In questa sezione vengono inseriti gli articoli di veri critici riguardante l'opera di Giancarlo Benedetti:

Sergio Sorrenti
L'opera recente di Giancarlo Benedetti rappresenta la migliore conferma di quello spirito di ricerca, insieme libero e rigoroso, che costituisce il tratto saliente della sua personalità, tanto sotto l'angolo artistico quanto sotto quello umano. Sarebbe infatti difficile, di fronte a questi quadri, dire se in essi è prevalente il momento instintivo non ancora corrotto dalla banalità e dall'ansia di successo o l'esigenza di dar corpo ad un tessuto cromatico e materico in continua vibrazione. La realtà è che, per l'artista come per il fruitore, i due momenti risultano inseparabili, anche se distinti come i poli di una tensione emotiva troppo intima ed operativa che agisce dialetticamente. Se i grandi margini bianchi che da tempo inquadrano le figure di un rosso intensivo e ricercato oggi s'insinuano in quelle stesse illusioni di profondità trasformandone il segno tecnico, significa la possibilità di operare sullo spazio segnico. E Giancarlo Benedetti crea, in una simbologia che affascina, la totale identificazione fra superficie fisica del supporto ed evidenza ottica della dimensione aperta operativamente. Sicché il ruolo del continuo lavorare il colore ha un senso di concretezza e di suggestione umana. L'accordi fra i colori caldi, il contrasto dei rossi e dei blu, la scomparsa delle gamme fredde sembrano accennare ad un precesso di progressiva concentrazione operativa sull'identità fra colore e materia.
Si è detto sino ad ora come un quadro di questo pittore consentisse una lettura isolata che lo rende avulso dall'insieme delle altre opere. Ma è facile rendersi conto, in questi vari elementi, che la nuoca produzione si ordina spontaneamente in possibilità seriali non stabilite "a priori" dall'artista. E che è suggerita dalla stessa logica interna del processo creativo che l'ha generata.
Quindi suggestioni individuali e fantasie anche magiche in una realtà di colori simbolici che tnetanti di aderure un una ciraggiosa verità alla necessità corale di un vivere quitidiano.

(dal catalogo "Nuove dimensioni plurimediali", Roma 1986)



Augusto Pantoni
Il grosso rischio che corrono i dipinti di Giancarlo Bendetti è quello di non sollecitare l'osservatore a compiere qualcosa di più che una elementare operazione mentale. E questo direi che è attribuibile non già e non soltanto alla tradizionale pigrizia che caratterizza la maggior parte del pubblico, bensì proprio ai "rudimentali" segni e alla ristrettissima gamma dei colori di cui l'autore si serve per esprimersi. Guardando le opere di Benedetti e affidandosi a una mera visione retinica si riconoscono subito in esse velocità di esecuzione, frammentaria e generale assenza di "spessore". Ma i lavori che egli qui espone sono il frutto ostinato di circa venti anni di impegno, e di impegno - va sottolineato - solitario, non richiesto: cioè senza committenti. Dunque essi, quantomeno, sono la materializzazione di un impulso interiore decisamente forte e autentico.
Partirei da questo primo, importante assunto per porre sotto una particolare luce tutto il lavoro di Benedetti. D'altra parte, ai fini di una "corretta" interpretazione di queste opere, a mio avviso non è decisivo applicare il metodo comparativo, poichè, individuare i loro possibili antenati iconografici, tutt'al più servirebbe a regalarle, assieme al loro autore, in coda a un qualche improbabile filone. Né tantomeno si può liquidare Bendetti collocandolo tout-court in quel limbo senza confini che ormai la parola post-moderno designa: fare ciò equivarrebbe ancora a usare un espediente al fine di rendere generico ciò che generico non è. Allora suggerirei di osservare con più attenzione le opere pittoriche di Giancarlo Benedetti provando con me a considerarle per quel che sono: cioè più testimonianza di una drammatica condizione che esiti di prove estetiche. E vediamo come e perché, sia pure in poche parole.
A un primo impatto visivo i dipinti di Giancarlo Benedetti ostentano tutta la loro bidimensionalità, poichè l'autore di serve dei soli tre colori primari (il bianco è quello della tela) allo scopo propicuo di mantenere un certo equilibrio nell'economia generale della composizione. Immediatamente dopo, da queste composizioni noi vediamo affiorare marcati tratti - interrotti come fossa a causa di disturbi dell'attenzione e reiterati come per fissare i residui fuggenti di una evanescente memoria - che in verità hanno valore di segno. E infatti, in questi segni, palesemente brevi e tesi come fili di sinopie, si riconoscono abbozzi di dettagli 8una bocca, un naso, un occhio...) quali rivelatori di un preciso processo psicofisico: mente e mano nell'atto di procedere, per errori ed approssimazioni, verso fallimentari tentativi di definizione di una forma volumetrica all'interno di uno spazio dato (corpi, volti, oggetti). E allora, detto questo, quel che io suggerisco è che Giancarlo Benedetti, con grande forza d'animo, non sta rappresentando altro che l'intrinseco di una condizione diffusa, la quale ci vede - lui e noi, qui e di questi tempi - messi in gravi difficoltà mentre cerchiamo di costruire quella indispensabile mappa cognitiva tramite la quale orientarci autonomamente nell'universo della vita.

Maggio 1990

(Versione riveduta della presentazione alla mostra personale tenuta nella primavera del 1990 presso le "Sale del Bramante", in Roma)



Enrico Gallian
Manovrando sodi impasti di colore improvvisamente Giancarlo Benedetti li dirada trovando il segno giusto, l'accenno equilibrato; ridisegna così le ansie e le temperie del colore. Avanzi di contorni fisognomici diventano folla. Folla anonima che reclama immaginifiche società di giusti. Il giusto segno dell'occhio per la giusta fisionomia; contorni che diventano folla proprietaria di sgomenti e illusioni.
I sogni dipinti delineano reclusioni inaspettate. Nella consapevolezza di essere cronaca è quasi la stessa immagine che si enuclea nello spazio e che diventa storia. La cronaca di sempre. Il continuo sempre che delimita un universo orrendo. L'universo sociale colorato quasi splendido e marcio.
Grandi tele e piccole impressioni: impressioni a pelle, fatte d'istinto non per la gratuità del fare ma consapevoli di essere guardate. Chi guarda ha sempre un desiderio nascosto. Il desiderio di trovare l'idea coraggiosa chce lui non possiede; abbandonare le proprie vesti per fare come Giancarlo Benedetti: dipingere materializzando i propri desideri. Il coraggio del colore senza falsi pudori, ma controllato dal segreto della professionalità.
Il pittore accumula sensazioni, pudori, sudori, realtà esterne per poi sottrarre all'usuale il quid e mai l'orpello. Le composizioni equilibrate e sensitivamente accattivanti hanno in fondo un che di peccaminoso. E' il peccato additato non come ultima spiaggia, ma in maniera censoria e apostatica.
In fondo Giancarlo Benedetti è felice di essere un eremita. L'eremita del colore, interrato, dove trova colori nuovi e segni apocalittici.

(Recensione alla mostra personale presso le "Sale del Bramante" in Roma. Quotidiano "l'Unità" edizione 23 maggio 1990)



Giuseppe Fiaccavento
La vita professionale di Giancarlo Benedetti si è sempre dibattuta in una dicotomia dagli effetti contrastanti. Da una parte il funzionario di un istituto di credito, con una problematica peculiare, atipica e addirittura frustrante per un artista; dall'altra il pittore dalla complessa interiorità, che, forse, proprio per la pianificazione esistenziale, ha saputo mantenersi puro e indenne dalle tentazioni materialistiche di un mercato della facile collocazione.
La pittura del nostro è rimasta incontaminata ed estrinseca la articolata personalità di un artista alla costante ricerca di una realizzazione introspettiva policromatica.
La teorica programmazione temporale che ha guidato l'istinto del maestro, privilegia il disorganico collegamento interdisciplinare; quel generatore del flusso di colori, schemi, sovrapposizioni che, in una visione ricondotta ad unità, rappresenta in maniera articolata e non totalizzante i molteolici aspetti del suo animo.
Una sorta di gravezza che affiora in ogni sua opera, ove i tratti evidenziano ed esplicitano il coinvolgimento e l'appianamento delle discrepanze conflittuali.
La ricerca di una tonalità sempre viva, talvolta violenta ma difficilmente prevedibile, complementa il segno secondo un modulo di interdipendenza dei piani.
Come nella corposità della materia, a volte piena oppure quasi mancante, ove si individua il coinvolgimento del doppio spirito che con una congrua flessibilità delle strutture riconduce a sintesi la trasparenza di ogni atto/gesto decisionale.
L'attento ossservatore delle opere del nostro personaggio individuerà, o meglio crederà di individuare, l'armonica coesistenza di razionalità e fantasia, pittura e geometria, simbolismo e poesia, colore e anticolore. Su percentuali che varieranno a seconda degli stati d'animo contingenti. Sarebbe comunque un porre dei limiti, anche se soggettivi, ad una fase interpretativa che per un artista come Benedetti è sempre affidata ad un estro in perenne evoluzione estetica.

Dicembre 1993



Augusto Giordano
Caro maestro Benedetti,
complimenti per la sua arte che è filosofia, sono felice di aver visitato la sua mostra e devo dire che in ogni opera esiste una linea pittorica di alto livello e alta cultura il suo lavoro è profondo e vero, la sua arte è da storia.
Come cattolico le auguro ogni bene.Arrivederci.

Roma 1990



Giuseppe Fiaccavento
Nella nostra lunga militanza tra penne e pennelli, raramente ci siamo imbattuti in un artista di così variegato spessore; Giancarlo Benedetti appartiene a questa categoria di "eletti". Non nasce pittore in senso stretto della parola, bensì poeta del colore; interpreta con maestria le varie tappe della sua vita artistica: dal figurativo al tratto smembrato ed essenziale, dal paesaggio al "macchiaiolo", dal ritratto tradizionale a quello metafisico. La sua non è una continua ricerca interiore che affiora in atteggiamenti cromatici spesso bilanciati dal segno "travagliato", efficacissimo. La sua arte ha il fascino sottile che riesce sempre a catturare l'attenzione, e non solo quella, di chi si pone davanti ad un'opera del Nostro.

Roma 1990