L'Esportazione nell'impresa, vincoli, rischi e opportunità

Le strategie aziendali

Intervento al Convegno IPSOA, Milanofiori, del 27 aprile 1988

cod. CON.88.AA.COM.1

Premesse

Nel dicembre del 1987, esattamente il giorno di S. Ambrogio, mi trovavo a Tokyo e, fatto strano per quel periodo, nevicava. L'atmosfera pre-natalizia che avevo lasciato partendo da Milano me la ritrovavo, quindi, in un altro contesto geografico e religioso, a migliaia di chilometri di distanza non solo a causa del manto bianco che ricopriva la megalopoli giapponese, bensì anche negli addobbi festaioli che, qua e là cominciavano a notarsi nelle vetrine della Ginza. Stava avvicinandosi l'inizio del nuovo anno e nella maggior parte delle imprese del nostro Paese si davano gli ultimi ritocchi ai budgets operativi per il 1988 e ci si ponevano i soliti interrogativi sull'andamento futuro della domanda, sui margini di oscillazione delle valute, sulla stabilità o meno del Governo, ecc., e si tenevano anche d'occhio gli oroscopi ed i responsi della cabala, sciorinati a piene mani dai rotocalchi nazionali. L'imminenza del nuovo anno era invece vissuta, dal punto di vista aziendale, in modo totalmente diverso in Giappone. Era infatti solamente una questione di calendario, di esigenze contabili e burocratiche, ma era ben lungi dal rappresentare un qualcosa di innovativo sul piano dell'attuazione di strategie o di politiche operative, che trovavano altre scadenze, altre verifiche, altri obiettivi ben a più lungo termine. Ciò che infatti si sarebbe dovuto fare nel 1988 era già stato programmato e previsto (con le solite inevitabili riserve, ed i conseguenti aggiustamenti) molto tempo prima, e le aziende giapponesi sul finire del 1987 stavano già operando con lo sguardo al 2000, in uno sforzo programmatico e di ricerca che costituisce, da un lato, un modello di efficienza pressochè unico e, dall'altro, una ragione di seria preoccupazione per l'intero mondo "occidentale".

La "scadenza" del 1992

Questa premessa mi è sembrata opportuna perchè, rientrato in Italia, ho notato che - risolto , più o meno bene, il problema del budget 1988 - il "sistema" cominciava ad allargare l'orizzonte delle sue previsioni, guardando ad una scadenza che va un pochino più in là nel tempo, per avvicinarsi al fatidico 1992, anno in cui "dovrebbero" cadere le frontiere che separano i Paesi comunitari per dar libera circolazione alle merci ed alle persone. Ho volutamente usato il termine "dovrebbero", perchè già si parla di possibilità di rinvii, di slittamenti, di eccezioni e di altri ostacoli che fanno seriamente pensare - alle persone come me non più giovanissime - di non poter fare in tempo a vedere l'effettivo abbattimento delle barriere confinarie del vecchio continente. In effetti il problema, al di là delle facili utopie e delle dichiarazioni d'intenti, è ben più complesso di quanto potrebbe a prima vista apparire, e ciò particolarmente per quanto riguarda un Paese come il nostro che presenta caratteristiche storiche, strutturali e socio-economiche di non facile interpretazione. Al di là dei casi episodici di "scalate" italiane a grandi Gruppi europei o di mondializzazioni (più annunciate che realizzate) dell'economia nazionale, il nostro Paese resta, fondamentalmente, una realtà purtroppo ancora malata di "provincialismo", il quale traspare con evidenza ogniqualvolta ci si confronti, su di un piano settoriale, con altri più accreditati "partners" europei. Basti pensare alla situazione dei nostri porti, aeroporti e ferrovie, al grado di "internazionalizzazione" del nostro sistema finanziario, al livello di conoscenza delle lingue straniere, ecc. Non è certamente una situazione unica, nè - tanto meno - drammatica, ma necessita comunque di un notevole impegno di volontà e di risorse per potersi trasformare in qualcosa di veramente aperto ad una più vasta comunità umana e d'interessi.

La posizione internazionale dell'"Azienda Italia"

D'altro canto siamo pur sempre i discendenti di quegli antichi genitori che dicevano "audaces fortuna juvat" e questa "audacia", condita dalla innata fantasia mediterranea e, talvolta, da un pizzico di fortuna, ci consente di mantenere la sesta posizione nel novero dei principali esportatori mondiali.

Tav. 1

Si tratta di una posizione che forse non ci sorprende troppo, ma che rappresenta qualcosa di non facilmente comprensibile per lo straniero che, quando giunge in Italia, non riesce a collegare questo dato di fatto con il degrado in cui si trovano i servizi pubblici, con i vincoli e le pastoie frapposte dalle nostre Autorità monetarie e con l'eccessiva prodigalità dei cittadini. In realtà, se - da una parte - siamo fra i primi Paesi esportatori, lo siamo anche fra quelli importatori, ed il risultato che ne deriva è un deficit commerciale che alla fine del 1987 era pari a circa 8 miliardi di dollari, nonostante l'inaspettato e benvenuto calo del prezzo del petrolio.

Tav. 2

Tutto ciò è stato reso possibile anche attraverso funambulismi tecnico-commerciali nei quali siamo maestri, ma cosa succederà se nel 1992 cadranno veramente le barriere comunitarie ed il confronto competitivo con le realtà esterne diventerà più evidente? Non limitiamoci quindi a fare i soliti scongiuri di rito, bensì cerchiamo di assumere un atteggiamento meno "provinciale" e di avviare sin d'ora un processo di vera internazionalizzazione che ci consenta di utilizzare al meglio le nostre capacità intrinseche.

Le strategie globali

Le azioni da compiere sono, d'altro canto, ben individuate da tempo: si tratta ora di intervenire con determinazione e coerenza, sia nel campo normativo che in quello della formazione, negli investimenti (ricerca compresa) e nei consumi, sia nel settore pubblico che in quello privato, in una visione armonica che tenga conto della necessaria gradualità delle modifiche, ma anche dell'esigenza di ridare maggiore fiducia agli operatori in termini di sicurezza e di stabilità. La necessità di disporre di una maggiore competitività non va vista soltanto in funzione di creare una barriera protezionistica nei confronti della concorrenza comunitaria all'interno del mercato unico europeo, ma anche (e, forse, soprattutto) con la finalità di recuperare all'esterno quelle posizioni che negli ultimi anni hanno visto il costante regresso dell'"Azienda Italia". Questa esigenza è ancora più sentita laddove si consideri che, in aggiunta ad una prevedibile maggior concorrenza degli altri partners europei, nei prossimi anni assisteremo quasi certamente anche all'aggressione selvaggia delle 4 Tigri asiatiche che potrebbero ricreare, in chiave attuale, le problematiche sorte negli anni '60 e '70 a seguito dell'espansione giapponese. Di fronte a queste prospettive le aziende del nostro Paese devono adeguatamente premunirsi, non sostanto attuando particolari azioni difensive, bensì organizzando sin d'ora precise strategie d'attacco. Per poter far ciò occorre, innanzi tutto, che da parte degli Organi Legislativi si porti a compimento (nel più breve tempo possibile) la revisione globale della normativa (valutaria, doganale, assicurativa, ecc.) per adeguarla sia a quella degli altri Paesi europei più evoluti, che alle esigenze del commercio internazionale degli anni '90.

Sviluppo del marketing internazionale

Da questa base di partenza dovranno quindi nascere indispensabili azioni imprenditoriali tese ad uno sviluppo del marketing estero sia dal punto di vista puramente strategico che operativo. Sarà anche opportuno attuare in forma sistematica quelle sinergie fra industria e commercio che sinora sono state troppo spesso utilizzate soltanto in forma marginale ed estemporanea. L'avvento del mercato unico europeo potrebbe inoltre creare particolari problemi a quelle aziende di dimensione medio, medio-piccola che sinora non hanno ancora espresso una precisa "vocazione" internazionale e che hanno considerato l'export come una pura risorsa contingente per sopperire al calo della domanda interna o ad un particolare eccesso di produzione. Purtroppo quest'ultimo rappresenta il lato più complesso e delicato dell'intera problematica ed apre un discorso di marketing internazionale nel quale l'"Azienda Italia", eccettuati casi particolari riferiti principalmente ad aziende già affermate, si trova fortemente arretrata e su posizioni che, ancora una volta, possiamo definire di tipo "provinciale". Infatti, nonostante i nostri volumi globali di export, come abbiamo visto più sopra, siano tutt'altro che insignificanti, molte "vendite estero" vengono tuttora realizzate sulla base di "acquisti" che vengono richiesti dall'estero, senza che vi sia, da parte delle aziende manifatturiere, una strategia di vendita che permetta loro di conoscere e di "possedere" il mercato di sbocco. In altri termini, sono spesso gli stranieri che acquistano i nostri prodotti più che essere noi ad andare a venderli all'estero. Questa situazione può essere ritenuta soddisfacente nel breve periodo, ma potrebbe diventare pericolosa (ed in un certo senso negli ultimi tempi il pericolo si è già ampiamente manifestato) nel medio-lungo termine se non si interviene per tempo con azioni di commercializzazione promosse dalle aziende produttrici, direttamente o con l'assistenza continuativa di strutture specializzate (Trading Companies), di Agenti mono o pluri-mandatari, ecc.

Tav. 3

Certamente saranno la dimensione aziendale, la tipologia di prodotto, il peso della "componente export" e la scelta delle aree di sbocco a determinare le modalità di penetrazione più idonee, ma - in ogni caso - il tutto deve ubbidire ad una precisa strategia che, nel rispetto delle regole canoniche del marketing internazionale, stabilisca dove, quando, come e per quanto si devono aggredire, conquistare e mantenere i mercati esteri di maggior interesse.

Un campione significativo

Da un'indagine effettuata nel 1983 dall'Assolombarda su un campione significativo di aziende lombarde di medio, medio-piccola dimensione è risultato, ad esempio, che le scelte dei canali di esportazione effettuate presentavano casistiche alquanto variabili a seconda dei mercati di sbocco considerati. Per quanto riguardava l'Europa Occidentale, il 22 % delle esportazioni venivano realizzate attraverso acquisti effettuati da importatori esteri, mentre un'altra quota (non meglio definita dal punto di vista quantitativo) veniva assorbita da aziende di import-export straniere.

Tav.4

Spostando l'indagine sul mercato Nord-Americano, si vedeva invece come il volume di export assorbito dagli importatori esteri ( rappresentati principalmente da Buyers o da centrali d'acquisto di matrice estera residenti nel nostro Paese) salisse al 30 % , sottolineando così ancora di più la dipendenza delle nostre aziende dalle scelte qualitative effettuate al di fuori dell'impresa di produzione. La percentuale saliva quindi al 37 % se si considerava che il canale "Trading Company" (indicato nella statistica per un valore globale dell' 11 %) comprendeva un 7 % rappresentato da case di commercio estero straniere.

Tav. 5

La situazione, infine, si ripeteva ancora quando si osservavano le esportazioni verso gli altri Paesi, con un 21,9O % rappresentato da importatori esteri al quale si aggiungeva un 7 % acquistato da case di import-export straniere.

Tav. 6

Come si è potuto notare, l'intervento dell'importatore estero costituisce un canale di vendita largamente utilizzato, con le conseguenze (non sempre positive) che si possono trarre da una prassi che, il più delle volte, non consente all'impresa manifatturiera di acquisire direttamente la reale conoscenza del mercato di utilizzo dei propri prodotti e, quindi, di poter gestire adeguatamente una strategia di vendita nel medio-lungo termine. Dall'indagine citata si rileva inoltre, in generale, lo scarso contributo apportato da tutte quelle forme di sinergia o di integrazione orizzontale rappresentate dalle forme consortili o dall'utilizzo di strutture commerciali nazionali (Trading Companies). Nonostante siano ormai trascorsi 5 anni dall'effettuazione di questa ricerca, la situazione non è sostanzialmente mutata e denuncia un preoccupante stato di debolezza del nostro sistema che non è ancora riuscito ad inserirsi in quella politica di mondializzazione (o di globalizzazione) da tempo auspicata. A frenare il processo di sviluppo contribuiscono varî fattori, fra i quali si possono citare ancora una volta: la poco convinta "vocazione" export delle aziende italiane di dimensione medio, medio/piccola, le resistenze verso forme istituzionali di collaborazione orizzontale, l'insufficiente, scoordinata e spesso dispersiva assistenza delle Strutture Pubbliche e semi-Pubbliche preposte allo sviluppo del nostro commercio con l'estero.

Predisporsi per tempo

Certamente la fatidica data del 1° gennaio 1992, al di là delle inevitabili manifestazioni di rito che si svolgeranno per celebrare l'avvenimento, non costituirà di per sè stessa un momento di totale cambiamento delle abitudini, delle procedure e delle regole che governano l'equilibrio dei mercati della vecchia Europa, ma soltanto l'inizio di un processo di graduale integrazione e di maggiore competitività che dovrà portare, prima o poi, al raggiungimento degli obiettivi fissati. La maggiore competitività richiede una migliore efficienza da parte dei concorrenti in campo, e questa efficienza si può e si deve costruire sin da ora attraverso l'attuazione di una più incisiva strategia commerciale, particolarmente mirata all'allargamento dell'attuale concetto di "mercato interno". Le azioni da svolgere dovranno, sostanzialmente, tendere al migliore utilizzo degli strumenti disponibili, fra i quali assumeranno particolare rilievo i seguenti:

1 - L'informazione,
2 - Le ricerche di mercato,
3 - La fissazione degli obiettivi e dei mix,
4 - L'investimento nella ricerca tecnologica,
5 - La scelta dei canali di vendita,
6 - L'attuazione delle più ampie sinergie operative.

L'occasione di questo incontro non consente certamente di poter sufficientemente approfondire tutte le tematiche operative relative ad una corretta strategia di marketing internazionale, per la quale - peraltro - esistono specifici seminari anche all'interno della struttura che ci ospita; desidererei comunque spendere qualche parola sull'ultimo dei temi che ho più sopra elencato: quello che riguarda l'utilizzo di più ampie sinergie operative nel campo - più generale - dello sviluppo degli scambi internazionali.

Ricerca di sinergie operative

Il processo d'internazionalizzazione di un'attività economica deve trovare il suo avvio, prima di tutto, nella convinzione personale dell'imprenditore di dover e voler estendere la propria attività al di là delle limitazioni territoriali tradizionalmente pre-esistenti. E' in sostanza un salto di qualità che rappresenta qualcosa di innovativo e che richiede un corollario di supporti specifici e ben strutturati. Esporre un prodotto ad una mostra o ad una Fiera e vederselo acquistare dai visitatori stranieri può rappresentare un soddisfacente "test" di partenza, ma non significa ancora che l'azienda si sia internazionalizzata. La casualità di questo tipo di esportazioni ricorda infatti la bancarella dell'ambulante che si sposta da un paese all'altro attendendo che le massaie si avvicinino per essere invogliate ad acquistare da una parlantina disinvolta o da uno sguardo ammiccante. Anche se l'esempio citato può sembrare ovvio e scontato, l'acquisizione di un mercato estero è tutt'altra cosa e richiede ben altri strumenti e ben differenti strategie, soprattutto in un contesto internazionale, quale quello attuale, sempre più caratterizzato da una concorrenza esasperata e dalle più fantasiose barriere protezionistiche. Se però le aziende di una certa dimensione riescono a costituire -al loro stesso interno e/o tramite canali esterni- una struttura export in grado di garantire una sufficiente presenza nei mercati esteri prescelti, le imprese di minore dimensione si arenano troppo spesso di fronte alle limitazioni strutturali esistenti e nel timore di dover "dividere" con altri i margini di manovra disponibili. Si crea così un circolo vizioso dal quale riesce talvolta difficile districarsi. L'esempio tipico si ottiene dall'esame comportamentale di molte imprese di medio-piccola dimensione unite in forme consortili per lo sviluppo dell'export: fintantochè le sovvenzioni governative riescono a mantenere in vita il sistema, tutto va più o meno bene, ma quando si richiede ai consorziati di contribuire in forma più consistente al rafforzamento delle strutture comuni (soprattutto in termini di marketing), nascono le gelosie, i personalismi, i timori di perdere la propria individualità e si affossano così le possibilità di sfruttare intelligentemente le risorse disponibili. Più o meno analogo è il comportamento nei confronti delle Trading Companies: queste aziende vengono - il più delle volte - interpellate solo per risolvere un caso specifico che non ha trovato una soluzione autarchica (ad esempio, una proposta di scambio compensativo con prodotti difficilmente vendibili e, comunque, non inseribili nel ciclo produttivo o distributivo della stessa impresa esportatrice), ma ben difficilmente viene ricercata una forma di collaborazione continuativa che possa permettere un utilizzo razionale delle strutture e delle risorse presenti nelle due funzioni imprenditoriali. Nella sostanza, si cerca più un assistenzialismo che non un'assistenza. Nell'ottica del 1992 tutto ciò dovrà necessariamente modificarsi se non si vorrà assistere ad una colonizzazione delle nostre imprese minori ad opera di quelle imprese straniere che potranno liberamente entrare nel nostro mercato portandosi appresso una tradizione internazionale più libera e meno condizionata da limitazioni burocratiche o da remore di tipo "provinciale".

Bibliografia suggerita

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.G.Pellicelli - "Strategie per l'esportazione: analisi dei fattori di marketing internazionale" - Etas libri, Milano, 1980
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