Importare meglio per esportare di più

Articolo pubblicato sulla "Gazzetta Valutaria e del Commercio Internazionale" - n. 22/1986 - pagg. 1364 e segg.

cod: GV.86.22.MKT.0

Interscambio, scambi con l'estero e commercio internazionale sono sinonimi che dovrebbero definire l'insieme delle transazioni mercantili attuate fra due o più Paesi, mentre - nell'accezione italiana più comune - questi vocaboli hanno ormai assunto un significato alquanto limitativo, privilegiando solo una delle due facce dell'interscambio: quella delle esportazioni.

Rapporto Import/export

Il Governo vara provvedimenti "a sostegno delle esportazioni"; la rivista mensile dell'ICE ha per titolo "Esportare"; i consorzi fra imprese sono "Consorzi Export"; i convegni ricercano nuove formule "per esportare di più"; ecc. Il tema del commercio estero, com'è d'altronde comprensibile per un Paese trasformatore per eccellenza e carente di materie prime quale è il nostro, è tutto imperniato sulle nostre capacità di penetrazione commerciale all'estero; ma fra le strade da perseguire per migliorare questa nostra possibilità forse non si sono ancora sufficientemente esaminate e poste in atto le opportune strategie basate su un apparente paradosso: razionalizzare meglio le importazioni al fine di aumentare le esportazioni. Nella tematica che, anche a livello accademico, si sta sviluppando al fine di analizzare e migliorare il grado di internazionalizzazione della nostra economia (1) , le interconnessioni fra le due facce dell'interscambio cominciano ad assumere una configurazione più precisa e si tentano di avviare nuove sinergie operative fra importatori ed esportatori, come già da tempo in atto in altri Paesi esteri, anche a noi vicini.

Comunanza di obiettivi

Così come per una qualsiasi azienda l'oculata gestione degli acquisti costituisce una delle premesse indispensabili per una competitiva gestione delle vendite, per l'<Azienda Italia> una maggiore razionalizzazione dei flussi d'importazione può significare il possesso di uno strumento in più per lo sviluppo delle esportazioni. Nella realtà del nostro Paese, invece, le due funzioni si sviluppano seguendo due strade indipendenti e spesso divergenti fra loro: chi importa non è generalmente interessato all'esportazione e viceversa. Non esistono, né a livello istituzionale, né operativo, strategie specifiche che coordinino le due attività. Costituiscono, evidentemente, un'eccezione a a quanto detto sopra quelle aziende industriali che necessitano di importare direttamente materie prime o semilavorati per alimentare i propri cicli produttivi e che, al termine della catena di trasformazione, destinano una quota del prodotto finito ai mercati esteri. A parte poche altre eccezioni, la gran parte delle importazioni italiane è gestita in modo autonomo da enti che realizzano quindi le proprie vendite sul territorio nazionale, con destinazione "consumo" o per la "trasformazione". Per contro, la maggior parte delle esportazioni sono effettuate da aziende che per poter produrre reperiscono sul mercato interno tutti i materiali necessari, siano essi originari del nostro Paese, o di provenienza estera. Nella visione individualistica delle singole imprese il tutto ha sinora funzionato in modo naturale e accettabile. Prendiamo, per esempio, il caso di una cartiera. Essa acquista cellulosa dal Canada, dai Paesi scandinavi o da altri mercati esteri dov'é disponibile una qualità non reperibile in Italia; acquista nel mercato interno quant'altro necessario e, quindi, al termine del ciclo di lavorazione, vende le bobine e le risme di carta agli utilizzatori nazionali. Il problema dell'esportazione, tranne pochi casi di carte particolarmente pregiate, come quelle per confezionare sigarette, per la stampa di carta-moneta o per le famose "carte a mano", generalmente non coinvolge le cartiere, che limitano pertanto il loro processo di internazionalizzazione alla fase di acquisto delle materie prime. Per contro, il calzaturificio (settore produttivo che interessa una notevole quota dell'export italiano e che è costituito da una miriade di aziende manifatturiere di piccola dimensione) acquista la materia prima generalmente dai grossisti e comunque senza avere una propria forza contrattuale nei confronti dei Paesi esteri produttori del pellame. Anche in questo caso l'internazionalizzazione è quasi a senso unico, essendo prevalente l'interesse per la vendita dei prodotti finiti sui mercati esteri (2) . Se, come detto, nella logica delle singole imprese la convenienza di utilizzare al meglio i "due sensi di marcia" non rappresenta, almeno apparentemente, un tema d'interesse pratico, a livello più ampio il nostro "sistema" necessita di trovare maggiori integrazioni fra le due funzioni, per contrastare le difficoltà che ogni giorno si frappongono alla libera commercializzazione dei prodotti sui mercati esteri. Nel prosieguo di queste note si chiarirà come queste sinergie possono rivelarsi economicamente vantaggiose, non solo per chi deve "esportare di più", ma anche per chi può "risparmiare di più" nell'acquisto delle materie prime di provenienza estera.

Freni esterni allo sviluppo dell'export

Lo sviluppo delle esportazioni deve affrontare quotidianamente una serie di ostacoli, sia di natura interna (strutturali, normativi, finanziari, assicurativi, ecc.) che di origine esterna (protezionismo, barriere tariffarie, bilateralismo, ecc.), tali da rendere sempre più utopistico il sogno di una semplice competitività basata sul canonico binomio "qualità/prezzo" (3) . Per quanto riguarda in particolare la realtà esterna dei mercati, assistiamo a una continua escalation di forme spinte di protezionismo, tutte tendenti ad esportare di più e ad importare di meno, per contrastare l'inconfessata incapacità di risolvere con misure correttive interne e con un miglior utilizzo delle risorse disponibili i disavanzi delle bilance valutarie. In pratica, molti Paesi hanno limitato le loro importazioni a quanto ritenuto strettamente indispensabile e solo a condizione che il fornitore straniero ritiri, a sua volta, in contropartita prodotti nazionali. La Siria, per acquistare autocarri, propone un pagamento in fosfati; l'Uruguay offre latticini e formaggi contro sistemi antincendio; la Cina vende seta contro impianti tessili e via di questo passo, sino al paradosso dello scheletro di mammut , che si dice sia stato offerto da un Paese asiatico contro prodotti occidentali. Certamente un così pesante ritorno del commercio internazionale alla forma primordiale del baratto (4) non scioglie i nodi che, a monte, avevano determinato la crisi del sistema multilaterale e molti di quei Paesi che solo qualche anno fa avevano scelto la strada del bilateralismo più spinto (es.: Nigeria), stanno ora rivedendo le proprie strategie, attuando all'interno dei mercati anche misure tradizionali di risanamento (riallineamento dei rapporti di cambio della moneta, contenimento dei consumi, maggiore selezione dell'interscambio, ecc.), più efficaci e durature. "Esportare di più e meglio" resta comunque un impegno ormai di tutti i Paesi e, per contro, l'importatore deve poter sfruttare questa sua qualità al fine di trarne il massimo beneficio possibile, per sé e per il sistema economico al quale appartiene.

Importazioni italiane

Pur essendo uno dei principali importatori mondiali, il nostro Paese non dispone al proprio interno di uno strumento valido in grado di indirizzare e coordinare i flussi d'acquisto per trarne il massimo beneficio economico a livello globale. Le importazioni (addetti ai lavori esclusi) costituiscono ancora un oggetto misterioso del quale se ne parla poco, se non per sommi capi quando periodicamente si elaborano i saldi della bilancia commerciale, o quando le oscillazioni dei prezzi dei prodotti energetici creano scossoni all'intero sistema economico. Il nostro stesso Istituto Nazionale del Commercio estero, che istituzionalmente si occupa di osservare ed assistere l'interscambio, dispone nel proprio sistema di rilevazione dati di tutte le informazioni possibili ed immaginabili sulle esportazioni italiane, ma è tremendamente carente di notizie su chi importa, da dove e che cosa. Sono catalogate, aggiornate ed analizzate le posizioni di oltre 52.000 esportatori, abituali e non, ma non esiste quasi nulla che analizzi la natura degli oltre 148.000 miliardi di lire annui di importazioni italiane (5) . L'Ufficio Italiano dei Cambi, che tramite i moduli valutari possiede i dati analitici delle importazioni, non rende ancora disponibili queste informazioni alla possibile utenza, se non per aggregati di tipo statistico-macroeconomico. L'Istituto Centrale di Statistica è forse l'unico Ente che, seppure con ritardo, mette a disposizione dati abbastanza analitici sulle merceologie importate e sulle fonti di provenienza. Mancano, comunque - anche per quanto riguarda i dati ISTAT - quelle informazioni supplementari che consentirebbero un utilizzo più completo delle notizie nell'ambito delle finalità sopra indicate. Le carenze dei sistemi informativi non significano peraltro che le importazioni, di per sé stesse, vengano effettuate male: tutt'altro. Chi importa abitualmente il pesce, sa esattamente dove trovarlo, nelle qualità migliori e al miglior prezzo. Tuttavia paga in valuta i suoi acquisti a Paesi ai quali magari è impossibile vendere dall'Italia i nostri prodotti per difficoltà d'incasso del relativo corrispettivo. Possiamo citare, a titolo d'esempio, la Costa d'Avorio, dalla quale abbiamo complessivamente acquistato nel 1984 ben 418 miliardi di lire di prodotti (caffè, legname, frutta, cacao, ecc.), vendendo le nostre merci per soli 70 miliardi di lire. Oppure, ancora, il Brasile che - sempre nell'84 - ci ha venduto merci per 2.164 miliardi di lire (caffè, autoveicoli, minerali, farine e semi oleosi, carni, carta, ecc.), ricevendo solo 452 miliardi di made in Italy. Dando una rapida occhiata alle statistiche, rileviamo che i saldi passivi della nostra bilancia commerciale interessano svariati Paesi e che tali squilibri non sono sempre e soltanto dovuti agli approvvigionamenti di prodotti energetici. Minerali, semi ed oli vegetali, carni, pesce, legnami, pelli, cereali, frutta, costituiscono le merceologie più ricorrenti che, per inciso, provengono spesso da Paesi emergenti, ai quali potrebbero essere indirizzate maggiori esportazioni italiane. La cosa più curiosa ancora è che altri Paesi industrializzati, con minori necessità di importazione di materie prime rispetto al nostro (es. la Germania Occidentale), riescono ad esportare verso quegli stessi Paesi emergenti più di quanto non riusciamo ad esportare noi. Per quanto riguarda, per esempio, l'Africa (e a parte la Francia, che mantiene una posizione dominante nel novero dei Paesi esportatori), "... la quota di mercato italiana è inferiore anche a quella tedesca ed inglese e il ruolo dell'Africa nelle nostre esportazioni è diminuito, sebbene sia aumentata l'incidenza delle forniture africane nel nostro import complessivo (dal 5,6 al 7,6 % in dieci anni). L'aumento delle importazioni si è quindi accompagnato a un deterioramento della capacità esportativa" (6) .

Vantaggi di un'integrazione

Mentre, come detto, l'importatore è generalmente soddisfatto di ciò che realizza, in quanto la sua privilegiata posizione di "pagatore in valuta" gli consente di comperare al meglio e dove vuole, l'esportatore trova difficoltà sempre più ardue nello sviluppo della propria azione commerciale verso i Paesi carenti di valuta estera. Le due funzioni raramente di identificano nello stesso operatore, per cui risulta difficile, e apparentemente utopistico, tentare di coinvolgere in una strategia di "mutua solidarietà" i due differenti soggetti che, spesso, addirittura si ignorano fra loro. Eppure i vantaggi di una concreta collaborazione operativa sono semplici ed evidenti: all'esportatore si potrebbero aprire spazi di vendita altrimenti preclusi e l'importatore potrebbe godere di "premi" che ridurrebbero i suoi costi d'approvvigionamento. Per fare un esempio, immaginiamo che le importazioni di legname dal Ghana, oggi effettuate da diverse imprese slegate fra loro, vengano gestite interamente da una trading company che, pur lasciando agli utilizzatori del prodotto la più ampia autonomia di scelta delle varie essenze tropicali, delle quantità, dei termini di consegna e di decisione sul prezzo, si costituisca - a tutti gli effetti - acquirente nei confronti del Ghana. Questo "titolo di credito" attribuirebbe alla trading company (7) un potere negoziale tale da consentirle di controproporre a quel Paese africano la fornitura in compensazione valutaria di merci italiane che, altrimenti, non si realizzare per incertezza di realizzo del corrispettivo. Sarebbe quindi compito della trading company trovare e gestire le modalità per "legare fra loro" i diversi Enti che nel Ghana rispettivamente esportano il legname ed importano le contropartite italiane. Così come sarebbe sempre suo compito riconoscere agli utilizzatori italiani un "premio" sul prezzo del legname importato ed amministrare (di concerto con i produttori italiani) il prezzo da applicare ai clienti del Ghana per i prodotti italiani venduti in contropartita. Lo schema proposto qui di seguito evidenzia i flussi operativi relativi all'esempio citato.

L'individuazione delle parti

L'esempio si presenta teoricamente semplice e parte dal presupposto di una preventiva conoscenza di chi importa il legname e della successiva ricerca di chi vuole esportare in Ghana, ma questo iter potrebbe essere rovesciato senza modificare i termini economici dell'operazione. Tuttavia il rovesciamento dello schema comporta in pratica maggiori difficoltà, appunto perché - come detto - è relativamente facile trovare chi trova ostacoli nella propria azione di vendita, mentre è più difficile individuare, sensibilizzare e coinvolgere gli importatori istituzionali che, forse, non hanno sinora completamente intuito l'entità dei vantaggi che possono derivare loro (a rischio pressoché nullo) da una maggiore integrazione con la funzione export. Tutto sarebbe notevolmente più semplice se nel nostro Paese esistesse, oltre a un maggior interesse delle strutture pubbliche, un sistema di trading più sviluppato ed integrato nei due sensi di marcia dell'interscambio. Invece, notiamo che anche le nostre più importanti trading company sono prevalentemente export-oriented, con ulteriori sotto-specializzazioni di area e/o di prodotto, mentre le strutture commerciali particolarmente import-oriented limitano la loro attività alla gestione di determinate fasce merceologiche (prodotti petroliferi, minerali e metalli, oli vegetali, carni, ecc.) (8) . Anche in questo caso, l'iniziativa in atto presso talune organizzazioni (9) , per una maggiore sensibilizzazione del "sistema" verso un più razionale utilizzo delle capacità esistenti, deve essere adeguatamente sostenuta dalle strutture pubbliche alle quali istituzionalmente spetta il compito di favorire lo sviluppo dei nostri rapporti commerciali con l'estero. L'appartenenza del nostro Paese ad un sistema economico internazionale che crede nel multilateralismo degli scambi, e l'adesione dell'Italia ad Istituzioni (Fondo Monetario, Banca Mondiale, ecc.) che giustamente cercano in tutti i modi di contrastare il dilagare del protezionismo, non consentono certamente di ufficializzare anche da noi la norma del "non compro più da te se tu non compri da me", ma restare alla finestra ed assistere passivamente all'erosione delle nostre quote di presenza nei mercati esteri non è certamente positivo. Se, a differenza di quanto fatto da altri Paesi industrializzati, che in fatto di pragmatismo non hanno nulla da invidiare a quelli in via di sviluppo, l'Italia intende rispettare rigidamente gli impegni presi a livello internazionale, sia almeno consentito che gli operatori privati adeguino le proprie strategie alla realtà dei vari mercati e lavorino con la necessaria assistenza e comprensione.

Note:

1 - Cfr.: "Gli operatori commerciali nel proceso di internazionalizzazione dell'economia italiana", curato da C. Secchi, Cescom/F. Angeli, Milano, 1984
2 - La bilancia commerciale verso l'estero dei due settori citati è infatti decisamente "passiva" per il settore della carta e "attiva" per quello delle calzature.
3 - Cfr.: Gian Cesare Marchesi, "La competitività dell'<Azienda Italia>", in GVCI n. 10/1986, 647, e "Trading Companies al servizio dell'<Azienda Italia>", in GVCI n. 11/1986, 720.
4 - Sul tema specifico del countertrade, cfr.: Gian Cesare Marchesi, "Guida agli scambi in compensazione", ANCE/IBI, Milano, 1986, e ancora, "Guida agli scambi in compensazione", in GVCI nn. 15 e 16/1984, 1048 e 1127; e nn. 7, 8, 9, 10 e 11/1984, 441, 517, 593, 669, 756.
5 - I dati qui riportati sono stati tratti dalle statistiche ISTAT sul commercio estero italiano (ed. 1985).
6 - Cfr. il rapporto preliminare per il convegno sul quarantennale della Confcommercio, "Contributo del commercio all'internazionalizzazione dell'economia italiana", Roma, 16 aprile 1986, ANCE/Banco di Roma, 1986, 40 e segg.
7 - Sul tema trading company, cfr.: S. Alessandrini, "Le trading companies e il commercio italiano di esportazione", Cescom/F. Angeli, Milano, 1982, e ancora, Gian Cesare Marchesi, "Trading companies", in GVCI nn. 16 e 17/1983 e 18/1984
8 - Cfr. : E. Marelli/G. Pecci/G. Tagliabue, "Le imprese commerciali italiane operanti con l'estero", Cescom/F. Angeli, Milano, 1981
9 - In prima linea l'ANCE (Associazione Nazionale Commercio Estero), Corso Venezia, 47/49, Milano.