Altri acquarelli africani

(Tre brevi racconti di Gian Cesare Marchesi)

Una carriera prestigiosa

Lo chiamavano familiarmente Shortly ("il corto") per via della sua altezza che non superava forse il metro e mezzo. Era un giovane Zambiano, dal viso sempre sorridente e dallo sguardo furbo, da poco assunto per rinforzare la squadra degli inservienti addetti alle pulizie dei nuovi uffici, recentemente consegnatici dall'impresa di costruzioni.

Il trasloco dei mobili, delle macchine e delle scartoffie d'ufficio si era svolto, nonostante la migliore volontà di tutti, nel caos più assoluto, rendendo estremamente difficoltoso ricostruire i precedenti abbinamenti esistenti fra scrivanie, tavolini-dattilo, armadi, lampade da tavolo e carte di lavoro. Nei corridoi girovagavano le anime disperate degli impiegati, bianchi e neri, che cercavano quella particolare pratica, il proprio posacenere, un cestino gettacarta o il ritratto fotografico dei propri figli. Si vedevano passare altre impiegate africane che tenevano in mano dei fornellini elettrici e le cuccume di metallo smaltato con cui si preparavano di tanto in tanto qualche bevanda, e che cercavano una nuova stanza in cui fosse possibile allestire il loro posto di ristoro. L'architetto italiano che aveva progettato il fabbricato, non aveva infatti pensato che oltre alle sale per le riunioni, ai salotti di attesa, agli uffici, ai corridoi, alla mensa e ai gabinetti, fosse necessario prevedere anche un locale che potesse salvaguardare le abitudini del cosiddetto tea-time degli impiegati indigeni.

In mancanza di più precise istruzioni, gli addetti al trasporto e alla consegna avevano lasciato i "colli" più o meno dove capitava, con il risultato che le stanze e il corridoio prossimi alla rampa delle scale erano intasati di cose, mentre quelli più lontani erano del tutto vuoti, così come lasciati dagli ultimi imbianchini.

E' a questo punto facile, per chiunque abbia un'esperienza di tipo europeo, dire che sarebbe stato necessario organizzare meglio il trasloco, etichettando adeguatamente i vari oggetti e indirizzandoli alla loro destinazione finale con l'aiuto di un'accurata mappa dei nuovi uffici. Ma l'Europa è l'Europa e l'Africa - come acutamente diceva quel tale - è l'Africa. In ogni caso, sarà stato per la deficienza degli organizzatori o per le solite difficoltà "ambientali", ma la situazione era alquanto confusa.

Fra l'altro, considerato che erano rimaste alcune stanze inutilizzate e che in uno dei corridoi erano malamente accatastati centinaia di raccoglitori pieni di documenti, si poneva il problema di approntare a dovere un vero e proprio locale-archivio per conservare tutta quella carta.

Mentre me ne stavo in piedi in corridoio, meditando sul da farsi, vidi passare lo Shortly, con il suo abituale sorriso sulle labbra. «Ehi, tu», gli dissi (Occorre a questo punto chiarire che l'"ehi tu" non intendeva essere assolutamente dispregiativo, né tanto meno vagamente razzista, bensì la semplice conseguenza di una obiettiva difficoltà di memorizzare e di pronunziare i nomi di molti Africani. Inoltre, sarebbe stato indelicato interpellarlo con il nomignolo di Shortly), «sei in grado di leggere e di scrivere?».

La domanda non era poi così tanto fuori luogo, dal momento che il giovane era stato assunto soltanto per fare le pulizie e che a quei tempi l'analfabetismo era purtroppo ancora molto diffuso da quelle parti.

Il volto rubicondo si illuminò di un lampo di furbizia, che sembrava aver sollevato il piccolo Zambiano di almeno cinque centimetri, mentre mi rispondeva: «Certamente, Master, in cosa posso esserti utile?».

«Ascoltami bene», gli dissi allora, «devi cercare fra i tuoi amici qualche aiutante e sistemate per bene quegli scaffali metallici nella stanza là in fondo al corridoio. Quindi, prendi questi raccoglitori, leggi cosa c'è scritto sull'etichetta e mettili, in ordine di argomento e di anno, sugli scaffali. Comincia subito; fra poco verrò a vedere come va il lavoro».

Il mio nuovo aiutante non chiese altro, scattò sull'attenti come un militare professionista e con un ennesimo sorriso partì a razzo per eseguire il compito che gli avevo affidato.

Dopo circa mezz'ora tornai per verificare e lo vidi tutto indaffarato che impartiva ordini ad altri due o tre Africani con i quali stava mettendo in perfetto ordine il famoso archivio. Entrai nella stanza, feci un controllo rapido, aggiunsi qualche ulteriore raccomandazione circa il metodo di archiviazione delle pratiche, e me ne andai.

Oltre a sistemare i nuovi uffici, avevamo anche la necessità di seguire la cosiddetta "ordinaria amministrazione" che - proprio a causa del trasloco - era stata purtroppo un poco accantonata. Ciò mi costrinse a rintanarmi per qualche tempo nel mio ufficio, ricevendo visite di clienti e di fornitori e senza più pensare né all'archivio, né tanto meno allo Shortly.

Qualche giorno dopo, passando per il corridoio, ormai sgombro di carte, vidi che la porta della stanza da me destinata ad archivio era chiusa e che su di essa era stato affisso un cartellino con una scritta. Mi avvicinai incuriosito e notai delle lettere a caratteri cubitali, fatte con un pennarello, che recitavano testualmente: "Filing manager" (Direttore dell'archivio).

Entrato, mi trovai di fronte a una scena del tutto inaspettata. L'archivio appariva in perfetto ordine, con tutti gli scaffali sistemati a dovere e i raccoglitori dei documenti accuratamente allineati sui vari ripiani.

Ma la cosa più curiosa era un'altra. Al centro del locale, comodamente seduto dietro una scrivania su cui c'erano soltanto un posacenere, qualche matita ben appuntita, un blocco per le note, una vaschetta per i documenti e l'immancabile tazza per il thé, c'era proprio lo Shortly, così auto-sistematosi nella sua nuova veste di "Direttore dell'archivio".

Non potei fare a meno di sorridere a mia volta e, evitando di complimentarmi eccessivamente con lui (perché in questo caso avrei corso il rischio di trovare presto lo Shortly sulla poltrona del Direttore Generale o, perché no, del Presidente), lo confermai nell'incarico, assicurandogli un conseguente e ben meritato aumento di stipendio.

Dove lo mettiamo?

La stagione delle grandi piogge aveva trasformato Monrovia in un enorme pantano, in cui si mescolavano liquami di ogni genere. Quando da quelle parti arrivano le grandi piogge, non si tratta di qualcosa di simile ai nostri temporali estivi, dai quali ci si può riparare con semplici ombrelli o normali impermeabili, ma lo scroscio è talmente violento che sembra cadano dal cielo enormi secchi d'acqua. Poi, cessata la pioggia, il sole appare sfolgorante nel cielo, riscaldando un terreno dal quale si solleva una nube di vapore che crea un tasso d'umidità simile a quello che si avverte in una angusta stanza da bagno appena dopo aver riempito la vasca con acqua calda.

Avevamo da poco attrezzato in forma provvisoria una specie di ufficio alla periferia di Monrovia, utilizzando un container-baracca che era stato appoggiato su precari sostegni quasi galleggianti nella fanghiglia e che si raggiungeva grazie ad una passerella di assi posta all'esterno. Più o meno sistemati in quella infelice collocazione logistica, lavoravamo in due persone, cercando di gestire le paghe del personale locale, recentemente assunto per effettuare i trasporti dei minerali ferrosi estratti dalle miniere della Bond Mines, situate ad oltre 100 miglia dal porto di Monrovia.

L'impegno che dedicavamo al nostro lavoro era notevole, in quanto, oltre ad amministrare il personale, dovevamo organizzare una sistemazione più consona agli uffici della società che, nel giro di poche settimane, avrebbe fatto affluire in Liberia anche una ventina di nostri connazionali. Si lavorava quindi per l'intera giornata, ed anche oltre. D'altro canto, Monrovia non offriva molte alternative ed eravamo perfettamente consapevoli del fatto che non appena terminato il nostro compito, saremmo potuti rientrare nella nostra sede in Italia, certamente ben più confortevole.

Una sera, mentre eravamo all'interno di quello pseudo-ufficio, impegnati nel nostro lavoro, intrisi di umidità e bersagliati da uno stuolo di zanzare che banchettavano allegramente su di noi, nonostante l'ora ormai avanzata, sentimmo bussare alla porta. Fuori, c'erano due nostri autisti, che ci indicarono un autocarro parcheggiato nel bel mezzo del pantano con le luci di posizione ancora accese.

«Dove lo mettiamo quello lì?», chiese uno dei due, indicando una massa scura che si intravvedeva malamente sul cassone. Ci avvicinammo al veicolo e ci accorgemmo che "quello lì", non era altro che il corpo di un altro Africano, decisamente defunto e certamente non per cause naturali.

«E' uscito di strada con il suo autocarro a 60 miglia da qui e l'abbiamo raccolto passando. Non sapevamo cosa fare e l'abbiamo portato qui», aggiunsero i due. Come se noi, da poco giunti in Liberia e certamente non avvezzi a gestire abitualmente anche i decessi, avessimo la benché minima idea sul da farsi.

L'unica cosa che ci passò allora per la mente fu di suggerire ai due volonterosi autisti di liberarci al più presto della triste presenza di quel veicolo, e del suo carico, e di raggiungere il locale ospedale dove di sicuro ci sarebbe stato qualcun altro, ben più esperto di noi, in grado di provvedere alla bisogna.

D'altro canto, nel container-baracca non c'era posto per un'altra persona, viva o defunta che fosse, e al momento non avevamo bisogno di altri compagni di sventura.

Una lingua civile

Nel corso di una mia delle mie periodiche visite di lavoro nella filiale tanzaniana della multinazionale per la quale lavoravo, mi capitò di assistere a un episodio che metteva in risalto l'arroganza dei nuovi quadri dirigenti di un Paese che si era da poco affrancato dalla colonizzazione britannica e, per contro, la stupidità di certi Europei che pensavano ancora di poter esercitare sugli indigeni un potere basato solo sul colore della pelle e su un millenario bagaglio storico-culturale dal quale, evidentemente, non avevano tratto alcun beneficio diretto.

Nell'ufficio in cui mi trovavo per svolgere il mio abituale lavoro, c'era una seconda scrivania, occupata da un certo Bruno Acciardi, un aitante giovane originario della provincia di Biella, che svolgeva le funzioni di credit controller, cioè dell'impiegato che curava i crediti e gli incassi dell'azienda.

In Tanzania c'era ancora, in quegli anni, una numerosa colonia di funzionari europei, soprattutto inglesi, che stavano gradualmente istruendo i quadri locali per poter lasciar loro, non appena possibile (ma, soprattutto, quando proprio non potevano più difenderli) i posti di comando nelle principali strutture economiche del Paese. Quelle stesse organizzazioni attraverso le quali la Gran Bretagna aveva per molti anni sfruttato tutto quanto era sfruttabile. Dopo aver ottenuto l'indipendenza politica, la Tanzania aveva cercato in tutti modi di rendersi pienamente indipendente anche sotto il profilo economico, lottando tuttavia contro le enormi difficoltà frapposte dalla povertà endemica di una popolazione divisa, fra l'altro, in varie etnie, nonché da un territorio privo di infrastrutture e da un clima certamente non favorevole. Per contro, i Tanzaniani si sentivano fieri di essersi finalmente affrancati da una colonizzazione che li aveva a lungo tenuti soggiogati, prima dai Tedeschi e poi dagli Inglesi, e manifestavano spesso questo loro stato d'animo con punte di orgoglio che talvolta sfociavano in forme di vera e propria arroganza.

Il nuovo Governo aveva da poco emanato una legge che istituiva, come seconda lingua ufficiale (la prima rimaneva l'inglese), il Swahili, l'idioma parlato dalla maggior parte della popolazione e basato su ceppi linguistici di origine bantù, arricchiti da vocaboli arabi, indiani, tedeschi e inglesi, curiosamente modificatisi in base alle caratteristiche fonetiche delle popolazioni locali. Si trattava di una vera e propria lingua franca, con tanto di grammatica scritta, di vocabolari e di opere letterarie di un certo pregio. Per noi Italiani era di facile apprendimento, in quanto foneticamente semplice e, soprattutto, povera di vocaboli. Dopo pochi mesi di permanenza sul posto, non era quindi difficile apprendere l'indispensabile per farsi comprendere dagli indigeni, anche se poteva diventare alquanto difficoltoso intavolare con loro una vera e propria conversazione.

Il giovane Acciardi era piuttosto noto nella comunità italiana per le sue scorribande sentimentali, godendo fama di essere un accanito "latin lover" che non disdegnava di sollazzarsi con avvenenti e disponibili consorti dei funzionari inglesi, ma anche con fanciulle dalla pelle decisamente scura e dalle curve generose. Proprio dalle relazioni intrattenute con queste ultime aveva rapidamente appreso la lingua Swahili, mettendo in atto il famoso detto, secondo il quale s'impara meglio una lingua straniera se si utilizza opportunamente un piacevole "sleeping dictionary".

Un giorno, entrò nell'ufficio un Tanzaniano alto, grosso e ben vestito, che si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania di Acciardi pronunciando alcune frasi in Swahili. Acciardi non sollevò neppure il capo dal suo lavoro e fece finta di non sentire. L'Africano allora cambiò il tono della voce e, sempre nella lingua locale, ma in modo piuttosto arrogante, ripeté il suo discorso. Anche questa volta Acciardi non sollevò minimamente il capo, ma con un tono alquanto sarcastico rispose: «Why dont'you speak in a civil language? (Perché non parli in una lingua civile?)».

Allora successe quasi il finimondo. L'Africano, accettando l'invito, rispose in perfetto Inglese, qualificandosi come il Ministro degli Affari Interni del Governo tanzaniano e minacciando il suo interlocutore con un bastone d'ebano che portava con sé. Intervennero allora anche due guardie del corpo del Ministro che stavano sulla porta in deferente attesa e solo grazie a tutti noi l'Acciardi potè evitare un'immediata punizione.

Il giorno dopo, giunsero in ufficio due poliziotti che notificarono all'Acciardi un perentorio foglio di via con l'intimazione di lasciare il Paese nel volgere di 24 ore. Da parte nostra ci volle del bello e del buono per acquietare l'ira del Ministro e solo l'assistenza del nostro Ambasciatore, che presentò le scuse formali del Governo italiano, scongiurò in extremis la messa in atto del provvedimento di espulsione.

In seguito non ebbi più occasione di incontrare il giovane biellese, ma ho sempre sperato che quella lezione gli sia servita a fargli capire che un ospite in un Paese straniero ha sì i suoi legittimi diritti, ma anche dei precisi doveri, ai quali non dovrebbe mai derogare.

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