Trading Companies al servizio dell'Azienda Italia

Articolo pubblicato sulla "Gazzetta Valutaria e del Commercio Internazionale", n. 11/1986, pagg. 720 e segg.

cod.: GV.86.11.MKT.2

In un precedente articolo (1) si è cercato di individuare alcune disfunzioni, esistenti all'interno delle singole aziende manifatturiere italiane di media e piccola dimensione, che - di fatto - condizionano e frenano lo sviluppo delle esportazioni. Non si è voluto peraltro estendere l'esame ai condizionamenti di tipo esterno all'impresa, siano essi di origine nazionale (attribuibili indifferentemente alle strutture pubbliche od a quelle private) o internazionale (inflazione indotta, altalene valutarie, crisi petrolifere e finanziarie, ecc.), che pure interferiscono in misura sostanziale nelle possibilità di espansione della dinamica aziendale. Questa esclusione è stata motivata dal desiderio di effettuare un'introspezione critica a questo tipo di aziende, non attenuata - o peggio ancora confortata - dalle abituali attribuzioni di co-responsabilità ad un sostegno pubblico "che non funziona adeguatamente", o a fattori frenanti importati dal resto del mondo. Ciò non significa affatto che si voglia sottovalutare il ruolo giocato da queste ultime componenti, che agiscono spesso in misura determinante nell'accentuazione delle problematiche in esame. Il dibattito sulle cause esterne è già oggetto di ampie considerazioni in altre autorevoli sedi (2) ed il contributo che qui s'intende portare al processo di internazionalizzazione dell'Azienda Italia vuole proprio partire ab ovo, dalla ricerca quindi di quanto potrebbe essere migliorato all'interno di quel prezioso serbatoio di potenzialità creative costituito dall'universo delle medie e piccole industrie nazionali.

Strategie di marketing inadeguate

Fra le cause interne già esaminate, è stata più volte evidenziata - fra l'altro - l'attuale inadeguatezza delle strategie e delle strutture di commercializzazione, sia sotto forma di marketing diretto che indiretto (intermediazione in senso lato). E' un tema che, peraltro, si riscontra anche anche in altri Paesi industrializzati e che si accentua sempre più con l'aumento della necessità di esportare, conseguente ad una progressiva tendenza dei vari mercati a creare barriere protezionistiche e forme sempre più esasperate di bilateralismo commerciale. Un caso significativo ci viene dagli Stati Uniti che, sul finire del 1982, hanno emanato una serie di provvedimenti normativi, passati sotto la denominazione di Export Trading Company Act, destinati allo sviluppo delle esportazioni, appunto, delle aziende di media e piccola dimensione. Anche negli Stati Uniti la diagnosi aveva portato a concludere che occorreva istituire forme di maggiore integrazione fra l'industria e il commercio, attraverso la costituzione di nuove trading companies, dotate di abbondanti mezzi finanziari. L'esperienza di quel mercato ha però dimostrato che la disponibilità delle risorse finanziarie non è di per sé stessa condizione sufficiente per il raggiungimento degli obiettivi sperati se manca l'indispensabile corollario di una precisa strategia di marketing e delle strutture umane capaci di gestire la penetrazione commerciale nei mercati esteri. E' stato, in sostanza, dato più peso al valore della moneta che non all'elemento-uomo ed il risultato si è estrinsecato con il pressoché totale fallimento dell'iniziativa. Da queste esperienze possono essere tratti utili spunti anche per le tematiche che riguardano il nostro Paese. Proseguendo ora nell'esame delle faccende di casa nostra, e dopo aver verificato gli effetti di alcune esperienze di tipo consortile messe in atto da gruppi di aziende manifatturiere italiane, soffermiamoci ora a considerare le possibili forme di collaborazione fra industria e commercio, tendenti a superare quelle limitazioni, di marketing e finanziarie, che attualmente condizionano l'espansione dell'esportazione italiana.

La trading intersettoriale

Questa formula è stata sostanzialmente concepita come il braccio operativo del Consorzio. A quest'ultimo restano assegnati compiti di coordinamento fra gli associati e l'organizzazione di campagne per la promozione dell'immagine (marchi, fiere, ecc.), mentre alla trading viene richiesto di gestire le operazioni commerciali, con o senza assunzione di rischi ad esse conseguenti. Anche in questa soluzione sono però rimasti - pressoché inalterati - tutti i problemi che già esistevano a livello consortile, non potendo sciogliere, per carenza di strutture e di esperienza, i nodi che restavano a monte, cioè la necessità di svolgere un'azione incisiva di marketing, sia strategico che operativo, nei mercati più lontani o difficili. Tutto ciò si sarebbe dovuto compiere per una pluralità di aziende che, a loro volta, non avevano e non hanno ancora programmi commerciali a livello internazionale ben definiti.

La trading di servizi

Non necessariamente tale formula è sorta per iniziativa consortile, ma spesso spazia, per sua scelta, nel settore delle medie e piccole imprese. Comunque, cerca di intervenire a sostegno di queste ultime, fornendo la consulenza necessaria in termini di marketing strategico, di assistenza contrattuale e di supporto finanziario. Purtroppo, la maggior parte di queste organizzazioni mancano ancora di adeguate strutture estere in grado di svolgere azioni di commercializzazione direttamente sui mercati (uffici di rappresentanza, filiali, punti di assistenza post-vendita, ecc.) e, quindi, si devono limitare a svolgere gran parte dell'attività dall'Italia o tramite agenti o procacciatori d'affari residenti all'estero. Il rischio commerciale viene solitamente lasciato a carico dell'impresa manifatturiera e la trading si accontenta di percepire una commissione per l'intermediazione svolta. La trading di servizi beneficia, peraltro e il più delle volte, di maggiori capacità finanziarie rispetto a quella di tipo intersettoriale/consortile, in quanto è sovente caratterizzata da una matrice bancaria. Stando ai risultati sin qui ottenuti da questo tipo di iniziative, comunque di nascita troppo recente perché se ne possano già trarre giudizi conclusivi, la formula è senz'altro più valida di quella adottata dalla trading intersettoriale. Purtroppo i tempi per una verifica della sua reale funzionalità sono necessariamente lunghi, in quanto l'esperienza - che costituisce uno degli aspetti più significativi dell'attività di trading - deve maturare con il tempo e con la disponibilità di strutture-uomo che concepiscano il lavoro con l'estero in un'ottica di estremo dinamismo e di sacrificio. Certamente gli entusiasmi dichiarati in fase di costituzione di talune di queste aziende si sono rivelati eccessivamente ottimistici, essendosi presto venuti a confrontare con una realtà operativa ben più difficile e complessa di quanto previsto a tavolino.

Le trading companies esistenti

A questo punto è necessaria un'osservazione preliminare. Ogniqualvolta a livello di incontri intersettoriali, convegni, tavole rotonde, ecc., sorge "il bisogno di una trading", pare che venga sistematicamente ignorata l'esistenza di un mondo di esperienze già formato e consolidato da tempo. Si ha talvolta l'impressione che ciascuno voglia farsi "la propria trading", partendo dall'affermazione che sul mercato non esistano strutture atte a soddisfare le esigenze. Le cose non stanno proprio così. Di case di commercio estero ne esistono da tempo anche in Italia, con attività diversificate che spaziano dalla funzione di General Trading Company a quella di Countertrader, per giungere fino a quella del piccolo ma ben collocato Trader, specializzato in un certo prodotto per un certo mercato. Si tratta però di aziende profit minded, quindi ben poco inclini a raccogliere e ad alimentare facili entusiasmi o ad avventurarsi in iniziative che difficilmente possono raggiungere risultati validi. Il loro rapporto con le aziende manifatturiere è consolidato da tempo e prescinde dalla magnitudine di queste ultime. Infatti, ciò che privilegia il rapporto non è la dimensione, bensì la convenienza reciproca ad integrarsi nel lavoro con l'estero. La suddivisione dei ruoli, la distribuzione dei rischi, il costo del servizio e tutti gli altri ingredienti del matrimonio, sono basati su ipotesi di profitto, negoziate preventivamente e ritenute accettabili da entrambe le parti. Quando poi la trading company agisce in piena autonomia (senza quindi l'appartenenza ad uno specifico gruppo), attua le sue scelte nei confronto delle aziende manifatturiere sulla base di criteri di pura convenienza economico-commerciale. Se, attraverso le proprie azioni di marketing operativo, scopre che in un mercato estero è richiesto un certo prodotto, se lo va a cercare dove trova la maggior convenienza da un punto di vista qualitativo, quantitativo, tecnico, di resa, ecc. Se invece agisce in qualità di rappresentante, concessionario, ecc., di una specifica azienda manifatturiera, pretende che questo rapporto sia basato su criteri di stretta collaborazione che garantiscano continuità e reattività della produzione alle richieste dello specifico mercato. Attraverso questo tipo di filosofia operativa la trading si assicura, in una certa misura, una serie di controlli su ciò che commercializza e non è invece vincolata, come nel caso della trading intersettoriale, a vendere ciò che le è stato assegnato. Questo concetto dell'autonomia delle scelte si deve accoppiare con la strategia messa in atto dalle industrie export oriented ed è fondamentale per comprendere quando, ed a quali condizioni, può essere instaurato un rapporto intelligente e continuativo fra la trading e l'industria. Altrimenti i ruoli cambiano ed invece di una collaborazione duratura si ha solamente la casualità di qualche transazione intermediata dalla trading, dettata dall'opportunità del momento.

Limiti strutturali delle trading companies

Non si deve inoltre dimenticare che le trading companies italiane, dimensionate in una fascia che le pone nettamente al di sotto delle più famose colleghe giapponesi, sud-coreane, statunitensi, ecc., sono necessariamente limitate da strutture che non consentono loro di spaziare liberamente su tutti i mercati e per un'infinita varietà di prodotti. La specializzazione di area, di prodotto o di modalità operative non consente loro di soddisfare il bisogno generalizzato di esportare, così come spesso viene richiesto dalle industrie. La trading potrà occuparsi di un certo numero di prodotti o di mercati, ma difficilmente potrà svolgere il ruolo di "Direzione vendite estero" dell'azienda manifatturiera. D'altro canto, questo tipo di delega, a suo tempo sperimentato ed attuato in larga misura dalle industrie giapponesi, ha dimostrato di portare conseguenze pericolose alle stesse aziende manifatturiere, che corrono il rischio di perdere completamente, nel tempo, la sensibilità dei mercati esteri. Comunque, la trading non potrà neppure commercializzare nella stessa area prodotti similari fra loro, usciti da aziende diverse ma magari appartenenti allo stesso Consorzio. Ecco perché la soluzione della trading company non può essere considerata come la panacea che può risolvere i problemi generalizzati di un insieme di aziende che "hanno bisogno di esportare di più". D'altro canto, la recente esperienza americana, cui si è fatto riferimento in precedenza, ha dimostrato che nonostante gli ingenti mezzi a cui avrebbero potuto attingere le trading costituite ad hoc dalle banche statunitensi (denari e rete di filiali sparse nel mondo), gli ostacoli incontrati lungo il percorso sono stati insormontabili. Hanno giocato un ruolo significativo la mancanza di esperienze specifiche in un'attività difficile e che non si può improvvisare; l'impreparazione delle industrie ad affrontare una precisa strategia estera ed, infine, l'impossibilità delle trading di esercitare una qualsiasi forma di controllo o di scelta sulla produzione. Che al fallimento di tale iniziativa abbiano contribuito anche altri fattori esterni, quali l'ascesa del dollaro, i limiti quantitativi posti dalla legge sui volumi di scambi compensati, ecc., è un dato di fatto, che però nulla toglie alle considerazioni sopra esposte.

Conclusioni

Il quadro generale, così come è stato delineato in queste note, potrebbe apparire animato da un profondo scetticismo sulle possibilità di sviluppo generalizzato delle medie e piccole industrie. In realtà si è solo cercato di mettere in luce i lati più bisognosi di rettifica e di mettere in guardia gli operatori da facili entusiasmi o da semplicistiche, seppur seducenti, proposte di innovazioni che hanno già trovato la loro prematura conclusione in esperienze recenti, sia italiane che straniere. I fattori di successo all'esportazione esistono, anche nella fascia media e piccola, ma vanno costruiti con pazienza e con determinazione, prima di tutto nelle stesse aziende, attraverso l'impostazione di precisi programmi a medio/lungo termine che comportano, senza dubbio, investimenti di risorse economiche ed umane. Fatto ciò, si potranno trovare utili sinergie e maggiori soddisfazioni utilizzando anche le strutture di trading esistenti (3) , dando loro più fiducia, più collaborazione e più ampi spazi operativi in cui agire.

Note:

1 - Cfr. dello stesso Autore: "La competitività dell'<Azienda Italia>", in GVCI n. 10/1986, 647
2 - Si ricordano, a questo proposito, il convegno organizzato dall'ICE a Roma nel 1983 e relativo a "Commercio di transito; un contributo alla nostra economia"; e il convegno tenutosi a Roma il 16 aprile 1986 nel quarantennale della Confcommercio: "Contributo del commercio all'internazionalizzazione dell'economia italiana".
3 - Per una più particolareggiata conoscenza delle principali trading companies esistenti in Italia, consultare l'annuario "Functions and Services Member list 1985" a cura dell'ANCE (Associazione Nazionale Commercio Estero), Corso Venezia, 47/49, Milano