Trading Companies alla prova sul palcoscenico della Fiera

Intervistato da Gaetano Cafiero per "Commercio Estero"

cod.: CE.88.06.TRC.0

Da Vice Presidente dell'Associazione Nazionale Commercio Estero, quello della Grande Fiera di Aprile mi sembra un momento molto particolare: perchè tra le varie partecipazioni è prevista una presenza ad alto livello di alcune aziende di commercio estero, le trading companies. Si tratta di una presenza significativa, soprattutto in vista del 1992, cioè dell'allargamento delle fron tiere italiane fino ai limiti continentali europei, e del conseguente intensificarsi dei contati, di sinergie operative tra le case di commercio estero attualmente operanti in Italia e quelle dei Paesi della CEE. La Fiera di quest'anno costi tuirà un momento di confronto tra le nostre realtà in questo contesto e quello degli altri Undici. In particolare con Francia, Germania, Benelux: cioè i Paesi che hanno sviluppato le esperienze di trading più significative a livello euro peo; Gran Bretagna esclusa, avendo il Regno Unito sviluppato un altro tipo di trading , più vicino a quello della confirming house. In Fiera verranno osserva tori (ma direi: "curiosi") di trading al di fuori della Comunità Europea: cana desi, statunitensi e, naturalmente, i soliti giapponesi e i sudcoreani, piuttosto forti in questo settore.

L'Italia, una situazione "mediterranea"

Le consuetudini nazionali nel trading sono molto diverse le une dalle altre, per ragioni storiche, correlate alle diverse realtà sociali ed imprenditoriali che ne hanno condizionato lo sviluppo. L'Italia ha una situazione del tutto partico lare, che non trova riscontro in altri Paesi europei se non, forse, ma in misura minore, in Portogallo e in Spagna. In Francia, in Belgio, in Olanda, le trading companies si sono formate in contesti storici sostanzialmente diversi dal no stro, soprattutto per l'antica e solida tradizione coloniale di quei Paesi: lì sono state create strutture che in origine avevano la funzione di raccogliere deter minati prodotti d'Oltremare, trasportarli nella madrepatria, e da lì distribuirli sui mercati europei. Da questa fase iniziale di matrice coloniale si sono poi svi luppati altri modelli di trading , tuttavia fortemente segnati dalla loro origine. Conclusa l'epoca coloniale, è rimasta la struttura di base e la grande espe rienza di queste organizzazioni che hanno assunto dimensioni sempre più imponenti. L'Italia, priva di una consolidata esperienza equiparabile a quella dei Paesi colonialisti, ha sviluppato un suo sistema di trading , nato soprattutto per l'iniziativa individuale di alcune persone, piuttosto che per scela manage riale di diversificazione dell'attività d'un gruppo industriale o finanziario. Questi imprenditori hanno cominciato a muoversi in una realtà abbastanza difficile, in un ambiente culturale "mediterraneo", dove ciascuno tenta di ca varsela da solo, di non delegare, di evitare qualsiasi forma d'intermediazione che suona, ancor oggi, come qualcosa di parassitario, che riduce i margini di profitto. In sostanza c'è, in Italia, una tendenza a fare a meno del trading , una resistenza a mutare abitudini e adeguarsi alle esigenze del commercio inter nazionale moderno. Questa resistenza tuttavia, deve e sta - in un certo senso - attenuandosi, tende a scomparire: perchè si è visto che ormai non si può fare a meno di certi tipi di strutture; soprattutto con l'aumentare delle difficoltà di commercio con certi Paesi, cona la necessità di escogitare formule com plesse, che non sono più quelle obsolete di un certo marketing, secondo le quali un'azienda riesce a piazzare il proprio prodotto e poi farsi pagare con i sistemi tradizionali. Oggi lo scenario mondiale è talmente stravolto, per gli av venimenti politici degli ultimi anni, per cui bisogna assolutamente escogitare formule nuove. O adattarne ai tempi di altre, apparentemente vecchie, come quella del countertrade : in questi casi è indispensabile valersi dell'appoggio di strutture specificatamente adeguate a questo tipo di operazioni. A quali tipi di aziende è più adatta la pratica del countertrade ? A quelle grandi, a quelle statali o, anche, alle piccole e medie imprese? Se lo scambio è al centro di un'iniziativa politica, di un interesse governativo, è senz'altro un'operazione che esula dalle possibilità delle piccole aziende; come le compensazioni a li vello di armamenti, di accordi Nato. Però vi sono operazioni molto più piccole che vengono effettuate quasi quotidianamente da operatori minori: tanto per dare un'idea, vorrei citare l'area di Trieste, in cui operano prevalentemente aziende di piccole dimensioni, che scambiano quotidianamente in termini di countertrade con la Jugoslavia e coi i Paesi dell'Est Europeo: un TIR carico di legname contro un container con dentro due macchine agricole, transazioni da 20 o 30 mila dollari al massimo. Quanto alla compensazione, questa forse è l'unica tecnica di scambio commerciale che non rientra nell'ottica di aziende che, tendenzialmente, vorrebbero fare tutto da sole. Perchè con la compen sazione l'azienda industriale deve valersi necessariamente di un'organizzazione specializzata che le assista: tranne nel caso in cui il pro dotto compensativo sia tale da poter essere utilizzato direttamente "in casa": il mobiliere che scambia mobili con legname.

Oltre le frontiere del countertrade

Ma in Europa il ruolo svolto dalle società di trading va molto al di là del countertrade ; mentre in Italia questo ruolo è ancora utilizzato sosltanto per operazioni particolarmente difficili o "antipatiche": ad esempio, una grande azienda industriale, che produce beni strumentali o di consumo, preferisce gestire da sè certi mercati "facili" (Stati Uniti, Germania, Giappone), ma se vuol compiere operazioni commerciali in Paesi lontani, difficili, che non rap presentano un mercato abbastanza interessante da valere la pena di una propria filiale di vendita, ecco che allora non disdegna il supporto della tra ding company. Nei Paesi europei che ho citato, invece, gli interventi delle trading non sono visti come un qualcosa di cui è meglio fare a meno, bensì come qualcosa che contribuisce a migliorare la propria presenza sui mercati esteri in un'economia di costi. La penetrazione su certi mercati presuppone per qualsiasi azienda la creazione di una struttura ad hoc , la quale comporta automaticamente dei costi; mentre se l'azienda si affida ad una struttura già costituita, automaticamente affronta dei costi minori che, al limite, possono es sere equivalenti a zero. Innanzitutto bisogna fare una distinzione: tra aziende che che intendono espandersi all'estero, in ottemperanza ad una propria va lutata scelta politica, e aziende che decidono di rivolgersi all'estero perchè si trovano al cospetto di inattesi cali della domanda interna. E quindi devono semplicemente svendere l'eccesso di produzione, ma sono prive di una stra tegia di export. In altre parole, l'azienda con un problema contingente va in cerca di assistenzialismo, non di assistenza. E se una di queste aziende si ri volge ad una trading, quest'ultima può valutare molto facilmente se la over production di questa azienda le interessa o no: ma come fattore contingente, perchè non è possibile compiere una seria operazione di marketing per un'azienda che oggi dispone di un certo prodotto in grande quantità, ma do mani potrebbe non averlo più perchè lo esaurirebbe grazie ad una ripresa della domanda interna.

I confini europei della domanda interna

E' chiaro che, in vista del 1992 - scadenza per la quale già tutti siamo, almeno concettualmente, attrezzati - quando si parla di "domanda interna" già s'intende "domanda europea". E quindi chi già vende, oltre che in Italia, an che in Francia, Germania e Regno Unito, non vede la necessità di andare a saggiare il mercato cinese o australiano. L'assistenza ad una strategia di ex port consiste essenzialmente in due aspetti: uno di marketing, e uno tecnico-commerciale e tecnico-finanziario. Il primo dev'essere gestito dall'azienda produttrice in prima persona; il secondo può essere di competenza di una trading company : purchè il prodotto di questa azienda medio-piccola s'inserisca nella logica di prodotto della trading , la quale, in caso contrario, non può dedicare le sue energie a qualcosa di contingente e di quantità rela tivamente piccola. Il momento della Grande Fiera d'Aprile è una grande op portunità di confronto e di studio delle rispettive situazioni nei Dodici Paesi: perchè il 1992 significherà che una trading tedesca o francese può venire li beramente a lavorare in Italia e, naturalmente, che una italiana può andare li beramente a lavorare a Bonn o a Parigi. Quindi dobbiamo cercare di capire come si potrà venire o andare a lavorare in un Paese diverso dal proprio; e come si possa restare a casa propria per lavorare, però tutti allo stesso modo. La Fiera certamente getterà le basi, attraverso incontri e seminari, per un pro ficuo confronto in questi campi. Servirà agli USA per imparare dall'Europa come si fa il trading , dopo il fiasco ottenuto tentando di "copiare" i giapponesi. Ma sarà soprattutto la prima volta in cui in Fiera si parlerà più concretamente di queste problematiche: e questa certamente è una delle funzioni nuove, in novative, d'una Fiera di Milano impegnata ad adeguare le proprie strutture, il proprio funzionamento, alle esigenze in continuo mutamento della business community.