Il fattore umano

Articolo non pubblicato come tale. Rifatto e pubblicato dall'ICE. Ved. cod. ES8902TRC0

cod.: XX.88.00.TRC.0

Milano, 28 0ttobre 1988

Negli anni '60 e '70 si erano forse creati in Italia i presupposti per la forma zione di vere e proprie General Trading Companies, sulla scia dello sviluppo della nostra economia, ma anche per la presenza di una spinta motivazionale di carattere generale che stimolava la creatività, lo spirito di sacrificio ed il co raggio del "rischio". Sono infatti ricollegabili a quei tempi i successi conseguiti da alcune strutture commerciali che -quando ancora il termine "trading com pany" non era balzato agli onori delle cronache- avevano compreso l'opportunità che si presentava loro di conquistare un proprio spazio nel pro cesso di internazionalizzazione che si stava avviando in Italia. In un Paese, cioè, che stava uscendo dall'auto-isolamento autarchico e corporativo del pe riodo pre-bellico e dagli impegni di ricostruzione nazionale conseguenti alla fine del conflitto. Quegli anni hanno fatto riscontrare significativi successi di molte strutture di trading italiane (*), non soltanto sotto il profilo strettamente economico, ma anche per ciò che avevano rappresentato -in termini innova tivi- le loro azioni promozionali sull'estero. I modelli di riferimento erano prin cipalmente forniti dalle "Confirming Houses" di stampo britannico o dai "Courtiers" di origine transalpina che -a loro volta- derivavano le loro espe rienze e le loro tradizioni dalle "Compagnie" commerciali di stampo coloniale. Le tradings italiane, nuove o rinnovate che fossero a quel tempo, avevano pazientemente e coraggiosamente scavato una loro nicchia e conquistato un loro spazio operativo ripartendosi in modo equo -e forse inconsciamente- le aree ed i prodotti trattati. Ciascuna di esse aveva compreso l'importanza di effettuare i necessari investimenti per disporre di una sua "rete" estera -sotto forma di filiali, consociate, rappresentanti, ecc.- e per fornire un insieme di servizi, sia al produttore che all'utilizzatore finale, tali da impreziosire il ruolo svolto e superare il concetto di pura intermediazione che aveva precedente mente caratterizzato molte imprese di import-export. Il risultato è stato evi dente, anche se -al momento - forse non sufficientemente reso noto e pale semente riconosciuto. D'altro canto occorre ricordare che mentre oggi si as siste talvolta ad un desiderio di "palcoscenico", dove molti vogliono recitare la propria parte in veste di protagonista e balzare così agli onori, seppur alqu anto effimeri della cronaca, negli anni citati l'ambizione del successo restava legata ai risultati conseguiti, senza che si sentisse il desiderio -o il bisogno- di esternare le proprie glorie urbis et orbi. Si è dunque detto che "forse" esiste vano allora le premesse per la formazione di vere e proprie GTC: vediamo di cercare di capire cosa ha impedito che ciò avvenisse in senso ampio o, qu anto meno, che ciò consentisse a tutte quelle strutture di mantenere, raffor zare ed ingigantire la propria immagine adeguandola alle sempre mutevoli esigenze del commercio internazionale e trasformandola in quei modelli di "trading alla giapponese" che vengono spesso indicati quali invidiabili stru menti di soluzione dei nostri problemi dell'interscambio con l'estero. Le cause non sono certamente nè di facile nè di comune identificazione perchè molte sono state le componenti interne ed esterne che hanno -in molti casi- frenato il processo di sviluppo così sapientemente avviato. Su un piano, per così dire, socio-politico le trasformazioni avvenute sul finire degli anni '60 hanno in dubbiamente scosso la carica di entusiasmo che animava le forze più avan zate della nostra imprenditoria; sotto il profilo economico le crisi petrolifere hanno sconvolto gli scenari del commercio internazionale; le vicissitudini fi nanziarie e le altalene monetarie hanno -infine- contribuito ulteriormente ad aggravare la situazione (o ne sono state la causa trainante). Certamente an che la politica economica, e le limitazioni valutarie, attuate dai varî Governi che si sono succeduti negli ultimi decenni hanno avuto il loro peso, non con sentendo al'Azienda Italia l'impostazione di una strategia di marketing inter nazionale stabile e razionale, ma tutto ciò non deve essere utilizzato come unico alibi a giustificazione di un fenomeno che, in misura preponderante, trova invece le sue radici in un contesto socio-economico tipicamente medi terraneo e difficilmente modificabile nei tempi brevi. La fonte della creatività e dello spirito d'iniziativa sta sempre nell'uomo, con i suoi pregi e con i suoi difetti, con i suoi umori e con le sue passioni, e questa presenza umana -in un Paese caratterizzato da un individualismo accentuato- è particolarmente significativa nella struttura di trading, dove l'intuizione, la fantasia, il coraggio e l'autonomia decisionale giocano un ruolo primario nel conseguimento del successo. Se rivediamo i casi delle tradings citate più sopra scopriamo che all'origine del loro più significativo sviluppo c'era sempre un uomo che aveva saputo produrre "un'idea", realizzandola con la necessaria autonomia deci sionale (e con il solito indispensabile pizzico di fortuna) e traendone quindi, individualmente, i relativi benefici, materiali od immateriali che fossero. Laddove queste condizioni sono rimaste l'immagine aziendale si è irrobustita ed ingigantita (non necessariamente nello stesso campo nel quale era nata), in altri casi si è rassegnata ad una collocazione dignitosa ma marginale, an corquando non è del tutto scamparsa per far posto ad altre iniziative più gio vani e dinamiche. Purtroppo infatti la genialità non sempre si sposa con la lungimiranza e la vita umana è soggetta ad un ciclo biologico irreversibile contro il quale nulla possono fare le altre pur eccezionali doti in possesso dell'individuo. E così anche il "trader" invecchia, portandosi appresso una sua genialità che non sempre gli è stato possibile "trasferire" ad altri, a coloro -cioè- che dovrebbero proseguire ed ampliare il "trend" di crescita aziendale. In alcuni casi si è trattato di limiti -per così dire- "familiari", legati cioè ad una successione naturale non molto fortunata, in altri esempi si è trattato di un ec cesso di "accentramento decisionale" e di una carenza di "delega" che non hanno consentito la formazione di uno "staff" sufficientemente autonomo ed omogeneo. In altri termini la Trading si è immedesimata troppo spesso con il suo "creatore" e, con lui, ha talvolta subito l'inevitabile stesso processo geron tologico. D'altro canto occorre notare che la trading, a differenza di altre strut ture industriali o finanziarie (dove, peraltro, possono facilmente riscontrarsi analoghi problemi di successione gestionale), è un'azienda di servizi, dove l'"asset" principale consiste proprio nella capacità dei suoi uomini di cogliere al momento giusto le opportunità che si presentano sul mercato e di preve dere per tempo i "bisogni" che si potranno verificare nel futuro. E in un conte sto economico quale quello italiano, dove regnano sovrani l'individualismo e il "do-it-yourself", il compito della trading non è certamente nè unico, nè facile. Il fattore-uomo è quindi una delle componenti spesso determinanti per il suc cesso di questo tipo di azienda ed i varî tentativi -sinora tentati a livello ita liano- di superarlo, creando complesse ed articolate strutture organizzative formate da funzionari preparati e capaci, hanno retto egregiamente sintanto chè c'era al vertice il "trader": sempre e soltanto lui. Ciò, peraltro, non rappre senta soltanto un fenomeno di casa nostra: il recente caso statunitense, con seguente all'emanazione dell'Export Trading Company Act del 1982, ne è stato una ulteriore riprova. Non sono infatti bastati nè i mezzi finanziari, nè i network operativi messi a disposizione dalle banche statunitensi a decretare la fama di quelle tradings bancarie, e le pur valide giustificazioni addotte per mitigare gli effetti dello scottante insuccesso (esistenza di vincoli normativi che imbrigliavano l'operatività aziendale) non hanno ancora convinto tutti. Ciò che è principalmente mancato è stata la presenza del "trader", della sua "genialità" e della sua libertà di iniziativa. Lo stesso caso si è riscontrato già in altre occasioni in Italia ogniqualvolta si è trattato di avviare un'iniziativa di trading a carattere pubblico o semi-pubblico: a sostenere il peso dei costi aziendali hanno contribuito -fintantochè ciò è stato materialmente e tacita mente possibile- le "iniezioni" dell'azionista piuttosto che i profitti derivanti dall'attività commerciale corrente. E tutto ciò a prescindere dai varî casi di as sistenzialismo, di clientelismo o di protagonismo che potrebbero essere facil mente individuati in alcune di queste iniziative. Certamente è spesso difficile guardare in faccia la realtà, essendo molto più semplice dare del ladro al Governo quando fuori piove, ma è necessario riflettere più approfonditamente sulle molteplici cause della mancata crescita del trading italiano e cercare di individuare quei "lati deboli" che richiedono un'inversione di rotta per non tro varci completamente spiazzati, nei confronti degli altri "colleghi europei" alla vicina scadenza del 1992. L'elemento-umano deve essere meglio formato, valorizzato ed integrato nel "sistema", perchè è soltanto con il giusto ricambio di tutte le componenti "strumentali" della trading che la sua funzione può mantenere la propria presenza insostituibile nella dinamica dei mercati inter nazionali.

Note:

(*) Quali, ad esempio, la SCEI (costituita nel 1910 ed operante nei Paesi del sud-est asiatico), la COGIS (costituita nel 1956 - Cina e Paesi dell'Est europeo), la FERRUZZI (costituita nel 1960 - cereali), la COE & CLERICI (costituita nel 1920 - materie prime siderurgiche) e l'INTERSOMER (costituita nel 1955 - Paesi dell'Africa Sub-sahariana)