terapia un qualcosa di noioso e pressoché di  solitario per l'analista. Retrospettivamente, era possibile vedere segni emergenti di una conseguente resilienza, ossia segni di processi interiori che avevano contribuito a cambiamenti portatori di resilienza, che erano già presenti ma in equilibrio precario con tratti di deplezione e di devitalizzazione.

In una seduta parlò della tortura ed iniziò a piangere. Sentiva di esser stata resa impotente ed umiliata dall'analista, andò a casa e si isolò per due settimane prima di tornare in terapia. La sua esperienza terapeutica fu per lei una lunga marcia verso qualcosa di meglio. Nonostante la sua tendenza a reazioni terapeutiche negative e le ripetute rotture della cornice terapeutica (in genere interpretate come "acting-out"), restò in terapia e raggiunse la sua conclusione in modo da vivere una vita ragionevole seppur sofferente per le sequele fisiche dopo le torture subite.

La "scoperta" di buoni oggetti precoci giocò anche qui un ruolo importante nella sua guarigione. In una seduta riuscì a ri-scoprire una buona relazione con sua nonna. La nonna era stata considerata, all'inizio della terapia, come severa e non empatica. Era ovvio, comunque, che questa immagine mentale di sua nonna era stata colorata da successive esperienze di oppressione, che dunque avevano distrutto retrospettivamente ( nachträglich ) una fonte libidica per lei.

Elena mostrò allora un "pattern" di resilienza per cui riusciva a fuoriuscire dal suo stato di devitalizzazione, ad usare le relazioni con gli altri, specialmente la relazione terapeutica, non rinunciando mai al desiderio di fare qualcosa da  protagonista della propria vita ( i cosiddetti "acting outs", in questa prospettiva, potrebbero essere visti come tentativi di guarigione ed un segno di essere attiva) e diventando sempre più riflessiva e quindi capace di apprendere dall'esperienza. Fuoriuscì così da una condizione di quasi totale deplezione e mancanza di vitalità. Ancora si pone la questione: <<Cosa le fu di beneficio nella speciale relazione della psicoterapia psicoanalitica?>>

Tenendo in mente la costellazione materna (Stern, 1995), il tema del tenere in vita ed assicurare la crescita dei suoi figli probabilmente è stato un fattore importante connesso con la sua resilienza. Lei sapeva che se si fosse arresa avrebbe fallito coi figli. Il tenere dentro le emozioni ed il non reagire era stata una strategia volta alla sopravvivenza durante la sua vita di oppressione, che le aveva causato gravi dolori fisici e probabilmente costituiva uno sfondo per molti dei suoi problemi post-traumatici. Nella sua terapia aveva dovuto apprendere a modo suo come poter riguadagnare l'accesso alle emozioni e quindi alla vitalità.

 
Discussione

 

Deplezione e devitalizzazione sono concetti correlati con gli effetti del conflitto interno alle prese con l'impatto delle esperienze traumatizzanti. Questo conflitto interiore è, comunque, dipendente dal contesto emozionale, relazionale e sociale del sopravvissuto. Numerosi studi hanno dimostrato che la sopravvivenza e la resilienza sono dipendenti da come gli altri incontrano il soggetto traumatizzato dopo l'esperienza traumatica. Ne menzionerò solo uno, dato che questo mostra chiaramente cosa è in gioco. Keilson e Sarpathie hanno dimostrato, nei loro studi sui bambini ebrei di ritorno in Olanda dai campi di concentramento e dai nascondigli dopo la Seconda Guerra Mondiale, che il processo di traumatizzazione fosse sequenziale. Sono state identificate tre sequenze: 1. l'oppressione in Olanda; 2. le esperienze nei campi di concentramento e nei nascondigli; e, 3. il ritorno. L'ultima sequenza è stata la più determinante per la salute psichica 25 anni dopo e ci sono stati due aspetti che erano importanti: l'affermazione di esperienze nel corso delle atrocità e l'affermazione della loro identità come ebrei (Keilson e Sarpathie, 1979).

Questo studio, come gli altri, dimostrano che ciò che accade dopo il trauma è un complesso processo che coinvolge la relazione del soggetto con gli altri e con il mondo su più livelli. Il processo posttraumatico implica complesse relazioni in cui lo sviluppo della resilienza non può solo, o forse primariamente, essere visto come dipendente da fattori individuali siano essi di personalità o genetici. I ricercatori sulla resilienza concordano su questo punto, e danno peso alla cultura, ai fattori etnici, alla rete sociale, alle relazioni familiari, eccetera (Harvey, 2007; Tummala-Narra, 2007; Eisold, 2005; Fonagy et al., 1994; Crittenden, 1985).

Possiamo vedere nelle vignette presentate in precedenza che i tre fattori riassunti da Hauser, ossia la convinzione che si può modificare il proprio ambiente ("agency"), la capacità o interesse ad avere relazioni strette e costruttive e la riflessività, erano presenti. Penso, comunque, che si potrebbero identificare in ogni trattamento ragionevolmente riuscito. La questione è:  cosa determina il fatto che queste si svilupperanno in strategie per creare una vita migliore nonostante la precedente sofferenza ed il trauma? "Agency", riflettività e relazioni strette sono dimensioni che coinvolgono svariati aspetti della personalità e la sua relazione con gli altri e con il mondo. Le buone relazioni precoci presenti nelle mie vignette cliniche sono divenute evidenti come forza vitalizzante potenzialmente capace di attivare le modalità resilienti di "coping". La ricerca sull'attaccamento chiaramente dimostra la interconnessione tra le relazioni, la capacità di auto-riflessione e quella per l'"agency" (Crittenden, 2002; Bowlby, 2001; Fonagy, 2001; Fonagy e Target, 1997; Crittenden, 1996; Fonagy et al., 1993; Crittenden, 1992; Crittenden, 1985). Altri clinici e ricercatori (ad es. Alayarian, 2007) hanno fatto anche riferimento all'importanza delle esperienze relazionali precoci, che suggeriscono di concettualizzare e di studiare l'attaccamento come un possibile elemento di mediazione nello sviluppo della resilienza. Dico fattori di mediazione, dato che lo sviluppo di precoci relazioni oggettuali buone può essere esattamente ciò che caratterizza la resilienza. Schore afferma, ad esempio, che la resilienza nei confronti del trauma o degli effetti deleteri del trauma si fonda su un precoce attaccamento abbastanza buono nei confronti dei dispensatori di cure parentali, che il trauma o la trascuratezza in questa fase rende una persona vulnerabile a successive esperienze traumatiche, e che questo in ampia misura spiega perché solo una porzione di coloro che sono stati esposti ad esperienze traumatizzanti sviluppano un PTSD (disturbo post-traumatico da stress) (Schore, 2004).

Nel seguito descriverò brevemente un modello che può servire come cornice di riferimento per il successivo sviluppo del nostro pensiero in questo campo. In accordo con la visione che il trauma sociale ed i suoi effetti successivi sono legati alla relazione dell'individuo con gli altri e con il contesto sociale, si possono identificare tre livelli di interazione (Varvin e  Rosenbaum, 2003; Rosenbaum, 2007):

1. Relazione soggetto/corpo-altro: Questa dimensione concerne la relazione dell'individuo con l'altro ad un livello diadico; questo è il livello della regolazione emozionale mediata dal corpo degli stati affettivi. Il ritiro emozionale diminuirà la possibilità di usare gli altri nel processo di modulazione degli affetti negativi. Negli stati disorganizzati, la persona può essere incapace di concretizzare o di simbolizzare le sensazioni. Entro questa dimensione, importanti processi di regolazione emozionale non verbale avvengono tra il sé e gli altri e c'è una auto-rassicurante capacità di far affidamento sulle relazioni oggettuali internalizzate. La ricerca sui processi affettivi di auto-regolazione (Schore, 1994) e sulle interazioni che regolano il livello interpersonale ha dimostrato che questi processi di auto- e di regolazione relazione sono dei fattori chiave per mantenere la salvezza psicologica. Questo riguarda in modo particolare la regolazione dell'attivazione delle emozioni negative o spiavevoli, che dipende da sicure relazioni precoci di attaccamento e da un precoce contenimento sufficientemente buono da parte della madre o altro dispensatore di cure parentali (Bion, 1967; Bion, 1962). Queste relazioni, a loro volta, sono dipendenti da un contesto culturale e sociale che promuove la crescita (Obeyesekere, 1990), compreso il supporto della rete familiare e sociale (Hauff e Vaglum, 1995). Inoltre, è ragionevole considerare che ciò che ad un livello di psicologia sociale è identificato come la spinta a creare legami emotivi sia contingente ad una credenza condivisa dai partecipanti di una diade e di un gruppo che le emozioni possano essere regolate a questo livello.

2. La relazione dell'individuo con il gruppo:  è questo il livello della formazione dell'identità in cui si trovala propria identità come membro di una famiglia, di un gruppo, di una comunità e di una nazione, ma anche come essere differente ed unico. Il gruppo funziona  come una base di sicurezza, un'arena per le relazioni emozionali intime come nella famiglia, ma anche come fonte di conoscenza su ciò che uno è e su ciò che dovrebbe/potrebbe fare. Nella famiglia ed in altri gruppi caratterizzati da relazioni strette/intime l'individuo impara dai suoi membri ed acquisisce la capacità di empatizzare e di assumere la prospettiva altrui.

Un gruppo malfunzionante crea una base povera per ciò che può essere un desiderio di cambiare, di mettersi in relazione e di riflettere. In società in cui la famiglia e i raggruppamenti più estesi correlati (ad es., il clan, la tribù) sono le unità più importanti di organizzazione della società, ed in cui l'appartenere ad un tale gruppo è di fondamentale importanza sia per l'identità personale che per quella sociale, i disturbi in questa dimensione possono avere gravi effetti disorganizzanti.

3. Dimensione del discorso soggettivo: Questa dimensione si riferisce alla relazione dell'individuo con le componenti della propria cultura - con la religione, con le narrazioni culturali come le leggende popolari, i testi filosofici, i codici morali, le norme e così via. E' questo il livello in cui si stabiliscono i significati condivisi, con questo livello culturale che serve come una riserva utile a trovare le modalità di comprensione dei temi esistenziali, delle crisi della vita, delle sfide evolutive, dei riti di passaggio, eccetera.

Il legare e lo slegare si riferiscono a tutti i livelli evocando perciò il concetto di simbolizzazione da un lato, e le funzioni della pulsione dall'altro, la forza slegante della pulsione di Morte e la forza legante di Eros con la sua connessione all'investimento oggettuale. La compulsione alla ripetizione può funzionare a svariati livelli, ma senza il suo legarsi al simbolico essa tende a diventare pura ripetizione.

La resilienza, da questa prospettiva, deve essere studiata non solo in termini di caratteristiche personali o come conseguenza di circostanze favorevoli, entrambe chiamate fattori protettivi nella ricerca sulla resilienza (ad es., intelligenza, buone relazioni). La resilienza è un esito di un complesso processo che coinvolge le relazioni dell'individuo e del gruppo a differenti livelli e che coinvolge  anche probabilmente il gioco di questi livelli tra di loro...

La deplezione o devitalizzazione dall'altro lato sembra appartenere ai processi psicopatologici e coinvolge la mancanza e la perdita delle risorse implicate nei processi vitali del corpo-mente.

La questione del perché qualcuno sia capace di trarre vantaggio da risorse disponibili, sia egli in terapia oppure no, resta ancora aperta. Può darsi che questa non sia la domanda giusta. La resilienza come insieme di molti processi individuali e relazionali descrive solo uno sviluppo nel tempo visto dalla prospettiva dello sviluppo sociale. Ci sono probabilmente differenti risposte per ogni individuo che riguardano le basi dei loro esiti resilienti. I tre fattori menzionati da Hauser, generici per come sono, rappresentano per me una finestra attraverso cui ogni processo può essere studiato nella sua individualità tenendo a mente che probabilmente ci sono processi generali correlati alla resilienza ancora da essere identificati. La ricerca sull'attaccamento può aprire il campo ad una comprensione di un insieme di fattori di mediazione coinvolti nello sviluppo della resilienza. Da un punto di vista clinico e pratico, prendendo in considerazione le condizioni dei rifugiati presenti nell'Europa odierna, sembra che probabilmente sappiamo molto. Eppure allo stesso tempo abbiamo bisogno di costruire più conoscenza interdisciplinare di tipo sistematico - che comprenderà i campi individuali, interpersonali, familiari e socioculturali - su come evitare di contrastare o di distruggere le capacità di resilienza. Infine, la speranza in un futuro migliore si costruisce sulla capacità di fare fantasie e proiettare sul nostro schermo interno noi stessi in una situazione differente.

Condizioni politiche totalitarie distruggono la fantasia. E' triste notare che molti rifugiati provenienti da regimi totalitari incontrino condizioni totalitarie quando chiedono asilo.

 

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