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LA STRAGE

Venerdì 29 luglio 1983, a Palermo.

(FONTE FONDAZIONE ROCCO CHINNICI) www.fondazionechinnici.it

Il cielo azzurro intenso è quello che solo la Sicilia sa regalare in piena estate, ma l'aria già tiepida alle prime ore del mattino lascia presagire una delle giornate più torride ed assolate della calda estate isolana.
In via Pipitone Federico, in un elegante quartiere residenziale, c'è la piacevole calma delle mattinate estive: la città è semivuota, le scuole sono chiuse, molti palermitani sono già da tempo nella casa al mare. Molti, proprio quella mattina, si preparano a partire per le vacanze di agosto. Rocco Chinnici, nel suo appartamento al terzo piano, si è alzato presto, verso le cinque, come ogni mattina, e sta lavorando alle sue carte nello studio, con il balcone aperto. Chissà se affacciandosi per prendere un po' d'aria ha notato una 126, una macchina apparentemente innocua, posteggiata proprio davanti al portone. Sono le otto e la via adesso è un po' più animata: il panificio, al piano terra dello stabile, ha alzato le saracinesche, il portiere Stefano Li Sacchi ha aperto la portineria; di tanto in tanto passa qualche vettura. Arriva la blindata di Chinnici, un'Alfetta beige, guidata dal Sig. Paparcuri, e l'Alfasud dei Carabinieri della scorta, con a bordo il maresciallo Trapassi e l'appuntato Bartolotta. C'è anche una gazzella dei Carabinieri che da qualche mese, da quando le minacce al Giudice si sono fatte più gravi, ha il compito di rinforzare la sorveglianza nel punto forse più pericoloso del tragitto casa-ufficio. Davanti al portone c'è sempre la 126 posteggiata. Il consueto saluto affettuoso ai familiari e poi giù per le scale. Rocco Chinnici scendeva e saliva sempre a piedi; era l'unica attività fisica che la sua vita blindata e superimpegnata ormai gli concedeva. Chissà se Chinnici, consapevole com'era dei pericoli che correva, ha pensato che poteva essere l'ultima volta che percorreva quelle rampe. Una mattina qualsiasi nella quiete dell'estate in città, quel ventinove luglio. Sono le otto e dieci. Una devastante esplosione scuote violentemente l'intero isolato. Qualcosa di inaudito, forse inimmaginabile in quell'atmosfera rilassata.
E' la 126: è stata imbottita di tritolo e fatta esplodere con un comando a distanza nel momento in cui Chinnici, per poter salire sulla blindata, è costretto a passarvi accanto. E' l'inferno. Palermo come Beirut, titoleranno i giornali. Ma questa immagine non basta a descrivere la devastazione. Sulla strada, in mezzo alle carcasse delle auto ed all'acqua fuoriuscita dalle tubazioni scoppiate, si distinguono a fatica i corpi senza vita, devastati dall'esplosione. Oltre a Rocco Chinnici ci sono Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi. Nell'auto di servizio, l'autista Giovanni Paparcuri
, parzialmente protetto dalla blindatura, è gravemente ferito e privo di sensi. Sopravviverà, ma senza mai superare del tutto i problemi fisici procuratigli dalla parziale esposizione all'onda d'urto e senza ricevere dallo Stato quella solidarietà che gli era dovuta. Ci sono decine di feriti, anche all'interno delle abitazioni. E tra i feriti due bambini. Era la preoccupazione più grande, per Rocco Chinnici, negli ultimi tempi, quella di poter coinvolgere in un possibile attentato un familiare, un passante, un uomo della scorta. Se avesse potuto, avrebbe chiesto che altri uomini non morissero con lui. Per il resto solo devastazione, quel ventinove luglio alle otto e dieci. Infissi divelti, a decine, intonaci staccati, asfalto sollevato, tubazioni distrutte. Devastazione e silenzio. Per secondi lunghi come ore, dopo l'assordante fragore c'è un silenzio irreale su quella scena irreale. Poi le grida di dolore, di disperazione, le sirene di Polizia e Carabinieri con gli agenti che scendono dalle volanti e rimangono impietriti e sbigottiti senza sapere cosa fare. Più tardi la rabbia, il brusio, le telecamere, i curiosi, i rilevamenti, le autorità, gli amici, i parenti, alcuni cittadini. Una ferita profonda alla coscienza civile della città, questa volta anche a quella parte allora solitamente indifferente o convinta che , in fondo, chi fa questa fine, anche se nel giusto, se la va un po' a cercare. Non più soltanto pochi grammi di piombo e polvere da sparo. Ma tritolo. A quintali. E non si resta indifferenti. Uno scenario impensabile in un paese civile. Eppure destinato a ripetersi. Altre due volte: il 23 maggio 1992 per Giovanni Falcone e il 19 luglio 1992 per Paolo Borsellino.

Falcone e Borsellino: due discepoli di Chinnici. Tutti e tre fatti fuori con quintali di tritolo.

Un caso.

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