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Renata Tacus

 

 

L’INTERPRETAZIONE DELLA FIGURA DEL CRISTO DALLA TEOLOGIA DEGLI INIZI FINO AL CONCILIO DI CALCEDONIA (451 d.C).

1. Introduzione

 

          Il presente lavoro, incentrato sull’interpretazione della figura del Cristo dagli inizi della speculazione teologica cristiana fino al Concilio di Calcedonia (451 d.C.) abbraccia un arco di tempo di circa due secoli, partendo dal III d.C.

          Tale ampiezza nell’impostazione cronologica si giustifica con il fatto che nello sviluppo della cristologia del V secolo sono insite premesse teologiche sviluppatesi molto tempo prima e oggetto di dibattito in diversi momenti storici.

          Si è quindi seguito il criterio, per eliminare ogni possibile confusione o dispersione, di dare una esposizione organica dal punto di vista storico e teologico, puntando in particolar modo l’attenzione sugli sviluppi della controversia trinitaria e cristologica e sulle decisioni dei concili.

 

 

2. Tertulliano

 

          La problematica teologica intorno alla figura del Cristo e alla corretta definizione dei rapporti intercorrenti tra Padre e Figlio è molto antica nella storia della Chiesa: in ambito latino i suoi inizi risalgono infatti all’apologista Tertulliano, scrittore africano di età precostantiniana (II-III secolo d.C.).

          Nei suoi scritti Tertulliano cerca di presentare ai pagani un’immagine autentica della religione cristiana, contrapponendo alle loro errate idee la verità e la rettitudine dell’insegnamento e della vita cristiana.

          Anche se nella sua opera non è possibile trovare una esposizione sistematica del pensiero teologico del primo cristianesimo, Tertulliano è per noi un autore di importanza fondamentale, poiché nella cristologia e nella dottrina trinitaria egli rappresenta un punto fermo da cui si dipartiranno i successivi sviluppi del dogma nell’occidente latino[1].

          Gesù Cristo è per lui vero Dio e vero uomo, le due nature, umana e divina, sono unite ma non mescolate in una sola persona. Oltre al termine persona, si trova presso Tertulliano, per la prima volta nella letteratura latina, l’espressione trinitas; in questa Trinità il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono unius substantiae et unius status et unius potestatis. Secondo Tertulliano il Lo/goj esisteva già come Padre prima della creazione del mondo, ma solo con la creazione divenne Figlio e quindi come tale non è eterno[2]. La relazione più precisa tra Padre e Figlio è interpretata in modo subordinazionista, in quanto mentre il Padre ha la pienezza della divinità, il Figlio ne ha soltanto una parte derivata.

          Anche lo Spirito Santo è concepito come persona: è l’autentico maestro della Chiesa, colui che prima ha infuso la verità negli apostoli, ma che poi agisce in ogni comunità cristiana come rappresentante di Dio e di Cristo, soprattutto mediante la Sacra Scrittura, che è opera sua e nella quale si può percepire la sua voce.

 

3. Rapporti tra Tertulliano e la formula cristologica di Calcedonia

         

          Docemus...unum eundemque Christum Filium Dominum unigenitum, in duabus naturis inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter agnoscendum, nusquam sublata naturarum differentia propter unitionem magisque salva proprietate utriusque naturae, et in unam personam atque subsistentiam concurrente...”[3].

          Questa definizione del Concilio di Calcedonia costituisce il punto d’arrivo di secoli di travaglio teologico. La sua importanza rimarrà decisiva nelle controversie successive e ancor oggi non ci si può occupare di cristologia senza riferirsi alla definizione di Calcedonia.

          Ma qual è l’origine di questa formula? In un articolo del 1966, Raniero Cantalamessa tenta di dare risposta al presente quesito esaminando attentamente le varie fonti[4].

          Nella celebre Epistula ad Flavianum di San Leone Magno (riconducibile come datazione alla metà del V secolo) si legge infatti: “Salva igitur proprietate utriusque naturae et in unam coeunte personam, suscepta est a maiestate humilitas...”[5]. Come si può notare, la formula centrale di Calcedonia, nel suo schema e nella sua terminologia, è stata desunta da questa lettera, poiché ritorna uguale l’assunto duae substantiae - una persona.

          Ma a quale fonte ha fatto riferimento a sua volta l’epistola di Papa Leone? Non a Tertulliano, come si riteneva erroneamente e come il Cantalamessa dimostra.

          Infatti, a proposito della formula duae substantiae, egli osserva che Tertulliano adopera per ben tre volte quest’espressione, ma che si serve pure di termini o formule equivalenti, quali utraque substantia, substantiae ambae, substantia humana, substantia divina, duplex status.

          Solo a partire da una sua opera cronologicamente più tardiva, il De carne Christi, si incontrano formule più concrete, quali caro, spiritus, Deus, homo, condicio humana, condicio divina.

          E’ possibile che Tertulliano sia arrivato a sviluppare, nel suo pensiero e nel suo vocabolario, la formula duae substantiae? Certamente si, anche se non si può escludere la possibilità che egli abbia mutuato quest’espressione da un autore del II secolo, Melitone di Sardi, che in un frammento trasmesso da Anastasio Sinaita designa in greco le due sostanze del Cristo come ta£j du/o au)tou= ou)si/aj [6]. Secondo la testimonianza di Anastasio, il frammento faceva parte del terzo libro di un’opera scritta da Melitone contro Marcione, il De incarnatione Christi, in greco  )En t%= peri£ sarkw/sewj Xristou= lo/g% tri/t%.

          Anche Tertulliano ha scritto un’opera contro Marcione intitolata De carne Christi (non De incarnatione dato che egli ignora il termine incarnatio, che apparirà nella lingua latina solo in età successiva). Ed è proprio nel De carne Christi che appare per la prima volta la formula duae substantiae: è difficile, secondo Cantalamessa, attribuire ciò al caso: si può ipotizzare piuttosto che Tertulliano abbia conosciuto il libro di Melitone, anche perché ciò è suffragato dall’attendibilità della testimonianza di S. Girolamo, che lo attesta in modo certo in un passo del De viris illustribus[7].

          Ma anche se Tertulliano non è l’ideatore della formula cristologica duae substantiae, è però grazie a lui che essa verrà conosciuta dagli autori latini e usata correntemente a partire da S. Agostino.

          L’altra formula presente nell’enunciato di Calcedonia e su cui dobbiamo appuntare la nostra attenzione per identificarne le fonti è una persona.

          Se prendiamo in considerazione ancora una volta l’Adversus Praxean di Tertulliano, troviamo usata in esso proprio questa formula per precisare la vera natura del Padre e del Figlio, vale a dire il “duplicem statum, non confusum sed coniunctum in una persona, Deum et hominem Iesum”[8].

          Il teologo Alois Grillmeier, riflettendo sul passo, afferma che si resta davvero stupiti nel constatare con quanta facilità Tertulliano arrivi a definire questa formula in un momento storico di gran lunga anteriore al Concilio di Calcedonia, e con quanta naturalezza egli riesca a fondere la concezione trinitaria con la dottrina dell’Incarnazione, argomento questo che sarà sempre ostico all’ambiente culturale greco, influenzato dal pensiero filosofico antico.

          Secondo Grillmeier[9], infatti, i sinodi di Nicea e Calcedonia e i concili di Efeso e di Costantinopoli I e II sono da secoli al centro di violente discussioni per aver accolto concetti e formule particolari nella loro proclamazione di fede, quali ad esempio o(mou/sioj=consustanziale, u(po/stasij=ipostasi, pro/swpon=persona, ou)si/a=natura, essenza[10].

4. L’apporto culturale di S. Agostino

         

          La formula tertullianea una persona non comparirà più in ambito letterario e teologico per almeno due secoli: sarà solo con i Padri della Chiesa, che per primi la reintrodurranno, che essa tornerà di attualità in occidente. Mentre S. Girolamo userà l’espressione in modo sporadico e in una accezione più generica[11], con S. Agostino ci troviamo invece in presenza di una applicazione cristologica del termine persona nel senso di quella che sarà la futura definizione di Calcedonia, cioè come ipostasi unica sussistente in due nature.

          Nel Sermone 294, 9, 9, Agostino afferma infatti: “Duae substantiae sed una persona; una persona est Christus Deus et homo; una persona in utraque natura”.[12] Il Cantalamessa, nel rilevare l’estrema chiarezza della formula agostiniana, si dichiara altresì convinto che in realtà Tertulliano non ha mai utilizzato l’espressione una persona come formula cristologica, ed è  proprio per questo motivo che dopo di lui essa scompare dall’uso comune in ambiente latino. Sarà S. Agostino a forgiarla di nuovo, con suo sforzo personale e per le sue esigenze di chiarimento di termini in ambito teologico. Sarebbero dunque in errore quei critici che ritengono che S. Agostino abbia ereditato la formula da Tertulliano, primo ideatore di essa.

 

 

5. I reali significati della formula tertullianea

         

          Per comprovare questa sua affermazione, Cantalamessa riprende in esame il passo tertullianeo dell’Adversus Praxean: “Videmus duplicem statum non confusum, sed coniunctum in una persona deum et hominem Iesum”. L’accusativo Deum et hominem Iesum non può riferirsi all’ablativo in una persona, altrimenti si violerebbe la sintassi, che richiede invece la concordanza dell’apposizione col sostantivo a cui essa si riferisce.

          Deum et hominem Iesum vanno riferiti, secondo sintassi, a duplicem statum, e vale come apposizione l’espressione non confusum, sed coniunctum, che a sua volta si riferisce a duplicem statum.

          Tenendo conto di queste precisazioni, il senso della traduzione, secondo Cantalamessa risulta allora tale: “Vediamo due sostanze, non confuse, ma congiunte nella stessa persona, e che sono Dio e l’uomo Gesù”.

          Anche se Tertulliano distingue due nature nel Cristo e due persone nella Trinità, non prendendo ancora in considerazione lo Spirito Santo, egli in realtà vuole affermare che la divinità e l’umanità - cioè il Cristo e Gesù - non sono da ripartire tra Padre e Figlio, cioè tra due persone, ma sono invece due sostanze riunite nella stessa persona, quella del Figlio.

          Ecco dunque svelato il reale significato dell’espressione duplex status in una persona: due sostanze in una sola persona della Trinità, non posta ciascuna in una persona differente della Trinità stessa. Con ciò si può concludere che Tertulliano adopera nell’Adversus Praxean la formula in una persona in senso più trinitario che cristologico, ma comunque sempre nella linea della futura definizione di Calcedonia.

 

6. Prospettiva trinitaria e prospettiva cristologica in Tertulliano

         

          A questo punto la prospettiva trinitaria e quella cristologica potrebbero apparire a prima vista identiche. Ciò dipende dal fatto che Trinità e Incarnazione sono due misteri intimamente legati tra di loro, come appare evidente in Tertulliano, che però lascia il concetto di persona fermo al punto in cui lo riprenderà S. Agostino, cioè all’ambito esclusivamente trinitario.

          La lunga elaborazione ed il travaglio di riflessione che sono stati necessari ad Agostino per pervenire, partendo dall’accezione trinitaria di persona, all’accezione cristologica, rende ben chiara la distanza che separa le due prospettive.

          La seconda accezione del termine presuppone infatti che sia già stato posto e risolto il problema di decidere se la natura umana del Cristo costituisca o no una persona. E questo problema non si era ancora posto all’epoca di Tertulliano.

          Da quanto è stato finora esposto scaturiscono, secondo il Cantalamessa, due conclusioni importanti per la storia del dogma cristologico:

          1) che in Occidente il vero autore della formula cristologica una persona in duabus naturis, nel senso che ad essa darà il Concilio di Calcedonia, non è stato Tertulliano ma S. Agostino;

          2) che i Latini non sono arrivati alla formula una persona due secoli prima dei Greci, come si crede comunemente, ma all’incirca alla stessa epoca, l’inizio del V secolo.

 

7. La figura del Cristo nell’ambiente culturale greco dei secoli III e IV: le scuole di Alessandria e di Antiochia

 

          In ambiente greco già a partire dal III secolo il problema dei rapporti tra Padre e Figlio era stato discusso dai teologi, nell’ambito del dibattito filosofico-teologico sviluppatosi all’interno della scuole di Alessandria d’Egitto e di Antiochia.

          I termini teologici e le formulazioni utilizzate aprono definitivamente la strada al successivo sviluppo della contesa ariana. Infatti il più famoso dei maestri alessandrini, Origene, affronta il problema trinitario secondo un’ottica subordinazionista: soltanto il Padre è o( qeo/j o( au)toqeo/j, il Lo/goj (Cristo), pur possedendo anch’esso la natura divina, nei confronti del Padre è un deu/teroj qeo/j, un secondo dio. Tuttavia per Origene il Lo/goj è eterno ed o(mou/sioj, cioè della stessa sostanza del Padre. Con queste affermazioni egli è già sulla strada che conduce al Concilio di Nicea. Nella cristologia vera e propria egli trova formulazioni precorritrici: l’unione delle due nature in Cristo è talmente stretta che se ne può dedurre la comunicazione degli idiomi; il termine uomo-dio (qea/nqrwpoj) lo troviamo per la prima volta nei suoi scritti[13].

          Anche la scuola teologica di Antiochia si cimentò su questioni attinenti alla natura del Cristo. Intorno all’anno 260 il vescovo antiocheno Paolo di Samosata dichiarò che l’espressione biblica “Figlio di Dio” indicava soltanto l’uomo Gesù nato dalla Vergine Maria in cui il Lo/goj  era entrato ad abitare: all’uomo Gesù egli comunque lasciava l’appellativo di Dio perché in Lui era presente la sapienza divina, pressapoco come lo è nei santi e nei profeti, che sono partecipi, del tutto o parzialmente, dell’assistenza di Dio.

          In seguito a queste sue formulazioni, nel secondo sinodo di Antiochia (anno 268) si discusse molto sull’espressione o(mou/sioj, e si criticò l’uso fattone da Paolo, senza tuttavia pronunziarne un’esplicita condanna.

          Risulta evidente, dal dibattito qui riassunto sulla terminologia, che nel III secolo il termine o(mou/sioj non era ancora chiarito al punto di poter essere usato senza pericolo di equivoci nelle asserzioni teologiche sulla Trinità, e che non esisteva ancora una terminologia esatta per la formulazione dogmatica[14].

 

8. L’ellenizzazione del cristianesimo e le dispute filosofico-teologiche: l’arianesimo    

 

          Fin dai suoi inizi la comunità ecclesiale fu travagliata da una controversia religiosa riguardante la figura del suo fondatore, Cristo: la Chiesa primitiva lo adorava come suo Signore (Ku/rioj) e lo collocava al fianco di Dio, del quale Egli si era testimoniato Figlio. Essa conferiva il battesimo secondo il mandato di Gesù, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: come potevano conciliarsi la fede nel Ku/rioj e la formula tripartita del battesimo col pensiero rigidamente monoteistico che il cristianesimo aveva assunto dal giudaismo?

          Quando alla fine del II secolo la speculazione teologica si mise irresistibilmente in moto, si rivolse a questo mistero. Viene posta spesso, tra i teologi contemporanei, la questione dell’ellenizzazione del cristianesimo, cioè dell’influenza che la speculazione filosofica greca ebbe sul pensiero cristiano[15]; questa influenza è innegabile, tanto più che fu proprio un pensiero d’impronta greca quello che suggerì all’intelligenza umana la soluzione per uscire da questo dilemma: l’idea del Lo/goj e dell’artefice del mondo (Demiurgo), concepito come il più alto di tutta una scala di esseri intermedi tra Dio e uomo.

          Sulla scia di questa concezione greca i teologi del III secolo o spiegavano come modi di apparizione di un unico Dio le tre persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (modalismo) o subordinavano il Figlio al Padre (subordinazionismo).

          Il prete alessandrino Ario elaborò ulteriormente questa idea, che aveva recepito dal suo maestro, Luciano di Antiochia: “Il figlio di Dio è creato dal nulla, ci fu un tempo in cui egli non era, è in grado di accogliere il male e il bene secondo il suo libero arbitrio ed è prodotto e creatura”.

          Quindi il Lo/goj, secondo Ario, è una “creatura” del Padre ed è perciò privo dell’attributo dell’eternità[16].

          Poiché Ario era uno scrittore di talento e un religioso dotato di una personalità capace di grande forza d’attrazione e di proselitismo, ben presto radunò attorno a sè un tale numero di seguaci da sollevare un vero e proprio conflitto teologico nell’Oriente cristiano: tale disputa ebbe la sua risoluzione nel Concilio di Nicea.

 

 

9. Il Concilio di Nicea

 

          Il Concilio di Nicea fu così denominato perché tenne le sue sedute - dal 20 maggio al 25 luglio del 325 - in una sala del palazzo imperiale estivo di questa città.

          Dopo lunghe discussioni e scontri verbali tra Ario e i suoi seguaci da una parte e i sostenitori dell’ortodossia dall’altra[17], si giunse infine ad un accordo.

          Dapprima sollevò lunghi dibattiti l’accettazione del vocabolo o(mou/sioj (consustanziale), che risultava inammissibile per i vescovi di fede ariana, ma che era assai ben accetto ai rappresentanti della chiesa latina, perché corrispondeva esattamente alla locuzione eiusdem substantiae, ben conosciuta in Occidente da Tertulliano in poi.

          Le espressioni e le formule accolte nel testo definitivo del simbolo niceno escludono con espressioni inequivocabili ogni subordinazione del Lo/goj  al Padre: egli è nato “dalla stessa essenza del Padre”, è “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato e non creato, consustanziale (o(mou/sioj) al Padre”. Quanto sopra esposto metteva al riparo da ogni interpretazione di stampo ariano le proposizioni sul Cristo.

          Il paragrafo finale conteneva poi un ulteriore esplicito rifiuto della teologia ariana: “E coloro che dicono ‘c’era un tempo in cui egli non era’ o ‘non era prima di essere generato’ e ‘fu fatto dal nulla’ o quelli che sostengono che il Figlio di Dio fu fatto da un’altra sostanza (u(po/stasij), o da un’altra essenza (ou)si/a), o che egli fu creato mutabile o variabile, costoro sono esclusi dalla chiesa cattolica e apostolica”.

          Il Concilio di Nicea con la sua risoluzione di fede rappresenta un avvenimento di importanza capitale nella storia dei concili e nella storia della Chiesa: è infatti il primo vero concilio a carattere ecumenico che, con l’elaborazione e la proclamazione del suo simbolo - il Credo niceno - prende una decisione in materia di fede che ha il carattere di definizione dogmatica.

          Manifesta l’esigenza di pronunciare su una discussa questione di fede una sentenza definitiva e vincolante per tutta la Chiesa, e lo fa fissando, davanti ad interpretazioni errate o posizioni eretiche, singoli precetti di fede, integrando e chiarendo le proposizioni di fede fino ad allora accettate con formulazioni più precise e ricorrendo, quando è il caso, anche a termini desunti dal linguaggio filosofico.

          Il valore di queste decisioni fu tale che l’imperatore Costantino, in una lettera indirizzata alla comunità di Alessandria, cogliendo il senso teologico del lavoro compiuto a Nicea, poté affermare: “Ciò che hanno deciso trecento vescovi non è altro che la decisione di Dio, in quanto lo Spirito Santo presente in questi uomini ha loro manifestato il volere di Dio stesso”.

 

 

 

 

10. La cristologia negli anni successivi a Nicea

 

          Il Concilio ecumenico di Nicea non portò la pace auspicata, ma segnò invece l’inizio di acerrime lotte religiose, che durarono circa mezzo secolo e coinvolsero tutta la Chiesa.

          La contesa tra esponenti orientali ed occidentali si incentrò sul termine o(mou/sioj, consustanziale, che gli orientali volevano eliminare dalla formula nicena, proponendo di sostituirlo con formule di compromesso che dichiarassero il Figlio “simile” o “in tutto simile” o “di sostanza simile” al Padre. E’ evidente che si tendeva, da parte orientale, a voler disconoscere il fatto che il Figlio è della stessa sostanza del Padre, favorendo così una nuova rinascita dell’arianesimo.

          A questi conflitti teologici presero parte, in alcuni momenti, anche gli imperatori, caricando di valenze politiche un dibattito che, fino a quel momento, aveva riguardato il solo ambito religioso. L’imperatore Costanzo, ad esempio, minacciò di esiliare tutti i vescovi che si fossero rifiutati di sottoscrivere la formula “Padre e Figlio sono simili secondo la Sacra Scrittura”.

          Questo atto fece sì che S. Girolamo, commentandolo, affermasse: “Il mondo gemette e notò con stupore di essere diventato ariano”.

          In tutti questi contrasti non era ormai più in primo piano la questione della retta fede, bensì la lotta per il riconoscimento o la condanna dei vescovi per le idee che professavano. Ed è alla luce di questo aspetto che vanno considerati i successivi sviluppi.

 

 

11. Il Concilio di Costantinopoli

 

          Negli anni seguenti i conflitti teologici tra le varie fazioni, dopo un lungo periodo di tensione, sembrarono in parte appianarsi; pertanto l’imperatore Teodosio, una volta salito al trono, concepì il piano di eliminare i contrasti ancora esistenti e di suggellare la pace mediante un nuovo concilio imperiale, che si aprì a Costantinopoli nel maggio del 381.

          Fu in questa occasione che si chiarì teologicamente un aspetto determinante della confessione trinitaria: la divinità dello Spirito Santo, che gli ariani avevano sempre confutato, interpretando lo Spirito come creatura del Figlio.

          I vescovi riuniti a Costantinopoli elaborarono un simbolo (il cosiddetto niceno-costantinopolitano) che apportò delle aggiunte al Credo niceno. Mentre le aggiunte apportate ai primi due articoli “creatore del cielo e della terra - nato prima di tutti i secoli - incarnato nel grembo di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo - crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato - siede alla destra del Padre - il suo regno non avrà fine” si trovano già precedentemente disposte in altre formule o testi e non rappresentano quindi una nuova creazione dei padri di Costantinopoli, le dichiarazioni più importanti sono nel terzo articolo, tutto incentrato sullo Spirito Santo.

          Mentre il niceno diceva semplicemente “Noi crediamo nello Spirito Santo”, il costantinopoliano aggiunge “che è signore e dà la vita, procede dal Padre, che col Padre e col Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti”. Con la professione dell’essere Signore (Ku/rioj) viene attribuito carattere divino, come al Padre e al Figlio, anche allo Spirito Santo. Con la formula “procede dal Padre” si confuta energicamente la tesi che lo Spirito Santo sia una sostanza creata dal Figlio, come volevano alcuni. Con la frase “che col Padre e col Figlio è adorato e glorificato” si attesta fermamente la divinità dello Spirito Santo.

          Il Concilio dell’anno 381 portò dunque a conclusione in maniera efficace la lunga discussione sulla Trinità, eliminando definitivamente ogni pericolo di arianesimo e favorendo così la definitiva affermazione della teologia nicena.

         

 

12. Il problema cristologico nel IV secolo

 

          Nel IV secolo il problema trinitario aveva tanto assorbito le energie dei teologi e della Chiesa che una seconda importantissima questione, riguardante la retta comprensione dell’unità della divinità e dell’umanità in Cristo, finì per rimanere all’inizio in secondo piano.

          E’ pur vero che questo problema cristologico era già stato avvertito in tutta la sua portata da teologi anteriori all’età di Costantino, come ad esempio Origene, ma non si era ancora giunti a tentare una soluzione globale. Fu per prima la teologia ariana che si confrontò con la questione cristologica e giunse ad affermare alcuni aspetti:

          1) Nell’incarnazione il Lo/goj ha assunto soltanto la carne dell’uomo, ma non un’anima umana, perché in questo il Lo/goj sostituisce perfettamente l’anima umana.

          2) Il Figlio è una “creatura” i cui tratti umani descritti dai Vangeli (Gesù afflitto, Gesù abbandonato dal Padre) vanno ascritti al Lo/goj; quest’ultimo non si sarebbe fatto propriamente uomo se non lui ma l’anima umana fosse stata portatrice di queste imperfezioni.

          3) L’unità del Verbo con la carne che egli ha assunto è tanto stretta quanto l’unità dell’anima col corpo, così nel Lo/goj fatto carne è presente in sostanza una sola natura.

          Questa cristologia ariana prelude già a quella che sarà poi l’eresia monofisita (= una sola natura in Cristo, quella divina).

          Per meglio comprendere il clima culturale dell’epoca, va precisato che il fatto che in questo momento il pensiero teologico si volgesse al mistero della persona del Cristo non è la conseguenza di un processo logico, ma di un contrasto da lungo tempo esistente tra due scuole teologiche famose, l’alessandrina e l’antiochena.

          La scuola di Alessandria incentrava la sua cristologia sul concetto Lo/gojSa/rc (incarnazione), quella di Antiochia sul concetto Lo/goj - )/Antrwpoj (umanità). Mentre gli alessandrini tendevano ad accentuare l’unità di Dio e uomo, affermando che “non l’uomo è diventato Dio, ma Dio è diventato uomo al fine di divinizzarci”, gli antiocheni, ponendo in rilievo la distinzione della divinità e dell’umanità in Cristo, asserivano che “il Lo/goj abita nell’uomo Gesù come in un tempio[18].

          I precedenti concili (Nicea e Costantinopoli) avevano interpretato nel modo seguente il contenuto del kh/rigma neotestamentario: il Figlio eterno di Dio, della stessa essenza del Padre, è diventato uomo nel tempo per la nostra salvezza. Affermata con chiarezza una natura divina nel Cristo, si era posto il problema del rapporto fra questa e la sua umanità, le sue sofferenze, la sua morte. Sulla soluzione si erano venuti a formare tre orientamenti:          

1)  Gesù come Lo/goj - Verbo ha assunto (come si legge nel Vangelo) la natura umana, realizzando nell’unità della sua persona storica la coesistenza delle due nature;

2)  il testo evangelico ha un valore allegorico e l’umanità del Gesù storico è stata una pura parvenza assunta per compiere la sua missione, dal Lo/goj , che avrebbe perciò mantenuto una sola natura;

3)  in Gesù non sono solo coesistite due nature, ma anche due distinte persone, una umana e una divina.

          Queste diversità così profonde nell’interpretazione della figura del Cristo erano state provocate dai contrasti sempre più netti tra la scuola esegetica di Alessandria, favorevole ad una lettura allegorica della Bibbia - ispirata all’insegnamento platonico  sul carattere simbolico di ogni rappresentazione o descrizione della realtà - e quella di Antiochia che preferiva una lettura rigorosamente letterale. A quest’ultima si ispirò Nestorio, vescovo di Costantinopoli, sostenitore della doppia natura e della doppia persona del Cristo (nestorianesimo).

 

 

 

 

 

 

13. L’ascesa del monofisismo

 

          Ulteriori contese teologiche furono portate avanti contro Nestorio da S. Cirillo, che affrontava in modo diverso il problema cristologico[19].

          In polemica con la posizione assunta da Nestorio sulle due nature e persone del Cristo, Cirillo sostenne una rigorosa dottrina dell’Incarnazione espressa nell’attribuzione a Gesù di una eccezionale realtà “teandrica” (cioè sia umana che divina) in cui le due nature si compenetrano nell’unità della persona. Contro Nestorio che considerava la Madonna come madre di Cristo uomo ( )Antrwpoto/koj), Cirillo affermò nel Concilio di Efeso del 431 che l’unico e lo stesso Figlio di Dio dall’eternità è diventato uomo nel tempo, e che pertanto Maria può a ragione essere chiamata Madre di Dio (Qeoto/koj). Questa formula di fede, approvata dal Concilio, condannò definitivamente l’eresia nestoriana e sancì, dopo tante incomprensioni, il riavvicinamento delle scuole alessandrina ed antiochena, favorito dall’imperatore Teodosio II che, al termine del concilio efesino, si congratulò personalmente con i vescovi Cirillo e Giovanni, esponenti di spicco delle due tendenze. La formula di unione, approvata da Cirillo, affermò dunque la distinzione della divinità e dell’umanità nell’unità di entrambe le nature.

          Negli anni seguenti le polemiche cristologiche, seppur parzialmente sopite a causa della avvenuta pacificazione tra alessandrini, antiocheni e costantinopolitani, cominciarono ben presto ad essere rinfocolate. Quando nel 446 ebbe inizio una nuova fase della discussione sul problema della natura del Cristo, alcune personalità guida del periodo precedente erano ormai scomparse: ad Antiochia il vescovo Domno era succeduto allo zio Giovanni, morto nel 442; ad Alessandria Dioscoro aveva preso il posto di Cirillo, deceduto nel 444; Flaviano infine era divenuto vescovo di Costantinopoli nel 446.

          E fu proprio a Costantinopoli che ebbe origine una nuova eresia cristologica, il monofisismo, che si diffuse in modo tale da minacciare l’unità della Chiesa così faticosamente raggiunta, per cui si rese necessaria la convocazione del Concilio di Calcedonia del 451.

          La diversità delle nature nell’unità della persona del Cristo venne contestata dall’abate costantinopolitano Eutiche.

          Questi, archimandrita di un monastero di Costantinopoli e zelante antinestoriano, partendo dal problema di stabilire se Cristo era costituito di due nature prima dell’incarnazione ovvero se dopo l’incarnazione esisteva in una realtà composta di due nature, sostenne l’opinione che dopo l’unione della natura divina con l’umana in Cristo, quest’ultima fosse stata assorbita dalla prima, per cui si poteva parlare soltanto di una natura, vale a dire di quella divina. A suffragio di questa tesi Eutiche spiegava che l’umanità di Cristo si immergeva nella divinità come una goccia d’acqua cade nel mare.

          Il monofisismo, così fu chiamata quest’eresia, menomava l’umanità del Signore, che è condizione necessaria alla redenzione. Eutiche infatti dichiarava: “Io professo che Nostro Signore prima dell’unione consisteva di due nature, ma dopo l’unione professo una sola natura”[20].

          L’eresia monofisita poté avere rapida diffusione sia perché Eutiche aveva grande seguito tra i monaci costantinopolitani, sia perché egli era appoggiato dal potente ministro imperiale Crisafio, che era suo figlioccio.

          Un primo attacco al monofisismo fu portato da un esponente della scuola antiochena, Teodoreto di Ciro, il quale in un trattato intitolato  )Eranisth/j (Il Mendicante), confutando la ben nota teoria di Eutiche secondo la quale umanità e divinità formano in Cristo una sola natura perché la natura divina ha accolto quella umana così come il mare accoglie in sé una goccia d’acqua, sostenne la “inconfusione” delle due nature nella loro unione, la “immutabilità” della natura divina e la sua “impassibilità”, portando a proprio sostegno una serie di citazioni tratte da testi patristici. L’opera suscitò reazioni nell’ambito ecclesiale: l’alessandrino Dioscoro chiese ripetutamente al vescovo Domno di destituire Teodoreto, ma invano.

 

14. Prodromi del Concilio di Calcedonia: il cosiddetto “brigantaggio di Efeso”

 

          Flaviano, patriarca di Costantinopoli, per la sua natura aliena dai contrasti aveva evitato in un primo tempo di prendere posizione; nel novembre del 448 però, Eutiche, deposto dalla sua carica dal sinodo permanente di Costantinopoli, sollevò una protesta tale da ottenere, insieme ad un’ampia eco nell’ambito ecclesiastico, anche il favore dell’imperatore tramite l’opera persuasiva di Crisafio, che riuscì a convincere il sovrano della necessità di convocare un nuovo concilio allo scopo di riabilitare Eutiche.

          E fu a questo punto, nella precarietà di tale situazione, che il vescovo Flaviano intervenne presso papa Leone Magno per ostacolare il progetto imperiale, ma invano: un decreto dell’imperatore del 30 marzo 449 fissava al 1 agosto di quello stesso anno l’apertura di un concilio ad Efeso.

          Dalla partecipazione a detto concilio fu escluso Teodoreto, il maggiore oppositore in campo teologico della tesi monofisita, gradita invece a parte dei vescovi e all’imperatore stesso.

          Papa Leone Magno, ai cui legati venne negata la presidenza del concilio, espresse la posizione di Roma sul problema con la grande Epistula dogmatica ad Flavianum[21], in cui Gesù Cristo viene denominato “unico ed identico Figlio”, sia all’inizio che alla fine del testo. All’interno dell’unità veniva considerata la distinzione fra le due nature, che per papa Leone restano non mescolate né confuse, indivise e separate: Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo in una persona ed ipostasi.

          A causa delle potenti pressioni imperiali e degli intrighi del vescovo Dioscoro l’epistola chiarificatrice non poté essere letta dinanzi al concilio, ed Eutiche venne così riabilitato. Flaviano protestò contro le procedure sinodali, ma fu destituito insieme ad altri vescovi occidentali che avevano osato opporsi. Papa Leone, quando ricevette la relazione del proprio legato Ilaro sullo svolgimento del sinodo imperiale, coniò per esso la designazione di “latrocinium”. Ed è per questo che esso è entrato nella storia col nome di “latrocinio di Efeso”.

 

 

15. Il Concilio di Calcedonia

 

          Il 13 ottobre del 449 Leone I, anche a nome dei vescovi occidentali, presentò all’imperatore istanza di convocazione di un nuovo concilio in Italia. Per ben due volte il pontefice rinnovò la domanda, ma senza successo. Fu il successore di Teodosio II, Marciano, ad accondiscendere alla richiesta e il 17 maggio del 451 convocò un nuovo concilio non in Italia, ma a Nicea; ancor prima dell’apertura, però, decise di trasferirlo a Calcedonia sul Bosforo, località che fu prescelta per la sua vicinanza alla capitale. Il quarto concilio ecumenico di Calcedonia, anche se formalmente convocato dall’imperatore, fu in realtà opera di S. Leone Magno. Fu il concilio che per numero di partecipanti - circa 350 - sorpassò tutte le assemblee precedenti. L’occidente latino era rappresentato da papa Leone I e da cinque legati pontifici che presiedettero il sinodo.

          Fin dalla prima seduta vennero rimesse in discussione le scorrette procedure di Efeso, ed il vescovo Dioscoro, organizzatore del “brigantaggio”, fu condannato dal concilio e privato della dignità sacerdotale. I monaci costantinopolitani, fautori del monofisismo, furono minacciati di scomunica.

          Eliminati i contrasti, il concilio passò finalmente ad occuparsi del tema teologico per il quale era stato convocato: il problema delle due nature del Cristo. L’imperatore desiderava che dal sinodo uscisse una nuova formula di fede; i padri conciliari erano invece più inclini a considerare esaurienti le professioni del simbolo niceno, di quello di Costantinopoli e delle lettere di Cirillo a Nestorio. Si rilessero tutti questi documenti e, per ultima, l’Epistola di Leone Magno, a proposito della quale i vescovi affermarono: “Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli Apostoli. Così crediamo noi tutti. Attraverso Leone ha parlato Pietro”.

          L’imperatore però insistette nella sua richiesta di elaborare un nuovo simbolo di fede: il concilio dunque affidò a ventitré vescovi l’incarico di procedere alla definizione di esso. Dopo tre soli giorni venne presentato il simbolo definitivo di Calcedonia, che fu approvato anche dai legati romani, perché in esso si era tenuto ampio conto dell’Epistula dogmatica di Leone I. Così il concilio poté proclamare il decreto di fede alla sua sesta seduta, alla presenza dell’imperatore. Nel suo discorso quest’ultimo affermò di avere convocato il concilio per “rafforzare la fede” ed invitò l’assemblea ad approvare la formula appena elaborata. Ottenuta la piena approvazione dei vescovi, li ringraziò per avere contribuito con la loro opera a ristabilire l’unità della fede in Cristo.

          Così il concilio, oltre a rinnovare la vera fede in Gesù Cristo uomo e Dio, servì a ricostituire l’unità della Chiesa in oriente e in occidente[22]. Il simbolo di fede elaborato dai vescovi recita infatti:

          “Noi seguiamo dunque i santi padri e insegniamo concordi che il Figlio nostro Signore Gesù Cristo, è uno e medesimo. Questi è perfetto nella sua divinità e nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, composto di un’anima razionale e di un corpo.

          Egli è uno e medesimo, è della stessa sostanza del Padre secondo la divinità ed è della nostra stessa sostanza secondo l’umanità, si è fatto in tutto simile a noi eccetto che nel peccato. Nato dal Padre prima di ogni tempo rispetto alla divinità, per noi e per la nostra salvezza nacque da Maria vergine e madre di Dio rispetto alla umanità. Noi crediamo un solo e medesimo Cristo, Figlio e Signore, unigenito, in due nature, senza confusione o cambiamento, senza divisione né separazione.

          Ma la differenza delle nature non è mai cancellata dalla loro unione, anzi ciascuna di esse conserva la sua proprietà, concorrendo entrambe a costituire una sola persona o ipostasi.

          Noi non lo crediamo uno in due nature separate e distinte, ma un solo e medesimo Figlio, il Verbo divino, nostro Signore Gesù Cristo”.

          Già dalle prime parole è chiaro il principio da cui gli autori del simbolo si sono fatti guidare: fondamento della loro dichiarazione è la tradizione così come è presentata nella Bibbia, nei simboli di Nicea e Costantinopoli e nei decreti di Efeso; non si vuole dunque far ricorso a nessuna nuova formula rivoluzionaria che possa toccare la sostanza di questa tradizione anche solo nelle cose minime.

          Qui si presentano i termini di natura, ipostasi, persona, ma tanto chiariti ormai dalla discussione che potevano essere usati per una dichiarazione di fede ora necessaria perché andavano respinti entrambi i pericoli che negli ultimi tempi avevano minacciato assai gravemente il dogma della persona di Cristo: nestorianesimo e monofisismo.

          E al monofisismo ci si riferisce nel passaggio relativo alle “due nature inconfuse e immutate”, al nestorianesimo nell’“indivise e inseparabili”. 

          Poiché i più importanti centri della vita ecclesiastica del tempo avevano contribuito a questa decisione conciliare, tanto più facilmente essa poteva valere come espressione del credo di tutta la Chiesa. Il simbolo di Calcedonia perciò, nella fedeltà di principio alla tradizione esprime il dogma cristologico in una forma aderente alle esigenze del suo tempo.

          Infatti, comprendendo Cristo come “una ipostasi, una persona in due nature”, “l’unico e medesimo, veramente Dio e veramente uomo”, il concilio di Calcedonia del 451 ha distaccato l’idea di ipostasi (persona) dall’idea di fu/sij (natura).

          C’era dunque, secondo una tendenza già affermatasi nel IV secolo, la possibilità di accettare un’unità di essere di Dio e Cristo senza dover risalire alla simbiosi delle nature. In Cristo c’è un soggetto, un portatore dell’essere divino e umano, il Lo/goj, il Figlio del Padre. L’appropriazione di questa umanità non avviene a spese di questo essere umano, bensì attraverso qualcosa che Calcedonia stessa non menziona, e a cui tuttavia ha già accennato la tradizione precedente: la possibilità di Dio di disporre, in quanto creatore, dell’esistenza umana, che diventa così esistenza del Figlio di Dio nel mondo.

          In tempi più antichi Tertulliano aveva sentenziato: “Dio può trasformarsi in ogni cosa o restare uguale a se stesso”[23]. Aveva così affermato qualcosa di essenziale: Dio può essere “se stesso” per il suo potere di disporre di ogni essere, cioè può dare al proprio Figlio un’esistenza umana nel nostro mondo ed essere fra noi pur restando perfettamente trascendente.

          Ed è proprio per il fatto che l’esistenza umana di Cristo diventa esistenza del Lo/goj e Figlio nel mondo che l’essere umano raggiunge il suo punto più alto. Quanto più divinità e umanità permangono in Cristo come esse sono per natura, tanto più si illumina il mistero dell’unione di Dio e uomo.

 

 

 

15. Attualità di Calcedonia e conclusioni

 

          Il dogma di Calcedonia si fonda sul principio della tradizione vivente. Non è il risultato della speculazione di un singolo teologo, di monaci o di vescovi, ma va considerato come sviluppo interpretativo della fede comune della Chiesa, nella formulazione comune stabilita dalla confessione niceno‑costantinopolitana - fondamentale per tutti gli sviluppi successivi - che a sua volta è una interpretazione compiuta e vincolante della Sacra Scrittura.

          Le controversie sorte prima e dopo il Concilio dimostravano che occorreva sviluppare questa interpretazione per mantenere una retta tradizione che non fosse esposta a fraintendimenti o incomprensioni. Il Concilio dunque si riconosce nel principio della tradizione vivente, per il quale tradizione ed interpretazione costituiscono tra loro unità.

          Ciò significa che lo stesso Concilio di Calcedonia non è solo un punto d’arrivo, ma l’inizio di ulteriori approfondimenti. Infatti l’ortodossia non è una posizione immobile, ma un cammino che viene percorso insieme con la Chiesa.

          Il grande merito del Concilio di Calcedonia è stato quello di aver affermato lo scandalo del Lo/goj sa/rc e)ge/neto (et Verbum caro factum est) contro ogni tendenza unilaterale di tipo ellenistico di risolvere tutto nella divinità, e di aver conservato tutto il suo valore all’umanità e alla storicità di Gesù. Secondo l’opinione della teologia contemporanea questo è un argomento veramente scottante, perché esprime lo scandalo originario dell’annuncio cristiano: cfr., ad esempio, S. Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 1, 22-24: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, preghiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio”, e il Vangelo di Giovanni, 10, 33, nel passo in cui i Giudei rispondono a Gesù che aveva chiesto loro per quale motivo volessero lapidarlo, avendo egli compiuto molte opere buone in loro favore: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”.

          Le testimonianze di cui sopra ci presentano il Cristo che mette a confronto gli uomini con l’umanità autentica di cui è egli stesso portatore. Questa carica di umanità che lo induce a dare senso anche alla sofferenza e alla morte, nel denunciare i limiti di ogni barriera psicologica e sociale, fa di lui un uomo “normativo”, simbolo e concretizzazione storica di quello che l’uomo odierno deve e può essere, dando nuovo significato a quei valori che danno vigore alla vita, alla libertà, al rapporto tra Dio e gli uomini[24].

          Non va dimenticato, inoltre, che l’uomo porta in sé il sigillo della Trinità, di cui riflette il mistero profondo non solo nel suo costitutivo essenziale dell’unità nella molteplicità, ma anche nella sua elevazione all’origine soprannaturale, cui rimandano le parole che Gesù pronuncia durante l’Ultima Cena e che vengono riferite dal Vangelo di Giovanni, 17, 21: “Che siano tutti una sola cosa, come tu, Padre, sei in me e io in te”[25].

          La confessione espressa dal Concilio, dunque, fa riferimento al mistero di Cristo vero Dio e vero uomo, nell’unità di una sola persona, quale ci viene testimoniato dalla Sacra Scrittura. E in forma di dogma ce ne ripropone il kh/rigma: “Ed il Verbo si fece carne” (Giovanni, 1,14). Da queste parole traspare, nella sua essenzialità, il senso ultimo del messaggio cristiano: solo partendo dalla realizzazione del principio umano –divino- in Gesù Cristo si può arrivare a poter considerare nella sua pienezza il reale significato dell’esistere umano, che si rispecchia nel mistero che si rivela nella Parola fatta carne.

          Nonostante le conclusioni raggiunte e i chiarimenti di ordine filosofico-teologico forniti dal Concilio di Calcedonia, nonché la ricchezza e la profondità del dibattito culturale e religioso sempre vivo nel tempo intorno a questo argomento, oggi l’assunto calcedonese non viene più compreso nella sua interezza e può costituire per l’uomo moderno una speculazione incomprensibile e priva di rilevanza.

          Se infatti l’orientamento preponderante del pensiero filosofico contemporaneo è quello non di porre l’accento sulla divinità del Cristo quanto piuttosto di tendere ad una sua riduzione a misura puramente umana, ci si può chiedere come sia possibile, con le categorie odierne, pensare all’unità di uomo e Dio.

          A questo interrogativo risponde, illuminante, la costituzione conciliare Gaudium et spes: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. [...] Cristo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. [...] Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche per conto di noi innalzata a una dignità sublime”[26].

          Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la forza d’ogni amore, la pienezza delle loro aspirazioni. [...] Nel suo spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore:  “Ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra”[27].

          Queste parole vogliono significare che chiunque segue Cristo, l’Uomo perfetto, si fa lui pure più uomo. Ciò corrisponde alla legge fondamentale dell’economia cristiana. Se Dio stesso è creatore e redentore, signore della storia profana e della storia della salvezza, proprio in questo ordinamento divino la giusta autonomia della creazione, e in particolare dell’uomo, non solo non è abolita, ma anzi è restituita alla sua dignità e consolidata in essa.

          E’ possibile allora proporre una nuova lettura del dogma di Calcedonia, partendo dalla nozione, in esso contenuta del concetto di “persona”. La persona umana da un lato esiste in sé e per sé in maniera irripetibile, dall’altro è aperta a tutte le espressioni della realtà. Questa apertura indeterminata è all’origine di una ricerca inquieta e senza posa da parte dell’uomo che, essendo proiettato verso l’infinito, non può trovare appagamento definitivo in nessuna realtà finita. Solo nell’incontro con Dio, pienezza di ogni realtà, l’apertura indeterminata dell’uomo può trovare identificazione, appagamento, perfezione. Alla ricerca dell’uomo, che si muove dal basso, viene incontro una risposta dall’alto, perché è solo da Dio che la vita dell’uomo può ricevere il suo significato più vero[28].

          In conclusione, la questione sottesa al dogma di Calcedonia costituisce ancor oggi, al di là dei mutamenti di orizzonte culturale, un problema vivo ed attuale, i cui termini sono da un lato l’unità e la distinzione tra Dio e l’uomo e dall’altro il valore, la posizione e la prospettiva dell’uomo nell’ambito della concezione cristiana.

          L’esegesi cristiana dei padri greci orientali aveva posto l’accento sulla persona di Gesù, invitando, per favorire la comprensione della parola divina, a prendere responsabilmente coscienza dei presupposti e delle conseguenze del mistero dell’Incarnazione del Cristo[29]. E a noi, uomini del ventesimo secolo, uno stimolo di riflessione e un incoraggiamento a ripensare il problema per questo nostro tempo giubilare viene fornito dalle parole di Giovanni Paolo II: “Dio si è incarnato per illuminare, anzi per essere il significato della vita dell’uomo. E in che modo Gesù è il significato dell’esistenza dell’uomo? Solo Gesù Cristo è la risposta adeguata e ultima alla domanda suprema circa il senso della vita e della storia. Gesù fa presente che il vero significato del nostro esistere sta nell’eternità, e che tutta la storia umana, con i suoi drammi e le sue gioie, deve essere vista in prospettiva eterna. E’ importante spiegare che la storia degli uomini, con i suoi contrassegni di grazia e di peccato, di grandezza e di miseria, è assunta da Dio nel suo figlio Gesù Cristo e offre già qualche abbozzo del secolo futuro”[30].

          Ed è questo, in linea con le parole del Papa, tese ad intendere la storia dell’uomo come attualizzazione del disegno divino, il significato più autentico e profondo che oggi si può dare al Concilio di Calcedonia: proiettando la riflessione cristologica in una prospettiva rivolta al futuro si esalta il senso della storia in Gesù Cristo, al quale la limitatezza del tempo umano concesso non impedisce di correre verso il suo compimento salvifico, di cui il mistero della croce è il fondamento ineludibile ed eterno[31].

 

 

 

teologiaxtutti. A cura di Giacomo Campanile



[1] Sulla vita e sull’attività di Tertulliano cfr. K. BAUS, Le origini, in “Storia della Chiesa”, a cura di H. Jedin, vol. I, Milano 1988, pp. 321-325.

[2] Cfr. TERTULLIANO, Adversus Praxean, 7, in J. P. MIGNE, Patrologiæ cursus completus seu bibliotheca universalis, integra, uniformis, commoda, oeconomica, omnium SS. Patrum, doctorum scriptorumque ecclesiasticorum, sive latinorum sive græcorum..., Series latina prior [in seguito: Patrologia Latina], vol. 2, Parigi 1878, coll. 184-186; Adversus Hermogenem, 3, in MIGNE, Patrologia Latina, vol. 2, coll. 323-324.

[3] Cfr. Conciliorum Oecumenicorum decreta, a cura di G. ALBERIGO, G. A. DOSSETTI, P.-P. JOANNOU, C. LEONARDI, P. PRODI, Bologna (Istituto per le Scienze Religiose), 1973, p. 86. Cfr. anche Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di H. DENZINGER e A. SCHÖNMETZER, Friburgo 1963, p. 108.

[4] Cfr. R. CANTALAMESSA, Tertullien et la formule christologique de Chalcédoine, estratto da “Studia Patristica”, a cura di F.L. Cross (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, 94), Berlino 1966, pp. 139-150.

[5]  Cfr. MIGNE, Patrologia Latina, vol. 54, Parigi 1881, p. 763.

[6] Cfr. R. CANTALAMESSA, Méliton de Sardes: une Christologie antignostique du IIe siècle, in “Revue de Sciences Réligieuses, 37 (1963), pp. 21-23.

[7] Cfr. S. GIROLAMO, De viris illustribus, 24, in cui si legge: “Huius (Melitonis) elegans et declamatorium ingenium Tertullianus in septem libris, quos scripsit adversus Ecclesiam pro Montano, cavillatur, dicens eum a plerisque nostrorum prophetam putari”. Cfr. MIGNE, Patrologia Latina, vol. 23,  Parigi 1883, col. 678.

[8] Cfr. TERTULLIANO, Adversus Praxean, 27, 1: “Undique enim obducti distinctione Patris et Filii quam manente coniunctione disponimus...aliter eam ad suam nihilominus sententiam interpretari conantur, ut aeque in una persona utrumque distinguant, Patrem et Filium, dicentes Filium carnem esse, id est hominem, id est Iesum, Patrem autem Spiritum, id est Deum, id est Christum”. Cfr. MIGNE, Patrologia Latina, vol. 2, col 214.

[9] Cfr. A. GRILLMEIER, Ermeneutica moderna e cristologia antica: la discussione attuale sulla cristologia calcedonese (Giornale di Teologia 74), Brescia 1985, pp. 74-75.

[10] Il termine greco u(po/stasij, dal senso etimologico di sostrato, fondamento, sostanza, usato talvolta in filosofia per indicare ciò che realmente è, in opposizione alla sua apparenza, acquisisce successivamente il significato più specifico di “sussistente in sé” o di “persona”, e assume importanza fondamentale nella terminologia teologica delle controversie trinitarie e cristologiche, nelle quali il suo significato viene lentamente a chiarirsi in opposizione a quello di ou)si/a e fu/sij, come il latino persona in distinzione da substantia e natura. La speculazione cristiana si trovò fin dagli inizi costretta ad una formulazione del dato rivelato che, in seno al rigido monoteismo ereditato dalle fonti vetero-testamentarie afferma chiaramente la trinità di persone (di ipostasi) nell’unica sostanza o natura di Dio e la unicità della persona di Cristo operante secondo due nature, divina e umana. Cfr. Dizionario Sansoni delle idee”, Firenze 1977, p. 584.

[11] Cfr. S. GIROLAMO, In Zachariam, 2, in MIGNE, Patrologia Latina, vol. 25, Parigi 1884, col. 1458, “Non Iesum dividimus, nec duas personas in unam possumus facere personam” e 3, in MIGNE, Patrologia Latina, vol. 25, col. 1526, “Non quod alter et alter sit, aut duas personas recipiamus in Filio”.

[12] Cfr. MIGNE, Patrologia Latina, vol. 38, Parigi 1841, col. 1341.

[13] Su Origene cfr. N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, Torino 1982, pp. 291-298; sulla sua attività all’interno della scuola alessandrina, cfr. K. BAUS, Le origini, in “Storia della Chiesa” a cura di H. Jedin, vol. I, Milano 1988, pp. 301-310.

[14] Sulla scuola di Antiochia cfr. K. BAUS - E.EWIG, L’epoca dei concili, in “Storia della Chiesa”, a cura di H. Jedin, vol. II, Milano 1988, pp. 22-23.

[15] A questo proposito cfr. A. GRILLMAIER, Ermeneutica moderna cit., pp. 76-79.

[16] Cfr. H. JEDIN, Breve storia dei concili, Roma-Brescia 1978, pp. 18-19.

[17] A proposito della vivacità dei contrasti tra le opposte fazioni teologiche, giova ricordare che al Concilio di Nicea prese parte, tra gli altri, anche il santo vescovo Nicola di Bari, del quale si racconta che, animato da sacro zelo e adirato per la stolta pervicacia di Ario nel sostenere l’eresia, non esitò ad affibiargli un sonoro ceffone. Cfr. N. DEL RE, s. v. Nicola di Mira, in “Bibliotheca Sanctorum”, vol. IX, Roma 1967, p. 929.

[18] Cfr. W. KASPER, Il dogma cristologico di Calcedonia, in “Asprenas” XXXI (1984), p. 120.

[19] Su S.Cirillo cfr. C. SCANZILLO, Lo Spirito Santo  e la comunione ecclesiale in Cirillo d’Alessandria,  in “Asprenas” XXX (1983), pp. 47-61,  e Antropologia e cristologia in Cirillo d’Alessandria, in “Asprenas” XXXI  (1984),  pp.131-151.

[20] Su Eutiche cfr. K. BAUS - E. EWIG, L’epoca dei concili, in “Storia della Chiesa”, a cura di H. Jedin, vol. II, Milano 1988, pp.123-126, e H. JEDIN, Breve storia dei concili cit., pp. 37-38.

[21] Cfr. supra, nota 5.

[22] Sul concilio di Calcedonia cfr. W. KASPER, Il dogma cristologico di Calcedonia cit., pp. 117‑130; J. GALOT, Une seule personne, une seule hypostase, in “Gregorianum” 70, 2 (1989), pp. 251-276.

[23] Cfr. TERTULLIANO, De carne Christi, 3, 5, in MIGNE, Patrologia Latina, vol. 2, Parigi 1878, col. 802.

[24] Cfr. C. DOTOLO, Gesù di Nazareth. Il problema storico e la fede cristiana, Bologna 1990, pp. 7-8.

[25] Cfr. R. LAVATORI- G. CAMPANILE, Voi sarete il mio popolo. La Chiesa alla luce del Vaticano II , Bologna 1991, pp. 39-40.

[26] Cfr. Costituzione pastorale “Gaudium et spes, 22, in I documenti del Concilio Vaticano II, Roma 1966, pp. 225-226.

[27] Cfr. Gaudium et spes”, 45, in I documenti cit., pp. 225-226.

[28] Cfr. W. KASPER, Il dogma cristologico di Calcedonia, cit., p. 130.

[29] Cfr. V. WARNACH, Il mistero di Cristo. Una sintesi alla luce della teologia dei misteri, Roma 1983, p. 249.

[30] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Il Progetto di Dio. Decalogo per il terzo millennio, Milano 1997, pp. 118-119.

[31] Cfr. H. SCHÜRMANN, Gesù di fronte alla propria morte. Riflessioni esegetiche e prospettive, Brescia 1993, p. 199.