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Il termine «sostanza» nella filosofia di S. Bonaventura: significati ed
usi.
1. Introduzione
Fu nel XIII secolo, dominato dalla
immortale grandezza delle figure di S. Francesco e Dante, che visse e operò S.
Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274), filosofo che per l’acutezza del suo
pensiero viene ricordato come «il Platone degli Scolastici». Nel corpus delle sue opere, che assommano a
65, quello che viene considerato il suo scritto fondamentale è il Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo,
il suo capolavoro mistico l’Itinerarium mentis in Deum[1].
In S. Bonaventura filosofia, teologia
e mistica si trovano sistematicamente fuse ma non confuse, e ciò rende
pienamente ragione del titolo di «Dottore Serafico» a lui attribuito. Egli è il
filosofo cristiano per eccellenza[2]
- il «principe della mistica», secondo la definizione coniata per lui da papa
Leone XIII - e la sua filosofia è naturalmente cristiana, come lo è anche
l’anima e la verità sull’uomo e sull’essere: come egli stesso spiega nelle Collationes de donis Spiritus Sancti,
“Abbia pure l’uomo la conoscenza della natura e la metafisica, che si eleva
fini alle sostanze più alte, e poniamo che l’uomo, arrivato qui, si fermi: è
impossibile che non cada in errore, se non è aiutato dalla luce della fede e
non crede che Dio è uno e trino, potentissimo e ottimo fino all’estremo della
bontà. Perciò questa scienza precipitò e oscurò i filosofi pagani, poiché non
avevano la luce della fede. La scienza filosofica è luce ad altre scienze, ma chi
vuol fermarsi ad essa cade nelle tenebre”.
La ragione, che indagando sulle cause
ultime cerca la verità integrale, non può dare su di esse l’ultima risposta
concreta, che si trova fuori dal suo campo naturale. Pertanto la filosofia va
completata con la teologia e la mistica, come Bonaventura decisamente afferma:
“La multiforme sapienza di Dio, che
chiaramente è tramandata dalla Sacra Scrittura, è nascosta in ogni cognizione e
in ogni natura. E’ manifesto pertanto in qual modo tutte le cognizioni servono alla
teologia, e come essa prenda esempio e si serva di vocaboli appartenenti ad
ogni genere di cognizione. E’ manifesto pertanto quanto ampia sia la vita
illuminativa e in qual modo nell’intimità di ogni cosa, sentita o conosciuta
che sia, si nasconda lo stesso Dio”[3].
Filosofo dell’uomo completo e
dell’essere completo, S. Bonaventura non specula sull’ente in comune, puro
concetto astratto, ma sull’essere creato finito e sull’essere increato
infinito; non parla di un uomo di natura pura, mai esistito, ma di un uomo
creato di fatto nell’ordine soprannaturale, con tendenze naturali che non si
comporranno mai completamente nel mondo sensibile. Per lui non si pone quindi
distinzione tra religione e filosofia: la fede costituisce l’inizio concreto di
ogni sapere, compreso quello razionale, perché il mondo, che è espressione di
Dio, non può essere compreso dall’uomo separatamente dal suo Creatore. La
filosofia di Bonaventura si conclude pertanto nell’ultima causa completa, Dio,
in cui egli trova la risposta ultima a tutte le domande. La ragione umana deve
tendersi al «quaerere Deum», che «relucet» e «latet» in ogni cosa, immergendosi in una «meditatio» che le permetta di giungere infine alla visione
beatifica di Lui. Così si attua il passaggio dalla filosofia alla teologia e lo
slancio della ragione, unito allo slancio dell’amore, diventa preghiera e
mistica, cioè vita di unione con Dio[4].
Per giungere a questa prospettiva
finale e intenderne il senso complessivo occorre ripercorrere l’itinerario
filosofico bonaventuriano, che qui viene affrontato in relazione ad uno
specifico aspetto della sua attività speculativa: il problema della sostanza e
tutte le sue implicazioni.
2.
Il termine «sostanza»: etimologia
ed usi propri e traslati del
termine in S. Bonaventura.
Il termine «sostanza», nel linguaggio
comune, significa ciò che è propriamente e primariamente costitutivo di una
cosa, e quindi il suo essere proprio, a differenza di ciò che invece è
accessorio. E’ un nucleo significativo in cui è raccolto lo stesso significato
filosofico e i vari tentativi di interpretazione.
L’etimologia del termine deriva dal
latino substantia (dal verbo substo) e significa letteralmente «ciò
che giace o sta sotto»; questo termine si riconnette a sua volta al greco to\
u(/pokeim/enon, che è un vocabolo tipicamente aristotelico e nei suoi
significati legato alla problematica del divenire. Quindi il termine sostanza,
in forza dell’etimo e dell’origine aristotelica dell’uso del termine, significa
«ciò che sta e permane sotto la vicenda caratteristicamente mutevole della
qualità o accidente di una cosa»[5].
In filosofia il termine ha assunto nel
tempo due significati fondamentali:
1) quello di struttura
necessaria, tipico della metafisica tradizionale;
2) quello di connessione costante.
Dal primo significato discendono due
ulteriori precisazioni:
a) la sostanza è
necessariamente ciò che è;
b) la sostanza è ciò che
esiste necessariamente.
Entrambe queste determinazioni si
trovano illustrate nella metafisica aristotelica, della quale il concetto di
sostanza costituisce il cardine[6].
La prima determinazione («la sostanza
è necessariamente ciò che è») risulta, nell’espressione aristotelica tradotta
letteralmente dal greco «ciò che necessariamente era», e l’uso dell’imperfetto
«era» indica la continuità e stabilità dell’essere stesso nel tempo, il suo
essere già da sempre e per sempre (quod
quid erat esse), che noi possiamo intendere come «essenza necessaria».
A questa prima determinazione si può
riconnettere la seconda («la sostanza è ciò che necessariamente esiste»),
esaminando quanto afferma lo stesso Aristotele: “Si ha la conoscenza di
ciascuna cosa particolare solo quando se ne conosce l’essenza; e la faccenda
sta allo stesso modo sia se si tratta del bene sia se si tratta delle altre
cose, di modo che, se l’essenza del bene non viene a coincidere col bene,
neppure l’essenza dell’essere coinciderà con l’essere o l’essenza dell’Uno
coinciderà con l’Uno; e allora o tutte le essenze esisteranno allo stesso modo
o non ne esisterà alcuna; e di conseguenza, se neppure l’essenza dell’essere
«è», non potrà esistere neanche alcuna delle altre essenze”[7].
Aristotele adduce questo argomento
contro la separazione, che Platone aveva operato, dell’idea dalle cose; le
parole di Aristotele significano che ogni cosa è quella che è in virtù
dell’essenza necessaria, ed esiste necessariamente[8].
Di conseguenza tutto ciò che nelle cose c’è di reale e conoscibile fa parte
dell’essenza necessaria e necessariamente esiste[9].
La sostanza costituisce così per
Aristotele la struttura necessaria dell’essere nella sua concatenazione
causale, perché tutte le specie di cause sono determinazioni della sostanza. In
questo senso Aristotele afferma che la forma delle cose è eterna e non può
essere né prodotta né distrutta[10].
Ciò che è fatto e si genera non è né la materia né la forma: è il loro
composto, il «sinolo».
A queste conclusioni aristoteliche si
allinea anche S. Bonaventura, che, a proposito del termine «sostanza», afferma
che l’etimologia del termine è in sé ambigua: dal momento che la parola deriva
dalla preposizione latina sub unita
al verbo stare, ci sono due diverse
possibilità di interpretazione:
1) Facendo prevalere la preposizione sub, sotto, si concepisce la sostanza
come qualcosa di posto sub alio, e
quindi dipendente da un altra cosa. Nel IV-V secolo d.C. nell’ambito delle
controversie trinitarie, questo affermavano i padri greci, che denominavano la
sostanza ipòstasi, cioè «che sta
sotto».
2) Mettendo l’accento sul verbo stare, come facevano i padri latini, che
concepivano la sostanza come essenza per
se stans.
Preso atto di questa duplicità del
termine «sostanza», S. Bonaventura introduce a sua volta una ulteriore
distinzione tra sostanza nel senso proprio del termine e sostanza in senso
traslato.
Nell’Epistola agli Ebrei si definisce
cos’è la fede[11] e si
afferma che essa è sostanza, cioè fondamento di ciò che si deve sperare ed è un
argomento di cose non apparenti, che riguardano la dimensione spirituale. E’
evidente che qui viene adoperato il termine «sostanza» in senso traslato. S.
Bonaventura afferma che in questo senso lo si può applicare alla fede, così
come in senso proprio viene applicato alla materia.
Esaurito così l’uso proprio e traslato
del termine, S. Bonaventura si richiama ad un uso comune del termine «sostanza»
nel valore più generale di essenza, ma lo subordina all’uso proprio, affermando
che in questo senso l’uso del termine si esplica in quattro diversi modi:
1) sostanza - materia
2) sostanza - forma
3) sostanza - composto
4) sostanza come essenza di ogni cosa.
Mentre i primi tre modi riportano
all’uso proprio, il quarto rappresenta l’uso comune del termine «sostanza»
(sostanza come essenza). S. Bonaventura riconduce questi quattro usi ad
Aristotele, riallacciandosi però anche a S. Agostino, il quale a sua volta
aveva distinto la sostanza in tre modi:
1) come cosa di per sé permanente e
risolta in sé («res permanens et per se
stans»;
2) come cosa permanente ma inerente ad
altro («res permanens alii inhaerens»);
3) come qualsiasi essenza che sia in
atto («quaelibet essentia actu ens»)[12].
Oltre a queste precisazioni
aristoteliche ed agostiniane, S. Bonaventura accoglie la distinzione che
Aristotele aveva fatto di «sostanza prima» e «sostanza seconda»[13].
Infatti egli afferma: “E’ duplice il denominarsi secondo il termine «sostanza»:
o indicando con il termine sostanza la natura comune, e così si dice che l’uomo
è sostanza; o indicando con sostanza un certo soggetto, come un certo uomo.
Dire «sostanza» nel primo modo significa dire il «che cosa»; nel secondo modo
significa dire «qualcuno»”[14].
Infine, per quanto riguarda l’uso del
termine «sostanza» riferito a Dio, bisogna notare che Aristotele concepì questo
termine non in relazione al mondo trascendente; furono i teologi greci e latini
che, sempre durante le controversie trinitarie e cristologiche del IV-V secolo
d.C., si riferirono con questo termine anche a Dio. Filosofi come Isidoro di
Siviglia e Pietro Lombardo dissentirono da quest’uso del termine, che fa
denominare impropriamente «sostanza» Dio. Siccome etimologicamente «substantia» deriva da subsistere, cioè sottostare, affermavano
che Dio non può essere chiamato sostanza perché non può sottostare a nulla
essendo Egli il Creatore di tutto.
S. Bonaventura risolve queste difficoltà
di ordine teologico-concettuale introducendo la nozione di «sostanza in divinis»[15].
Egli afferma poi che la sostanza -
come sostanza seconda, comprendente generi e specie - è un predicamento, e come
tale non può dirsi in modo proprio di Dio perché Egli non è né in un
determinato genere di essere né in più generi, essendo superiore ad ogni cosa,
anche alla sostanza stessa. Quindi, il predicato «sostanza» attribuito alle
creature non è la stessa cosa del predicato «sostanza» attribuito a Dio:
infatti Dio esiste di per sé, senza bisogno di nessuno, le creature invece
hanno bisogno di Dio per esistere.
Con queste affermazioni S. Bonaventura
mira a distinguere l’ambito naturale da quello soprannaturale, e tiene ben
presente, nel suo discorso filosofico, da un lato la natura e il
soprannaturale, dall’altro l’essere e il Dio concreto.
3.
L’uso del termine «sostanza» in
relazione all’uso dei termini «natura» ed
«essenza» nel linguaggio filosofico di S.
Bonaventura.
Per quanto riguarda i vari vocaboli, greci
e latini, con cui veniva espresso il termine di «sostanza», S. Bonaventura si
riallaccia al filosofo latino Severino Boezio, che afferma che la Grecia non
manca di vocaboli adatti per esprimere concettualmente questo termine ed altri
ad esso affini: essenza (ou)sia/),
sussistenza (ou)si/wsij),
sostanza (u(po/stasij), persona (pro/swpon)[16].
Questi concetti possono validamente
essere applicati anche alle creature: per S. Bonaventura essi hanno dunque
valore universale e non solo teologico. Anche nelle creature il termine
«sostanza» ha un valore proprio, diverso da quello di «essenza», di «ipostasi»,
di «persona»[17].
Per quanto riguarda il termine
«natura», esso non fu mai chiaramente definito se non, al termine delle dispute
cristologiche, dal patriarca Flaviano, che distinse nella «persona» di Gesù
Cristo le due «nature», umana e divina. Questa distinzione tra persona e natura
ha fatto progredire notevolmente la teologia[18].
S. Bonaventura identifica il termine
«natura» con «essenza», e utilizza indifferentemente i due termini nello stesso
significato, che per lui è quello astratto: dire Dio è affermare il concreto,
dire natura divina è significare in modo astratto. In relazione a Dio, natura ed essenza esprimono un comune carattere
di assolutezza: “In divinis natura ed
essenza sono la stessa cosa”. Tuttavia natura ed essenza hanno tra loro una
qualche differenziazione, perché mentre esiste un ordine naturale (ordo naturae), che corrisponde, secondo
S. Bonaventura, alla ratio ordinandi,
cioè alla capacità di ordinare, non esiste invece un ordine dell’essenza
all’interno della SS.ma Trinità.
La distinzione tra natura ed essenza
si pone, per S. Bonaventura, sul piano della ragione. Se si considera l’essere
divino di per sé, e non in relazione ad altro, allora lo connotiamo col termine
«essenza». Se consideriamo invece la comunicabilità di tale essenza da una
persona all’altra, allora la chiamiamo «natura». Ma nessuno dei due termini è
sinonimo di essere divino: Bonaventura chiarisce: “L’essere divino non è solo «quo est», cioè «come è», ma anche «quod est», cioè «cosa è»”[19].
La natura in sé non esprime principio o ragione di agire, perché l’agire
conviene alla natura solo in quanto è e si considera nel soggetto[20].
Quando si parla di «natura», si
intende un concetto puro di natura (metafisica) e non la realtà naturale che è
nel mondo e che risulta dalla concretizzazione della natura nel soggetto
(fisica). Questo puro concetto di natura si esprime anche nell’espressione «quo est». Il «quo est» (natura) ed il «quod
est» (soggetto) si possono applicare sia alle creature che a Dio.
Il termine «essenza» è tradotto dal
greco ou)si/a,
voce astratta («che è»). In Aristotele ou)si/a significò il genere primo di essere e fu tradotta in
latino prima con essentia, più tardi
con substantia; ma già al tempo di S.
Agostino i due termini erano sinonimi. S. Bonaventura si chiede quale sia la
corrispondenza tra i due termini e risponde che la sostanza o esprime qualcosa
di comune o di supposto: nel primo caso è superfluo il nome di persona (perché
sostanza ha valore di ipostasi), nel secondo è superfluo il nome di essenza
(perché sostanza coincide con essenza).
Ma qual è il valore di sostanza ed
essenza nell’unità dell’essere divino? Ogni creatura ha un doppio aspetto di quo est e quod est, che riguardano il «comune»: quest’ultimo a sua volta
viene significato in modo concreto (uomo) ed in modo astratto (umanità).
Trasferendo questa distinzione a Dio, il quo
est, cioè la divinità è l’essenza, ed il quod est, cioè Dio è la sostanza. Quindi Bonaventura usa il termine
essenza come significato astratto e sostanza come significato concreto[21].
4.
Relazioni filosofiche tra
«sostanza», «persona» ed «ipostasi»
nella teologia di S. Bonaventura.
Per quanto riguarda il termine sostanza
e i suoi sinonimi, bisogna osservare che S. Bonaventura traduce il greco u(po/stasij con «sussistenza»,
così come aveva fatto il filosofo Boezio, che aveva trovato questo termine in
Cicerone[22].
Spiega egli infatti: “Boezio assume qui il termine «sussistenza» nel
significato dato da Marco Tullio, e cioè in quanto significa l’atto di
consistere (sistendi) e di stare per
se stesso. E così vi è solo una sussistenza di Dio. Ma oggi i dottori della
Sacra Scrittura lo assumono, in quanto importa di più in rapporto alla
proprietà a cui sottostà; e così viene plurificato «in divinis»”[23].
Il termine greco ipostasi solo con
Plotino assumerà il significato di forme di essere. S. Bonaventura riconosce la
corrispondenza tra sussistenza ed ipostasi, così come tra ipostasi e sostanza
prima. Quest’ultima corrispondenza viene allargata al termine «persona», ma con
qualche distinzione: sussistenza e sostanza prima sono tutti gli individui;
persona solo gli individui razionali. Anche i termini suppositum e individuum sono
sinonimi di sostanza. Nella divinità ci sono cinque modi di dire ed
interrogare: quis est per la persona,
qui per l’ipostasi, quae per la nozione, quod per la sostanza, quid o quo per l’essenza. Tranne il quae,
gli altri modi sono tutti presenti per quel che riguarda le creature. Come c’è
un diverso valore dei termini in divinis,
così succede anche per le creature. S. Bonaventura conserva lo stesso concetto
di sostanza anche per il mondo delle creature. Ragionando in questi termini
anche sulla figura di Cristo, egli si chiede se come uomo Gesù sia sostanza, e
risponde che il termine concreto «uomo» è in
concretione ad suppositum, cioè nella concretezza della sostanza individua.
Questa è una affermazione di carattere generale, così come la specificazione
del termine suppositum, come ciò che
è soggetto al genere (es.: uomo è soggetto al genere maschile) e del termine individuum, come l’indiviso in sé
stesso, l’uno solo[24].
Il termine ipostasi, o sussistenza, o
sostanza prima, o «qui est»,
significa per Bonaventura ciò che è distinto da ogni proprietà e si applica ad
ogni individuo; il termine persona
significa ciò che è distinto da una proprietà nobile e si applica all’individuo
razionale. Il concetto di persona è definito da S. Bonaventura in modo tale che
conviene sia a Dio sia alle creature, in modo analogico, riallacciandosi al
concetto che di persona aveva dato Severino Boezio, intesa in senso universale.
La sostanza è dunque valida in modo analogico a Dio e alle creature.
5. La
«sostanza» in quanto «genere» («predicabile» e «subiectum») e le sue
diverse specie secondo S.
Bonaventura.
Come S. Bonaventura dimostra, sia in
relazione a Dio, sia in relazione alle creature, il termine e il concetto di
sostanza hanno un valore più generico del termine persona: ci si chiede allora
se la genericità del termine sia così ampia da comprendere nel suo contesto sia
il mondo sublunare che il mondo divino. S. Bonaventura afferma che Dio non può
essere concepito come un particolare di cui si possa predicare il genere superiore
di sostanza, essendo Egli di per sé superiore a tutto, e nello stesso tempo più
semplice di tutto. Ma perché allora Bonaventura usa lo stesso termine sostanza
per riferirsi a Dio e alle creature? Per rispondere è necessario stabilire se
l’anima sia della stessa sostanza di Dio. A questo proposito è importante
considerare l’affermazione di Bonaventura in riferimento al termine genus: esiste un genere che si può
prendere in modo proprio, in quelle cose che convengono in qualche forma e
natura comune. Vi è poi un genere che si può prendere in modo largo, e nel
quale convengono quelle cose nelle quali si dà una speciale convenienza secondo
la modalità dell’analogia[25].
A Dio e alle creature conviene il secondo significato del termine genus: Dio è ente di per sé perché non
ha bisogno di nessuno; la creatura è ente di per sé perché non è in altro come
nel suo soggetto: però, a differenza di Dio, abbisogna di altro per la sua
conservazione.
Quindi la ragione di sostanza non è la
stessa in Dio e nelle creature: entrambi sono sostanza perché ad entrambi
conviene la ragione di ente di per sé: ma tale ragione, non predicandosi in
modo uniforme ed univoco rispetto a Dio e rispetto alle creature non è una
ragione univoca, ma solo analogica.
Se ne deduce che la genericità del
termine sostanza, che di per sé esprime «la natura comune in cui molti
convengono», non si estende uniformemente a Dio e alle creature: ad essi si
applica invece il genere sostanza soltanto come predicato analogico.
Ma allora quando si dice sostanza si
intende tutto il mondo creaturale? La ragione di sostanza ammette, oltre
all’analogia, anche il «comune» del genere e della cosa in ciò che è spirituale
e in ciò che è corporeo. Per questo S. Bonaventura afferma che è necessaria
l’unità di un principio in cui in modo univoco convengano sia i corporei che
gli spirituali: e questo principio, unico per il mondo corporeo e quello
spirituale, è la materia.
Quindi l’unità della materia è il
principio che giustifica la comunità del genere sostanza in tutte le creature.
Ma in che senso il genere «sostanza» è
comune a tutte le creature? Lo è come genere predicabile o come genere
soggetto?
Per rispondere a questa domanda è
necessario spiegare il valore di questi due termini: e S. Bonaventura lo fa
riferendosi al mistero eucaristico della transustanziazione, in cui il genus subiectum scompare e il genus praedicabile rimane. Infatti in
questo processo miracoloso si parte dalla sostanza del pane (punto a quo) per giungere alla sostanza del
corpo di Cristo (punto ad quem).
Nella sostanza del corpo di Cristo non resta nulla della sostanza del pane, ma
il predicato «sostanza» si può ancora attribuire a Cristo.
Da questo esempio si ricava che il
genere predicabile ha un’ampiezza maggiore del genere soggetto; quest’ultimo
rappresenta la comunità di genere e cosa, l’univocità in cui convengono tutte
le creature, mentre il primo, che esprime analogia, comprende l’umano e il
divino: “Riguardo al principio iniziale, attesta più forza il «creare» che il
«transustanziare», perché là si opera dal niente, qui si opera in qualcosa. Per
quanto però riguarda la distanza media, è di uguale forza, perché là e qui non
si trova niente di comune, né rimane secondo il genere soggetto, per quanto
rimanga nell’altro secondo il genere predicabile."[26]
Il genere soggetto è chiamato anche genus praedicamentale, e può applicarsi
alle creature ma non a Dio, superiore a tutti i generi.
6.
Il rapporto «genere - specie» in
ambito logico e in ambito
metafisico: distinzioni e precisazioni.
Il genere «sostanza» comprende tutte
le creature sia come singolari, sia come «specie di singolari», perché esse
partecipano dell’essenza completa di quel genere[27].
Sia il genere sia la specie sono universali, ma il genere è più semplice della
specie, e la specie aggiunge qualcosa al genere.
In ambito metafisico, secondo S.
Bonaventura, i singolari si assimilano in modo più o meno marcato
nell’universale: l’universale in cui si ha la prima assimilazione è detto genus generalissimum, quello in cui si
ha invece la completa assimilazione è detto species
specialissima. Addizionando e componendo le forme si perviene dal
generalissimo allo specialissimo. I singolari e le specie possono assimilarsi
in un «terzo», cioè nella similitudine oggettiva e reale che l’intelletto
scopre tra diverse specie specialissime. Con questo S. Bonaventura afferma che
vi è un parallelismo perfetto tra ordine logico ed ontologico, perché le
essenze delle cose così convengono all’essere come alla conoscenza[28].
Il genere nel suo valore metafisico
definisce la natura reale e generica in cui si assimilano le specie in
relazione alle reciproche differenze. Nel suo valore logico invece, il genere
considera la «convenienza» come comune a tutte le specie. S. Bonaventura si
sofferma sul valore ontologico del genere e della specie, affermando che essi
sono nel genere sostanza, poiché partecipano di tutta l’essenza di quel genere.
Sulla scia del discorso aristotelico
ci si domanda se il genere sia atto o potenza. S. Bonaventura risponde che
l’atto di essere lo dà la forma, ma la stabilità dell’esistere la dà la materia
“in cui si deve considerare e l’atto di essere, e questo lo dà la forma; e la
stabilità dell’esistere per sé, e questo lo dà e lo appresta ciò cui si
congiunge la forma; e questo è la materia”[29].
Di conseguenza il genere sostanza è composto sia di forma che di materia, e
perciò esso è sia potenza che atto, sia forma che materia. Per queste
definizioni S. Bonaventura si riallaccia a Boezio, che aveva affermato che la
forma senza la materia non sarebbe mai stata soggetto, ma solo immagine[30].
Il filosofo va avanti su questa strada affermando che la forma è tale solo in
unità con la materia: essa però può esplicarsi in altri due modi, cioè in Dio e
nel conoscente, in ragione di similitudine o immagine[31].
Per quanto riguarda il rapporto tra
genere e specie, essi stanno tra loro come due nature diverse. La specie
partecipa di tutta l’essenza del genere e questo a sua volta è tutto nella
specie. In questo processo la differenza specifica (cioè la forma inerente al
soggetto) ha ragione di attuale, il genere ha ragione di possibile. Così il
principio materiale della specie è anche il principio materiale del genere
(materia più forma). Tra genere e specie vi è comunque distinzione, ma in re (cioè nella cosa), stante la
diversità di nature e la loro composizione. Questa distinzione è data dalla
forma della differenza[32].
7.
Il concetto di «individuo» e la
dottrina dell’individuazione in S. Bonaventura; problema del «terzo principio»
e conclusioni teologiche.
Tra il genere «sostanza» e l’individuo
vi è una stretta relazione: gli individui sono inseriti nel genere sostanza
perché partecipano dell’essenza completa di detto genere. Quest’ultimo si
manifesta solo nei singolari o individui, ed è pertanto numerato in essi. Tra
individuo e genere vi è quindi una relazione: “Quamvis sit in omnibus singularibus, tamen secundum aliud et aliud
suppositum et ita numeratum”[33].
Dire individuo o soggetto, per S.
Bonaventura è dire ipostasi: l’individuo è cioè qualcosa di distinto da altri e
che sussiste in sé e per sé. Perché si abbia l’individuo ci vuole l’unione dei
principi sostanziali, materia e forma, e il costituirsi del primo soggetto,
quello che sussiste in se stesso e per se stesso. Chiamiamo questo individuo
«individuo sostanziale». Per S. Bonaventura l’individuo è hoc aliquid, cioè «questo» e «qualcosa». E’ «questo» in relazione
alla materia, che condiziona il dispiegarsi della forma e della posizione nel
luogo e nel tempo. E’ «qualcosa» in relazione alla forma, cioè all’essere e
all’esistere. Infatti l’esistere è dato dalla materia alla forma, ma l’atto di
essere è dato dalla forma alla materia[34].
Ogni singolare è dunque nel luogo e nel tempo (hic et nunc) e non dappertutto (ubique),
e sono queste le caratteristiche proprie dell’individuo, l’incomunicabilità e
la singolarità, cioè il non essere parte di un tutto, il non essere componibile
ad un altro, il non essere comune al più. La ragione di individuo, pertanto,
conviene a cose dello stesso genere per analogia secondo uguaglianza.
Da ciò si deduce che l’individuo è
“assolutamente incomunicabile e singolare, che non è non è né parte di un
tutto, né componibile ad un altro, né comune al più, nonostante sia per sé ed
in sé esistente, incomunicabile, singolare, tuttavia non è necessariamente ente
perfettamente completo”[35].
Perfettamente completi sono infatti soltanto quegli esseri la cui natura non
sia ordinabile ad altri esseri più nobili, come i corpi celesti e gli individui
razionali. L’individuo non può essere oggetto della metafisica perché essa
considera le forme universali o le essenze, non i singolari.
Sul principio di individuazione
esistono due dottrine, l’una basata sulla materia come principio, l’altra sulla
forma. La prima si fonda sul fatto che l’individuo alla specie aggiunge solo la
materia, e che la forma proviene dall’universale; la seconda ritiene che
l’individuazione provenga dalla forma, perché oltre alla forma della specie
specialissima vi è la forma individuale, completamente in atto, come la materia
è potenza.
S. Bonaventura esamina queste due
posizioni ed osserva che sono entrambe inesatte: è difficile dimostrare come la
materia sia principio di ogni cosa, e ugualmente come la forma sia tutto e
causa di tutto: “L’individuo è «hoc aliquid».
Che sia «questo» (hoc) lo deve
principalmente alla materia, in ragione di cui la forma ha la posizione nel
luogo e nel tempo. Che sia «qualcosa» (aliquid)
lo deve alla forma. Infatti l’individuo ha l’essere e l’esistere. L’esistere è
dato dalla materia alla forma, ma l’atto di essere è dato dalla forma alla
materia”[36]. Sia
materia che forma sono degli universali e perciò non possono essere principio
di individuazione, così come non lo possono essere neanche la forma individuale
o la specie specialissima, anche questi universali.
Si pone poi il problema di chiarire se
questo processo di individuazione rientri nell’ordine metafisico, logico o
fisico.
Se si riflette attentamente, ci si
accorge che tale principio non può entrare nell’ordine metafisico perché
l’individuo come tale non può essere concepito come universale, a meno di non
rifarsi alla dottrina dell’idea platonica cui S. Bonaventura non aderisce[37];
d’altronde lo stesso filosofo afferma che “si comprese che l’ordine nelle forme
era secondo generazione e natura nel medesimo modo attraverso il quale sono
ordinati nel genere”[38].
L’ordine ontologico si riferisce al processo di specificazione, l’ordine fisico
al processo di individuazione, che riguarda la produzione reale dell’individuo
in natura.
Si può concludere allora con S.
Bonaventura che il processo di individuazione è di competenza della fisica, che
può considerare nella mobilità del corpo sia il luogo, sia la forma ed anche la
generazione e la corruzione di esso[39].
L’individuo quindi è generato da una attuale congiunzione e mutua
appropriazione di materia e forma: “Sicut
enim in secundo libro ostensum fuit, individuatio est ex communicatione
materiae cum forma, et innotescere habet per accidentium collectionem”[40].
Dalle considerazioni di cui sopra
scaturisce una domanda: per quale principio intrinseco si ha l’«attuale»
congiunzione e la mutua appropriazione di materia e forma? I filosofi antichi
si cimentarono su questo problema e diedero ad esso soluzioni dissimili:
Aristotele, per spiegare il sinolo, postulò una causa agente; ma essa è già in
quel che viene generato, e il problema permane. Gli Stoici ipotizzarono un
«appetito» della materia verso la forma, che prepara la materia a ricevere la
forma stessa. Secondo questa dottrina, all’interno della materia vi è un
principio di inesauribile fecondità che contiene in sé le «ragioni seminali»
per cui tutte le cose sono generate.
S. Agostino fece sua quest’ipotesi,
affermando che Dio in principio occultò nella materia le ragioni seminali, determinando
così, nell’atto della creazione, la divisione e l’ordinamento delle cose
singole[41].
S. Bonaventura, sulla base di tutto
ciò, si domanda quale sia il terzo principio, che, oltre alla materia e alla
forma, costituisce l’individuo: esso è, secondo il filosofo, la «composizione»
che, insieme a materia e forma, si trova in ogni cosa creata[42].
Vi è allora una trinità di principi intrinseci nella res creata, che riconduce alla SS.ma Trinità: materia, forma e
composizione riportano al Padre, materia per eccellenza, cioè capacità di tutte
le forme; al Figlio, forma per eccellenza; allo Spirito Santo, connessione,
cioè composizione, del Padre e del Figlio[43].
Ed ecco allora risolto il problema del terzo principio nella costituzione
dell’individuo: per costituire il singolare non bastano materia e forma,
principi comuni e comunicabili, ma entra in gioco il terzo principio, la
composizione, che unisce materia e forma, dà luogo ad un’unità incomunicabile
ed è dato direttamente da Dio.
“La teoria che ammette in ogni
creatura la composizione di materia e forma ha una applicazione nella
concezione dell’anima umana: la caratteristica che san Bonaventura mette
innanzi per prima nell’uomo è quella di essere immagine di Dio. Ogni creatura
porta con sé un’orma, un vestigium
del Dio che l’ha creata, ma solo l’uomo è imago
perché è consapevole della sua similitudine con Dio e quindi è capace di
lodarlo e amarlo. L’uomo è immagine di Dio in quanto le sue facoltà spirituali,
memoria, intelligenza e volontà riflettono le tre persone divine”[44].
8.
L’itinerario verso Dio:
conclusioni
Con la sua riflessione S. Bonaventura
ha apportato un valido contributo alla filosofia del suo tempo, confutando la
tesi aristotelica dell’unità dell’intelletto, che sminuisce la responsabilità
dell’individuo, e opponendosi decisamente al dualismo greco e al manicheismo
che minano alla base la positività della natura: “Dal non buon uso
dell’investigazione filosofica procedono degli errori presso i filosofi, quale
quello di porre il mondo come eterno, il che è pervertire tutta la Sacra
Scrittura e dire che il Figlio non si è incarnato. Affermare poi che vi è un
unico intelletto per tutti gli uomini vuol dire che non vi è verità di fede, né
salute di anima, né osservanza di mandato, e ciò equivale a dire che il pessimo
uomo si salva e che l’ottimo si danna: affermare questo deriva dal cattivo uso
dell’investigazione filosofica”. E inoltre: “E’ veramente grande la cecità del
nostro intelletto, che non si ferma a considerare ciò che vede per primo e senza
il quale non può conoscere nulla”.
Ecco la similitudine con cui viene
chiarita questa sua affermazione: “Come l’occhio, attratto dai colori, non vede
la luce attraverso la quale percepisce tutte le cose, o se la vede non vi pone
attenzione, così l’occhio della nostra mente, intento agli enti particolari ed
universali, non vede l’«essere» che è fuori da ogni genere, quantunque sia la
prima nozione e per essa capisca tutto il resto. Ed allora si avvera che
«l’occhio della nostra mente, davanti alle cose più chiare della natura, è come
l’occhio del pipistrello davanti alla luce»[45].
Abituato infatti alle tenebre degli esseri e alle immagini sensibili, quando
contempla la luce radiosa del sommo Essere gli sembra di non veder nulla, non
comprendendo che quella oscurità è invece la massima luce per la nostra mente,
come quando l’occhio resta accecato davanti alla luce troppo viva”[46].
Il suo pensiero rappresenta la sintesi
dell’agostinianesimo medievale arricchito da apporti aristotelici riesaminati e
rettificati dalla speculazione cristiana: “Plus
credendum est Augustino quam philosopho”, cioè ad Aristotele, aveva infatti
sentenziato il suo venerato «pater et
magister» Alessandro di Hales, nella Summa
totius theologiae; “Inter philosophos
datus sit Platoni sermo sapientiae, Aristoteli vero sermo scientiae: uterque
autem sermo, scilicet sapientiae et scientiae datus sit Augustino”,
affermerà Bonaventura, teorizzando in ambito filosofico il primato di S.
Agostino: ricollegandosi infatti al concetto di «luce» elaborato dal santo
vescovo di Ippona[47],
asserisce che la vera filosofia è una illuminazione della ragione che si
concretizza in Gesù Cristo sotto forma di fede[48].
Per Bonaventura in ogni uomo ci sono
tre «occhi» o facoltà visive: la sensibilità, cioè l’occhio rivolto alle cose
esterne; lo spirito, che è l’occhio che scruta se stesso; la mente, che
rappresenta l’occhio che guarda al di sopra di sé. Con questi tre «occhi»
l’uomo può vedere Dio «per speculum»
attraverso l’immagine che le cose hanno in sé di Dio, e «in speculo», cioè nell’orma che le cose hanno dell’essere e della
bontà di Dio.
Da questa duplicità di azione delle
tre facoltà visive si generano sei potenze dell’anima: il senso,
l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza e la sinderesi -
definita da S. Girolamo «scintilla
conscientiae» - che è la più elevata in quanto permette di intendere i
principi pratici da cui dipendono le azioni buone.
Alle sei potenze dell’anima
corrispondono per S. Bonaventura sei gradi di ascesa verso Dio: la considerazione
dell’ordine e della bellezza delle cose; la considerazione delle cose come sono
nell’anima umana, astratte dalle condizioni sensibili; la contemplazione
dell’immagine di Dio nella memoria, intelletto e volontà, qualità naturali di
ogni anima; la contemplazione di Dio nell’anima illuminata e perfezionata da
fede, speranza e carità; la contemplazione di Dio direttamente nel suo primo
attributo, che è l’essere; la contemplazione di Dio nella sua massima potenza,
che è il bene, per il quale Dio si diffonde e si articola nella Trinità[49].
Ed
ecco come S. Bonaventura descrive quest’ultimo passaggio: “In questa sesta
considerazione l’illuminazione della mente è perfetta perché arriva a vedere
(quasi fosse nel sesto giorno della creazione) l’uomo fatto ad immagine di Dio.
L’immagine è una somiglianza espressiva. E allora, quando la mente vede in
Cristo, figlio e immagine di Dio invisibile, la nostra umanità così
mirabilmente esaltata e così ineffabilmente unita, ed ammira riuniti insieme il
Primo e l’ultimo, il sommo e l’infimo, la circonferenza e il centro, l’alfa e
l’omega, la causa e il causato, il Creatore e la creatura, il Libro scritto di
dentro e di fuori[50],
è già arrivata al sesto grado (cioè al sesto giorno) dell’illuminazione
perfetta. Non le resta che desiderare il giorno del riposo; si riposerà allora
in un’estasi beata da tutte le opere compiute nella precedente ricerca”[51].
C’è dunque una relazione tra filosofia
e teologia, poiché è chiaro che la ragione naturale da sola non è in grado di
risolvere tutti i problemi che le si presentano, in particolare quelli che
riguardano la natura divina e il rapporto dell’uomo con Dio. Il riconoscimento
dei limiti della ragione umana sarà un’affermazione preliminare a tutta la
teologia cristiana, a partire da S. Bonaventura. Sotto l’influsso della
teologia il pensiero filosofico medievale è diventato creatore: S. Bonaventura
e gli altri teologi del Medioevo sono partiti dalla fede, alla luce della quale
hanno affrontato le scienze filosofiche del loro tempo, ed è dalla loro azione
vivificatrice che la filosofia ha potuto rinnovarsi, arricchita
dall’originalità dei loro apporti[52]:
essi hanno chiaramente indicato che l’itinerario verso Dio deve proseguire
oltre l’uomo, oltre i concetti dell’intelletto[53],
anche se, secondo la parola di Giovanni Paolo II “l’esplorazione non terminerà
mai, perché la verità di Dio è infinita e perché l’intelligenza umana non può
avvicinarsi ad essa che per gradi successivi”[54].
Concludiamo allora il nostro discorso
con le parole stesse di S. Bonaventura che nella parte finale della sua
maggiore opera, l’Itinerarium mentis in
Deum, indica all’uomo le modalità del cammino: “Ma se vogliamo che questo
passaggio sia perfetto, dobbiamo abbandonare tutte le operazioni
dell’intelletto e trasferire completamente in Dio tutto l’affetto di cui siamo
capaci. Questo è un dono mistico e segretissimo che non conosce se non chi lo
riceve e non riceve se non chi lo desidera e non desidera se non chi è
infiammato fino al midollo del fuoco dello Spirito Santo che Cristo mandò sulla
terra”[55].
teologiaxtutti. A cura di Giacomo
Campanile
[1] Nato a Civita, oggi frazione di Bagnoregio (Viterbo) intorno al 1217, Giovanni Fidanza, detto Bonaventura per essere da bambino miracolosamente guarito da una malattia per intercessione di S. Francesco d’Assisi, entrò nell’ordine francescano nel 1238; studiò teologia all’Università Parigi sotto Alessandro di Hales, e conseguì nel 1253 la licenza e il magistero. In seguito insegnò nello Studio parigino in qualità di baccelliere biblico e sentenziario. Si schierò insieme a S. Tommaso contro i maestri secolari dell’Università che, sostenendo la necessità della separazione tra ragione e fede, escludevano dall’insegnamento universitario gli appartenenti agli ordini mendicanti, accusati di condizionare la libertà dell’Università stessa a causa del voto di obbedienza dovuto al proprio ordine. Il pontefice Alessandro IV risolse la vertenza conferendo nel 1257 l’incarico di magister universitario sia a Tommaso che a Bonaventura; quest’ultimo fu però quasi subito chiamato a ricoprire la ben più prestigiosa carica di ministro generale dell’ordine, che tenne per ben 17 anni, guadagnandosi il titolo di «secondo fondatore» per le benemerenze acquisite in questo ruolo. Nel 1273, dopo l’elezione a cardinale vescovo di Albano, presiedette la commissione preparatoria del concilio di Lione, al quale partecipò nell’anno successivo. La morte, consolata dalla presenza del pontefice Gregorio X, lo colse a Lione il 15 luglio, due giorni prima del termine del concilio. Fu canonizzato nel 1482 e dichiarato Dottore della Chiesa nel 1588.
[2] A proposito della dimensione cristiana della personalità e del vigore dell’insegnamento di S. Bonaventura, papa Sisto V (1521-1590), che lo proclamò Dottore della Chiesa, affermava: “Egli istruisce i suoi lettori e li entusiasma; egli penetra nelle più intime pieghe dell’anima, trafigge il cuore con lo stimolo dell’amore serafico e lo riempie di una devozione vera e soave”.
[3] Cfr. S. BONAVENTURA, De reductione artium ad theologiam, 325, n. 26: “Et sic patet quomodo multiformis sapientia Dei, quae lucide traditur in sacra Scriptura, occultatur in omni natura. Patet etiam, quomodo omnes cognitiones famulantur theologiae: et ideo ipsa assumit esempla et utitur vocabulis pertinentibus ad omne genus cognitionis”; 325, n. 7: “Patet etiam, quam ampla sit via illuminativa, et quomodo in omni re quae sentitur sive quae cognoscitur, interius lateat ipse Deus”.
[4] Cfr.
S. BONAVENTURA, De reductione artium ad
theologiam, 322, n. 7: “Unde omnis
nostra cognitio in cognitione sacrae Scripturae debet habere statum, et maxime
quantum ad intellectum anagogiae, per quem illuminatio refertur in Deum, unde
habuit ortum. Et ideo ibi completus est circulus, completus est
senarius, et propterea status”.
[6] Aristotele così definisce e specifica il termine «sostanza»: “Si dicono sostanza: 1) i corpi semplici, quali la terra, il fuoco, l’acqua e gli altri corpi simili, e in generale i corpi e le cose che sono composte di essi, cioè tanto gli esseri animati quanto quelli divini e le parti di tali esseri; tutte queste cose sono dette sostanza non perché esse siano predicati di un sostrato, ma perché, al contrario, le altre cose sono predicati di esse; 2) in un’altra accezione si parla di sostanza, volendo indicare ciò che è causa immanente di quante cose non sono, per loro natura, predicati di un sostrato, come l’anima è causa dell’esistenza dell’animale; 3) inoltre si dicono sostanze tutte le parti che, essendo immanenti a tali cose, le determinano e ne indicano la particolare essenza e la cui soppressione determina la soppressione dell’intero, come ad esempio viene soppresso un corpo se si elimina la superficie e la superficie se si elimina la linea; e in generale alcuni credono che di tale natura sia il numero (infatti, a parer loro, se esso si sopprime, nulla esiste, ed è appunto esso a determinare tutte le cose); 4) infine l’essenza che si esprime nella definizione si dice anch’essa sostanza di ciascuna cosa”. Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, V, 8, 1017b, in Opere complete, vol. VI, traduzione di Antonio RUSSO, Roma-Bari 1982, p. 139.
[8] La tesi sostenuta da Aristotele, in polemica con Platone che aveva operato la separazione di ente sensibile ed essenza, è quella dell’identità della singola cosa con la sua essenza. Non è possibile sdoppiare le cose che sono per sé, cioè le sostanze, dalle loro essenze, perché in tal caso queste ultime verrebbero a loro volta a costituirsi come sostanze ulteriori. La separazione di sostanza ed essenza produrrebbe l’inintellegibilità della prima, perché privata del principio che la determina, e l’inconsistenza della seconda che, sebbene determinata, risulterebbe estranea all’esistente. Ne deriverebbe una perdita di identità specifica che impedirebbe sia la conoscibilità delle cose singolari, sia l’apprensione delle loro essenze. Cfr. ARISTOTELE, La Metafisica, a cura di Dario ZUCCHELLO, Padova 1998, pp. 92-93.
[10] Come ARISTOTELE precisa ulteriormente nella Metafisica, VII, 8, 1033a-1034a: “Né la materia né la forma vengono generate”, in Opere cit., vol. VI, pp. 201-204, e VIII, 3, 1043 b 14-15: “E’ necessario che la sostanza sia eterna oppure corruttibile senza un processo di corruzione e generata senza un processo di generazione”, in Opere cit., vol. VI, p. 240.
[11] Cfr. Epistola agli Ebrei, XI, 1, in Nuovo Testamento, 5. Lettere. Parte seconda. Versione della Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1994, p. 85, in cui si dice che “la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono (Est autem fides sperandorum substantia rerum; argumentum non apparentium)”. L’Epistola agli Ebrei, redatta anteriormente al 65 d.C., pur facendo parte del corpus delle lettere paoline, per le differenze di argomentazione e di stile è da attribuirsi ad altro autore, probabilmente identificabile nel giudeo alessandrino Apollo o nel levita cipriota Barnaba, entrambi molto attivi nella Chiesa degli inizi.
[12] Cfr. S. AGOSTINO, Le Confessioni, traduzione di Carlo VITALI, lib. XII, cap. 17, Milano 1997, pp. 366-367.
[13] A proposito del termine «sostanza» ARISTOTELE, nella Metafisica, V, 8, 1017b aveva specificato: “Si parla di sostanza in due accezioni, cioè per indicare il sostrato ultimo che non può essere predicato di nessun’altra cosa, e per indicare ciò che conferisce l’individualità e che può essere separato, vale a dire, appunto, la forma e la specie di ciascuna cosa particolare”. Cfr. Opere cit., vol. VI, p. 139.
Sofia VANNI ROVIGHI chiarisce ulteriormente queste definizioni aristoteliche precisando che secondo il filosofo “Sostanza prima è un uomo in particolare, sostanza seconda è l’uomo in generale. Vera sostanza è la prima, perché realmente esistente; la sostanza seconda, o universale, esiste soltanto nel nostro intelletto ed indica la natura comune”. Cfr. Elementi di filosofia, vol. II, Brescia 1985, p. 31.
[14] Cfr. S. BONAVENTURA, Commentarii in quattuor libros sententiarum Petri Lombardi [in seguito cit.: Sententiae], I, d. 25, a. 1, q. 1, Rs (I, 437a).
[15] Cfr. S. BONAVENTURA, Sententiae, d. 8, p. 2, a. un (I, 165b), in cui spiega: “Nonne praedicamentorum in divinis non possunt dici proprie, et etiam nomen primi praedicamenti...unde nec proprie dicitur substantia”.
[16] Cfr.
Manlio Severino BOEZIO, Liber de persona
et duabus naturis contra Euthichen et Nestorium ad Johannem Romanum diaconum
Ecclesiae Romanae, in Opera Omnia, non solum liberalium disciplinarum, sed
etiam maiorum facultatum studiosis utilissima, accurante J. P. MIGNE. Tomus IX [= Patrologia Latina, vol. 64], Parisiis,
apud Garnier fratres editores et J.
P. Migne successores, 1891, cap. 3, col. 1344: “Neque enim verborum inops Graecia est, ut Marcus Tullius alludit: sed
essentiam, subsistentiam, substantiam, personam totidem nominibus reddit”,
e col. 1345: “…et quidem, secundum hunc modum, dixere unam Trinitatis
essentiam, tres substantias, tresque persona”.
[18] Su questo argomento cfr. Renata TACUS, L’interpretazione della figura del Cristo dalla teologia degli inizi fino al Concilio di Calcedonia (451 d.C.), in “Studi e Ricerche”, Roma 1998, pp. 119-138.
[19] La formula «quod est» è la traduzione fatta da Seneca del greco to\ o)/n. La Scolastica ricevette questa formula da Severino Boezio, che nel capitolo 2 del De Trinitate spiega: “Quomodo substantiae in eo quod sunt, bonae sint”.
[24] “Ad diversitatem secundum numerum concurrit diversitas ipsius quo est et quod est et qui est, id est naturae, rei naturae, et supposita sive hypostasis”. Cfr. S. BONAVENTURA, Sententiae, I, d. 19, p. 2, a. un, q.4, Rs (I, 363b-364a).
[25] “Il genere si può prendere in due modi: in modo proprio; e così sono dette convenire nel genere quelle cose che convengono in qualche forma e natura comune. In modo largo; e così si dicono convenire nel genere quelle cose nelle quali si dà una speciale convenienza secondo la modalità dell’analogia”. Cfr. S. BONAVENTURA, Sententiae, d. 17, a. 1, q. 1, ad 3 (II, 412b).
[27] Cfr. S. BONAVENTURA, Sententiae, II, d. 24, p. 1, a. 2, q. 1, ad 8 (II, 562b): “Participat essentiam completam illius generis”.
[28] Cfr.
S. BONAVENTURA, Sententiae, II, d.
18, a.1, q.3, ad 3(II, 442b-443a): “Metaphysicus
vero, qui considerat universales formas sive essentias, in quibus res
singulares habent assimilari, ponit magis universale et minus, secundum quod
plura vel pauciora habent assimilari in illo; et illud, in quo est prima
assimilatio, dicit esse genus generalissimum; illud vero, in quo est perfecta
assimilatio, dicit esse genus generalissimum; illud vero, in quo est perfecta
assimilatio, dicit esse speciem specialissimam. Et propterea dicit, speciem
addere ad genus, et hoc totum iuvant in re; dicit etiam genus simplicius et in
pluribus reperiri”.
[30] Per chiarire l’affermazione di Boezio, si riporta il passo del De Trinitate in cui affronta l’argomento Substantia divina forma est: “[...] Sicut optimum dictum videtur, eruditi est hominis unumquodque ut ipsum est, ita de eo fidem capere tentare. Nam cum tres sint speculativae partes, naturalis in moto, inabstractae, anepexàiretos, id est inseparabilis: consideret enim corporum formas cum materia, quae a corporibus actu separari non possunt, quae corpora in motu sunt, ut terra deorsum, ignis sursum fertur, habetque motum forma materiaeque coniuncta. Mathematica, sine motu, inabstracta; haec enim formas corporum speculatur sine materia, ac per hoc sine motu; quae formae, cum in materia sint, ab ea separari non possunt. Theologia, sine motu, abstracta atque separabilis: nam Dei substantia, et materia et motu caret. In naturalibus igitur rationaliter, in mathematicis disciplinaliter, in divinis intellectualiter versari oportebit, neque diduci ad imaginationes, sed potius ipsam inspicere formam, quae vere forma nec imago est, et quam esse ipsum est, et ex qua esse est”. Cfr. Manlio Severino BOEZIO, De trinitate, cap. 2, in MIGNE, Patrologia Latina, vol. 64, col. 1250.
[32] D’altra parte genere e specie sono intrinsecamente ed essenzialmente uniti: è impossibile «speciem sine genere»; viceversa il genere è nella specie. La specie «numquam est, quin sit individuum». Cfr. S. BONAVENTURA, Sententiae, II, d.1, p.2, a.3, q.2, f.2 (II, 49a) e II, d. 18, a.1, q.3, ad 2 (II, 442b).
[37] In polemica con i platonici e gli aristotelici, S. Bonaventura formula la dottrina dell’esemplarismo, secondo la quale Dio non è solo la causa creatrice di tutte le cose, ma anche il loro modello esemplare che, unico in Lui, si identifica con l’essenza divina e si moltiplica solo in riferimento alle cose create. Cfr. Gabriele GIANNANTONI, La ricerca filosofica. Storia e testi, vol. I, Torino 1985, p. 453.
[41] Cfr. S. AGOSTINO, Sermo de Trinitate, III, 9. 16: “Il mondo è come una donna incinta: porta in sé la causa delle cose che verranno alla luce nel futuro”. Cfr. Opera omnia, in MIGNE, Patrologia Latina, vol. 64.
[42] Cfr. S. BONAVENTURA, Sententiae, I, d.3, p.1, db.3 (I, 79a): “Si enim consideretur quantum in se vel quantum ad se, hoc est aut quantum ad substantiam principiorum; et sic est illa trinitas: materia, forma, compositio”.
[43] “In «esse» vero est similiter tria considerare, scilicet materiam, formam et compositum; et quidem materia propter omnium formarum capacitatem, et quia ab ipso Philosopho dicitur «ingenita», suo modo designat Patrem ut omnium causam, et qui a nullo; forma vero, per quam est omnis operatio, Filium; sed compositum propter sui connexionem cum materia et forma, Spiritum Sanctum; qui est connexio utriusque, scilicet Patris et Filii”. Cfr. S. BONAVENTURA, Sermo de Trinitate, IX, 353a.
[46] Cfr. S. BONAVENTURA, Itinerario della mente in Dio, introduzione e versione di Gaudenzio MELANI, Arezzo 1963, cap. V, 4, pp. 116-117.
[47] Cfr. S. AGOSTINO, Le Confessioni cit., lib. XIII, cap. 3, p. 387: “Quello che poi Tu dicesti al principio della creazione: «Sia fatta la luce», e la luce fu fatta, io intendo non arbitrariamente detto della creatura spirituale: essa era già una qualsivoglia forma di vita capace della tua luce. Ma come non aveva affatto meritato di essere una forma di vita tale da poter essere illuminata, così anche dopo aver avuto l’esistenza non poteva vantar diritti a essere illuminata. La sua mancanza di forma non ti sarebbe piaciuta se essa non fosse diventata luce, non però in virtù della sua esistenza, bensì nell’intuizione della luce illuminante e nella sua fusione con questa: in modo di essere debitrice a Te non solo del suo vivere, ma anche del suo vivere beato, commutata per miglior commutazione in ciò che non può mutarsi né in meglio né in peggio. E tale sei Tu solo, perché Tu sei l’Ente semplicissimo per il quale vivere e vivere beatamente sono tutt’uno, essendo Tu a Te stesso la tua beatitudine”.
[48] Cfr. S. BONAVENTURA, De reductione artium ad theologiam, 325, n. 7: “Et hic est fructus omnium scientiarum, ut in omnibus aedificetur fides, honorificetur Deus, componantur mores, hauriantur consolationes quae sunt in unione sponsi et sponsae, quae quidem fit per caritatem, ad quam terminatur intentio Sacrae Scripturae, et per consequens omnis illuminatio desursum descendens, et sine qua omnis cognitio vana est, quia numquam pervenitur ad Filium nisi per Spiritum Sanctum, qui docet nos omnem veritatem; qui est benedictus in saecula saeculorum. Amen”.
[49] I presenti schemi filosofici relativi alle facoltà della mente umana, alle potenze dell’anima e ai gradi dell’ascesa sono tratti da N. ABBAGNANO - G. FORNERO, Filosofi e filosofie nella storia, vol. I, Torino 1994, p. 381.
[50] Questa immagine del «libro scritto di dentro e di fuori» è tratta dall’Apocalisse, 5, 1-5: “E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?». Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo. Uno dei vegliardi mi disse: «Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli»”. Cfr. Nuovo Testamento. 6. Apocalisse di Giovanni. Versione della Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1994, p. 22.
[52]
Secondo l’opinione di alcuni studiosi, il fatto che la filosofia medievale sia
stata elaborata soprattutto dai teologi ha avuto conseguenze davvero positive.
In effetti “l’esperienza mostra che più le si reintegra nelle loro sintesi
teologiche, più le filosofie del Medio Evo appaiono originali. E’ nella sua
funzione teologica che il pensiero filosofico è divenuto creatore: più un
maestro è grande teologo, più egli è grande filosofo. La filosofia medievale
deve la sua fecondità al suo apparato teologico: i teologi del XIIIº secolo
sono partiti dalla fede utilizzando le scienze filosofiche del loro tempo. Essi
come teologi, hanno usato la teologia alla luce della fede ed è da qui che la
filosofia è uscita trasformata”. Cfr.
Etienne GILSON, Les recherches
historico-critiques et l’avenir de la scolastique, in “Antonianum” 26 (1951), pp. 44-46.