(parte 1)

Il quadro di riferimento

Una delle numerose delegazioni economiche dei Paesi a basso reddito che in questi ultimi anni visitano le Nazioni più industrializzate alla ricerca di nuovi sostegni allo sviluppo, ha tenuto giorni fa un seminario in Italia dicendo, più o meno: "Venite da noi e portateci la tecnologia di cui abbiamo bisogno. Noi, purtroppo, non abbiamo denari da investire ed abbiamo poche altre risorse da darvi in cambio, ma garantiamo che i vostri investimenti saranno ripagati con parte dei beni che ci consentirete di produrre e saranno tutelati dalla nostra correttezza e dalla nostra decisa volontà di uscire dall'isolamento in cui ci troviamo". E' un discorso che ormai si ripete troppo spesso, dall'America latina al Sud-est asiatico, dall'Est-europeo all'Africa nera, delineando uno scenario che nella sua amara realtà sanziona la sconfitta sul campo del multilateralismo finanziario costruito al termine del secondo conflitto mondiale sugli accordi di Bretton Woods e l'insuccesso delle pianificazioni economiche attuate dai socialismi più o meno reali. Cadute molte illusioni (ed anche qualche ipocrisia) i nodi sono venuti al pettine ed ora pongono nuovi interrogativi sulle strategie da adottare, sia per il mantenimento delle posizioni raggiunte dai Paesi più sviluppati, che per il soddisfacimento delle legittime istanze di chi vuole emergere. In questa fase, per così dire "transitoria", dei rapporti di scambio internazionali è ritornato alla ribalta lo strumento più primitivo, il baratto, in tutte le sue espressioni più o meno sofisticate e più o meno mascherate sotto terminologie moderne. Che nelle sue applicazioni elementari (puri scambi di merce contro merce) il baratto rappresenti una formula utilizzabile in un periodo limitato nel tempo non v'è alcun dubbio; tant'è vero che, esaurita la spinta euforica che aveva caratterizzato gli anni '70 ed '80, ci si orienta da qualche anno verso schemi meno estemporanei, basati su un maggior realismo programmatico e su motivazioni di fondo sicuramente più concrete. Si è infatti compreso che quel determinato Paese, che aveva utilizzato impropriamente i mezzi finanziari messigli a suo tempo a disposizione dai Paesi ricchi ed aveva eretto inutili "cattedrali nel deserto", non ha potuto rimborsare i propri debiti anche perchè ha continuato ad essere povero, come e più di prima, di risorse generatrici di valuta. La soluzione per il proseguimento del suo programma di sviluppo non poteva quindi essere riposta nel baratto, che nel breve periodo sottraeva semplicemente dei beni già peraltro impegnati per il ripagamento dei debiti pregressi, bensì doveva essere ricercata in una diversa strategia di internazionalizzazione ed in una migliore utilizzazione delle risorse, sia interne che esterne. Tutto ciò ha dato avvio ad una nuova fase, nella quale si parla sempre più di cooperazione industriale e di joint-ventures, e dove gli scambi in compensazione intervengono non più secondo il concetto semplicistico dell"io compro da te se tu compri da me", bensì quale vero e proprio strumento di marketing internazionale e di integrazione sinergica fra sistemi e fra imprese sempre più inseriti in una dinamica di globalizzazione dei mercati. Il processo di acquisizione di questa nuova "maturità" è passato dapprima attraverso una fase in cui il countertrade, risorto cautamente dalle ceneri del passato ed applicato in chiave più moderna, idealmente costituiva lo strumento alternativo alla carenza di sostegni finanziari esterni di tipo tradizionale. In un secondo tempo, allargatosi a macchia d'olio (almeno intenzionalmente) ed utilizzato forse troppo spesso in modo indiscriminato, ha denunciato tutti i suoi limiti e messo in risalto la sua incapacità di sostituire quella moneta che, come è stato da più parti sottolineato, è stata a suo tempo creata proprio per sostituire il baratto. Alla fine si è determinato un più giusto punto di equilibrio, che vede gli scambi in compensazione non più come una mera forzatura imposta dall'acquirente del bene principale nei confronti di un fornitore pressato dalla necessità di vendere, bensì come una modalità di utilizzo di un insieme di fattori (disponibilità di materie o di basso costo del lavoro da una parte, presenza di un riconosciuto know-how tecnico e/o di un efficiente network distributivo dall'altra) che possono bene integrarsi fra loro in una comune logica di mercato. Osservata da un'altra angolazione, questa "maturità" ha dato forse ragione alle scelte a suo tempo effettuate dai Paesi dell'Est nei confronti del countertrade con il mondo industrializzato, laddove si è sempre badato più alla possibilità di collocare ad Ovest - utilizzando le esistenti strutture commerciali - i prodotti delle economie pianificate (in genere scarsamente appetibili sotto il profilo qualitativo e d'immagine), che non "svendere" ad ogni costo - magari due o tre volte come hanno fatto le Filippine ai tempi di Marcos con lo stesso zucchero - qualsiasi prodotto in cambio dei beni d'importazione. D'altro canto non si deve dimenticare il fatto che, mentre nei Paesi occidentali il countertrade ha fatto la sua riapparizione solo a seguito delle varie crisi finanziarie succedutesi a partire dagli anni '60, nei Paesi ad economia pianificata non ha mai cessato di esistere ed ha, anzi, costituito l'unica formula di regolamento dell'interscambio mercantile.