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SOPRAVVIVERE:

UNA COLPA

 

Non ho nessuna colpa se mi sono salvato, non l'ho deciso io, il destino ha voluto così.

Ed è da 25 anni che mi porto dietro il rimorso di essere sopravvissuto.

I medici (e non) a cui faccio presente del senso di colpa che mi attanaglia, mi rispondono tutti alla stessa maniera: lei non ha nessuna colpa, è il destino.

Ma io posso affermare che non è facile accettarlo, non è facile per chi ha visto morire persone alle quali eri legato anche da vincoli di amicizia e con i quali pochi attimi prima ci avevi scambiato quattro parole.

Un altro aspetto di questa triste vicenda è che mi sento responsabile per avere posteggiato la blindata proprio lì, infatti nel dicembre del 2000 a Palermo, in occasione del conferimento di un attestato alle vittime delle mafie da parte dell’Onu, che in quei giorni organizzava una conferenza mondiale sul crimine, mi incontrai con Giovanni Chinnici, figlio del Consigliere, e trovai la forza di parlargli per qualche istante.

In pratica gli chiesi scusa di una cosa: mi scusai di avere posteggiato la ''blindata'' proprio nel punto in cui esplose l'autobomba mafiosa e aggiunsi che non fu colpa mia se mi ero salvato.

Giovanni Chinnici mi rispose con serenità e mi diede dello ''scemo'' per avere detto quelle parole, per averle solo pensate.

Le sue parole non sono servite a nulla...

Comunque in tutti questi anni nessuno mai si è degnato di chiamarmi e dirmi: Signor Paparcuri come sta? Ha bisogno di qualcosa? Niente di tutto questo, il silenzio più assoluto.

Quindi non ti viene naturale pensare che sei soltanto un peso per lo Stato?

Mi permetto di fare mie le parole di Claudio Fava: “Alle morti per mafia si accompagna sempre il purgatorio dei sopravvissuti, catalogati e archiviati nell'anagrafe del lutto secondo vecchie ritualità…. E poi garbatamente messi da parte”.

E ciò è vero, le tragedie scandalizzano, colpiscono al cuore un paese intero, il cordoglio nazionale non viene mai meno, però, poi ci si dimentica, tutto cade nell’oblio e i sopravvissuti devono affrontare una difficile quotidianità, spesso in solitudine e abbandonati dalle istituzioni.

 

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