La competitività dell'"Azienda Italia"

Articolo pubblicato dalla "Gazzetta Valutaria e del Commercio Internazionale", n. 10/1986, pagg. 647 e segg.

cod.: GV.86.10 MKT.1

La particolare euforia che sembra animare in questi giorni il nostro Paese, sulla scia del contemporaneo calo del prezzo del petrolio e del valore del dollaro, non dovrebbe far passare in secondo piano un aspetto preoccupante dell'economia, rappresentato dalla lenta ma persistente perdita di competitività dei nostri prodotti più tradizionali sui mercati esteri. Da qualche tempo infatti l'Azienda Italia perde colpi su colpi e, purtroppo, la riduzione dei costi energetici (controbilanciata dal timore di una maggiore aggressività concorrenziale dei prodotti statunitensi) non potrà da sola risolverci inaspettatamente un problema che deve, prima di tutto, trovare la sua via d'uscita all'interno del nostro stesso sistema. Il dibattito sulle cause che hanno determinato questa situazione, nonché sui possibili rimedi, rientra in un discorso ampio relativo all'internazionalizzazione dell'economia italiana che, da qualche tempo, coinvolge intensamente gli ambienti accademici ed operativi interessati alle problematiche dell'interscambio. Le soluzioni non sono, ovviamente, a portata di mano e solo un coinvolgimento critico più profondo di tutte le componenti del nostro sistema economico, dalla funzione pubblica alle istituzioni finanziarie, dall'apparato produttivo a quello della distribuzione, potrà portare ad una auspicabile rapida inversione di tendenza. Nell'ambito di questa tematica si ritiene utile soffermarsi ad esaminare taluni aspetti limitativi delle nostre capacità esportative esistenti all'interno del sistema produttivo e, in particolare, del settore più interessato allo sviluppo dell'interscambio, cioè delle aziende manifatturiere di media e piccola dimensione.

Insufficiente "vocazione" all'export

Prescindendo dai pochi casi di aziende decisamente export oriented, la maggioranza delle industrie medie o piccole italiane considerano ancora l'esportazione dei propri prodotti come una necessità contingente nei momenti di flessione della domanda del mercato interno o di incompleto utilizzo degli impianti esistenti. E' vero che il concetto tradizionale di mercato interno si è allargato negli ultimi decenni fino ad abbracciare i più ampi spazi geo-politici dell'Europa comunitaria, ma tutto ciò non ha ancora contribuito a creare i presupposti decisionali necessari ad impostare una più precisa strategia aziendale per l'estero. Ne scaturisce che molti operatori che oggi reclamano assistenza e protezione per poter esportare, o per esportare di più, rientrerebbero velocemente nel proprio guscio se il mercato interno fornisse loro, a breve termine, la possibilità di smaltire facilmente tutta la potenzialità produttiva. Si tratta, fondamentalmente, di un atteggiamento di comodo, che forse nasconde una certa forma di provincialismo, alimentato ed esasperato spesso da fattori culturali (la scarsa dimestichezza con le lingue straniere, il timore del salto nel buio, ecc.), o condizionato dalla inconfessata non disponibilità dell'imprenditore stesso a delegare ad altri, all'interno o all'esterno dell'azienda, quelle funzioni operative che verrebbero richieste dall'ampliamento delle aree commerciali.

Carenza di strategie e strutture

Si tratta di una limitazione che coinvolge, in senso lato, l'intera Azienda Italia, con la doverosa esclusione di pochi settori merceologici o di talune entità particolarmente marketing minded. A nessun osservatore attento può infatti sfuggire che molti prodotti delle medie e piccole aziende nazionali, anziché essere venduti all'estero, vengono acquistati dai clienti esteri. Seppure nel breve termine il risultato non cambi, l'apparente bisticcio di parole evidenzia ala crisi di capacità promozionale delle nostre esportazioni. Ad esempio, è noto come nel campo delle calzature, dell'abbigliamento, dei mobili, degli alimentari e dell'oreficeria, si verifichi troppo spesso che i prodotti vengano selezionati per l'esportazione da buyers stranieri, da catene internazionali d'acquisto o da intermediari esteri, che effettuano le loro scelte autonomamente, lasciando poco spazio alle possibilità d'intervento delle aziende manifatturiere nazionali sui mercati di destinazione finale dei prodotti. In altri casi, nascono possibilità sporadiche di lavoro da viaggi all'estero del titolare stesso dell'azienda, o da segnalazioni di procacciatori d'affari. Tutto ciò solo raramente consente all'impresa di costituire una propria duratura presenza nel mercato estero. Iniziative di carattere promozionale più allargato, attuate da Consorzi Export, Enti pubblici o privati, ecc., sotto forma di presenze a fiere internazionali all'estero, creazione di marchi e simili, costituiscono senza dubbio un fattore positivo di sviluppo, ma deve essere assicurata la continuità dell'azione. Purtroppo, invece, sono molti i casi di missioni rientrate in Italia con la certezza di aver trovato mercati interessanti all'estero, ma con la sensazione di non poterli gestire a causa della carenza di strutture di follow-up e di assistenza post-vendita. Troppo spesso si ritiene che l'inadeguatezza delle risorse finanziarie sia la causa preminente che frena lo sviluppo delle esportazioni delle medie e delle piccole aziende. E' un tema che indubbiamente condiziona l'intera dinamica aziendale, ma che spesso diventa solo un luogo comune poco concreto, laddove si voglia sostenere che - disponendo di maggiori sostegni finanziari (diretti od indiretti) - si potrebbero concludere buoni affari con controparti estere che richiedono facilitazioni di pagamento a medio-lungo termine non adeguatamente garantite. Ancora una volta, non si tratta solo di poter vendere, bensì di saper vendere bene. D'altro canto è risaputo che una vendita regolata con un'apertura di credito irrevocabile e confermata non comporta solitamente particolari problemi finanziari per l'operatore.

Struttura produttiva e versatilità tecnologica

Come già accennato in precedenza, disponendo di una chiara disponibilità ad operare sui mercati esteri si deve tener conto non solo della possibile dinamica del mercato interno, bensì anche di quelle che potranno essere le valutazioni della domanda del mercato esterno. Le due variabili non necessariamente sono sempre simili fra loro. La distanza, le dimensioni dei mercati, la concorrenza, i gusti, gli effetti delle nuove tecnologie, sono fattori da tener ben presenti nella prospettiva di uno sviluppo delle esportazioni. In funzione anche della capacità di reazione dell'azienda alle istanze e alle sollecitazioni della domanda si potrà impostare o meno una concreta strategia di sviluppo dei mercati esteri. In altri termini, c'è da chiedersi semplicemente se si desidera smaltire altrove ciò che non si riesce più a vendere in Italia o se, invece, si vuole essere presenti con la propria immagine e con il proprio prodotto anche in quello specifico mercato. Dalla risposta a questo semplice interrogativo possono nascere differenti modalità d'intervento; sia diretto, da parte della stessa impresa manifatturiera, che indiretto, attraverso altri strumenti di sostegno, già in essere o da costituire.

Sinergie operative

Alle istanze di assistenza avanzate dalle imprese di dimensione media e piccola è stato risposto, nel tempo, con varie ipotesi d'intervento che, una volta concretizzatesi, solo raramente hanno dimostrato di poter superare i nodi esistenti alla base del problema. La formula che più spesso è stata utilizzata è stata quella del Consorzio, sia inteso come raggruppamento di imprese per omogeneità merceologica, che come unione idi aziende accomunate da una delimitazione geografica. Talvolta al semplice Consorzio si sono sovrapposte strutture più ampie che interessano più raggruppamenti d'imprese. A parte pochi casi fortunati, la maggioranza di queste strutture non hanno potuto purtroppo far altro che raccogliere ed amplificare, senza quindi poterli risolvere, quegli stessi problemi che esistevano da sempre all'interno delle stesse aziende associate. A parte gli indubbi vantaggi derivanti dalla creazione di un marchio consortile, dalla presenza a fiere e manifestazioni, dalla ricerca di una migliore immagine del prodotto rappresentato, queste organizzazioni hanno spesso mancato di raggiungere gli obiettivi sperati nelle due funzioni che richiedevano la maggiore assistenza: il marketing e il sostegno finanziario. Alcuni motivi che hanno dato luogo a questi risultati sono di facile individuazione e risiedono sostanzialmente, da una parte, nella scarsa propensione italiana all'associazionismo e, dall'altra, nella inadeguatezza degli strumenti disponibili. Per quanto riguarda il primo aspetto, di carattere - per così dire - culturale, dobbiamo riconoscere che nel nostro Paese lo spirito associativo è ancora rimasto allo stadio delle dichiarazioni d'intenti. Permane la diffidenza nei confronti del collega-concorrente e quella gelosia della propria immagine e del proprio individualismo che non consentono di apportare al Consorzio il necessario contributo attivo per il suo sviluppo. In pratica, il consorziato si aspetta dal Consorzio sempre di più di quanto non sia disposto a dare, convinto che un contributo più attivo non andrebbe che a beneficio degli altri. Si sono visti, ad esempio, numerosi casi di aziende che, avendo acquisito nel tempo buone penetrazioni in mercati vicini (quali Francia, Germania, ecc.), chiedevano al Consorzio di dar loro un aiuto per vendere solo nei mercati lontani e più difficili. La seconda ragione è, come sopra accennato, di carattere strutturale, in quanto generalmente non sono stati forniti al Consorzio gli adeguati strumenti materiali, o semplicemente decisionali, necessari per il conseguimento degli obiettivi richiesti. In generale, il Consorzio non dispone nè del potere, nè dei mezzi necessari per controllare, guidare o correggere la produzione dei consorziati, in funzione della domanda proveniente dai mercati esteri. Inoltre, le risorse finanziarie ed umane non sono quasi mai sufficienti a svolgere una vera e propria azione di commercializzazione all'estero, anche quando prevista a livello di compiti del Consorzio, tale da richiedere validi export managers, tempo e denaro da investire prima di poter ottenere risultati apprezzabili. E' mancata, in sostanza, quella caratteristica commerciale che necessità di un ben più ampio impegno in termini di esperienze, mezzi, volontà e capacità di gestione dei rischi. Di fronte a queste realtà, taluni Consorzi hanno riesaminato, partendo dall'inizio, le loro problematiche interne ed hanno individuato nella mancanza di una trading company consortile le ragioni dei mancati successi precedenti. Su questa linea si sono quindi mossi diversi raggruppamenti d'imprese, creando vere e proprie trading intersettoriali, o partecipando alla formazione di trading di servizi od, infine, appoggiandosi ad organizzazioni già esistenti. E' forse troppo presto per poter esprimere giudizi circa i risultati di questa nuova ricerca di sinergie operative, ma sembra comunque che il raggiungimento dei risultati sperati sia particolarmente difficoltoso, continuando a permanere quelle dissonanze di fondo indicate nel corso di questo elaborato e che verranno ulteriormente sviluppate in un prossimo numero di questa rivista.