Antonio Elia

e la sua famiglia

di G.M. Caporaloni

 

Introduzione

La storia di Antonio Elia e della sua famiglia si intreccia fittamente con quella delle lotte per l'unità d'Italia e per l'indipendenza dei territori sottoposti al governo pontificio. Di Antonio si è spesso trattato superficialmente, preferendo mettere in risalto le indubbie doti nautico-militari e politiche del figlio Augusto, che ebbe, tra le altre cose, il merito di aver salvato la vita a Garibaldi, durante la battaglia di Calatafimi.

Tra le fonti la testimonianza degli scritti di Palermo Giangiacomi, figura di spicco dell'ambiente letterario popolare anconitano, vissuto a cavallo tra l'ottocento e il novecento, per quanto influenzata da patriottici sentimenti di gratitudine e a tratti forse un po' enfatica, è di rilevante importanza , avendo il Giangiacomi conosciuto personalmente Augusto e numerosi altri protagonisti dell'epopea risorgimentale nazionale.

Attraverso le parole di Augusto, tratte dai suoi scritti autobiografici, del Giangiacomi e dello stesso Garibaldi, si va delineando la figura di Antonio, generoso idealista, uomo coraggioso ma soprattutto coerente e sincero, vero ispiratore delle scelte del figlio.

Una seria ricognizione storica delle vicende politico-marinare dei due Elia è stata inoltre svolta negli ultimi anni anche dalla professoressa Luciana Montanari Veltri, che, con grande attenzione ai documenti, ha saputo inquadrare le vicende che hanno coinvolto questa famiglia, mettendole in relazione alla storia della marineria anconetana.

Ancona nel 1852

Ancona nel 1852

Le Origini

La vocazione di Antonio per il mare e la libertà aveva radici lontane. Suo nonno Andrea, nato ad Ancona nel 1749 e sposato con l'anconetana Barbara Monaldi, era stato marinaio e, con l'avanzare degli anni e degli acciacchi, era passato al ruolo di custode di un bastimento. Il padre Sante Elia era marinaio; il nonno materno era stato capitano di mare; il suo albero genealogico è letteralmente costellato di marinai, capitani di mare, paroni di barca e probabilmente anche il bisavo Giovanni aveva veleggiato per il Mediterraneo. Niente fu più naturale, per Antonio e per i suoi fratelli, che dedicarsi al mare. Nato nel 1803

via Saffi, già "via del Porto", negli anni Trenta

ad Ancona, in un quartiere a ridosso del Porto, a soli ventidue anni visse il primo di una lunga serie di episodi che gli fruttarono la fama di giovane audace ed avventuroso. Il fatto è narrato differentemente da fonte a fonte; piuttosto romanzata è la versione che riferisce Garibaldi, ripresa successivamente anche dal Giangiacomi, il quale adatta date ed avvenimenti, descritti nel racconto, alla sua personale conoscenza dei fatti e all'effettivo anno di nascita di Antonio, collocando gli avvenimenti nel 1821 per adeguarsi all'età del protagonista dichiarata da Garibaldi, che lo diceva diciottenne. In realtà correva l'anno 1825; nel Mediterraneo le scorribande dei corsari erano ancora una minaccia e Antonio era imbarcato in qualità di mozzo su "L'Aurora", un trabaccolo, di proprietà del cap. Giovanni Battista Dal Monte. Nel 1819, dopo un periodo di gravi difficoltà per la navigazione, dovute all'aggravarsi degli attacchi pirateschi lungo le rotte commerciali, lo Stato Pontificio era finalmente giunto ad un accordo con la Reggenza di Tripoli, grazie all'intervento favorevole del console inglese di Tripoli e dell'alto Commissario inglese delle isole Ionie, ed era stato stipulato, dalle parti interessate, un accordo preliminare di pace permanente. Naturalmente questo stato di non belligeranza comportava una certa remissione da parte del governo tripolino, al quale in questo modo venivano a mancare le entrate delle scorribande corsare; per ovviare a questo inconveniente fu stabilito che il patto venisse rinnovato negli anni seguenti mediante il versamento di somme annue da parte della Santa Sede. Secondo quanto risulta da una lettera del Viceconsole austriaco in Scutari al Console Pontificio a Ragusa, conservata presso l'Archivio di Stato di Ancona, tali versamenti non furono effettuati con regolarità dal Ministero pontificio che li aveva promessi, così, privato dei tributi, che riteneva gli spettassero di diritto, nel 1825 il Pascià di Tripoli ruppe unilateralmente l'accordo e spedì, senza tanti complimenti, i suoi corsari in Adriatico. I legni pontifici, che veleggiavano nel mediterraneo, si trovarono nuovamente di fronte alla minaccia dei barbareschi e numerose furono le imbarcazioni anconetane vittime delle imboscate corsare. Nel settembre di quell'anno a ben quattro pieleghi della marineria anconetana toccò la sorte di cadere in mano nemica. L'imbarcazione su cui navigava l'Elia era una di queste. Nel viaggio di ritorno da Livorno, presso Durazzo, la sera del 14 settembre, alcuni corsari a bordo di un bovo abbordarono il trabaccolo e ne presero il comando; rinchiusero tutto l'equipaggio sotto coperta, tranne il capitano Dal Monte, lasciato a governare il timone sotto sorveglianza, e il giovane Antonio, considerato dagli assalitori poco pericoloso, data la giovane età, e da essi adoperato, a detta del Costantini, per manovrare la vela latina, di cui ignoravano il maneggio. Antonio si dimostrò, dapprima, docile e disponibile con i corsari, assecondandoli nelle loro richieste, ma poi, con estrema freddezza, non esitò ad approfittare dell'improvvisa occasione di liberarsi. Mentre il capitano Dal Monte (Del Monte in alcuni documenti), scoperto nella notte a deviare dalla rotta verso Valona imposta dai barbareschi, scaricava la sua pistola contro il capo corsaro che aveva minacciato di ucciderlo, Antonio Elia s'impadronì di una mannaia (che nei trabaccoli generalmente si custodisce sotto il bompresso) con la quale rese inoffensivi altri due corsari; aperto quindi il boccaporto liberò i suoi compagni che lo aiutarono a sgominare definitivamente la ciurma avversaria. La narrazione che Garibaldi fa dell'accaduto nel suo "Cantoni il Volontario" , fu adattata allo spirito epico del romanzo; manipolata, più o meno consapevolmente dall'autore, allo scopo di rivelare il coraggio di Elia in una visione assolutistica del bene e del male, facendone il solo eroico protagonista della vicenda, non modifica in realtà la sostanza dell'episodio, in cui si dimostrarono la prontezza, la vigoria e l'animo impavido di Antonio, che in questa occasione ricevette anche la "Medaglia dei Benemerenti". Di seguito si possono leggere le due versioni dell'accaduto, quella letteraria di Garibaldi, che, come si è già sottolineato, anche Giangiacomi sostenne nel suo opuscolo sulla vita di Elia, e quella delle lettere ufficiali, conservate presso gli archivi di stato di Ancona e Roma, e felicemente riproposte nella loro essenza dalla professoressa Luciana Montanari Veltri, negli atti della conferenza tenuta in occasione del centenario dell'Istituto Nautico anconetano intitolato ad Antonio Elia.

 

dal capitolo XXVI del romanzo "Cantoni il volontario", di G. Garibaldi.

"...Era una notte di forte scirocco, e nell'Adriatico una di quelle notti lunghe invernali che incanutiscono la chioma all'ardito marinaro delle coste italiane ... la caravella, che aveva catturato il trabaccolo, a bordo del quale era stato messo un capitano con otto uomini, mantenevasi al vento della sua preda colle sole vele di cappa ... Tutto l'equipaggio cristiano del trabaccolo era stato chiuso nella stiva incatenato, e solo il novizio di bordo di diciotto anni era stato lasciato sulla tolda per coadiuvare l'equipaggio turco nelle manovre e porgere allo stesso quanto richiedeva. ... I pirati, armati di tutto punto e fidenti nel numero, nulla diffidarono del giovine novizio, che rispondeva accuratamente ad ognuno dei loro comandi ... Tale fiducia e noncuranza dei Turchi favorivano i progetti del nostro Elia...Sotto il buonpresso dei trabaccoli esiste per consuetudine una mannaja ... Col pretesto della veglia, Antonio potè comodamente nasconderla sotto il giacchettone, e così armato venne a poppa, ove accanto al timoniere stava il capitano di presa, appoggiato al bottabarra ... egli avventò il primo colpo alla testa dell'ufficiale e lo sbagliò! ... Il terribile jatagan fu in un momento sguainato, ed un colpo sulla spalla sinistra dell'Elia ne inondò il corpo di caldo sangue ... in quel momento ferita, vita, morte, erano un nulla! La mannaja rotò nelle sue mani con agilità elettrica e l'Ottomano cadde col cranio spaccato. Quasi nello stesso tempo entrava in giuoco il timoniere, ma appena pose la mano alle armi esso era disteso al lato del capitano ... con minor difficoltà ch'egli non avrebbe sperato potè disfarsi dei sette rimanenti nemici ch'egli attaccava separatamente ... La sua prima cura, dopo d'essersi sbarazzato dei nove pirati, fu la liberazione dei compagni incatenati nella stiva ... prendendo la direzione più conveniente alla velocità del legno, i liberati furono presto lontani dal nemico..."

 

da una lettera del Delegato Apostolico di Ancona al Cardinale Camerlengo, in data 1 ottobre 1825 (conservata presso l'Archivio di Stato di Ancona)

"...Il Parone Dal Monte nella notte stessa in cui fu predato potè d'accordo coi suoi marinai uccidere dei barbareschi che guidavano il legno e salvarsi nel porto di Ragusi. Questa notizia è vera avendomene scritto uffizialmente il Console austriaco di Ragusi dettagliandomi che il dal Monte e la sua ciurma si servirono di tre mannaie ed una pistola..."

dalla lettera al Tesoriere Generale, datata Ancona 1 ottobre 1825 (conservata presso l'Archivio di Stato di Roma)

"...Sopraggiunta la notte il parone del trabaccolo che dirigeva il timone, teneva altra direzione, tutto opposta a quella prescrittagli, di che accortosi il capo de' Turchi... minacciò il parone di volerlo ammazzare...ma il dal Monte, avendo una pistola, fu sollecito a scaricarla contro il turco che rimase immadiatamente ucciso. Altro marinaio del trabaccolo, che pure era sovra coperta, visto l'accaduto dette mano ad una mannaja, ch'eragli vicina ed avventandosi veloce sopra altri due turchi, ch'ivi erano ambedue, li atterrò ed aperto il boccaporto chiamò gli altri marinai ch'erano chiusi sotto coperta e coll'aiuto di questi fu ucciso un altro turco, per cui di questi rimasti solo due, uno si arrese e l'altro gittossi in mare...".

 

Vita Privata

Nel 1815 la famiglia Elia, capeggiata da Sante e Caterina, era composta da otto figli, essendone già morti due, in fasce, e non ancora nati almeno altri due dei quali si ha successivamente notizia. Antonio aveva circa tredici anni e per lui fu certo naturale crescere negli stessi luoghi in cui erano nati suo padre, suo nonno, i suoi avi e dove le vite dei marinai, dei mercanti e dei nobiluomini erano, economicamente e architettonicamente, un tutt'uno. L'antica via del Porto, poi rinominata via Saffi, dove abitavano gli Elia, era strada principale per i commerci e le attività portuali e marinare; su di essa si affacciavano e sboccavano innumerevoli "vigoli", strette viuzze contorte e buie, che si diramavano lungo le pendici del colle Guasco quasi a formare una tela di ragno, intricatissima e, talora, pericolosa. Tra i palazzi bislunghi e svettanti, costruiti così accostati da poter ascoltare il respiro dei vicini nel silenzio della notte, a volte si doveva passare in fila indiana, come in certe calli veneziane che, a percorrerle, dopo un po' manca il respiro; negli angoli appartati, nelle buie sere invernali, si consumavano delitti politici e crimini comuni. Ma lungo le vie, nelle piazzette (veri e propri campielli anconetani), su per le piccole scalinate che apparivano all'improvviso dagli archetti ricavati tra le case, si respirava di giorno un'aria familiare, un misto di salsedine, vapore e unità, senza la quale Antonio non avrebbe mai potuto vivere.

Pianta del De Giardinis

Via del Porto in una pianta d'Ancona del 1745

Così anche quando, più tardi, formò una sua famiglia decise, come del resto la maggior parte dei suoi fratelli, di rimanere nello stesso quartiere, affittando un appartamento, di proprietà di Pietro Politi, proprio in quella stessa via . La contrada del Porto a quel tempo era posta, quasi interamente, sotto la giurisdizione della chiesa di Santa Maria della Misericordia e, nei registri di questo archivio parrocchiale, si conservano ancora gli atti di nascita, matrimonio e morte relativi a molti nuclei familiari Elia, quasi tutti legati da parentela più o meno lontana, nonché a quelli di altre antiche famiglie anconetane che con gli Elia avevano stretto rapporti di amicizia e affinità, come i Buranelli, i Candelari, i Monaldi, i Vecchini e la famiglia di Giovanni Pelosi, parone di barca, e Maria Busetti. Questi ultimi avevano abitato per un breve periodo sullo stesso pianerottolo di Sante e Caterina, al quarto piano della casa di proprietà di Giovanni Balani, sempre in via del Porto, e pur trasferendosi successivamente nella zona del Pozzetto, avevano mantenuto un forte legame affettivo con i genitori di Antonio e con Antonio stesso, fino a condividerne le scelte più importanti e a favorire, nel 1826, il suo matrimonio con la loro figlia, Maddalena. Così l'atto di matrimonio :" ...Dispensate le solite denunzie e l'impedimento tempus per giusti motivi dall'Ill.mo e R.mo Mons. Provicario Gaetano can° Baluffi Io Pietro Parr.o Gonna in questa P.le di S. M.a della Misericordia ho congiunto in S. Matrimonio Antonio di Sante Elia con Maddalena di Gio: Pelosi ambidue di questa cura avuto prima il mutuo consenso per verba de' presenti alla presenza de' testimoni Francesco figlio del fu Giovanni Sarghetti e Mariano figlio del fu Vincenzo Montevecchio". La fisionomia di Antonio è solo vagamente abbozzata in una stampa ottocentesca che ne ritrae la fucilazione (fonte iconografica peraltro poco attendibile poiché vi è raffigurato con la benda sugli occhi mentre pare, da diversi scritti, ch'egli l'abbia decisamente rifiutata), ma il suo aspetto viene descritto in maniera particolareggiata da Garibaldi e dal figlio Augusto, che ci informano circa la sua statura e la sua perfetta forma fisica (agile, disinvolto, svelto nei movimenti): "Elia non era alto di statura, non era un Ercole, un Anteo, ma le sue forme avrebbero servito di modello allo scultore per scolpire Achille...". Insomma: si trattava del vero "tipo del marinaio italiano", secondo i canoni dell'epoca. La sua barba sappiamo essere stata folta e di colore rosso acceso, grazie alla meticolosità dei pubblici ufficiali dell'epoca, adoperatisi a riportare nomi, cognomi e soprannomi dei vari capifamiglia. In questo caso la burocrazia ottocentesca, solitamente lacunosa e zeppa di errori, ha saputo rendersi utile informandoci del nomignolo attribuito ad Antonio, "Barbarossa", condiviso col padre Sante che godeva anche di quello di "Barbalunga". Altro soprannome diffuso tra gli amici era quello di "Cuor di Leone"; Antonio inoltre era detto "il Mondezzaro", secondo alcuni per l'abitudine consolidata di fermarsi ad un angolo tipico del suo quartiere dedicato a quelle operazioni, secondo altre fonti invece per aver vinto una gara d'appalto per lo smaltimento dei rifiuti. In ogni caso è così che viene definito nel documento della sua ingiusta condanna a morte. Dell'aspetto fisico di Maddalena invece non ci sono testimonianze scritte, ma l'immagine familiare del suo volto e del suo carattere che, assieme alla narrazione dei drammatici avvenimenti della prima guerra d'indipendenza, servì a nutrire almeno quattro generazioni di fanciulli inappetenti nella mia famiglia (io stessa ingurgitai così anni e anni di minestrine e bistecchine), è quella di una donna di piccola statura, occhi grandi e chiari come l'Adriatico nell'ottocento, nei quali si specchiavano ogni istante della sua vita le tenere immagini dei figli lontani e di Antonio, che, nonostante le gravi difficoltà economiche, non fu mai da lei sostituito ne dimenticato. Ella visse a lungo, con la figlia Teresa, ma abbandonò la casa che aveva diviso con il marito subito dopo la sua morte, trasferendosi, dice il Giangiacomi, anche perché sui padri Paolotti, proprietari del fabbricato, gravava il sospetto di aver partecipato alla messinscena contro Antonio.

Dalla felice unione di Antonio e Maddalena nacquero sette figli, due maschi e cinque femmine. Il maggiore era Augusto, nato nel 1829 ed avviato alla vita marinaresca sin da fanciullo al seguito del padre. Nacquero poi Maria, che sposò Costantino Bandini e generò Amelia futura moglie dell'avvocato anconetano e celebre oratore Arturo Vecchini, Filomena, Teresa, Marianna, sposata a Cesare Giaccaglia e madre della mia trisavola Antonietta, Nazzareno, che morì in fasce, e Giuseppa, postuma, nata alcune settimane dopo la morte del padre ( e non pochi giorni dopo, come afferma il Giangiacomi commettendo un errore temporale subito smentito dai registri di battesimo della Misericordia) e morta durante la fanciullezza, a nove anni.

 

Gli anni della maturità: Antonio e la prima guerra d'indipendenza

Palermo Giangiacomi, nel suo opuscoletto sulla vita di Antonio, ci informa che nei primi decenni dell'ottocento"Sorgevano sette dovunque ed anche Ancona annoverava le sue fin dal 1817. Fu nell'anno 1829 che l'Elia entrò a far parte della Carboneria". Poco tempo dopo si iscrisse alla Giovine Italia, istituita ad Ancona il 1 marzo 1832. Spesso in navigazione nel mediterraneo e sugli oceani, per il suo mestiere di marinaio, si adopera, in qualità di messaggero, per mantenere i contatti tra i patrioti esuli in Inghilterra e Francia, acquistando sui suoi compagni "un forte ascendente" per le imprese coraggiose e lo sprezzo del pericolo. Anche il figlio Augusto, che ha otto anni quando sale, per la prima volta, come mozzo, sulla barca del padre, si associa giovanissimo alla Carboneria, come il padre Antonio. In seguito aderisce anche alla Giovine Italia e alla Massoneria. Dalle note autobiografiche di Augusto: "Da giovinetto fui associato alla Carboneria, poi alla Giovine Italia, indi alla Massoneria…non vi era riunione di cospiratori… alla quale non partecipassimo…; dai patrioti che si trovavano all'estero rifugiati in Inghilterra o in Francia, eravamo spesso incaricati di portare in Italia carte compromettenti". Padre e figlio sono insieme in Inghilterra quando scoppiano le cinque giornate di Milano e, con la morte di papa Gregorio XVI e l'elezione al pontificato di Pio IX , nuovi fervori di libertà serpeggiano dentro e fuori l'Italia. Nascono circoli culturali e politici anche ad Ancona, come il Circolo Anconitano, di stampo prettamente culturale, cui aderiscono i moderati, sostenitori della politica riformatrice di Pio IX, e, nel 1847, il Circolo Popolare, di stampo politico, cui aderiscono i Carbonari e i Mazziniani e al quale poco dopo parteciperanno anche gli Elia (Antonio, suo figlio Augusto e il fratello Fortunato). Appena dichiarata la guerra all'Austria da parte di Carlo Alberto, padre e figlio rimpatriano per arruolarsi come volontari nelle legioni che si organizzano un po' in tutto lo stato pontificio, poiché, sebbene convinti sostenitori dell'idea mazziniana, desiderano comunque partecipare alla sperata liberazione dell'Italia dall'oppressione straniera. S'imbarcano assieme nel 1848 sul piroscafo Roma. I primi entusiasmi però si spensero fulmineamente allorché, firmato il 9 agosto l'armistizio di Salasco, rimase solo Venezia ad opporre una eroica resistenza alle truppe straniere. ("La peste infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca..."). Proprio con l'intento di dare man forte agli assediati in laguna, Giuseppe Garibaldi si trovava in Emilia-Romagna in attesa di partire con le sue modeste truppe (90 uomini circa) quando la situazione precipitò anche a Roma. Il 15 novembre a Roma fu assassinato Pellegrino Rossi; il suo governo d'idee moderate, fu sostituito da un Governo democratico Provvisorio e, dopo nove giorni, Pio IX decise di fuggire a Gaeta; la sera del 9 dicembre Garibaldi arriva in Ancona, per una breve tappa, mentre si sta dirigendo a Roma per mettersi al servizio del nuovo governo. In un racconto di Palermo Giangiacomi, pubblicato dall'Istituto Marchigiano di Scienze Lettere ed Arti nei "Rendiconti", si narra di come quella celebre sera Antonio Elia con il fratello Fortunato, detto Purgatorio, e il figlio Augusto, abbiano fatto da scorta all'Eroe dei Due Mondi, lungo le pericolose vie del quartiere del Porto, da loro così ben conosciute. Garibaldi era arrivato nel tardo pomeriggio; dopo essersi ristorato all'Albergo della Pace ed essersi recato dal comandante della seconda divisione Luigi Lopez, aveva portato il suo saluto al gonfaloniere della città, Filippo conte Camerata, e si era poi recato al vicino Circolo Anconetano, dove appunto ebbe modo di ritrovare gli Elia.

La sede del Circolo Anconitano, in via Saffi,

alla fine dell'Ottocento

Antonio aveva conosciuto Garibaldi verso il 1834 a Marsiglia; il Generale era rimasto colpito dalle sue gesta contro i corsari in Adriatico, poi narrate nel suo romanzo "Cantoni il Volontario", e subito un'ammirazione reciproca aveva creato un forte legame tra i due, accomunati dall'amore per il mare e per la libertà. Antonio ne resta amico e sostenitore per la vita. Dice Arturo Vecchini di Garibaldi, nel discorso pronunciato nel trigesimo della morte di Augusto Elia: "Egli fu in tutti e tutti furono in lui". Durante le poche ore di permanenza, Garibaldi, che è giunto in gran segreto desiderando ripartire per Roma al più presto, rischia di essere riconosciuto, ma Antonio dimostra ancora una volta l'innegabile prontezza di riflessi di cui è dotato e, avvicinandosi all'uomo sospetto che li sta seguendo, lo esorta "con fare suggestivo" a mantenere il silenzio; questi "che ben conosceva i costumi dei suoi tempi e la risposta da darsi a certe domande", non può far altro che obbedire e tornare sui suoi passi. E' forse proprio questo piglio sicuro e l'atteggiamento impavido, d'uomo coraggioso e pronto a tutto, che suscita nella maggior parte della popolazione anconetana una stima incondizionata per l'Elia, e in alcuni, purtroppo, una violenta e meschina gelosia nei suoi confronti. Più tardi, nel Gennaio 1849, proprio Garibaldi, avendo ben considerato il carisma di Antonio nello spronare l'animo del popolo anconetano, lo incoraggerà a tornare ad Ancona a sostegno dell'impresa politica e militare della prima guerra d'indipendenza, assegnandogli, involontariamente, lui stesso quel ruolo grazie al quale Elia sarà soprannominato il "Ciceruacchio Anconetano". Antonio inizia la sua opera di proselitismo con successo, vincendo le ritrosie e le superstizioni pseudoreligiose del popolo marinaro, fino al punto di raccogliere una gran folla alla proclamazione della Repubblica Romana (9 febbraio 1849), nella piazza di S. Primiano,dove egli aveva fatto sorgere, di sua iniziativa, "l'Albero della Libertà".

Da un'istanza presentata da Antonio per il conseguimento della patente di piccolo cabotaggio, nella primavera del 1849, veniamo a conoscenza dei suoi numerosi viaggi in ogni parte del mondo, della sua esperienza pratica di lunga data, atta, a suo parere, a supplire la mancanza di scolarizzazione, necessaria per quel tipo di patente. Dice la Montanari: "…l'Elia, in qualità di nostromo, ossia basso ufficiale a bordo di bastimenti quadri e vapori, avendo viaggiato in quasi tutti i mari del mondo e avendo dato prova di non dubbie capacità nell'arte del commercio e della marina, chiede che gli sia concessa, in via di grazia, la patente di piccolo cabotaggio, anche se non sa né leggere né scrivere". Dal Preside della Provincia di Ancona, G. Camillo Mattioli, Antonio è definito "uno dei primi Nostromini della Marina Romana" nel tentativo, riuscito, di far ottenere la deroga all'Elia, al quale, quindi, viene concessa la possibilità di sostenere il solo esame di pratica, più complesso poiché include il non sostenibile esame teorico.
Gli eventi politici, però, evolvono rapidamente e non é certo che Antonio si sia sottoposto alla prova. Alla fine di Aprile, il Papa, Pio IX, che, con la sua adesione al progetto politico di Carlo Alberto, aveva suscitato moti d'entusiasmo tra i federalisti neoguelfi, si dissocia platealmente dalla guerra all'Austria, facendo così precipitare gli eventi. I repubblicani anconetani, lontani dall'idea di abbandonare la causa dell'indipendenza, si uniscono alle truppe piemontesi, e tentano il tutto per tutto, con la tenue speranza di ritardare il più possibile l'arrivo degli imperiali a Roma. Il 25 maggio 1849 la città è chiusa in una morsa dalle truppe austriache :"Ancona - unico centro che rimaneva alla Repubblica Romana sul litorale adriatico per ritardare la marcia austriaca su Roma - era considerata piazzaforte di molta importanza strategica" non solo per il governo del triunvirato, ma anche per gli invasori che, occupandola, avrebbero potuto intercettare aiuti e rifornimenti per Venezia, affrettando così la sua resa. Antonio, primo nostromo del brik "S. Pietro" vapore "Roma", è a capo di venti marinai, destinato a portare rinforzi al fratello Fortunato, che si trova dislocato, con venti cannonieri di Marina, presso la batteria della Lanterna. La città, in stato d'assedio, trova in Antonio uno dei suoi più strenui difensori, anche contro il parere del fratello Pietro, che vedeva la situazione farsi sempre più difficile. Il 5 giugno 1849 è imbarcato come nostromo sul vapore nazionale Roma; con Augusto, in qualità di timoniere, e Raffaele Castagnola, comandante, catturano una lancia austriaca senza bandiera.
Racconta Augusto che durante l'assedio :"Tutti i giorni un combattimento; sui forti, sui baluardi, sulle barricate, all'aperto". E Santini :"La marina mercantile Anconitana della quale era a capo Antonio Elia fece nella difesa del patrio suolo bravamente il suo dovere". Il 16 giugno, ventitreesimo giorno di combattimenti, gli assediati sono ormai allo stremo. Antonio seda una rivolta dei cannonieri della Lanterna contro il capitano Costa, rivolta suscitata dalla diminuzione del soldo, che per altro essi già ricevevano non in contante ma in una sorta di credito cartaceo, e dalla diminuzione del numero di artiglieri alla Lanterna, quando la situazione avrebbe richiesto invece nuovi e più prestanti rinforzi. Il giorno successivo la città, esausta per i bombardamenti delle ultime quarantott'ore, è costretta, anche contro il parere di molti, a cedere. "Nessuno parlò di resa e nemmeno il popolo, il quale capitanato dal patriotta Antonio Elia, acclamava in pubblica dimostrazione alla resistenza…". La situazione era ormai compromessa e la città, priva delle forze che le sarebbero state necessarie per resistere ancora, si arrese.

Baluardo della Lanterna

La Lanterna


Morte di Antonio Elia


"Sulla morte di questo sventurato patriota - scrive il Costantini - si fece in Ancona un gran discorrere e si formò la convinzione che egli fosse la vittima di una delle tante denunce anonime, che l'onesto Wimpffen dispregiava, ma che il suo successore accettava e coltivava".

Il 19 giugno 1849, dopo 35 giorni di assedio (che fecero conquistare ad Ancona la medaglia d'oro nel 1898) Ancona fu costretta ad arrendersi; i suoi compagni, tra i quali il poeta Filippo Barattani e lo stesso figlio, Augusto, temevano per la vita di Antonio, personaggio scomodo, perchédi grande ascendente sulle masse popolari, nonchéfortemente compromesso dai suoi mai nascosti trascorsi carbonari e repubblicani, e lo invitarono e fuggire a Corfù su un bastimento anconetano battente bandiera inglese, assieme ad altri che non si reputavano sicuri nel restare in Italia. Egli rifiutò decisamente una fuga che riteneva del tutto inutile e anzi dannosa per il bene della sua famiglia. Dice Augusto: "…rispondeva di avere la coscienza tranquilla, di nulla avere a temere, non volere quindi volontariamente abbandonare la patria e la famiglia, e restò".

Nei mesi precedenti, un gruppo di violenti fanatici politici, associatisi sotto il nome di "lega sanguinaria" o "infernale", detti anche "omicidiari", si era dato a commettere atti efferati contro i sostenitori papalini; così facendo, lungi dall'essere di aiuto alla causa della repubblica, rafforzarono l'opinione negativa dei Reazionari sui nuovi eventi e sulle nuove forze politiche. Antonio Elia, temuto e rispettato persino da costoro, era tra coloro che più si adoperavano per tenerli a freno e fargli comprendere l'errore di fondo che muoveva i loro passi criminosi. Nota il Giangiacomi: "Felice Orsini nell'Aprile 1849, mandato in Ancona con pieni poteri, da Mazzini, arrestò in una notte quanti assassini la voce pubblica indicatagli e li mandò alla Rocca di Spoleto. Nove di essi poi vennero fucilati dai soldati del papa nel Lazzaretto di Ancona il 25 ottobre 1852. … Ho letto le ordinanze della Sacra Consulta contro i condannati a morte, a tempo, o in contumacia, per i delitti di Ancona e mai vi rinvenni, nemmeno per incidenza, il nome di Antonio Elia" che pure nella sentenza è accusato proprio di essere il principale autore di tali delitti. Palermo Giangiacomi riferisce numerose testimonianze a favore di Antonio ed Enea Costantini dice che l'innocenza di Elia non solo era "cosa notoria in Ancona", ma che la prova della sua innocenza sta proprio in quelle sentenze della Sacra Consulta con cui si condannano i veri esecutori degli omicidi, con menzione di "tutti, autori materiali e mandanti, detenuti e contumaci; ed i fatti sono esaminati con quella minuziosa analisi che era propria del sistema probatorio dei giudizi criminali d' allora". A conferma ulteriore sta la confessione di uno dei fucilati del 1852, resa nel dicembre 1849. Allo scopo, vano, di conseguire l'immunità, l'imputato rende una confessione assai completa, rivelando senza alcuna omissione, i nomi di tutti i settari di sua conoscenza, ma mai pronuncia il nome di Antonio; tra l'altro è escluso che tale omissione derivi da timore di nuocere all'Elia, già fucilato più di quattro mesi prima.
Il 20 luglio 1849, Antonio fu oggetto di una dimostrazione di forza da parte del nuovo governo militare austriaco che si era insediato in città.
Nelle sue note autobiografiche, Augusto commenta così l'arresto del padre:"Era necessario dare un terribile esempio alla popolazione applicando la legge stataria su uno dei capi del popolo". Considerato, dunque,il soggetto ideale da punire, per cancellare qualsivoglia velleità di ribellione potesse ancora albergare negli animi degli anconetani, la sua casa fu perquisita su denuncia anonima, forse creata ad arte, che lo diceva possessore di un'arma da taglio, contrariamente a quanto il 22 giugno aveva disposto l'autorità austriaca, con un editto del maresciallo Wimpffen. Non trovando nulla in casa, i militari si accanirono sfondando un condotto fognario dove effettivamente rinvennero un coltello ed Elia fu arrestato, sottoposto ad un processo farsa, ingiustamente accusato di essere uno dei principali appartenenti alla setta degli omicidiari e condannato a morte. Giangiacomi, sulla scorta delle affermazioni di Augusto, suppone che il coltello rinvenuto potesse essere stato gettato nel condotto di scolo appositamente, da chi aveva sporto la denunzia, poiché tale condotto era in comunicazione con tutti i cinque piani sovrastanti l'abitazione della famiglia Elia, abitati da numerosi inquilini; paventa inoltre, tra le righe, l'ipotesi ulteriore che a gettarlo siano stati gli stessi che effettuarono la perquisizione, ma si tratta purtroppo solo della sua opinione non suffragata da alcuna prova. Sembrerebbe illogico, infatti, che un uomo, dopo essersi rifiutato di fuggire per rimanere accanto alla propria famiglia, mettesse in pericolo la sua incolumità personale, a scapito appunto della famiglia, contravvenendo ad un editto così esplicito e nel quale si garantivano pene come la morte e i colpi di bastone ai contravventori (compresi gli armaioli!).

Il 25 luglio, mentre la moglie, in attesa di una bambina, e le altre quattro figlie avevano appena ottenuto il permesso di visitarlo e stavano entrando nel carcere, Antonio venne fucilato, assieme a Giuseppe Magini (contadino di Montesicuro reo di aver resistito alla forza pubblica esplodendo un colpo di fucile contro una pattuglia notturna) presso le carceri di Santa Palazia, morendo "sicuramente" in Ancona ( e non "forse" come sostiene un, superficiale, nuovo Dizionario dei Marchigiani), fatto dimostrato anche dalla registrazione della sua morte in parrocchia di S. Pellegrino, trascritta nel compendio dei defunti della città di Ancona per l'anno 1849, conservato a tutt'oggi presso l'archivio di stato di questa città. A Maddalena che, turbata dall'eco degli spari, chiedeva di vedere il marito, fu risposto "che era troppo tardi". Secondo la testimonianza di un detenuto, che assisteva alla scena dalla sua cella, subito prima di morire davanti al plotone d'esecuzione Antonio diede l'ultima prova del suo coraggio e, rifiutando la benda offertagli per coprire il volto, si rivolse al Magini con queste parole: "Coraggio, dal momento che si deve morire, meglio è morire da forti". Sepolto quasi segretamente, per evitare che il popolo e la famiglia ne facessero un martire della reazione papalina, solo nel 1875 il figlio Augusto poté recuperare le spoglie paterne e collocarle sotto un piccolo monumento, nel cimitero delle Tavernelle, dove si trovano ancora oggi. Scrisse di lui Garibaldi, in una lettera ad Augusto: " …il padre vostro merita di essere annoverato tra i grandi italiani…Ancona ricordi quel probissimo suo cittadino che tanto l'onora".

La fucilazione di Antonio Elia

La fucilazione di Antonio Elia

Poco tempo dopo il figlio Augusto, essendosi messo in luce per aver salvato una giovane dalla violenza di quattro mercenari, che egli "aveva resi malconci", fu costretto a fuggire a Malta, inizio di un lungo periodo di esilio e di viaggi.

Così si concluse l'avventurosa esistenza del formidabile marinaio anconetano Antonio Elia, ma non si conclusero gli entusiasmi e gli ardori della famiglia Elia per Giuseppe Garibaldi, ed il loro anelito sincero all'indipendenza italiana.

Augusto, dopo aver brillantemente superato l'esame per Capitano di lungo corso, a soli venticinque anni, grazie ad una speciale deroga , partecipa alla guerra in Crimea; diventa poi comproprietario di un bastimento, ma perde le sue sostanze in un terribile naufragio; a Londra conosce Mazzini, per il quale fa da tramite con il capo dei repubblicani americani, George Sanders Master Harbour. Dal 1859 fu accanto al Generale su molti fronti, divenendo per lui come un figlio; da Quarto a Marsala ebbe il comando del "Lombardo" agli ordini di Bixio; fu l'eroico protagonista della giornata di Calatafimi, nel 1860, durante la quale, dopo aver messo in salvo il figlio di Garibaldi, fece scudo col suo corpo all'Eroe dei Due Mondi, salvandogli la vita . Rimasto gravemente ferito al volto, per molti mesi tra la vita e la morte e per quasi tre anni senza poter parlare, non ancora ristabilito tornerà con impeto a far parte del corpo dei Mille in altre pericolose spedizioni, fino all'ottenimento dell'agognata Unità dell'Italia. Colonnello a riposo, tra il 1870 e il 1897 sarà eletto Consigliere Comunale e più volte membro della Giunta, Consigliere Provinciale e Vicepresidente del Consiglio, membro e poi Presidente della Camera di Commercio, poi eletto numerose volte alla Camera dei Deputati. Tra un'avventura e l'altra, durante la lunga convalescenza seguita all'episodio di Calatafimi, riuscì anche a sposarsi, con Amalia Balani, dalla quale ebbe, tra l'altro, la figlia Anita (così chiamata in ricordo di Anita Garibaldi) che in seguito sposerà Mario Rinaldini, discendente da un antico casato anconetano.

Augusto Elia

 

“Note Bibliografiche „

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© 2003 Giovanna Maria Caporaloni