Origine ed evoluzione degli scambi compensativi

cod.: SEM.98.01-COM.0

Il tema riguardante gli scambi in compensazione (countertrade) appartiene a una sfera che coinvolge forme atipiche del commercio internazionale e che in certi casi possono anche sfociare in una distorsione del sistema degli scambi, ma che costituiscono tuttavia un'alternativa resa necessaria a seguito di difficoltà strutturali insite in talune aree e/o conseguenti ad eventi di tipo ciclico che possono alterare l'ordinato svolgersi delle normali transazioni commerciali.

Mi riferisco, in prima istanza, allo scambio di merci contro merci, quindi a quella modalità commerciale che trova le sue origini più remote nell'ancestrale formula del baratto e che, come "l'araba fenice", può risorgere dalle ceneri del passato ogniqualvolta si determinano nei mercati situazioni tali da rendere di difficile attuazione, o comunque da ostacolare, il regolamento in moneta della compravendita di beni o servizi.

Tralasciando, in questa sede, di ripercorrere l'intero cammino del baratto, ricordiamo come in tempi più vicini a noi lo scambio di merci contro merci - pur nelle sue espressioni più moderne e sofisticate - sia stato attuato: (i) in forma temporanea, a seguito delle difficoltà subentrate alla crisi del '29 e dei successivi eventi bellici e, (ii) in forma più sistemica, quale abituale modalità di regolamento degli scambi all'interno dell'area Comecon.

Il succedersi delle crisi petrolifere che hanno caratterizzato le economie degli anni '70, le crescenti difficoltà dei mercati finanziari internazionali, il neo-protezionismo e l'aggressiva concorrenza portata dai Paesi di recente industrializzazione, avevano dato nuovi spazi agli scambi compensativi, con punte di offerta che avevano toccato i loro massimi storici all'incirca nella seconda metà degli anni '80. E proprio in quegli anni si era avuta anche una notevole produzione bibliografica in materia di countertrade, con pubblicazioni curate da enti, da accademici o da esperti del settore.

Solo una quindicina d'anni fa c'era anche chi riteneva che il bilateralismo negli scambi, attuato in forma compensativa, avrebbe presto potuto uguagliare in termini di valore il più tradizionale regolamento monetario. Fortunatamente queste previsioni pessimistiche non si sono del tutto avverate e sembra che le tendenze attuali dei mercati abbiano ricondotto il fenomeno entro termini più contenuti, favorendo una decisa ripresa del sistema multilaterale.

In effetti, le motivazioni che avevano originato il "boom compensativo" degli anni '80 erano individuabili in due distinte causali: la prima basata su obiettive carenze strutturali (mancanza di valuta estera, scarsa competitività qualitativa dei prodotti, ecc.), e la seconda su semplici illusioni originate anche dalla "moda del momento".

Carenze strutturali, ma anche - per così dire - culturali (che tuttora permangono in talune aree, non permettendo di attuare precise strategie di marketing internazionale), che avevano fatto credere a molti Paesi che solo imponendo la compensazione si potessero superare sia le difficoltà interne che quelle di un "sistema" internazionale che aveva ormai esaurito i precedenti flussi di aiuti finanziari più o meno indiscriminati.

Per chiarire meglio il concetto, occorre partire da una considerazione elementare: ogni bene ha un suo prezzo, determinato dall'incontro della domanda e dell'offerta in un mercato che diventa ogni giorno più aperto e globale. In un regime di scambi multilaterali il possessore di un determinato bene può venderlo sul mercato ottenendo in cambio il giusto denaro corrispondente e con quest'ultimo può acquistare dove e da chi vuole ciò che gli serve, spuntando il prezzo e la qualità migliori. Ecco che, allora, l'offerta pura e semplice di merci in pagamento di altri beni non troverebbe giustificazione se non in presenza di altri fattori contingenti sulla cui natura è sempre opportuno svolgere un'accurata indagine.

Ma se, invece, chi offre un bene che "vale" sul mercato 90, pretende di ricevere in cambio qual cos'altro che "vale" 100, si crea uno scompenso che rende difficoltosa la realizzazione dell'operazione o che, in alternativa, stuzzica la fantasia (ma spesso anche il bisogno) della controparte, mettendola in condizione di escogitare soluzioni che talvolta sono al limite del funambolismo.

Negli anni del "boom compensativo" questo concetto del "valore reale" di un bene è stato infatti spesso stravolto, con la piena consapevolezza delle parti in causa e generando una sorta di "commedia degli equivoci" che - come tale - non poteva certamente durare a lungo.

In concreto, poteva succedere che un operatore/Paese in evidenti difficoltà produttive e finanziarie cercasse di collocare i suoi prodotti presso soggetti di altri Paesi a condizioni di prezzo/qualità che non rispecchiavano sempre la situazione del mercato, imponendo una sorta di ricatto, del tipo: "se tu non comperi i miei beni io non acquisto i tuoi". La controparte era ben conscia della situazione e spesso accettava la proposta, aumentando il prezzo dei suoi prodotti, in modo tale da annullare lo scompenso che altrimenti si sarebbe venuto a determinare.

In queste circostanze, il prezzo di vendita del bene "primario" (per convenzione si definisce tale il prodotto offerto dall'operatore del Paese, per così dire, "più forte") aumentava artificialmente, rischiando di condurre - se l'azione veniva attuata su vasta scala - a una vera e propria distorsione del mercato.

La "commedia" viveva proprio su questo concetto: i due attori sapevano perfettamente che il rapporto prezzo/qualità che aveva determinato quel particolare rapporto di scambio non rispecchiava l'andamento del mercato in regime di semplice regolamento monetario, ma non mostravano di tenerne gran conto. E' anche molto probabile che al momento non avessero altre alternative perseguibili: il venditore del bene primario voleva concludere la sua operazione senza perderci e l'offerente del bene compensativo non aveva altre possibilità di realizzare una più conveniente cifra di denaro o di penetrare commercialmente in un mercato che gli era stato sempre precluso.

La compensazione, sotto forma di semplice scambio di merce contro merce, può quindi degenerare in una vera e propria malattia di un sistema che non riesce a trovare un suo ordinato equilibrio in una logica di multilateralità degli scambi. Una malattia che recentemente si riteneva pressoché superata in talune aree (ad esempio nell'America latina o nel Sud-Est asiatico), mentre fatica ancora a scomparire - seppure per ragioni non sempre identiche - in altre regioni (ad esempio, in talune Repubbliche dell'ex URSS).

Il riferimento da cui sono partito riguarda, come ripetutamente accennato, il semplice scambio di merci contro merci; cioè a quella forma che più si avvicina alle antiche pratiche del baratto. Tuttavia la compensazione, intesa come pratica commerciale, non si esaurisce nel solo baratto, coinvolgendo anche tipologie di operazioni che - fortunatamente - hanno contenuti di ben diverso spessore e di indubbia valenza, sia etica che economica.

E' appunto in quest'ottica di maggiore trasparenza che si sviluppano rapporti compensativi anche di elevato interesse, fermo restando che occorre sempre prestare la massima attenzione, affinché non si creino i presupposti per ricadere in forme di tipo patologico.

Alcune motivazioni che stanno alla base della domanda di compensazione:

€ i prodotti offerti sono qualitativamente superati
Questa situazione si è particolarmente manifestata a seguito dell'apertura dei mercati dell'Est alle aree a più libero scambio, mettendo in risalto talune arretratezze tecnologiche riguardanti soprattutto i beni strumentali e di consumo durevole.
€ i prodotti disponibili eccedono la reale domanda del mercato o non rispettano appieno i requisiti sanitari richiesti dai mercati più sviluppati
E' il caso, ad esempio, della farina di pesce offerta da alcuni Paesi Sud americani, dei concentrati di frutta, delle erbe aromatiche, ecc.
€ l'impresa locale non è sufficientemente strutturata per attuare una valida azione commerciale sui mercati esteri
€ I beni sono prodotti a costi eccessivi, rendendo scarsamente competitivo il loro prezzo di vendita
€ i prodotti vengono offerti per cercare di forzare il blocco all'importazione posto in essere da alcuni Paesi con restrizioni doganali di tipo protezionistico, o di "cartello"
Questo caso si presenta, ad esempio, per il caffè, il cacao o certi prodotti tessili, con offerte di prodotti "fuori quota" che possono essere immessi soltanto in mercati che non aderiscono alle intese internazionali riguardanti tali prodotti (Multifibre, ICCO, ICO, ecc.).
€ la compensazione è imposta da specifiche normative locali in materia di scambi con l'estero
Negli anni '80 vari Stati avevano emesso specifiche normative che consentivano l'importazione di taluni beni, pur ritenuti necessari, solo se l'importatore era in grado di dimostrare di avere effettuato, o di avere in corso, esportazioni di prodotti "non tradizionali".
€ all'interno del Paese esiste una carenza valutaria che impedisce alle imprese di importare i beni essenziali con regolamento monetario
€ mancano valide garanzie locali in grado di assistere i finanziamenti esteri necessari all'acquisizione di nuovi impianti
€ s'intende "legare" il fornitore dell'impianto a precise garanzie di buon funzionamento, di assistenza tecnica e di training
€ il Paese intende "forzare" la riduzione del debito estero
Questa domanda di countertrade è più che altro legata a forme complesse di transazioni, nelle quali la componente finanziaria supera di gran lunga l'aspetto puramente commerciale.

Principali tipologie

Occorre, innanzi tutto, premettere un'importante distinzione fra il countertrade originato da rapporti - per così dire - "politici", che coinvolge in primo luogo le relazioni fra Stati e/o l'operatività di grandi imprese, e quello - più ordinario - che può interessare anche le PMI.

Nel primo caso troviamo, ad esempio, gli accordi stipulati nel campo delle forniture militari, dei prodotti energetici, delle grandi commesse per lavori pubblici, dei regolamenti di prestiti finanziari in sofferenza, dei rifornimenti alimentari, ecc. Si tratta per lo più di operazioni che sorgono a livelli ben superiori di quelli cui sono soliti operare le PMI e che le possono coinvolgere, tutt'al più, solo in veste di sub-fornitori.

A un livello dimensionale unitariamente più basso ma numericamente ben più rilevante, esistono le operazioni che vengono concluse dalle imprese di contenute dimensioni, che si scambiano i beni e/o i servizi più disparati in una pluralità di tipologie e di volumi che possono anche sfuggire a qualsiasi rilevazione di tipo quali-quantitativo. In questo campo è alquanto difficile distinguere fra countertrade e abituali operazioni di compravendita, in quanto l'abilità e la fantasia dei singoli operatori commerciali riescono talvolta a generare scambi che non sempre si possono inquadrare in schemi ben precisi. Anche perché "gli affari" conclusi dagli operatori di piccola o di media dimensione abitualmente "non fanno cronaca" e rimangono nella sfera, per così dire, privata, degli operatori stessi.

Capita, così, che del countertrade si parli spesso più per "sentito dire" che non per esperienze dirette, confondendo una prassi commerciale decisamente atipica e non facilmente riconducibile entro formule rigidamente schematiche, con le classificazioni elaborate a livello accademico o con le informazioni desunte dalle notizie di cronaca. Chi ha un'esperienza diretta in questo tipo di operazioni sa fin troppo bene quanto sia difficoltoso concludere uno scambio compensativo e quanto sia, tutto sommato, sterile cercare di ricondurre le singole esperienze entro nomenclature ben precise.

Ogni operazione fa, in un certo senso, storia a sé e si sviluppa a seconda delle realtà contingenti, del tempo, del prodotto, del mercato o della forza contrattuali delle parti.

Occorre comunque conoscere - seppure sommariamente e da un punto di vista soprattutto didattico - le diverse "grandi tipologie" entro cui si possono esprimere questi tipi di scambi, per meglio valutare rischi e vantaggi che ne possono derivare.

La base di partenza rimane ancorata alla formula del barter , cioè allo scambio puro e semplice di merci cui sono stati attribuiti identici valori, e da questa si dipartono una serie di casistiche che inseriscono la componente monetaria e/o valutaria, l'intervento di più attori, il project financing, l'investimento partecipativo, la cessione di know-how, ecc.; per giungere a formulazioni ancora più complesse che talvolta rasentano il funambolismo commerciale o finanziario (ad esempio: il debt-equity swap o il nature-debt swap, l'International Trade Certificate, il Build Operate and Transfer, ecc.).

In questa sede ci si limita a fornire qualche indicazione schematica, di cui si troverà traccia nella documentazione allegata.

(omissis)

Prodotti e mercati

Prodotti

Teoricamente non c'é alcun bene, sia esso un impianto, una merce o un servizio, che non possa essere oggetto di scambio compensativo. Una distinzione di base è comunque fondamentale, (i) fra quei beni "di ritorno" che merceologicamente rientrano, o possono rientrare, nella sfera di competenza dell'operatore e (ii) quelli che esulano completamente dalle sue più dirette conoscenze merceologiche.

Nel primo caso, possiamo parlare, ad esempio, di materie prime o di semilavorati che possono essere utilizzati nel ciclo produttivo o, comunque, di prodotti che possono interessare in modo diretto il venditore del bene "primario".

E' evidente che, in questo caso, l'operatore possiede una maggiore facilità di gestione dell'iniziativa: conosce i beni di ritorno, ne sa valutare direttamente qualità e valore, sa come, quando e dove utilizzarli.

In altri termini, la compensazione può essere gestita in house, senza altri interventi esterni e con una più precisa percezione dei rischi e dei benefici che ne possono derivare.

A questo punto l'operazione compensativa, anziché essere subita, potrebbe addirittura essere ricercata e sollecitata dall'operatore stesso, che trae il beneficio principale non solo dalla vendita del bene primario, ma anche (e talvolta soprattutto) dal ritiro dei beni compensativi.

Per citare un esempio, si ricordano quegli imprenditori italiani che a suo tempo hanno creato fabbriche di abbigliamento nelle Isole Mauritius, trasferendovi dall'Italia macchinari, tessuti, modelli, imballaggi, ecc., e "compensando" tali esportazioni attraverso l'importazione di prodotti finiti, successivamente immessi sul mercato nazionale (Per inciso, queste produzioni hanno beneficiato, e in parte tuttora beneficiano, dei bassi costi della mano d'opera locale, ma sono anche state in grado di superare i vincoli di carattere doganale imposti dall'accordo Multifibre alle importazioni provenienti da aree ad elevato grado di competitività).

Il caso si presenta in modo nettamente differente quando i beni compensativi fossero del tutto estranei agli interessi prevalenti dell'operatore primario.

Viene, ad esempio, venduto un impianto per la produzione di latticini e, in cambio, deve essere ritirato del carbone. Occorre, a questo punto, che intervenga un terzo operatore che ne conosca a fondo il settore.

Questo intervento deve essere concordato prima che l'operatore primario concluda la trattativa con il compratore del macchinario, in modo da conoscere almeno quanto basti per non incorrere in rischi inopportuni (qualità, quantità, prezzo, modalità di acquisto e di ritiro, ecc.). E, auspicabilmente, la spedizione dei prodotti di ritorno dovrebbe essere eseguita prima di quella dei beni primari.

Mercati

Il countertrade del quale ci stiamo qui occupando non viene evidentemente praticato fra Paesi ad elevato tasso di sviluppo e che operano in un regime "aperto" alla multilateralità degli scambi.

Credo tuttavia che a nessuna impresa italiana non sia mai capitato di acquistare qualcosa da un suo cliente italiano o di un altro Paese industrializzato.

Se le norme fiscali e l'uso di sani principi amministrativi non lo vietassero, l'impresa potrebbe compensare debiti e crediti nei confronti di quel cliente e pagare, o incassare, in moneta le sole eventuali differenze, facendo quindi - seppure inconsciamente - del countertrade.

Le motivazioni che portano quell'impresa ad acquistare qualcosa dal suo cliente possono essere di varia natura, non ultima quella di "tenerselo buono".

Quindi, in un certo senso, si tratta di motivazioni psicologicamente simili a quelle che portano - all'estremo - alle forme ricattatorie viste più sopra, del tipo: "compera da me, altrimenti io non acquisto nulla da te".

Ma a parte queste considerazioni puramente astratte, anche fra i Paesi più industrializzati si sviluppano varie forme di scambi, inquadrabili - a tutti gli effetti - nel campo del countertrade. Sono tuttavia operazioni per lo più rientranti nella sfera politico-militare, riguardanti produzioni congiunte di materiale bellico (ad esempio, nel rispetto degli standard NATO), di costruzioni aeronautiche, navali od altro. Con tutte le implicazioni che ne derivano.

Un esempio di questo tipo di operazioni riguarda il pagamento del noleggio di 24 aviogetti Tornado f3 che le nostre Forze Aeree hanno ricevuto dal Ministero della Difesa britannico, in attesa del completamento del nuovo caccia EF2000. Il contratto, definito di "Lease Offset Arrangements", consente che le industrie italiane forniscano, nel periodo di 10 anni, prodotti - non necessariamente legati al settore della difesa, ma preferibilmente ad alto contento tecnologico - per un valore compreso fra 50 e 100 milioni di sterline. E' stato tuttavia concordato che il rapporto qualità/prezzo delle forniture italiane debba essere "competitivo" e alla data odierna non risulta che vi siano state offerte sufficienti a coprire l'intero ammontare contrattuale. Alla fine, se non si troverà una via d'uscita, il nostro Paese dovrà saldare i suoi residui debiti con regolamenti monetari.

Anche in quest'ultimo caso si tratta, come accennato più sopra, di operazioni complesse e che esulano dalle possibilità di diretto intervento delle singole imprese, soprattutto se di dimensione medio o medio-piccola.

Passando invece ad esaminare gli scambi di tipo NORD-SUD o EST-OVEST, se consideriamo le 5 grandi aree geo-economiche che avevano a suo tempo fatto maggiormente parlare di sè in termini di countertrade: l'Est europeo, il Sud-Est asiatico, l'Africa sub-sahariana, i Paesi arabi e medio-orientali e l'America latina, vediamo come i grandi cambiamenti politici avvenuti negli ultimi anni nelle stesse aree - o per effetto di quelli avvenuti in altre - abbiano modificato il sistema degli scambi e, conseguentemente, anche le modalità di operare in countertrade.

Cito per primo l'Est europeo e, in particolare, l'ex Unione Sovietica e quelli che un tempo venivano definiti i "suoi satelliti", in quanto si tratta dell'area che più di ogni altra ha una lunga tradizione compensativa, derivata da quell'economia centralizzata e pianificata che ha regolato per decenni gli scambi fra quei Paesi.

Caduto il muro di Berlino e definite - o tuttora in corso di assestamento - nuove individualità geo-politiche e geo-economiche, le diverse realtà imprenditoriali sorte dalle ceneri del Comecon si sono trovate all'improvviso del tutto prive di quelle strutture centralizzate (in particolare le Foreign Trade Organization) che avevano a lungo gestito, nel bene o nel male, anche gli scambi con il resto del mondo.

Ma non basta. Con la scomparsa delle F.T.O. e della restante complessa impalcatura centralizzata, i nuovi imprenditori locali si sono trovati pressoché privi, non solo di una guida, ma anche di un "mercato" e, spesso, di un valido sistema infrastrutturale che li sorreggesse.

Il risultato è ormai sotto gli occhi di tutti coloro che si avventurano, ad esempio, nell'immenso territorio ad Est di Mosca. Da quelle parti viene ancora richiesto di tutto e può essere offerto in compensazione tutto ciò che l'interlocutore locale possiede, o che pensa di poter disporre.

Poi, all'atto pratico, spesso il soggetto scompare nel nulla; le merci non ci sono o non possono essere acquistate perché mancano le necessarie autorizzazioni o i trasporti, perché non sono esattamente quelle che erano state inizialmente descritte; o perché si scopre che - nel frattempo - le stesse sono state cedute a qualche altro operatore occidentale per pochi dollari in più.

Occorre anche considerare che quando esistevano le F.T.O., non era per nulla strano, ad esempio, vendere un impianto chimico destinato a Leningrado, contro partite di cotone provenienti dal Kazahstan.

Ci pensava una particolare F.T.O. a mettere d'accordo i vari soggetti locali interessati, a ottenere le licenze, ad organizzare i trasporti e a quant'altro.

Ora, invece, gli operatori delle varie Repubbliche agiscono in modo del tutto indipendente: il cotone viene possibilmente venduto per contanti dagli stessi produttori e gli imprenditori di San Pietroburgo, se non hanno i denari sufficienti per pagare l'impianto industriale, devono arrangiarsi a trovare prodotti locali da offrire in compensazione. Oppure, in loro vece, deve darsi da fare l'operatore occidentale, fra mille difficoltà e con un aumento notevole dei rischi.

Per contro, la confusione determinatasi a seguito del crollo del vecchio regime ha consentito il nascere di una schiera di nuovi personaggi, prima quasi del tutto sconosciuti, dotati di mezzi finanziari (talvolta anche di incerta provenienza) che permettono loro di intervenire sul mercato regolando le transazioni semplicemente in valuta forte. Più difficile è definire esattamente l'attendibilità di tali soggetti e stabilire con loro dei rapporti concreti d'affari che vadano al di là della semplice firma di quel "protocollo" che costituisce ancora la tradizionale conclusione di qualsiasi iniziale trattativa con molti operatori di quei Paesi.

Un'esperienza significativa si è verificata, negli ultimi anni, con la presenza di operatori italiani all'esposizione moscovita Byt Italia, organizzata dalla Fiera di Milano. Nell'edizione 1992, l'Associazione Nazionale del Commercio Estero, che raggruppa fra i suoi soci le principali aziende che operano nella compensazione, era stata presente con una propria unità, che assisteva gli espositori italiani nella impostazione di operazioni di countertrade.

In quella occasione le possibilità di regolare in valuta le esportazioni italiane erano state scarse, ma le offerte di merci compensative erano tuttavia numerose. Per la maggior parte scarsamente definibili e, soprattutto, tutte da verificare. Terminata la manifestazione e ritornati in Italia gli espositori, di molti degli offerenti russi si erano presto perse le tracce.

Ma già nelle due successive edizioni della mostra, gli affari hanno avuto un andamento ben diverso e quasi tutti gli espositori hanno potuto realizzare ottimi affari, ottenendo il pagamento in buona valuta e senza dover contrastare l'offerta di merci compensative.

Gli anni più recenti hanno accentuato ancor più questa tendenza al riequilibrio della prassi commerciale e l'assistenza specialistica ora non viene più richiesta relativamente a semplici scambi di merci contro merci, bensì per forme di cooperazione transnazionale, soprattutto in nuove iniziative manifatturiere (soprattutto riconversione di precedenti attività industriali) che richiedono la partecipazione di soggetti terzi per la commercializzazione dei prodotti.

La situazione del Sud-Est asiatico è in generale alquanto diversa e, in questi ultimi tempi, aggravata anche dalle note difficoltà finanziarie che hanno travolto l'intero gruppo delle cosiddette "tigri asiatiche".

Il tema dominante delle proposte che vengono rivolte agli operatori occidentali riguarda ora la cooperazione industriale e la commercializzazione dei prodotti finiti. La motivazione che sta alla base di tali richieste non consiste quindi solo nella carenza di risorse finanziarie o nella incapacità di sviluppare un adeguato marketing internazionale, bensì anche nella necessità di integrare le conoscenze tecnologiche, di consolidare la presenza sui mercati e - infine - di contrastare, per quanto possibile, l'irruenza commerciale di Paesi quali il Giappone o la Cina.

L'interlocutore del Sud-Est asiatico non dice più: " ... se vuoi che acquisti il tuo prodotto devi accettare in compensazione i miei e, possibilmente, quelli <non tradizionali> ..."; bensì propone: "... vieni nel mio Paese, investi con me in questa o in quella iniziativa industriale ... poi, assieme, commercializzeremo il relativo prodotto nel mercato globale ...".

Il countertrade, quindi, assume una veste molto più imprenditoriale, dove la componente di cooperazione industriale, commerciale o finanziaria, diventa rilevante ai fini di una integrazione sinergica di risorse e di esperienze paritetiche.

Un caso particolare è rappresentato dalla Cina, un mercato che suscita da sempre un ampio interesse per le sue immense potenzialità, ma anche per le sue non sempre facili possibilità d'approccio, dovute soprattutto a fattori di ordine culturale.

Il sistema cinese ha sempre considerato con un certo scetticismo il termine countertrade, preferendo parlare di cooperative joint-venture.

L'operatore locale chiede alla controparte occidentale di fornire la tecnologia di cui la Cina abbisogna, dichiarandosi anche disposto a pagare in contanti quanto dovuto, ma sollecitando la costituzione di una joint-venture nella quale l'esportatore "primario" si responsabilizzi direttamente circa l'efficienza degli impianti forniti, l'organizzazione di un adeguato training al personale e, non ultima, l'assistenza alla commercializzazione (soprattutto in termini di esportazione) del prodotto finito.

Da un certo punto di vista dobbiamo riconoscere che la tradizionale saggezza cinese ha visto per tempo il countertrade non come una scappatoia per superare una particolare situazione contingente, bensì come una forma di cooperazione transnazionale fra imprese che ben s'inserisce (con tutte le conseguenze che può anche implicare, considerata la potenzialità di quello specifico Paese) in una prospettiva di totale globalizzazione dei mercati.

L'Africa sub-sahariana (con l'esclusione del Sud-Africa) costituisce, invece, un caso che purtroppo non esito a definire "patologico".

I suoi mercati, che hanno rappresentato per anni un serbatoio rilevante per lo sbocco delle nostre esportazioni di merci e servizi (e mi limito qui a ricordare le vendite di beni strumentali o la costruzione di grandi opere pubbliche o civili), nonché una fonte importante di materie prime e di grandi commodity in genere, languono ormai da tempo in una situazione di pressoché totale abbandono.

I grandi avvenimenti che hanno interessato la scena, non solo politica, degli ultimi anni (la guerra del Golfo, la caduta del muro di Berlino, la nascita del Mercato Unico Europeo, le intese del NAFTA, del Mercosur, ecc.), sono "passati molto in alto" sopra questi Paesi e hanno fatto cadere ancora più in basso l'interesse degli operatori verso imercati del "continente nero".

Anche quest'ultimo, durante il periodo di massimo "splendore" del countertrade (anni 1983-1990), aveva cercato di inserirsi nel circuito compensativo, offrendo cotone, caffè, legname, frutta tropicale, pelli, petrolio, minerali, ecc. e tentando di superare - in questo modo - l'impossibilità di far ricorso ad ulteriori aiuti erogati dai principali enti finanziari sovranazionali.

Molti ricorderanno, ad esempio, come la Nigeria per un certo periodo abbia fatto molto parlare di sé per via di maxi-accordi stipulati con il Brasile e con altri Paesi esteri. Oppure ancora, suscitò un certo scalpore la vicenda dell'Uganda, che cedette a un countertrader austriaco importanti partite di caffè ad un prezzo allora ritenuto equo, per poi scoprire che quel caffè era stato ricollocato dagli intraprendenti Austriaci presso gli stessi clienti abituali dell'Uganda a prezzi di gran lunga superiori.

In seguito, sull'intera area è caduto il pressoché totale disinteresse e gli Africani sono stati lasciati soli a dibattersi con i loro antichi problemi.

Anche con questi mercati non si dovrebbe più parlare di countertrade in termine di puro scambio di beni, bensì sotto forma di cooperazione industriale e commerciale.

Gli spazi esistono, anche se dovrebbero essere occupati in un modo diverso da quello indicato a proposito della cooperazione con i Paesi del Sud-Est asiatico. L'imprenditoria africana, benché generalmente motivata e volonterosa, non sempre è sufficientemente preparata ad interloquire in termini paritetici con quella dei Paesi più industrializzati e, inoltre, non dispone delle stesse risorse finanziarie detenute dai "colleghi" asiatici. Occorrono, quindi, più investimenti diretti (unitariamente forse inferiori, ma percentualmente superiori a quelli asiatici) e un maggior apporto di formazione tecnologica e commerciale.

Molti Stati africani fanno parte dei Paesi A.C.P. e, come tali, sono legati all'Unione Europea attraverso gli "Accordi di Lomé", che favoriscono l'interscambio commerciale infracomunitario, in esenzione di dazi o di contingenti doganali.

La compensazione si potrebbe quindi attuare sotto forma di joint-venture produttive, che contemplino anche la commercializzazione nei mercati industrializzati di gran parte dei prodotti finiti.

Anche se le ristrettezze finanziarie imposte dagli Enti di sviluppo sovranazionali limitano le possibilità di disporre di sostegni simili a quelli che venivano elargiti a piene mani nel passato, esistono ancora interessanti possibilità di cointeressenza - ad esempio da parte dell'International Finance Corporation (IFC) - che potrebbero risultare utili nella realizzazione di nuove iniziative di cooperazione.

Occorre a tal fine sottolineare come si siano modificate, nel tempo, anche le considerazioni espresse dagli organismi sovranazionali in merito al countertrade. Inizialmente tali soggetti (in primo luogo la Banca Mondiale e le sue varie affiliazioni, il FMI, il WTO, ecc.) osteggiavano apertamente qualsiasi forma di regolamento compensativo, non ritenendolo conforme a quel principio di auspicabile multilateralismo commerciale sorto a seguito della Conferenza di Bretton Woods. Poi, anche loro si sono arresi di fronte alle evidenze, ed ora non si meravigliano più di fronte a un contratto di joint-venture che contiene al suo interno un regolamento con merci di ritorno.

Veniamo ora ai Paesi arabi e medio-orientali; in particolare a quelli, come l'Arabia Saudita, l'Iraq, l'Iran o la Siria, che avevano fatto parlare molto di sé nel countertrade degli anni '80, riguardante principalmente petrolio e fosfati.

Due prodotti che, allo stato attuale e per ragioni non sempre coincidenti fra loro, hanno perso molta della loro importanza nello scambio compensativo, colpendo in particolare quegli operatori marginali che cercano di ottenere da questo tipo di operazioni un ampliamento delle proprie attività tradizionali.

Il commercio del petrolio ha ormai acquisito una sua dimensione più o meno stabile, con flussi che vengono gestiti da strutture specialistiche e ben inserite nel mercato. Si tratta, comunque, di un prodotto che ha una sua particolare identificazione in termini di determinazione del prezzo e, quindi, che non lascia molto spazio a chi dovesse avventurarsi in una sua compravendita occasionale.

I fosfati, da parte loro, hanno talvolta creato non pochi grattacapi a chi li ha trattati in termini compensativi e, come per il petrolio, sono ormai nelle mani di veri e propri specialisti del settore.

Gli stessi Paesi arabi, d'altro canto, non hanno mai spinto troppo sull'acceleratore del countertrade, riservandolo per lo più ad operazioni di una certa rilevanza, ivi comprese le operazioni concernenti l'acquisto di armamenti, non sempre destinati ad usi esclusivamente difensivi.

Ricordo qui, per la cronaca, i maxi-contratti dell'Arabia Saudita per l'acquisto di aviogetti, non solo commerciali, ripagati in petrolio; o quello della Siria per l'acquisto di macchine movimento terra, pagate in fosfati.

Infine, vorrei brevemente citare il caso dei Paesi dell'America latina.

Ultimi arrivati nella corsa al countertrade degli anni '80 e motivati nella loro azione dalla pesantezza del debito estero e dalla impossibilità di ottenere ulteriori prestiti internazionali, questi Paesi hanno vissuto il fenomeno compensativo in una forma piuttosto travagliata e sofferta.

Alcuni hanno emesso a getto continuo decreti e contro-decreti, pro e contro gli scambi in compensazione (e in questo sono in un certo senso simili a molte Repubbliche dell'ex-Unione Sovietica, che dal punto di vista normativo hanno un atteggiamento tuttora controverso), favorendo per lo più quelle operazioni che portavano a una diretta riduzione del debito estero.

Cito, ad esempio, le operazioni di debt-nature-swap (compensazione dalle caratteristiche prevalentemente finanziarie) attuate dal Governo brasiliano, con concessioni forestali nell'Amazzonia, rilasciate ad alcune organizzazioni ambientaliste internazionali che si erano impegnate a proteggere parte del patrimonio naturalistico, o di debt-equity-swaps utilizzati per nuovi insediamenti produttivi nel Paese. O, ancora, i vari tentativi di introduzione degli International Trade Certificates, attuati, ad esempio, dal Governo messicano.

Con gli esempi sopra citati non ho inteso affermare che sia impossibile concludere transazioni compensative, di tipo per così dire "corrente", con l'America latina o, peggio ancora, che non ne siano mai state fatte. D'altro canto, alcuni Paesi di quell'area (es.: Argentina e Venezuela) hanno messo in atto negli ultimi anni validi, seppur talvolta non del tutto indolori, correttivi di politica economica, che hanno notevolmente migliorato la loro posizione internazionale e reso talvolta superfluo il ricorso "strategico" al countertrade.

Le più recenti tendenze

Tutto quanto detto sopra sta a significare che il countertrade, superata la fase euforica ed alquanto scombinata incontrata negli anni '80, ha ora assunto una dimensione molto più realistica e concreta. E, non a caso, ho ripetutamente citato la cooperazione industriale e commerciale.

Oggi, a mio avviso, è infatti questa la strada su cui si possono innestare con profitto nuove operazioni di countertrade.

Per citare un esempio, durante lo svolgimento di Boritec, la Borsa Internazionale della Cooperazione, dello Sviluppo e degli Investimenti, che si svolge annualmente presso il comparto fieristico milanese, vengono presentate centinaia di proposte provenienti dall'estero, genericamente definite come "progetti di joint-venture". Analizzandole più da vicino si scopre che molte di esse, ultimata la fase di realizzazione della società mista, contemplano la commercializzazione dei prodotti finali in termini anche compensativi.

Dal punto di vista terminologico, potremmo quindi definire queste possibilità anche come vere e proprie proposte di buy-back. L'imprenditore italiano è infatti chiamato, non solo a vendere il suo prodotto (macchinari, impianti, know-how, ecc.), bensì anche ad intervenire operativamente in una iniziativa industriale congiunta e, quindi, a collaborare con il suo partner nella commercializzazione dei beni finali, condividendone rischi e benefici. Tali beni possono consistere in materie prime (da estrarre), in semilavorati (da inserire nel ciclo produttivo) o in generi di consumo da immettere direttamente sul mercato.

L'accentuata globalizzazione dei mercati ha quindi ormai fatto ampiamente superare il concetto della sola produzione o della sola commercializzazione dei beni, in una combinazione di nuovi interessi e di nuove opportunità che coinvolgono ormai strettamente le esperienze di tipo produttivo con quelle di carattere più tipicamente mercantile.

Lo scambio di merci effettuato con lo schema del baratto, anche se vestito di terminologie più sofisticate, rimarrà - con le sue peraltro sempre valide ragioni - un fatto limitato ad operazioni di carattere per lo più sporadico e certamente non strategico.

Mano a mano che i mercati si evolvono e che l'economia si avvia verso un processo di graduale ed auspicabile ulteriore sviluppo, lo scambio compensativo non può non abbandonare le sue radici ancestrali per trasformarsi in una più attiva partecipazione dei partner in azioni di tipo congiunto, che vedono una maggiore integrazione sinergica delle rispettive risorse ed esperienze.

Accorgimenti operativi

Proprio sul tema delle esperienze occorre prestare una particolare attenzione, anche perché, come è stato da più parti affermato, "il countertrade non è uno sport per dilettanti".

Sia che si tratti di compensazione in senso stretto, o di più complesse operazioni di cooperazione industriale con commercializzazione dei prodotti finali che ripaghino gli investimenti effettuati, il ricorso agli specialisti del settore diventa un elemento indispensabile per evitare di incorrere in rischi inopportuni.

Il tema è troppo vasto e complesso perché lo si possa qui analizzare in profondità, ma alcuni punti basilari possono comunque essere indicati, seppure in forma schematica:

1
esaminare il ripagamento compensativo solo se si è accertata l'impossibilità della controparte di utilizzare altre forme di regolamento più tradizionali;
2
appurare la reale disponibilità, in termini qualitativi e quantitativi, delle merci, delle eventuali licenze d'esportazione, della efficienza dei trasporti, nonché l'assenza di vincoli circa la rivendita delle merci stesse;
3
non stabilire il prezzo di vendita del proprio prodotto/servizio sintantoché non saranno stati chiariti i possibili valori di realizzo delle merci compensative. Tenere presente che, salvo casi del tutto particolari, la commercializzazione dei beni compensativi difficilmente può dar luogo a profitti autonomi;
4
cercare di ottenere le merci compensative, o buona parte di esse, prima che venga dato luogo alla spedizione delle proprie;
5
richiedere, in caso di perplessità, la collaborazione degli specialisti del settore;
6
stabilire delle basi contrattuali che definiscano in modo trasparente le responsabilità delle varie parti.
 

Un caso di studio esemplificativo

Consideriamo, ad esempio, che l'impresa industriale "Alfa" sia chiamata a fornire un impianto di macellazione e di concia alla società estera "Beta", entrando con quest'ultima in una joint-venture che prevede:

1 - l'assunzione di una percentuale x (minoritaria) del capitale sociale;
2 - la fornitura dell'impianto, del know-how produttivo e del training;
3 - il "ripagamento" parziale dell'impianto attraverso l'acquisto di carni e di pellame semi-conciato o conciato;
4 - la commercializzazione su mercati terzi dei prodotti finali in eccesso.

La società Alfa, una volta risolti i problemi di fondo, cui ho accennato più sopra, si trova di fronte ad un interrogativo: "gestire tutta l'operazione in house, ricercando direttamente gli acquirenti del pellame e delle carni, oppure affidare a qualcun altro il compito di ritirare e vendere tali prodotti".

Nel primo caso, deve affrontare taluni rischi e dedicare risorse interne che, nel loro complesso, e a prescindere dalle esperienze disponibili, hanno anche un loro costo. I rischi, peraltro, sono di natura complessa e non riguardano solo il prezzo e la qualità dei prodotti che effettivamente potranno essere ritirati, ma anche altri elementi, quali, ad esempio, i tempi di consegna agli effettivi utilizzatori finali dei beni.

Qualora, invece, Alfa scegliesse di affidare a terzi il compito di gestire l'operazione compensativa, si troverebbe di fronte a due tipologie di possibili intermediari:

a) quello che opera prevalentemente come una "Trading company" e
b) quello che opera prevalentemente in veste di "Countertrader".

La distinzione, più sostanziale che formale (in effetti non sempre si può stabilire a priori in quale veste si può presentare l'intervento di una struttura di intermediazione), consiste nelle modalità di intervento nell'operazione:

A
La Trading company può impegnarsi ad acquistare i beni compensativi da collocare presso gli utilizzatori e, con parte del ricavato, "ripagare" ad Alfa le rate relative alla fornitura dell'impianto.
In questo caso, poiché le merci di ritorno solitamente non consentono di trarre sufficienti margini di profitto, la Trading chiederà alla ditta Alfa una percentuale ("premio di sfioramento") che remuneri il lavoro svolto e copra i rischi.
B
Il Countertrader agisce invece in termini di brokeraggio, assumendosi l'incarico di ricercare le controparti che compreranno direttamente le merci da Beta.
Anche il Countertrader solitamente opera con la necessaria esperienza e professionalità, liberando la ditta Alfa dalle preoccupazioni di curare la parte più difficile dell'operazione.
Il tutto, dietro un compenso che terrà conto del Paese e dei prodotti coinvolti, dell'entità e del frazionamento dell'operazione, dei rischi che dovranno essere coperti, ecc.

Utilizzando queste forme di intermediazione, Alfa si assicurerebbe la fornitura dell'impianto e l'alleggerimento dagli obblighi del controacquisto, pur dovendo ugualmente sottostare all'impegno di sottoscrivere una parte del capitale sociale e di co-gestire l'iniziativa nel paese estero. A questo proposito, non è infrequente il caso in cui la percentuale di partecipazione richiesta non superi l'entità del profitto (al netto delle commissioni dovute agli intermediari) che l'esportatore si attende di conseguire dalla vendita dell'impianto. Verificandosi quest'ultima circostanza, "il rischio d'investimento partecipativo" chiaramente si ridimensionerebbe, mentre rimarrebbe pressoché inalterato il "rischio d'investimento finanziario" legato al ripagamento dell'impianto.

A quest'ultimo proposito, occorrerà valutare una serie di elementi che sono tipici di qualsiasi forma di "esportazione d'impianti chiavi in mano a pagamento dilazionato" (tempi di approntamento, di montaggio e di messa in opera; eventuali down payment ottenuti, o grace period concessi al cliente; schema di rateizzazione e relativi interessi; possibilità di ottenere coperture assicurative, pre-finanziamenti, ecc.), cui si aggiungeranno quelli relativi alla "forma" di pagamento prevista.

E' anche importante considerare che, a differenza delle transazioni regolate ratealmente a mezzo delle sole promissory note, un ripagamento "in merci" non presenta sempre la stessa concomitanza di scadenze e di importi.

Per "monitorare" l'andamento finanziario dell'operazione, occorrerà allora creare (possibilmente presso una banca fiduciaria, che svolgerà - in un certo senso - anche una funzione di tipo "notarile") un "conto di evidenza" (solitamente definito escrow account o trustee account) che registrerà fedelmente lo svolgimento dei rapporti di debito e di credito, determinando altresì l'entità degli interessi "supplementari" che potrebbero sorgere in funzione delle reali movimentazioni finanziarie. Schematicamente tale conto evidenzierà:

da una parte:

€ i crediti sorti in base alle scadenze previste nel piano di ripagamento dell'impianto, comprensivi degli interessi concordati sul piano stesso;

€ gli interessi "attivi" maturati a favore di Alfa sugli eventuali "scoperti".

dall'altra:

€ gli accrediti derivanti dalle "vendite" realizzate dall'intermediario, o da chi per esso, sulle partite di pellame e di carni "importate";

€ gli interessi "passivi" maturati a favore di Beta su eventuali eccedenze temporali di incassi.

L'eventuale "saldo" che dovesse risultare alla fine dell'operazione potrebbe essere regolato in moneta o, nel caso di un credito di Alfa, con eventuali ulteriori forniture di Beta.

La cessione a terzi dell'obbligo di ritirare le merci di ritorno non preoccuperebbe più di tanto i partner locali della società Beta, in quanto i loro obiettivi di acquisire una valida tecnologia e di "legare" (attraverso la partecipazione societaria) il fornitore della stessa al buon funzionamento dell'impianto, rimarrebbero inalterati.

Il caso qui preso in esame comporta quindi la presenza di un minimo di tre o quattro operatori che stipuleranno fra loro contratti ben distinti e circoscritti alle rispettive modalità e impegni d'intervento .

Conclusioni

Una tematica complessa come quella degli scambi in compensazione richiederebbe una ben più accurata disamina, che tenesse nel debito conto anche gli aspetti normativi, finanziari, legali e assicurativi.

Se ad un esame superficiale la compensazione potrebbe apparire come la semplice concomitanza di un acquisto dall'estero e di una vendita all'estero, con le caratteristiche tipiche di questi due tipi di operazioni, in realtà è qualcosa di ben più complesso, proprio perché le due azioni sono comunque legate fra loro e i risultati dell'una incidono notevolmente su quelli dell'altra. Ma non solo. Trattandosi di transazioni che coinvolgono spesso più soggetti, generano anche una fitta rete di responsabilità che vanno ben definite sin dall'inizio, al fine di non incorrere in spiacevoli conseguenze.

Operare in countertrade richiede quindi una notevole esperienza professionale, che dovrebbe escludere qualsiasi forma di pressappochismo. Esistono sul mercato strutture specialistiche che hanno maturato significative esperienze in questo settore: è opportuno utilizzarle per ridurre i rischi e, auspicabilmente, per evitare anche l'insorgere di indesiderabili emicranie.

Bibliografia

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Altre pubblicazioni:
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