(parte 4)

Il countertrade in Italia

Nella giungla delle disposizioni normative che per molti anni hanno reso particolarmente difficoltoso lo sviluppo armonico del commercio estero italiano, la compensazione ed il "commercio di transito" (fra i quali esiste una stretta correlazione) hanno trovato una serie di precisi ostacoli che hanno impedito ai loro operatori di mantenere il passo con la concorrenza estera più qualificata. Infatti, sino all'avvento - peraltro recente - della liberalizzazione valutaria, il countertrade era soggetto a specifiche autorizzazioni ministeriali, mentre il "transito" era vincolato a ferree limitazioni in termini di tempistiche di realizzazione, di ammontari, di equilibrî economici, ecc. A tutto ciò si aggiungevano le più generali restrizioni all'export (ad esempio, l'incostanza dei termini di regolamento valutario) ed all'import (ad esempio, la politica dei contingenti per molte merci provenienti dai Paesi dell'Est), che ponevano il nostro Paese in una situazione di palese inferiorità nei confronti di altre Nazioni, comunitarie e non, più vicine alle esigenze degli operatori con l'estero. Fra le varie ragioni che venivano addotte per giustificare l'atteggiamento di estrema cautela nei confronti del countertrade, oltre all'immancabile timore che anche queste operazioni potessero facilitare l'espatrio clandestino di valuta, c'era l'impegno assunto a suo tempo dall'Italia nei confronti di organismi internazionali quali il GATT, la Banca Mondiale, l'IMF, ecc., per la difesa ad oltranza della multilateralità degli scambi. C'era, ancora, la preoccupazione che l'allargamento delle possibilità di importazione potesse nuocere al nostro Paese sotto il profilo occupazionale. Impegni e timori che, peraltro, altri Paesi industrializzati, dotati di maggior pragmatismo del nostro, avevano da tempo superato. Uno degli effetti pratici di questa politica falsamente protezionistica si riscontrava, ad esempio, in taluni prodotti originari dell'Est europeo, che entravano tramite compensazioni con la DDR nella Germania Federale e da quest'ultima, beneficiando dei trattamenti comunitari, in Italia. Tutto ciò ha portato ad un vero e proprio "dirottamento" di funzioni e di esperienze verso altri mercati europei che, per anni, hanno tratto vantaggio dalle nostre incertezze. Nella seconda metà degli anni '80 si sono gradualmente manifestate anche in Italia le prime "aperture", che ora consentono una maggiore flessibilità operativa e, teoricamente, un maggior grado di competitività sul piano internazionale. Purtroppo, però, talune esperienze non si ricostruiscono automaticamente con semplici e pur lodevoli decreti di liberalizzazione e ci vorrà certamente del tempo prima che i nostri operatori possano recuperare per intero le posizioni perdute. Tutto ciò, comunque, non ha del tutto impedito che lo spirito di iniziativa degli imprenditori nazionali, districandosi talvolta funambolicamente fra divieti e permessi, abbia potuto realizzare talune operazioni compensative, anche di una certa importanza, con l'intervento diretto di aziende di trading italiane. Parallelamente è stata condotta un'azione di costante sensibilizzazione nei confronti delle Istituzioni Pubbliche (Mincomes, ICE, SACE, ecc.), che ha portato, innanzi tutto, al riconoscimento dell'esistenza del fenomeno compensativo e, conseguentemente, alla predisposizione di taluni provvedimenti normativi atti - quanto meno - a non più ostacolarlo. In questo contesto sono certamente da sottolineare le azioni intraprese dall'Associazione Nazionale del Commercio Estero, ANCE (che raggruppa le principali Case di Commercio Estero italiane), sia a livello formativo con la partecipazione a convegni e seminari, l'edizione di una specifica "Guida agli scambi in compensazione", ecc., che sul piano propositivo attraverso l'istituzione di una "Griglia Countertrade" e la collaborazione con le Istituzioni Pubbliche maggiormente interessate allo sviluppo del commercio estero italiano. Nel corso del Convegno "Marco Polo", tenutosi a Milano nel settembre 1989, circa 600 operatori giunti da una sessantina di Paesi hanno confrontato -fra l'altro-le rispettive esperienze di countertrade ed hanno dato vita ad un originale schema di "borsa degli scambi", basato su supporti elettronici messi a punto dall'ANCE e dalla CERVED. Tale schema verrà nuovamente utilizzato nelle giornate dal 13 al 15 giugno prossimo, in occasione del "Marco Polo meeting point for international trade", che si terrà a Milano in occasione della "Settimana Internazionale di Fiera Milano". Ma le problematiche italiane in materia di scambi compensati non finiscono qui. Se si tiene conto del fatto che il countertrade comporta uno scambio di beni, dei quali quello principale è certamente noto al produttore/esportatore nazionale, mentre i prodotti in controacquisto possono essere del tutto estranei ai suoi interessi od alle sue esperienze, risulta evidente l'opportunità di disporre di un "sistema" che consenta di colmare tali carenze, con professionalità e con la necessaria tempestività. I prodotti di ritorno non devono necessariamente essere introdotti per il consumo in Italia ma, come accennato in precedenza, per collocarli su mercati terzi, tramite un'operazione di "transito". Occorre, a questo scopo, disporre di un know-how che, purtroppo, non è sempre disponibile nel nostro contesto imprenditoriale. Per contro, la particolare configurazione del commercio estero italiano, che ha sempre tenuto una netta separazione fra export ed import incentivando con ogni mezzo il primo ed abbandonando praticamente a sé stesso il secondo (tutt'al più limitandosi a frenarne gli eccessi), ha fatto sì che la struttura delle importazioni italiane abbia costituito una specie di "oggetto misterioso" del quale a livello globale si sa poco o nulla. Tuttavia il successo delle esportazioni di un Paese trasformatore come il nostro, indipendentemente dal countertrade, è legato anche alla capacità del sistema di armonizzare meglio le importazioni; i cui prodotti costituiscono una componente significativa del costo di produzione del bene finale. Allo stato dei fatti, molti beni importati in Italia (ad esempio il cotone greggio, i pellami, il caffè e la cellulosa), nonostante siano originari dei varî Paesi di produzione, vengono gestiti da strutture di brokeraggio svizzere, olandesi, francesi, ecc., con una modesta presenza di operatori italiani, se non nella veste di distributori o di utilizzatori finali. Questa situazione permette ai veri "gestori" di vantare in prima persona notevoli titoli di merito nei confronti dei Paesi produttori di tali beni e di potersi inserire con maggior facilità nelle correnti di esportazione verso quegli stessi Paesi. Solo recentemente si è cominciato a comprendere l'importanza di tutto ciò ed a predisporre le prime ricerche (ad esempio, il progetto "Import strategico" dell'ICE e l'indagine condotta dal CESDI di Torino per conto della Camera di Commercio di Milano), mirate a far luce su questo significativo aspetto della nostra realtà economica. Dai risultati che scaturiranno da tali indagini occorrerà trarre i necessari spunti propositivi per la predisposizione di adeguati strumenti atti ad un concreto recupero delle nostre posizioni. La tematica compensativa e le problematiche dell'import italiano aprono, necessariamente, una parentesi sulle strutture d'intermedia-zione commerciale esistenti nel nostro Paese per l'esecuzione specialistica delle operazioni d'interscambio in generale, e di countertrade in particolare. Se il contesto storico-economico italiano non ha favorito in passato il sorgere di mega-strutture di trading sull'esempio di quelle giapponesi, coreane o di alcune ex-potenze coloniali europee, esiste purtuttavia nel nostro Paese un "sistema" imprenditoriale - formato da imprese di media, medio-piccola dimensione - che svolge un ruolo significativo nello sviluppo del nostro commercio estero. Vi sono, peraltro, alcuni elementi che talvolta limitano l'operatività di questo tipo di imprese, già naturalmente condizionate dalla natura stessa di un'attività che non consente loro di "sconfinare" oltre misura dalla rigidità dei già ristretti margini di remuneratività concessi dall'attività di intermediazione. Un primo vincolo (che, talvolta, rappresenta un notevole vantaggio per la controparte) si ritrova nella specializzazione merceologica o geografica di molte imprese che, a causa proprio delle costrizioni dimensionali cui si sono dovute - loro malgrado -assoggettare, hanno maturato esperienze particolarmente significative in una ristretta gamma di prodotti o di mercati. Ciò significa, in pratica, che di fronte ad una necessità di collaborazione sinergica per l'esecuzione di una specifica transazione, compensativa o non, "occorre individuare la Trading giusta" per quel determinato prodotto o per quel determinato mercato. Un secondo limite è originato da motivi meno tangibili ma non per questo meno significativi. L'intermediazione è stata infatti spesso considerata in Italia come un "optional", talvolta addirittura di natura "parassitaria", e vi si ricorreva solo in caso di estrema necessit, accettandone, obtorto collo, i relativi costi. Mentre in molti altri Paesi veniva favorita la nascita e la crescita delle Trading, giustamente valutate come strumento indispensabile allo sviluppo delle attività d'internazionaliz-zazione, in Italia si è generalmente lasciato che ciascuno "facesse il proprio trading da sé", favorendo in tal modo le condizioni per il formarsi di un eccesso di sovrastrutture che di-sperdono le risorse e globalmente non giovano alla economicità del nostro commercio estero. A lato di ciò, si levano periodicamente voci che lamentano un "bisogno di trading", talvolta motivato più da un inconfessato desiderio di assistenzialismo (di matrice più o meno pubblica) che non da un concreto fabbisogno di assistenza professionale qualificata. Alle aziende di trading italiane, che purtuttavia esistono in numero sufficientemente adeguato e con esperienze validissime, manca tuttora un riconoscimento ufficiale che meglio le caratterizzi e che formalmente le enuclei dall'universo generalizzato delle "imprese di servizi". Non si tratterebbe di assegnare il monopolio del commercio estero alle strutture d'intermediazione esistenti, bensì di favorirne quell'armonico sviluppo che consentirebbe loro anche una ulteriore possibilità d'intervento in funzione della necessità di maggiore internazionalizzione, soprattutto della MPI italiana. E', in sostanza, una proposta per una migliore integrazione sinergica fra le componenti istituzionali di promozione (ICE, Camere di Commercio, Consorzi Export, Fiere, ecc.), le strutture d'interme-diazione (Trading Company, Countertraders, ecc.) ed il contesto sia mani-fatturiero (industriale ed artigiano) che distributivo. In assenza di tutto ciò, ed alla luce delle mutazioni in atto nello scenario sia europeo che internazionale, la funzione italiana d'intermediazione commerciale rischia di essere, presto o tardi, assoggettata e conglobata nelle più dinamiche ed aggressive strutture di altri Paesi, comunitari od extra-comunitari.

(nella versione stampata fa seguito una tabella con nomi e indirizzi di countertraders italiani)