(parte 5)

Paesi Est-europei

Se si considera che l'area Est-europea (e, più in generale, quella dei Paesi Comecon) ha sempre utilizzato la compensazione, particolarmente sotto forma di intese di clearing bilaterale, come la modalità corrente di regolamento di gran parte dei rapporti d'interscambio, sia all'interno del gruppo che nei confronti del mondo "capitalista", e che quell'intero sistema politico-economico è ora soggetto ad un profondo e radicale cambiamento del quale non si possono ancora compiutamente valutare risultati ed effetti, risulta piuttosto arduo tracciare un quadro globale che non sia soggetto a possibili ulteriori mutamenti di fondo. Le incertezze sulla portata dei reali cambiamenti in atto coinvolgono ormai la totalità dei Paesi dell'Est e determinano una situazione pressochè di stallo che non consente agli operatori la programmazione di nuove iniziative che vadano al di là di periodi piuttosto limitati nel tempo. In questo contesto anche il countertrade con i Paesi dell'Est, che per anni aveva seguito schemi abbastanza consolidati e ripetitivi, presenta oggi molti interrogativi ai quali non è possibile fornire risposte univoche. Innanzitutto non esistono più, o hanno perso molta della precedente importanza, gli interlocutori del passato e, spesso, non si riesce a comprendere quale ruolo possano realmente svolgere le nuove strutture sorte in loro vece o, quanto meno, che si dichiarano tali. Il decentramento di molte funzioni precedentemente gestite dalle cosiddette "Foreign Trade Organisations (FTO)", unitamente ai maggiori poteri talvolta acquisiti dalle strutture a livello periferico, hanno creato nei varî Stati una nuova competitività interna che talvolta sconfina in una conflittualità commerciale più o meno evidente. Il caso più palese si riscontra in Unione Sovietica, dove - ad esempio - il potere centrale utilizza anche lo strumento delle "licenze di esportazione" (centellinandone con cura il relativo rilascio) per arginare i tentativi centrifughi delle varie Repubbliche che vorrebbero svolgere un ruolo più autonomo nella gestione delle proprie risorse e nell'approvvigionamento di beni dall'estero. Il più recente intervento centrale si è manifestato attraverso il decreto del Consiglio dei Ministri dell'8 dicembre 1990 (n. 1253) che ha fissato nuovi criteri per l'utilizzo della valuta derivante dalle esportazioni di beni sovietici ed ha proibito, tranne alcune limitate eccezioni, la stipula di nuovi accordi di compensazione. Scomparsa dalla scena la Repubblica Democratica Tedesca, che aveva costituito un importante cardine nell'attuazione di scambi compensati, e perduto il ruolo-guida dell'Unione Sovietica negli altri mercati precedentemente considerati "satelliti", l'intero Est europeo ora si interroga su come affrontare concretamente questo nuovo corso che tende sempre più ad integrare i singoli Paesi in un sistema economico "occidentale", certamente più avanzato sotto il profilo tecnologico e commerciale. Gli effetti pratici di questa situazione sono talvolta palesemente evidenti, come - ad esempio - si è verificato nei rapporti fra l'Unione Sovietica e Cuba (che pur non facendo geograficamente parte dell'Est-europeo ne ha utilizzato, per molti anni, gli schemi operativi). Più della metà dello zucchero prodotto da Cuba (che in totale ricava circa il 7 % dell'intera produzione mondiale) e forti quantitativi di nikel (circa 18 mila tonnellate all'anno) venivano abitualmente ceduti all'URSS in regime di clearing bilaterale ed a prezzi "politici" decisamente superiori a quelli di mercato, per "compensare" le forniture di beni industriali e di materiali per la difesa fabbricati nei Paesi dell'Est europeo ed inviati al regime di Fidel Castro. A seguito del drastico "disimpegno" sovietico, il Paese centro-americano deve ora fare i conti con una realtà competitiva internazionale ben diversa, basata su condizioni obiettive "di mercato" che pongono seri problemi alla stessa stabilità economica dell'isola caraibica. Problemi pressoché analoghi si stanno verificando nell'ambito delle diverse Repubbliche sovietiche, laddove i prodotti di talune aree (ad esempio, il cotone dell'Uzbekistan o del Kazakistan) venivano in precedenza trasferiti a valori "politici" ad altre Repubbliche (sempre nel caso del cotone, ad esempio, all'Estonia) per l'utilizzo industriale o per il consumo. Avveniva, in cambio, il ritrasferimento interno di prodotti finiti, che venivano compensati anch'essi a prezzi "politici". Con l'acquisizione di maggiori autonomie, le varie Repubbliche ambiscono, laddove possibile, ad effettuare scelte individuali economicamente più vantaggiose, determinando - di conseguenza - situazioni di squilibrio nelle Repubbliche più deboli. In una certa misura questa realtà si sta ripercuotendo in tutto l'Est-europeo e contribuisce ad alimentare quel clima di incertezza che, come detto in premessa, non consente ancora di formulare un quadro sufficientemente attendibile circa lo sviluppo futuro del countertrade e, più in generale, dell'interscambio commerciale con quei Paesi. Benchè la domanda di beni esteri, siano essi strumentali, durevoli o di consumo, sia in costante crescita e, talvolta, sia sostenuta anche dalla necessità politica di "riempire i negozi" di merci occidentali per fornire un segno tangibile dei progressi compiuti sul cammino del tanto auspicato rinnovamento pluralistico, le risorse economiche locali sono sempre più scarse e la loro gestione è oggetto di contesa fra i produttori (che vorrebbero trarre il massimo vantaggio da una diretta commercializzazione all'estero), le forze politiche (che non vorrebbero privarsi del loro tradizionale predominio) ed il restante contesto neo-imprenditoriale che vorrebbe finalmente emergere dal buio di molti decenni per conquistarsi una quota di successo nella generale aspettativa di una reale ripresa economica. Gli stessi "Countertraders " austriaci, che per anni avevano rappresentato gli interlocutori privilegiati nei confronti dei Paesi dell'Est per la gestione degli scambi compensati con l'Occidente, si trovano oggi di fronte ad una serie di notevoli titubanze e non esitano a sottolineare la necessità di usare la massima prudenza nel condurre trattative commerciali con i precedenti "partners " dell'Europa orientale. Le perduranti incertezze normative, la forte recessione, la carenza di riserve valutarie e l'instabilità delle strutture preposte al commercio estero costituiscono, anche per i nostri vicini d'oltralpe, i principali motivi che hanno frenato il clima di euforia e di ottimismo che avevano originariamente accompagnato l'inizio di un'apertura politica del blocco orientale. Anche i recenti avvenimenti del Golfo, che in una certa misura hanno fatto passare in secondo piano le non meno difficili situazioni di altre aree del mondo, non hanno contribuito a facilitare il raggiungimento del già difficile traguardo di una maggiore liberalizzazione delle economie "pianificate". Ciò non significa, comunque, che si debbano abbandonare a sé stesse le iniziative avviate od in corso; è forse soltanto necessario agire con maggior pazienza e con particolare cautela, nella convinzione che, pur con gli inevitabili disagi, lentezze e contraddizioni, il nuovo corso iniziatosi ad Est proseguirà lungo il suo pur faticoso cammino e potrà ancora riservare interessanti prospettive di sviluppo.