Countertrade ed Est Europeo

Articolo pubblicato su "Sistema Italia" n. 2 del 15 gennaio 1994

cod.: SIS.94.02.COM.0

Come è emerso nel corso della precedente intervista, le compensazioni commerciali possono essere uno strumento quasi di quotidianità operativa per quelle PMI che sono disponibili a ricevere in pagamento delle loro esportazioni altri beni utilizzabili nel processo produttivo, sotto forma di materie prime o di semilavorati, o, ancora, di prodotti finiti da immettere nel circuito commerciale. E' stato citato l'esempio classico delle camice confezionate nelle isole Mauritius, con macchine fornite dallo stesso acquirente dei prodotti finiti; ma i casi possono riguardare una svariata gamma di attività e di merceologie. Si tratta spesso di una compensazione ritenuta conveniente ai fini della economicità dei costi di produzione; in altri termini, di un'operazione utile per salvaguardare la competitività dell'impresa sul mercato. Ma i quesiti che vengono posti da gran parte delle PMI in merito al countertrade, visto ancora quasi come un "oggetto misterioso", riguardano quella compensazione che viene considerata condizione sine qua non per penetrare in un mercato estero nuovo o ritenuto difficile. E, nella maggior parte dei casi, il pensiero corre ai nuovi mercati dell'Est europeo. Aree che indubbiamente costituiscono una forte attrattiva per l'ampiezza della domanda ivi esistente, per la potenziale disponibilità di risorse, per il pressante desiderio di "occidentalizzazione" e, infine, per la supposta "verginità" degli operatori locali. Ma la compensazione con l'Est incontra non poche difficoltà, che vale forse la pena di sintetizzare per evitare "salti nel buio" da parte delle PMI. Innanzi tutto occorre ricordare che la prassi compensativa ha costituito per vari decenni una "norma" ampiamente utilizzata per il regolamento degli scambi all'interno del "sistema" (la Romania forniva petrolio all'URSS in cambio di armamenti e di beni di consumo, le Repubbliche islamiche fornivano cotone alle "cugine" del mar Baltico in cambio di prodotti di abbigliamento, e così via) o per acquisire dai mercati occidentali i beni scarsamente esistenti all'interno del Comecon (gas o carbone contro tecnologia avanzata, minerali metallici contro frumento, ecc.). Durante il periodo dell'economia pianificata, la struttura delle imprese era basata su uno schema rigidamente piramidale, che vedeva alla sua base le diverse unità produttive (Cooperative, Kombinat, o simili) e, al vertice, particolari enti preposti ai rapporti con l'estero (le famose FTO, "Foreign Trade Organization"). Trattare con queste ultime organizzazioni non solo era obbligatorio ma, anche, utile, in quanto solo loro erano in grado di gestire un'operazione compensativa nel rispetto della prassi esistente e con il potere di agire coercitivamente sulle unità produttive periferiche. Così, ad esempio, era la stessa FTO che si preoccupava di acquistare il macchinario occidentale destinato alla Cooperativa X, imponendo al Kombinat Y di cedere i prodotti richiesti per il pagamento del macchinario. Poi, all'interno del "sistema", il regolamento fra X e Y avveniva in rubli o in regime - a sua volta - di "clearing". A seguito del crollo del "muro di Berlino" tutto ciò si è dissolto come neve al sole; le unità produttive che stavano alla base della piramide si sono trovate sole di fronte alle nuove realtà politico-economiche e, spesso, impreparate a ricevere l'eredità del vecchio sistema. Taluni Paesi dell'Est, grazie a una loro maggiore prossimità geografica e culturale con l'Occidente, hanno reagito con una certa rapidità adeguandosi al nuovo corso, ma altri (soprattutto molte Repubbliche ex-sovietiche) trovano ancora notevoli ostacoli ad organizzarsi in un'economia di mercato. E' evidente, a questo punto, che le difficoltà compensative aumentano, laddove i rapporti fra le diverse strutture locali non sono più gestiti in modo centralizzato o, quanto meno, sistemico. I produttori di cotone cercano di vendere direttamente il loro prodotto in valuta convertibile o contro beni a loro direttamente necessari, guardandosene bene dal mettere il cotone a disposizione di altre strutture - contro rubli soggetti a incontenibili svalutazioni - che lo utilizzerebbero per pagare i beni occidentali. Inoltre, l'inevitabile confusione sorta all'interno del sistema ha fatto anche emergere una pletora di pseudo-operatori che, con una certa spregiudicatezza, si sono avventurati nel "business". A tutto ciò si sommano gli ostacoli più tradizionali di quelle aree: barriere linguistiche, difficoltà tecniche di comunicazione, scarsità di mezzi di trasporto, incertezze normative (ad esempio, circa il rilascio di licenze di esportazione) ed, infine, per quanto riguarda i beni finiti, il livello di qualità e il packaging dei prodotti stessi. L'abitudine degli operatori dell'Est a terminare qualsiasi incontro d'affari con le controparti occidentali siglando un "protocollo" (o un vero e proprio "contratto") lascia talvolta anche l'impressione di aver ormai concluso positivamente un'operazione. Purtroppo, invece, non è infrequente il caso in cui alla firma di un tale documento non faccia poi seguito, inspiegabilmente, alcun "follow-up" operativo. Tutto ciò, comunque, non impedisce che si realizzino buoni affari anche nel countertrade e che si avviino rapporti commerciali che potranno certamente costituire un valido "zoccolo duro" nel momento in cui, auspicabilmente, l'economia di quelle aree troverà un suo modo di stabilizzarsi e di interagire più concretamente con le realtà della imprenditoria occidentale.